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Isommersi e i salvati 1.
LA MEMORIA DELL'OFFESA.


La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace. E' questa una verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda, o al suo stesso comportamento. I ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei. Lo sanno bene i magistrati: non avviene quasi mai che due testimoni oculari dello stesso fatto lo descrivano allo stesso modo e con le stesse parole, anche se il fatto è recente, e se nessuno dei due ha un interesse personale a deformarlo. Questa scarsa affidabilità dei nostri ricordi sarà spiegata in modo soddisfacente solo quando sapremo in quale linguaggio, in quale alfabeto essi sono scritti, su quale materiale, con quale penna: a tutt'oggi, è questa una meta da cui siamo lontani. Si conoscono alcuni meccanismi che falsificano la memoria in condizioni particolari: i traumi, non solo quelli cerebrali; l'interferenza da parte di altri ricordi «concorrenziali»; stati abnormi della coscienza; repressioni; rimozioni. Tuttavia, anche in condizioni normali è all'opera una lenta degradazione, un offuscamento dei contorni, un oblio per così dire fisiologico, a cui pochi ricordi resistono. E' probabile che si possa riconoscere qui una delle grandi forze della natura, quella stessa che degrada l'ordine in disordine, la giovinezza in vecchiaia, e spegne la vita nella morte. E' certo che l'esercizio (in questo caso, la frequente rievocazione) mantiene il ricordo fresco e vivo, allo stesso modo come si mantiene efficiente un muscolo che viene spesso esercitato; ma è anche vero che un ricordo troppo spesso evocato, ed espresso in forma di racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata dall'esperienza, cristallizzata, perfezionata, adorna, che si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue spese.
Intendo esaminare qui i ricordi di esperienze estreme, di offese subite o inflitte. In questo caso sono all'opera tutti o quasi i fattori che possono obliterare o deformare la registrazione mnemonica: il ricordo di un trauma, patito o inflitto, è esso stesso traumatico, perché richiamarlo duole o almeno disturba: chi è stato ferito tende a rimuovere il ricordo per non rinnovare il dolore; chi ha ferito ricaccia il ricordo nel profondo, per liberarsene, per alleggerire il suo senso di colpa.
Qui, come in altri fenomeni, ci troviamo davanti ad una paradossale analogia tra vittima ed oppressore, e ci preme essere chiari: i due sono nella stessa trappola, ma è l'oppressore, e solo lui, che l'ha approntata e che l'ha fatta scattare, e se ne soffre, è giusto che ne soffra; ed è iniquo che ne soffra la vittima, come invece ne soffre, anche a distanza di decenni. Ancora una volta si deve constatare, con lutto, che l'offesa è insanabile: si protrae nel tempo, e le Erinni, a cui bisogna pur credere, non travagliano solo il tormentatore (se pure lo travagliano, aiutate o no dalla punizione umana), ma perpetuano l'opera di questo negando la pace al tormentato. Non si leggono senza spavento le parole lasciate scritte da Jean Améry, il filosofo austriaco torturato dalla Gestapo perché attivo nella resistenza belga, e poi deportato ad Auschwitz perché ebreo:

"Chi è stato torturato rimane torturato. Chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l'abominio dell'annullamento non si estingue mai. La fiducia nell'umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più".

La tortura è stata per lui una interminabile morte: Améry, di cui riparlerò al capitolo sesto, si è ucciso nel 1978.
Non vogliamo confusioni, freudismi spiccioli, morbosità, indulgenze. L'oppressore resta tale, e così la vittima: non sono intercambiabili, il primo è da punire e da esecrare (ma, se possibile, da capire), la seconda è da compiangere e da aiutare; ma entrambi, davanti all'indecenza del fatto che è stato irrevocabilmente commesso, hanno bisogno di rifugio e di difesa, e ne vanno istintivamente in cerca. Non tutti, ma i più; e spesso per tutta la loro vita.
Disponiamo ormai di numerose confessioni, deposizioni, ammissioni da parte degli oppressori (non parlo solo dei nazionalsocialisti tedeschi, ma di tutti coloro che commettono delitti orrendi e multipli per obbedienza ad una disciplina): alcune rilasciate in giudizio, altre nel corso di interviste, altre ancora contenute in libri o memoriali. A mio parere, sono documenti di estrema importanza. In generale, interessano poco le descrizioni delle cose viste e degli atti compiuti: esse coincidