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Isommersi e i salvati 2.
LA ZONA GRIGIA.


Siamo stati capaci, noi reduci, di comprendere e di far comprendere la nostra esperienza? Ciò che comunemente intendiamo per «comprendere» coincide con «semplificare»: senza una profonda semplificazione, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema: a questo scopo tendono i mirabili strumenti che ci siamo costruiti nel corso dell'evoluzione e che sono specifici del genere umano, il linguaggio ed il pensiero concettuale.
Tendiamo a semplificare anche la storia; ma non sempre lo schema entro cui si ordinano i fatti è individuabile in modo univoco, e può dunque accadere che storici diversi comprendano e costruiscano la storia in modi fra loro incompatibili; tuttavia, è talmente forte in noi, forse per ragioni che risalgono alle nostre origini di animali sociali, l'esigenza di dividere il campo fra «noi» e «loro», che questo schema, la bipartizione amico-nemico, prevale su tutti gli altri. La storia popolare, ed anche la storia quale viene tradizionalmente insegnata nelle scuole, risente di questa tendenza manichea che rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità: è incline a ridurre il fiume degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro, gli ateniesi e gli spartani, i romani e i cartaginesi. Certo è questo il motivo dell'enorme popolarità degli sport spettacolari, come il calcio, il baseball e il pugilato, in cui i contendenti sono due squadre o due individui, ben distinti e identificabili, e alla fine della partita ci saranno gli sconfitti e i vincitori. Se il risultato è di parità, lo spettatore si sente defraudato e deluso: a livello più o meno inconscio, voleva i vincitori ed i perdenti, e li identificava rispettivamente con i buoni e i cattivi, poiché sono i buoni che devono avere la meglio, se no il mondo sarebbe sovvertito.
Questo "desiderio" di semplificazione è giustificato, la semplificazione non sempre lo è. E' un'ipotesi di lavoro, utile in quanto sia riconosciuta come tale e non scambiata per la realtà; la maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici, o non semplici della semplicità che piacerebbe a noi. Ora, non era semplice la rete dei rapporti umani all'interno dei Lager: non era riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori. In chi legge (o scrive) oggi la storia dei Lager è evidente la tendenza, anzi il bisogno, di dividere il male dal bene, di poter parteggiare, di ripetere il gesto di Cristo nel Giudizio Universale: qui i giusti, là i reprobi. Soprattutto i giovani chiedono chiarezza, il taglio netto; essendo scarsa la loro esperienza del mondo, essi non amano l'ambiguità. La loro aspettazione, del resto, riproduce con esattezza quella dei nuovi arrivati in Lager, giovani o no: tutti, ad eccezione di chi avesse già attraversato un'esperienza analoga, si aspettavano di trovare un mondo terribile ma decifrabile, conforme a quel modello semplice che atavicamente portiamo in noi, «noi» dentro e il nemico fuori, separati da un confine netto, geografico.
L'ingresso in Lager era invece un urto per la sorpresa che portava con sé. Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il «noi» perdeva i suoi confini, i contendenti non erano due, non si distingueva una frontiera ma molte e confuse, forse innumerevoli, una fra ciascuno e ciascuno. Si entrava sperando almeno nella solidarietà dei compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c'erano; c'erano invece mille monadi sigillate, e fra queste una lotta disperata, nascosta e continua. Questa rivelazione brusca, che si manifestava fin dalle prime ore di prigionia, spesso sotto la forma immediata di un'aggressione concentrica da parte di coloro in cui si sperava di ravvisare i futuri alleati, era talmente dura da far crollare subito la capacità di resistere. Per molti è stata mortale, indirettamente o anche direttamente: è difficile difendersi da un colpo a cui non si è preparati.
In questa aggressione si possono distinguere diversi aspetti. Occorre ricordare che il sistema concentrazionario, fin dalle sue origini (che coincidono con la salita al potere del nazismo in Germania), aveva lo scopo primario di spezzare la capacità di resistenza degli avversari: per la direzione del campo, il nuovo giunto era un avversario per definizione, qualunque fosse l'etichetta che gli era stata affibbiata, e doveva essere demolito subito, affinché non diventasse un esempio, o un germe di resistenza organizzata. Su questo punto le S.S. avevano le idee chiare, e sotto questo aspetto è da interpretare tutto il sinistro rituale, diverso da Lager a Lager, ma unico nella sostanza, che accompagnava l'ingresso; i calci e i pugni subito, spesso sul viso; l'orgia di ordini urlati con collera vera o simulata; la denudazione totale; la rasatura dei capelli; la vestizione con stracci. E' difficile dire se tutti questi particolari siano stati messi a punto da qualche esperto o perfezionati metodicamente in base all'esperienza, ma certo erano voluti e non casuali: una regia c'era, ed era vistosa.
Tuttavia, al rituale d'ingresso, ed al crollo morale che esso favoriva, contribuivano più o meno consapevolmente anche le altre componenti del mondo concentrazionario: i prigionieri semplici ed i privilegiati. Accadeva di rado che il nuovo venuto fosse accolto, non dico come un amico, ma almeno come un compagno di sventura; nella maggior parte dei casi, gli anziani (e si diventava anziani in tre o quattro mesi: il ricambio era rapido!) manifestavano fastidio o addirittura ostilità. Il «nuovo» ("Zugang": si noti, in tedesco è un termine astratto, amministrativo; significa «ingresso», «entrata») veniva invidiato perché sembrava che avesse ancora indosso l'odore di casa sua, ed era un'invidia assurda, perché in effetti si soffriva assai di più nei primi giorni di prigionia che dopo, quando l'assuefazione da una parte, e l'esperienza dall'altra, permettevano di costruirsi un riparo. Veniva deriso e sottoposto a scherzi crudeli, come avviene in tutte le comunità con i «coscritti» e le «matricole», e con le cerimonie di iniziazione presso i popoli primitivi: e non c'è dubbio che la vita in Lager comportava una regressione, riconduceva a comportamenti, appunto, primitivi.
E' probabile che l'ostilità verso lo "Zugang" fosse in sostanza motivata come tutte le altre intolleranze, cioè consistesse in un tentativo inconscio di consolidare il «noi» a spese degli «altri», di creare insomma quella solidarietà fra oppressi la cui mancanza era fonte di una sofferenza addizionale, anche se non percepita apertamente. Entrava in gioco anche la ricerca del prestigio, che nella nostra civiltà sembra sia un bisogno insopprimibile: la folla disprezzata degli anziani tendeva a ravvisare nel nuovo arrivato un bersaglio su cui sfogare la sua umiliazione, a trovare a sue spese un compenso, a costruirsi a sue spese un individuo di rango più basso su cui riversare il peso delle offese ricevute dall'alto.
Per quanto riguarda i prigionieri privilegiati, il discorso è più complesso, ed anche più importante: a mio parere, è anzi fondamentale. E' ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un'ossatura politica o morale. Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori, e di farlo con mano più leggera, e con spirito meno torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni film. Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un grande stabilimento industriale.
I prigionieri privilegiati erano in minoranza entro la popolazione dei Lager, ma rappresentano invece una forte maggioranza fra i sopravvissuti; infatti, anche se non si tenga conto della fatica, delle percosse, del freddo, delle malattie, va ricordato che la razione alimentare era decisamente insufficiente anche per il prigioniero più sobrio: consumate in due o tre mesi le riserve fisiologiche dell'organismo, la morte per fame, o per malattie indotte dalla fame, era il destino normale del prigioniero. Poteva essere evitato solo con un sovrappiù alimentare, e per ottenere questo occorreva un privilegio, grande o piccolo; in altre parole, un modo, octroyé o conquistato, astuto o violento, lecito o illecito, di sollevarsi al di sopra della norma.
Ora, non si può dimenticare che la maggior parte dei ricordi dei reduci, raccontati o scritti, incomincia così: l'urto contro la realtà concentrazionaria coincide con l'aggressione, non prevista e non compresa, da parte di un nemico nuovo e strano, il prigioniero-funzionario, che invece di prenderti per mano, tranquillizzarti, insegnarti la strada, ti si avventa addosso urlando in una lingua che tu non conosci, e ti percuote sul viso. Ti vuole domare, vuole spegnere in te la scintilla di dignità che tu forse ancora conservi e che lui ha perduta. Ma guai a te se questa tua dignità ti spinge a reagire: questa è una legge non scritta ma ferrea, il "zurückschlagen", il rispondere coi colpi ai colpi, è una trasgressione intollerabile, che può venire in mente appunto solo a un «nuovo». Chi la commette deve diventare un esempio: altri funzionari accorrono a difesa dell'ordine minacciato, e il colpevole viene percosso con rabbia e metodo finché è domato o morto. Il privilegio, per definizione, difende e protegge il privilegio. Mi torna a mente che il termine locale, jiddisch e polacco, per indicare il privilegio era «protekcja», che si pronuncia «protekzia» ed è di evidente origine italiana e latina; e mi è stata raccontata la storia di un «nuovo» italiano, un partigiano, scaraventato in un Lager di lavoro con l'etichetta di prigioniero politico quando era ancora nel pieno delle sue forze. Era stato malmenato durante la distribuzione della zuppa, ed aveva osato dare uno spintone al funzionario-distributore: accorsero i colleghi di questo, e il reo venne affogato esemplarmente immergendogli la testa nel mastello della zuppa stessa.
L'ascesa dei privilegiati, non solo in Lager ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile: essi sono assenti solo nelle utopie. E' compito dell'uomo giusto fare guerra ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che questa è una guerra senza fine. Dove esiste un potere esercitato da pochi, o da uno solo, contro i molti, il privilegio nasce e prolifera, anche contro il volere del potere stesso; ma è normale che il potere, invece, lo tolleri o lo incoraggi. Limitiamoci al Lager, che però (anche nella sua versione sovietica) può ben servire da «laboratorio»: la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l'ossatura, ed insieme il lineamento più inquietante. E' una zona grigia, dai contorni mai definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare.
La zona grigia della «protekcja» e della collaborazione nasce da radici molteplici. In primo luogo, l'area del potere, quanto più è ristretta, tanto più ha bisogno di ausiliari esterni; il nazismo degli ultimi anni non ne poteva fare a meno, risoluto com'era a mantenere il suo ordine all'interno dell'Europa sottomessa, e ad alimentare i fronti di guerra dissanguati dalla crescente resistenza militare degli avversari. Era indispensabile attingere dai paesi occupati non solo mano d'opera, ma anche forze d'ordine, delegati ed amministratori del potere tedesco ormai impegnato altrove fino all'esaurimento. Entro quest'area vanno catalogati, con sfumature diverse per qualità e peso, Quisling di Norvegia, il governo di Vichy in Francia, il Judenrat di Varsavia, la Repubblica di Salò, fino ai mercenari ucraini e baltici impiegati dappertutto per i compiti più sporchi (mai per il combattimento), ed ai Sonderkommandos di cui dovremo parlare. Ma i collaboratori che provengono dal campo avversario, gli ex nemici, sono infidi per essenza: hanno tradito una volta e possono tradire ancora. Non basta relegarli in compiti marginali; il modo migliore di legarli è caricarli di colpe, insanguinarli, comprometterli quanto più è possibile: così avranno contratto coi mandanti il vincolo della correità, e non potranno più tornare indietro. Questo modo di agire è noto alle associazioni criminali di tutti i tempi e luoghi, è praticato da sempre dalla mafia, e tra l'altro è il solo che spieghi gli eccessi, altrimenti indecifrabili, del terrorismo italiano degli anni '70.
In secondo luogo, ed a contrasto con una certa stilizzazione agiografica e retorica, quanto più è dura l'oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere. Anche questa disponibilità è variegata da infinite sfumature e motivazioni: terrore, adescamento ideologico, imitazione pedissequa del vincitore, voglia miope di un qualsiasi potere, anche ridicolmente circoscritto nello spazio e nel tempo, viltà, fino a lucido calcolo inteso a eludere gli ordini e l'ordine imposto. Tutti questi motivi, singolarmente o fra loro combinati, sono stati operanti nel dare origine a questa fascia grigia, i cui componenti, nei confronti dei non privilegiati, erano accomunati dalla volontà di conservare e consolidare il loro privilegio.
Prima di discutere partitamente i motivi che hanno spinto alcuni prigionieri a collaborare in varia misura con l'autorità dei Lager, occorre però affermare con forza che davanti a casi umani come questi è imprudente precipitarsi ad emettere un giudizio morale. Deve essere chiaro che la massima colpa pesa sul sistema, sulla struttura stessa dello Stato totalitario; il concorso alla colpa da parte dei singoli collaboratori grandi e piccoli (mai simpatici, mai trasparenti!) è sempre difficile da valutare. E' un giudizio che vorremmo affidare soltanto a chi si è trovato in circostanze simili, ed ha avuto modo di verificare su se stesso che cosa significa agire in stato di costrizione. Lo sapeva bene il Manzoni: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l'animo degli offesi». La condizione di offeso non esclude la colpa, e spesso questa è obiettivamente grave, ma non conosco tribunale umano a cui delegarne la misura.
Se dipendesse da me, se fossi costretto a giudicare, assolverei a cuor leggero tutti coloro per cui il concorso nella colpa è stato minimo, e su cui la costrizione è stata massima. Intorno a noi, prigionieri senza gradi, brulicavano i funzionari di basso rango. Costituivano una fauna pittoresca: scopini, lava-marmitte, guardie notturne, stiratori dei letti (che sfruttavano a loro minuscolo vantaggio la fisima tedesca delle cuccette rifatte piane e squadrate), controllori di pidocchi e di scabbia, portaordini, interpreti, aiutanti degli aiutanti. In generale, erano poveri diavoli come noi, che lavoravano a pieno orario come tutti gli altri, ma che per mezzo litro di zuppa in più si adattavano a svolgere queste ed altre funzioni «terziarie»: innocue, talvolta utili, spesso inventate dal nulla. Raramente erano violenti, ma tendevano a sviluppare una mentalità tipicamente corporativa, ed a difendere con energia il loro «posto di lavoro» contro chi, dal basso o dall'alto, glie lo insidiava. Il loro privilegio, che del resto comportava disagi e fatiche supplementari, fruttava loro poco, e non li sottraeva alla disciplina ed alle sofferenze degli altri; la loro speranza di vita era sostanzialmente uguale a quella dei non privilegiati. Erano rozzi e protervi, ma non venivano sentiti come nemici.
Il giudizio si fa più delicato e più vario per coloro che occupavano posizioni di comando: i capi (Kapos: il termine tedesco deriva direttamente da quello italiano, e la pronuncia tronca, introdotta dai prigionieri francesi, si diffuse solo molti anni dopo, divulgata dall'omonimo film di Pontecorvo, e favorita in Italia proprio per il suo valore differenziale) delle squadre di lavoro, i capibaracca, gli scritturali, fino al mondo (a quel tempo da me neppure sospettato) dei prigionieri che svolgevano attività diverse, talvolta delicatissime, presso gli uffici amministrativi del campo, la Sezione Politica (di fatto, una sezione della Gestapo), il Servizio del Lavoro, le celle di punizione. Alcuni fra questi, grazie alla loro abilità o alla fortuna, hanno avuto accesso alle notizie più segrete dei rispettivi Lager, e, come Hermann Langbein ad Auschwitz, Eugen Kogon a Buchenwald, e Hans Marsalek a Mauthausen, ne sono poi diventati gli storici. Non si sa se ammirare di più il loro coraggio personale o la loro astuzia, che ha concesso loro di aiutare concretamente i loro compagni in molti modi, studiando attentamente i singoli ufficiali delle S.S. con cui erano a contatto, ed intuendo quali fra questi potessero essere corrotti, quali dissuasi dalle decisioni più crudeli, quali ricattati, quali ingannati, quali spaventati dalla prospettiva di un "redde rationem" a guerra finita. Alcuni fra loro, ad esempio i tre nominati, erano anche membri di organizzazioni segrete di difesa, e perciò il potere di cui disponevano grazie alla loro carica era controbilanciato dal pericolo estremo che correvano, in quanto «resistenti» e in quanto detentori di segreti.
I funzionari ora descritti non erano affatto, o erano solo apparentemente, dei collaboratori, bensì piuttosto degli oppositori mimetizzati. Non così la maggior parte degli altri detentori di posizioni di comando, che si sono rivelati esemplari umani da mediocri a pessimi. Piuttosto che logorare, il potere corrompe; tanto più intensamente corrompeva il loro potere, che era di natura peculiare.
Il potere esiste in tutte le varietà dell'organizzazione sociale umana, più o meno controllato, usurpato, investito dall'alto o riconosciuto dal basso, assegnato per merito o per solidarietà corporativa o per sangue o per censo: è verosimile che una certa misura di dominio dell'uomo sull'uomo sia inscritta nel nostro patrimonio genetico di animali gregari. Non è dimostrato che il potere sia intrinsecamente nocivo alla collettività. Ma il potere di cui disponevano i funzionari di cui si parla, anche di basso grado, come i Kapos delle squadre di lavoro, era sostanzialmente illimitato; o per meglio dire, alla loro violenza era imposto un limite inferiore, nel senso che essi venivano puniti o destituiti se non si mostravano abbastanza duri, ma nessun limite superiore. In altri termini, erano liberi di commettere sui loro sottoposti le peggiori atrocità, a titolo di punizione per qualsiasi loro trasgressione, o anche senza motivo alcuno: fino a tutto il 1943, non era raro che un prigioniero fosse ucciso a botte da un Kapo, senza che questo avesse da temere alcuna sanzione. Solo più tardi, quando il bisogno di mano d'opera si era fatto più acuto, vennero introdotte alcune limitazioni: i maltrattamenti che i Kapos potevano infliggere ai prigionieri non dovevano ridurne permanentemente la capacità lavorativa; ma ormai il mal uso era invalso, e non sempre la norma venne rispettata.
Si riproduceva così, all'interno dei Lager, in scala più piccola ma con caratteristiche amplificate, la struttura gerarchica dello Stato totalitario, in cui tutto il potere viene investito dall'alto, ed in cui un controllo dal basso è quasi impossibile. Ma questo «quasi» è importante: non è mai esistito uno Stato che fosse realmente «totalitario» sotto questo aspetto. Una qualche forma di retroazione, un correttivo all'arbitrio totale, non è mai mancato, neppure nel Terzo Reich né nell'Unione Sovietica di Stalin: nell'uno e nell'altra hanno fatto da freno, in maggiore o minor misura, l'opinione pubblica, la magistratura, la stampa estera, le chiese, il sentimento di umanità e giustizia che dieci o vent'anni dì tirannide non bastano a sradicare. Solo entro il Lager il controllo dal basso era nullo, ed il potere dei piccoli satrapi era assoluto. E' comprensibile come un potere di tale ampiezza attirasse con prepotenza quel tipo umano che di potere è avido: come vi aspirassero anche individui dagli istinti moderati, attratti dai molti vantaggi materiali della carica; e come questi ultimi venissero fatalmente intossicati dal potere di cui disponevano.
Chi diventava Kapo? Occorre ancora una volta distinguere. In primo luogo, coloro a cui la possibilità veniva offerta, e cioè gli individui in cui il comandante del Lager o i suoi delegati (che spesso erano buoni psicologi) intravedevano la potenzialità del collaboratore: rei comuni tratti dalle carceri, a cui la carriera di aguzzini offriva un'eccellente alternativa alla detenzione; prigionieri politici fiaccati da cinque o dieci anni di sofferenze, o comunque moralmente debilitati; più tardi, anche ebrei, che vedevano nella particola di autorità che veniva loro offerta l'unico modo di sfuggire alla «soluzione finale». Ma molti, come accennato, aspiravano al potere spontaneamente: lo cercavano i sadici, certo non numerosi ma molto temuti, poiché per loro la posizione di privilegio coincideva con la possibilità di infliggere ai sottoposti sofferenza ed umiliazione. Lo cercavano i frustrati, ed anche questo è un lineamento che riproduce nel microcosmo del Lager il macrocosmo della società totalitaria: in entrambi, al di fuori della capacità e del merito, viene concesso generosamente il potere a chi sia disposto a tributare ossequio all'autorità gerarchica, conseguendo in questo modo una promozione sociale altrimenti irraggiungibile. Lo cercavano, infine, i molti fra gli oppressi che subivano il contagio degli oppressori e tendevano inconsciamente ad identificarsi con loro.
Su questa mimesi, su questa identificazione o imitazione o scambio di ruoli fra il soverchiatore e la vittima, si è molto discusso. Si sono dette cose vere e inventate, conturbanti e banali, acute e stupide: non è un terreno vergine, anzi, è un campo arato maldestramente, scalpicciato e sconvolto. La regista Liliana Cavani, a cui era stato chiesto di esprimere in breve il senso di un suo film bello e falso, ha dichiarato: «Siamo tutti vittime o assassini e accettiamo questi ruoli volontariamente. Solo Sade e Dostoevskij l'hanno compreso bene»; ha detto anche di credere «che in ogni ambiente, in ogni rapporto, ci sia una dinamica vittima-carnefice più o meno chiaramente espressa e generalmente vissuta a livello non cosciente».
Non mi intendo di inconscio e di profondo, ma so che pochi se ne intendono, e che questi pochi sono più cauti; non so, e mi interessa poco sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, a riposo o in servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità. So che in Lager, e più in generale sul palcoscenico umano, capita tutto, e che perciò l'esempio singolo dimostra poco. Detto chiaramente tutto questo, e riaffermato che confondere i due ruoli significa voler mistificare dalle basi il nostro bisogno di giustizia, restano da fare alcune considerazioni.
Rimane vero che, in Lager e fuori, esistono persone grige, ambigue, pronte al compromesso. La tensione estrema del Lager tende ad accrescerne la schiera; esse posseggono in proprio una quota (tanto più rilevante quanto maggiore era la loro libertà di scelta) di colpa, ed oltre a questa sono i vettori e gli strumenti della colpa del sistema. Rimane vero che la maggior parte degli oppressori, durante o (più spesso) dopo le loro azioni, si sono resi conto che quanto facevano o avevano fatto era iniquo, hanno magari provato dubbi o disagio, od anche sono stati puniti; ma queste loro sofferenze non bastano ad arruolarli fra le vittime. Allo stesso modo, non bastano gli errori e i cedimenti dei prigionieri per allinearli con i loro custodi: i prigionieri dei Lager, centinaia di migliaia di persone di tutte le classi sociali, di quasi tutti i paesi d'Europa, rappresentavano un campione medio, non selezionato, di umanità: anche se non si volesse tener conto dell'ambiente infernale in cui erano stati bruscamente precipitati, è illogico pretendere da loro, ed è retorico e falso sostenere che abbiano sempre e tutti seguito, il comportamento che ci si aspetta dai santi e dai filosofi stoici. In realtà, nella enorme maggioranza dei casi, il loro comportamento è stato ferreamente obbligato: nel giro di poche settimane o mesi, le privazioni a cui erano sottoposti li hanno condotti ad una condizione di pura sopravvivenza, di lotta quotidiana contro la fame, il freddo, la stanchezza, le percosse, in cui lo spazio per le scelte (in specie, per le scelte morali) era ridotto a nulla; fra questi, pochissimi hanno sopravvissuto alla prova, grazie alla somma di molti eventi improbabili: sono insomma stati salvati dalla fortuna, e non ha molto senso cercare fra i loro destini qualcosa di comune, al di fuori forse della buona salute iniziale.

Un caso-limite di collaborazione è rappresentato dai Sonderkommandos di Auschwitz e degli altri Lager di sterminio. Qui si esita a parlare di privilegio: chi ne faceva parte era privilegiato solo in quanto (ma a quale costo!) per qualche mese mangiava a sufficienza, non certo perché potesse essere invidiato. Con questa denominazione debitamente vaga, «Squadra Speciale», veniva indicato dalle S.S. il gruppo di prigionieri a cui era affidata la gestione dei crematori. A loro spettava mantenere l'ordine fra i nuovi arrivati (spesso del tutto inconsapevoli del destino che li attendeva) che dovevano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d'oro dalle mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri. La Squadra Speciale di Auschwitz contava, a seconda dei periodi, da 700 a 1000 effettivi.
Queste Squadre Speciali non sfuggivano al destino di tutti; anzi, da parte delle S.S. veniva messa in atto ogni diligenza affinché nessun uomo che ne avesse fatto parte potesse sopravvivere e raccontare. Ad Auschwitz si succedettero dodici squadre; ognuna rimaneva in funzione qualche mese, poi veniva soppressa, ogni volta con un artificio diverso per prevenire eventuali resistenze, e la squadra successiva, come iniziazione, bruciava i cadaveri dei predecessori. L'ultima squadra, nell'ottobre 1944, si ribellò alle S.S., fece saltare uno dei crematori e fu sterminata in un diseguale combattimento a cui accennerò più oltre. I superstiti delle Squadre Speciali sono dunque stati pochissimi, sfuggiti alla morte per qualche imprevedibile gioco del destino. Nessuno di loro, dopo la liberazione, ha parlato volentieri, e nessuno parla volentieri della loro spaventosa condizione. Le notizie che possediamo su queste Squadre provengono dalle scarne deposizioni di questi superstiti; dalle ammissioni dei loro «committenti» processati davanti a vari tribunali; da cenni contenuti in deposizioni di «civili» tedeschi o polacchi che ebbero casualmente occasione di venire a contatto con le squadre; e finalmente, da fogli di diario che vennero scritti febbrilmente a futura memoria, e sepolti con estrema cura nei dintorni dei crematori di Auschwitz, da alcuni dei loro componenti. Tutte queste fonti concordano tra loro, eppure ci riesce difficile, quasi impossibile, costruirci una rappresentazione di come questi uomini vivessero giorno per giorno, vedessero se stessi, accettassero la loro condizione.
In un primo tempo, essi venivano scelti dalle S.S. fra i prigionieri già immatricolati nei Lager, ed è stato testimoniato che la scelta avveniva non soltanto in base alla robustezza fisica, ma anche studiando a fondo le fisionomie. In qualche raro caso, l'arruolamento avvenne per punizione. Più tardi, si preferì prelevare i candidati direttamente sulla banchina ferroviaria, all'arrivo dei singoli convogli: gli «psicologi» delle S.S. si erano accorti che il reclutamento era più facile se si attingeva da quella gente disperata e disorientata, snervata dal viaggio, priva di resistenze, nel momento cruciale dello sbarco dal treno, quando veramente ogni nuovo giunto si sentiva alla soglia del buio e del terrore di uno spazio non terrestre.
Le Squadre Speciali erano costituite in massima parte da ebrei. Per un verso, questo non può stupire, dal momento che lo scopo principale dei Lager era quello di distruggere gli ebrei, e che la popolazione di Auschwitz, a partire dal 1943, era costituita da ebrei per il 90-95%; sotto un altro aspetto, si rimane attoniti davanti a questo parossismo di perfidia e di odio: dovevano essere gli ebrei a mettere nei forni gli ebrei, si doveva dimostrare che gli ebrei, sotto-razza, sotto-uomini, si piegano ad ogni umiliazione, perfino a distruggere se stessi. D'altra parte, è attestato che non tutte le S.S. accettavano volentieri il massacro come compito quotidiano; delegare alle vittime stesse una parte del lavoro, e proprio la più sporca, doveva servire (e probabilmente servì) ad alleggerire qualche coscienza.
Beninteso, sarebbe iniquo attribuire questa acquiescenza a qualche particolarità specificamente ebraica: delle Squadre Speciali fecero parte anche prigionieri non ebrei, tedeschi e polacchi, però con le mansioni «più dignitose» di Kapos; ed anche prigionieri di guerra russi, che i nazisti consideravano solo di uno scalino superiori agli ebrei. Furono pochi, perché ad Auschwitz i russi erano pochi (vennero in massima parte sterminati prima, subito dopo la cattura, mitragliati sull'orlo di enormi fosse comuni): ma non si comportarono in modo diverso dagli ebrei.
Le Squadre Speciali, in quanto portatrici di un orrendo segreto, venivano tenute rigorosamente separate dagli altri prigionieri e dal mondo esterno. Tuttavia, come è noto a chiunque abbia attraversato esperienze analoghe, nessuna barriera è mai priva di incrinature: le notizie, magari incomplete e distorte, hanno un potere di penetrazione enorme, e qualcosa trapela sempre. Su queste Squadre, voci vaghe e monche circolavano già fra noi durante la prigionia, e vennero confermate più tardi dalle altre fonti accennate prima, ma l'orrore intrinseco di questa condizione umana ha imposto a tutte le testimonianze una sorta di ritegno; perciò, oggi ancora è difficile costruirsi un'immagine di «cosa volesse dire» essere costretti ad esercitare per mesi questo mestiere. Alcuni hanno testimoniato che a quegli sciagurati veniva messa a disposizione una grande quantità di alcolici, e che essi si trovavano permanentemente in uno stato di abbrutimento e di prostrazione totali. Uno di loro ha dichiarato: «A fare questo lavoro, o si impazzisce il primo giorno, oppure ci si abitua». Un altro, invece: «Certo, avrei potuto uccidermi o lasciarmi uccidere; ma io volevo sopravvivere, per vendicarmi e per portare testimonianza. Non dovete credere che noi siamo dei mostri: siamo come voi, solo molto più infelici».
E' evidente che queste cose dette, e le altre innumerevoli che da loro e fra di loro saranno state dette ma non ci sono pervenute, non possono essere prese alla lettera. Da uomini che hanno conosciuto questa destituzione estrema non ci si può aspettare una deposizione nel senso giuridico del termine, bensì qualcosa che sta fra il lamento, la bestemmia, l'espiazione e i conato di giustificarsi, di recuperare se stessi. Ci si deve aspettare piuttosto uno sfogo liberatorio che una verità dal volto di Medusa.
Aver concepito ed organizzato le Squadre è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. Dietro all'aspetto pragmatico (fare economia di uomini validi, imporre ad altri i compiti più atroci) se ne scorgono altri più sottili. Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti. Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso di malvagità, eppure io penso che lo si debba fare, perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani, potrà coinvolgere noi stessi o i nostri figli. Si prova la tentazione di torcere il viso e distogliere la mente: è una tentazione a cui ci si deve opporre. Infatti, l'esistenza delle Squadre aveva un significato, conteneva un messaggio: «Noi, il popolo dei Signori, siamo i vostri distruttori, ma voi non siete migliori di noi; se lo vogliamo, e lo vogliamo, noi siamo capaci di distruggere non solo i vostri corpi, ma anche le vostre anime, così come abbiamo distrutto le nostre».
Miklos Nyiszli, medico ungherese, è stato fra i pochissimi superstiti dell'ultima Squadra Speciale di Auschwitz. Era un noto anatomo-patologo, esperto nelle autopsie, ed il medico capo delle S.S. di Birkenau, quel Mengele che è morto pochi anni fa sfuggendo alla giustizia, si era assicurato i suoi servizi; gli aveva riservato un trattamento di favore, e lo considerava quasi come un collega. Nyiszli doveva dedicarsi in specie allo studio dei gemelli: infatti, Birkenau era l'unico luogo al mondo in cui esistesse la possibilità di esaminare cadaveri di gemelli uccisi nello stesso momento. Accanto a questo suo incarico particolare, a cui, sia detto per inciso, non risulta che egli si sia opposto con molta determinazione, Nyiszli era il medico curante della Squadra, con cui viveva a stretto contatto. Ebbene, egli racconta un fatto che mi pare significativo.
Le S.S., come ho detto, sceglievano accuratamente, dai Lager o dai convogli in arrivo, i candidati alle Squadre, e non esitavano a sopprimere sul posto coloro che si rifiutavano o si mostravano inadatti alle loro mansioni. Nei confronti dei membri appena assunti, esse mostravano lo stesso comportamento sprezzante e distaccato che usavano mostrare verso tutti i prigionieri, e verso gli ebrei in specie: era stato loro inculcato che si trattava di esseri spregevoli, nemici della Germania e perciò indegni di vivere; nel caso più favorevole, potevano essere obbligati a lavorare fino alla morte per esaurimento. Non così si comportavano invece nei confronti dei veterani della Squadra: in questi, sentivano in qualche misura dei colleghi, ormai disumani quanto loro, legati allo stesso carro, vincolati dal vincolo immondo della complicità imposta. Nyiszli racconta dunque di aver assistito, durante una pausa del «lavoro», ad un incontro di calcio fra S.S. e S.K. (Sonderkommando), vale a dire fra una rappresentanza delle S.S. di guardia al crematorio e una rappresentanza della Squadra Speciale; all'incontro assistono altri militi delle S.S. e il resto della Squadra, parteggiano, scommettono, applaudono, incoraggiano i giocatori, come se, invece che davanti alle porte dell'inferno, la partita si svolgesse sul campo di un villaggio.
Niente di simile è mai avvenuto, né sarebbe stato concepibile, con altre categorie di prigionieri; ma con loro, con i «corvi del crematorio», le S.S. potevano scendere in campo, alla pari o quasi. Dietro questo armistizio si legge un riso satanico: è consumato, ci siamo riusciti, non siete più l'altra razza l'anti-razza, il nemico primo del Reich Millenario: non siete più il popolo che rifiuta gli idoli. Vi abbiamo abbracciati, corrotti, trascinati sul fondo con noi. Siete come noi, voi orgogliosi: sporchi del vostro sangue come noi. Anche voi, come noi e come Caino, avete ucciso il fratello. Venite, possiamo giocare insieme.
Nyiszli racconta un altro episodio da meditare. Nella camera a gas sono stati stipati ed uccisi i componenti di un convoglio appena arrivato, e la Squadra sta svolgendo il lavoro orrendo di tutti i giorni, districare il groviglio di cadaveri, lavarli con gli idranti e trasportarli al crematorio, ma sul pavimento trovano una giovane ancora viva. L'evento è eccezionale, unico; forse i corpi umani le hanno fatto barriera intorno, hanno sequestrato una sacca d'aria che è rimasta respirabile. Gli uomini sono perplessi; la morte è il loro mestiere di ogni ora, la morte è una consuetudine, poiché, appunto, «si impazzisce il primo giorno oppure ci si abitua», ma quella donna è viva. La nascondono, la riscaldano, le portano brodo di carne, la interrogano: la ragazza ha sedici anni, non si orienta nello spazio né nel tempo, non sa dov'è, ha percorso senza capire la trafila del treno sigillato, della brutale selezione preliminare, della spogliazione, dell'ingresso nella camera da cui nessuno è mai uscito vivo. Non ha capito, ma ha visto; perciò deve morire, e gli uomini della Squadra lo sanno, così come sanno di dover morire essi stessi e per la stessa ragione. Ma questi schiavi abbrutiti dall'alcool e dalla strage quotidiana sono trasformati; davanti a loro non c'è più la massa anonima, il fiume di gente spaventata, attonita, che scende dai vagoni: c'è una persona.
Come non ricordare l'«insolito rispetto» e l'esitazione del «turpe monatto» davanti al caso singolo, davanti alla bambina Cecilia morta di peste che, nei "Promessi Sposi", la madre rifiuta di lasciar buttare sul carro confusa fra gli altri morti? Fatti come questi stupiscono, perché contrastano con l'immagine che alberghiamo in noi, dell'uomo concorde con se stesso, coerente, monolitico; e non dovrebbero stupire, perché tale l'uomo non è. Pietà e brutalità possono coesistere, nello stesso individuo e nello stesso momento, contro ogni logica; e del resto, la pietà stessa sfugge alla logica. Non esiste proporzionalità tra la pietà che proviamo e l'estensione del dolore da cui la pietà è suscitata: una singola Anna Frank desta più commozione delle miriadi che soffrirono come lei, ma la cui immagine è rimasta in ombra. Forse è necessario che sia così; se dovessimo e potessimo soffrire le sofferenze di tutti, non potremmo vivere. Forse solo ai santi è concesso il terribile dono della pietà verso i molti; ai monatti, a quelli della Squadra Speciale, ed a noi tutti, non resta, nel migliore dei casi, che la pietà saltuaria indirizzata al singolo, al "Mitmensch", al co-uomo: all'essere umano di carne e sangue che sta davanti a noi, alla portata dei nostri sensi provvidenzialmente miopi.
Viene chiamato un medico, che rianima la ragazza con una iniezione: sì, il gas non ha compiuto il suo effetto, potrà sopravvivere, ma dove e come? In quel momento sopraggiunge Muhsfeld, uno dei militi S.S. addetti agli impianti di morte; il medico lo chiama da parte e gli espone il caso. Muhsfeld esita, poi decide: no, la ragazza deve morire; se fosse più anziana il caso sarebbe diverso, avrebbe più senno, forse la si potrebbe convincere a tacere su quanto le è accaduto, ma ha solo sedici anni: di lei non ci si può fidare. Tuttavia non la uccide di mano sua, chiama un suo sottoposto che la sopprima con un colpo alla nuca. Ora, questo Muhsfeld non era un misericorde; la sua razione quotidiana di strage era trapunta di episodi arbitrari e capricciosi, segnata da sue invenzioni di raffinata crudeltà. Fu processato nel 1947, condannato a morte e impiccato a Cracovia, e questo fu giusto; ma neppure lui era un monolito. Se fosse vissuto in un ambiente ed in un'epoca diversi, è probabile che si sarebbe comportato come qualsiasi altro uomo comune.
Nei "Fratelli Karamazov", Grushen'ka racconta la favola della cipollina. Una vecchia malvagia muore e va all'inferno, ma il suo angelo custode, sforzando la memoria, ricorda che essa, una volta, una sola, ha donato ad un mendicante una cipollina che ha cavata dal suo orto: le porge la cipollina, e la vecchia vi si aggrappa e viene tratta dal fuoco infernale. Questa favola mi è sempre sembrata rivoltante: quale mostro umano non ha mai donato in vita sua una cipollina, se non ad altri ai suoi figli, alla moglie, al cane? Quel singolo attimo di pietà subito cancellata non basta certo ad assolvere Muhsfeld, basta però a collocare anche lui, seppure al margine estremo, nella fascia grigia, in quella zona di ambiguità che irradia dai regimi fondati sul terrore e sull'ossequio.
Non è difficile giudicare Muhsfeld, e non credo che il tribunale che lo ha condannato abbia avuto dubbi; per contro, il nostro bisogno e la nostra capacità di giudicare si inceppano davanti alla Squadra Speciale. Subito sorgono le domande, domande convulse, a cui è dura impresa dare una risposta che ci tranquillizzi sulla natura dell'uomo. Perché hanno accettato quel loro compito? Perché non si sono ribellati, perché non hanno preferito la morte?
In certa misura, i fatti di cui disponiamo ci permettono di tentare una risposta. Non tutti hanno accettato; alcuni si sono ribellati sapendo di morire. Di almeno un caso abbiamo notizia precisa: un gruppo di quattrocento ebrei di Corfù, che nel luglio 1944 era stato inserito nella Squadra, rifiutò compattamente il lavoro, e venne immediatamente ucciso col gas. E' rimasta memoria di vari altri ammutinamenti singoli, tutti subito puniti con una morte atroce (Filip Müller, uno fra i pochissimi superstiti delle Squadre, racconta di un suo compagno che le S.S. introdussero vivo nella fornace), e di molti casi di suicidio, all'atto dell'arruolamento o subito dopo. Infine, è da ricordare che proprio dalla Squadra Speciale fu organizzato, nell'ottobre 1944, l'unico disperato tentativo di rivolta nella storia dei Lager di Auschwitz, a cui già si è accennato.
Le notizie che di questa impresa sono pervenute fino a noi non sono né complete né concordi; si sa che i rivoltosi (gli addetti a due dei cinque crematori di Auschwitz-Birkenau), male armati e privi di contatti con i partigiani polacchi fuori del Lager e con l'organizzazione clandestina di difesa entro il Lager, fecero esplodere il crematorio n. 3 e diedero battaglia alle S.S. Il combattimento finì molto presto; alcuni degli insorti riuscirono a tagliare il filo spinato ed a fuggire all'esterno, ma furono catturati poco dopo. Nessuno di loro è sopravvissuto; circa 450 furono immediatamente uccisi dalle S.S.; di queste, tre furono uccise e dodici ferite.
Quelli di cui sappiamo, i miserabili manovali della strage, sono dunque gli altri, quelli che di volta in volta preferirono qualche settimana in più di vita (quale vita!) alla morte immediata, ma che in nessun caso si indussero, o furono indotti, ad uccidere di propria mano. Ripeto: credo che nessuno sia autorizzato a giudicarli, non chi ha conosciuto l'esperienza del Lager, tanto meno chi non l'ha conosciuta. Vorrei invitare chiunque osi tentare un giudizio a compiere su se stesso, con sincerità, un esperimento concettuale: immagini, se può, di aver trascorso mesi o anni in un ghetto, tormentato dalla fame cronica, dalla fatica, dalla promiscuità e dall'umiliazione; di aver visto morire intorno a sé, ad uno ad uno, i propri cari; di essere tagliato fuori dal mondo, senza poter ricevere né trasmettere notizie; di essere infine caricato su un treno, ottanta o cento per vagone merci; di viaggiare verso l'ignoto, alla cieca, per giorni e notti insonni; e di trovarsi infine scagliato fra le mura di un inferno indecifrabile. Qui gli viene offerta la sopravvivenza, e gli viene proposto, anzi imposto, un compito truce ma imprecisato. E' questo, mi pare, il vero "Befehlnotstand", lo «stato di costrizione conseguente a un ordine»: non quello sistematicamente ed impudentemente invocato dai nazisti trascinati a giudizio, e più tardi (ma sulle loro orme) dai criminali di guerra di molti altri paesi. Il primo è un aut-aut rigido, l'obbedienza immediata o la morte; il secondo è un fatto interno al centro di potere, ed avrebbe potuto essere risolto (in effetti spesso fu risolto) con qualche manovra, con qualche ritardo nella carriera, con una moderata punizione, o, nel peggiore dei casi, col trasferimento del renitente al fronte di guerra.
L'esperimento che ho proposto non è gradevole; ha tentato di rappresentarlo Vercors, nel suo racconto "Les armes de la nuit" (Albin Michel, Paris 1953) in cui si parla della «morte dell'anima», e che riletto oggi mi appare intollerabilmente infetto di estetismo e di libidine letteraria. Ma è indubbio che di morte dell'anima si tratta; ora, nessuno può sapere quanto a lungo, ed a quali prove, la sua anima sappia resistere prima di piegarsi o di infrangersi. Ogni essere umano possiede una riserva di forza la cui misura gli è sconosciuta: può essere grande, piccola o nulla, e solo l'avversità estrema dà modo di valutarla. Anche senza ricorrere al caso-limite delle Squadre Speciali, accade spesso a noi reduci, quando raccontiamo le nostre vicende, che l'interlocutore dica: «Io, al tuo posto, non avrei resistito un giorno». L'affermazione non ha un senso preciso: non si è mai al posto di un altro. Ogni individuo è un oggetto talmente complesso che è vano pretendere di prevederne il comportamento, tanto più se in situazioni estreme; neppure è possibile antivedere il comportamento proprio. Perciò chiedo che la storia dei «corvi del crematorio» venga meditata con pietà e rigore, ma che il giudizio su di loro resti sospeso.

La stessa «impotentia judicandi» ci paralizza davanti al caso Rumkowski. La storia di Chaim Rumkowski non è propriamente una storia di Lager, benché nel Lager si concluda: è una storia di ghetto, ma così eloquente sul tema fondamentale dell'ambiguità umana provocata fatalmente dall'oppressione, che mi pare si attagli fin troppo bene al nostro discorso. La ripeto qui, anche se già l'ho narrata altrove.
Al mio ritorno da Auschwitz mi sono trovato in tasca una curiosa moneta in lega leggera, che conservo tuttora. E' graffiata e corrosa; reca su una faccia la stella ebraica (lo «Scudo di Davide»), la data 1943 e la parola "getto", che alla tedesca si legge "ghetto"; sull'altra faccia, le scritte QUITTUNG ÜBER 10 MARK e DER ÄLTESTE DER JUDEN IN LITZMANNSTADT, e cioè rispettivamente "Quietanza su 10 marchi" e "Il decano degli ebrei in Litzmannstadt": era insomma una moneta interna di un ghetto. Per molti anni ne ho dimenticato l'esistenza, poi, verso il 1974, ho potuto ricostruirne la storia, che è affascinante e sinistra.
Col nome di Litzmannstadt, in onore di un generale Litzmann vittorioso sui russi nella prima guerra mondiale, i nazisti avevano ribattezzato la città polacca di Lodz. Negli ultimi mesi del 1944 gli ultimi superstiti del ghetto di Lodz erano stati deportati ad Auschwitz: io devo aver trovato sul suolo del Lager quella moneta ormai inutile.
Nel 1939 Lodz aveva 750 mila abitanti, ed era la più industriale delle città polacche, la più «moderna» e la più brutta: viveva sull'industria tessile, come Manchester e Biella, ed era condizionata dalla presenza di una miriade di stabilimenti grandi e piccoli, per lo più antiquati già allora. Come in tutte le città di una certa importanza dell'Europa orientale occupata, i nazisti si affrettarono a costituirvi un ghetto, ripristinandovi, aggravato dalla loro moderna ferocia, il regime dei ghetti del medioevo e della controriforma. Il ghetto di Lodz, aperto già nel febbraio 1940, fu il primo in ordine di tempo, ed il secondo, dopo quello di Varsavia, come consistenza numerica: giunse a contenere più di i 60 mila ebrei, e fu sciolto solo nell'autunno del 1944. Fu dunque il più longevo dei ghetti nazisti, e ciò va attribuito a due ragioni: la sua importanza economica e la conturbante personalità del suo presidente.
Si chiamava Chaim Rumkowski: già piccolo industriale fallito, dopo vari viaggi ed alterne vicende si era stabilito a Lodz nel 1917. Nel 1940 aveva quasi sessant'anni ed era vedovo senza figli; godeva di una certa stima, ed era noto come direttore di opere pie ebraiche e come uomo energico, incolto ed autoritario. La carica di Presidente (o Decano) di un ghetto era intrinsecamente spaventosa, ma era una carica, costituiva un riconoscimento sociale, sollevava di uno scalino e conferiva diritti e privilegi, cioè autorità: ora Rumkowski amava appassionatamente l'autorità. Come sia pervenuto all'investitura, non è noto: forse si trattò di una beffa nel tristo stile nazista (Rumkowski era, o sembrava, uno sciocco dall'aria per bene, insomma uno zimbello ideale); forse intrigò egli stesso per essere scelto, tanto doveva essere forte in lui la voglia del potere. E' provato che i quattro anni della sua presidenza, o meglio della sua dittatura, furono un sorprendente groviglio di sogno megalomane, di vitalità barbarica e di reale capacità diplomatica ed organizzativa. Egli giunse presto a vedere se stesso in veste di monarca assoluto ma illuminato, e certo fu sospinto su questa via dai suoi padroni tedeschi, che giocavano bensì con lui, ma apprezzavano i suoi talenti di buon amministratore e d'uomo d'ordine. Da loro ottenne l'autorizzazione a battere moneta, sia metallica (quella mia moneta) sia cartacea, su carta a filigrana che gli fu fornita ufficialmente. In questa moneta erano pagati gli operai estenuati del ghetto; potevano spenderla negli spacci per acquistarvi le loro razioni alimentari, che ammontavano in media a 800 calorie giornaliere (ricordo, di passata, che ne occorrono almeno 2000 per sopravvivere in stato di assoluto riposo).
Da questi suoi sudditi affamati, Rumkowski ambiva riscuotere non solo obbedienza e rispetto, ma anche amore: in questo le dittature moderne differiscono dalle antiche. Poiché disponeva di un esercito di eccellenti artisti ed artigiani, pronti ad ogni suo cenno contro un quarto di pane, fece disegnare e stampare francobolli che recano la sua effigie, con i capelli e la barba candidi nella luce della Speranza e della Fede. Ebbe una carrozza trainata da un ronzino scheletrico, e su questa percorreva le strade del suo minuscolo regno, affollate di mendicanti e di postulanti. Ebbe un manto regale, e si attorniò di una corte di adulatori e di sicari; dai suoi poeti-cortigiani fece comporre inni in cui si celebrava la sua «mano ferma e potente», e la pace e l'ordine che per virtù sua regnavano nel ghetto; ordinò che ai bambini delle nefande scuole, ogni giorno devastate dalle epidemie, dalla denutrizione e dalle razzie tedesche, fossero assegnati temi in lode «del nostro amato e provvido Presidente». Come tutti gli autocrati, si affrettò ad organizzare una polizia efficiente, nominalmente per mantenere l'ordine, di fatto per proteggere la sua persona e per imporre la sua disciplina: era costituita da seicento guardie armate di bastone, e da un numero imprecisato di spie. Pronunciò molti discorsi, di cui alcuni ci sono stati conservati, ed il cui stile è inconfondibile: aveva adottato la tecnica oratoria di Mussolini e di Hitler, quella della recitazione ispirata, dello pseudo-colloquio con la folla, della creazione del consenso attraverso il plagio ed il plauso. Forse questa sua imitazione era deliberata; forse era invece una identificazione inconscia col modello dell'«eroe necessario» che allora dominava l'Europa ed era stato cantato da D'Annunzio; ma è più probabile che il suo atteggiamento scaturisse dalla sua condizione di piccolo tiranno, impotente verso l'alto ed onnipotente verso il basso. Chi ha trono e scettro, chi non teme di essere contraddetto né irriso, parla così.
Eppure la sua figura fu più complessa di quanto appaia fin qui. Rumkowski non fu soltanto un rinnegato ed un complice; in qualche misura, oltre a farlo credere, deve essersi progressivamente convinto egli stesso di essere un messia, un salvatore del suo popolo, a cui bene, almeno ad intervalli, egli deve avere pure desiderato. Occorre beneficare per sentirsi benefici, e sentirsi benefici è gratificante anche per un satrapo corrotto. Paradossalmente, alla sua identificazione con gli oppressori si alterna o si affianca un'identificazione con gli oppressi, poiché l'uomo, dice Thomas Mann, è una creatura confusa; e tanto più confusa diventa, possiamo aggiungere, quanto più è sottoposta a tensioni: allora sfugge al nostro giudizio, così come impazzisce una bussola al polo magnetico.
Benché sia stato costantemente disprezzato e deriso dai tedeschi, è probabile che Rumkowski pensasse a se stesso non come a un servo ma come a un Signore. Deve aver preso sul serio la propria autorità: quando la Gestapo si impadronì senza preavviso dei «suoi» consiglieri, accorse con coraggio in loro aiuto, esponendosi a beffe e schiaffi che seppe sopportare con dignità. Anche in altre occasioni, cercò di mercanteggiare con i tedeschi, che esigevano sempre più tela da Lodz, e da lui contingenti sempre più alti di bocche inutili (vecchi, bambini, ammalati) da mandare alle camere a gas di Treblinka e poi di Auschwitz. La stessa durezza con cui si precipitò a reprimere i moti d'insubordinazione dei suoi sudditi (esistevano, a Lodz come in altri ghetti, nuclei di temeraria resistenza politica, di radice sionista, bundista o comunista) non proveniva tanto da servilismo verso i tedeschi, quanto da «lesa maestà», da indignazione per l'oltraggio inferto alla sua regale persona.
Nel settembre 1944, poiché il fronte russo si stava avvicinando, i nazisti diedero inizio alla liquidazione del ghetto di Lodz. Decine di migliaia di uomini e donne furono deportati ad Auschwitz, «anus mundi», luogo di drenaggio ultimo dell'universo tedesco; esausti com'erano, furono quasi tutti soppressi immediatamente. Rimasero nel ghetto un migliaio di uomini, a smobilitare il macchinario delle fabbriche ed a cancellare le tracce della strage: essi furono liberati dall'Armata Rossa poco dopo, ed a loro si debbono le notizie qui riportate.
Sul destino finale di Chaim Rumkowski esistono due versioni, come se l'ambiguità sotto il cui segno aveva vissuto si fosse protratta ad avvolgerne la morte. Secondo la prima versione, nel corso della liquidazione del ghetto egli avrebbe cercato di opporsi alla deportazione di suo fratello, da cui non voleva separarsi; un ufficiale tedesco gli avrebbe allora proposto di partire volontariamente insieme con lui, ed egli avrebbe accettato. Un'altra versione afferma invece che il salvataggio di Rumkowski sarebbe stato tentato da Hans Biebow, altro personaggio ammantato di doppiezza. Questo losco industriale tedesco era il funzionario responsabile dell'amministrazione del ghetto, e in pari tempo ne era l'appaltatore: il suo era dunque un incarico delicato, perché le fabbriche tessili di Lodz lavoravano per le forze armate. Biebow non era una belva: non gli interessava creare sofferenze inutili né punire gli ebrei per la loro colpa di essere ebrei, bensì guadagnare sulle forniture, nei modi leciti e negli altri. Il tormento del ghetto lo toccava, ma solo per via indiretta; desiderava che gli operai schiavi lavorassero, e perciò desiderava che non morissero di fame: il suo senso morale si fermava qui. Di fatto, era il vero padrone del ghetto, ed era legato a Rumkowski da quel rapporto committente-fornitore che spesso sfocia in una ruvida amicizia. Biebow, piccolo sciacallo troppo cinico per prendere sul serio la demonologia della razza, avrebbe voluto rimandare a oltranza lo scioglimento del ghetto, che per lui era un ottimo affare, e preservare dalla deportazione Rumkowski, della cui complicità si fidava: dove si vede come spesso un realista sia obiettivamente migliore di un teorico. Ma i teorici delle S.S. erano di parere contrario, ed erano i più forti. Erano "gründlich", radicali: via il ghetto e via Rumkowski.
Non potendo provvedere diversamente, Biebow, che aveva buone aderenze, consegnò a Rumkowski una lettera indirizzata al comandante del Lager di destinazione, e gli garantì che essa lo avrebbe protetto e gli avrebbe assicurato un trattamento di favore. Rumkowski avrebbe chiesto a Biebow, ed ottenuto, di viaggiare fino ad Auschwitz, lui e la sua famiglia, col decoro che si addiceva al suo rango, e cioè in un vagone speciale, agganciato in coda alla tradotta di vagoni merci stipati di deportati senza privilegi: ma il destino degli ebrei in mano tedesca era uno solo, fossero vili od eroi, umili o superbi. Né la lettera né il vagone valsero a salvare dal gas Chaim Rumkowski, re dei Giudei.

Una storia come questa non è chiusa in sé. E' pregna, pone più domande di quante ne soddisfaccia, riassume in sé l'intera tematica della zona grigia, e lascia sospesi. Grida e chiama per essere capita, perché vi si intravede un simbolo, come nei sogni e nei segni del cielo.
Chi è Rumkowski? Non è un mostro, e neppure un uomo comune; tuttavia molti intorno a noi sono simili a lui. I fallimenti che hanno preceduto la sua «carriera» sono significativi: gli uomini che da un fallimento ricavano forza morale sono pochi. Mi pare che nella sua storia si possa riconoscere in forma esemplare la necessità quasi fisica che dalla costrizione politica fa nascere l'area indefinita dell'ambiguità e del compromesso. Ai piedi di ogni trono assoluto gli uomini come il nostro si affollano per ghermire la loro porzioncina di potere: è uno spettacolo ricorrente, ritornano alla memoria le lotte a coltello degli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, alla corte di Hìtler e fra i ministri di Salò; uomini grigi anche questi, ciechi prima che criminali, accaniti a spartirsi i brandelli d'una autorità scellerata e moribonda. Il potere è come la droga: il bisogno dell'uno e dell'altra è ignoto a chi non li ha provati, ma dopo l'iniziazione, che (come per Rumkowski) può essere fortuita, nasce la dipendenza e la necessità di dosi sempre più alte; nasce anche il rifiuto della realtà e il ritorno ai sogni infantili di onnipotenza.
Se è valida l'interpretazione di un Rumkowski intossicato dal potere, bisogna ammettere che l'intossicazione è sopraggiunta non a causa, ma nonostante l'ambiente del ghetto; che cioè essa è così potente da prevalere perfino in condizioni che sembrerebbero tali da spegnere ogni volontà individuale. Di fatto, era ben visibile in lui, come nei suoi modelli più famosi, la sindrome del potere protratto e incontrastato: la visione distorta del mondo, l'arroganza dogmatica, il bisogno di adulazione, l'aggrapparsi convulso alle leve di comando, il disprezzo delle leggi. Tutto questo non esonera Rumkowski dalla sua responsabilità. Che dall'afflizione di Lodz un Rumkowski sia emerso, duole e brucia; se fosse sopravvissuto alla sua tragedia, ed alla tragedia del ghetto che lui ha inquinata sovrapponendovi la sua immagine di istrione, nessun tribunale lo avrebbe assolto, né certo lo possiamo assolvere noi sul piano morale. Ha però delle attenuanti: un ordine infero, qual era il nazionalsocialismo, esercita uno spaventoso potere di corruzione, da cui è difficile guardarsi. Degrada le sue vittime e le fa simili a sé, perché gli occorrono complicità grandi e piccole. Per resistergli, ci vuole una ben solida ossatura morale, e quella di cui disponeva Chaim Rumkowski, il mercante di Lodz, insieme con tutta la sua generazione, era fragile: ma quanto forte è la nostra, di noi europei di oggi? Come si comporterebbe ognuno di noi se venisse spinto dalla necessità e in pari tempo allettato dalla seduzione?
La storia di Rumkowski è la storia incresciosa e inquietante dei Kapos e dei funzionari dei Lager; dei gerarchetti che servono un regime alle cui colpe sono volutamente ciechi; dei subordinati che firmano tutto, perché una firma costa poco; di chi scuote il capo ma acconsente; di chi dice «se non lo facessi io, lo farebbe un altro peggiore di me».
In questa fascia di mezze coscienze va collocato Rumkowski, figura simbolica e compendiaria. Se in alto o in basso, è difficile dire: lui solo lo potrebbe chiarire se potesse parlare davanti a noi, magari mentendo, come forse sempre mentiva, anche a se stesso; ci aiuterebbe comunque a comprenderlo, come ogni imputato aiuta il suo giudice, anche se non vuole, anche se mente, perché la capacità dell'uomo di recitare una parte non è illimitata.
Ma tutto questo non basta a spiegare il senso di urgenza e di minaccia che emana da questa storia. Forse il suo significato è più vasto: in Rumkowski ci rispecchiamo tutti, la sua ambiguità è la nostra, connaturata, di ibridi impastati di argilla e di spirito; la sua febbre è la nostra, quella della nostra civiltà occidentale che «scende all'inferno con trombe e tamburi», ed i suoi orpelli miserabili sono l'immagine distorta dei nostri simboli di prestigio sociale. La sua follia è quella dell'Uomo presuntuoso e mortale quale lo descrive Isabella in "Misura per misura", l'Uomo che,

"... ammantato d'autorità precaria,
di ciò ignaro di cui si crede certo,
- della. sua essenza, ch'è di vetro -, quale
una scimmia arrabbiata, gioca tali
insulse buffonate sotto il cielo
da far piangere gli angeli".

Come Rumkowski, anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal prestigio da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno.

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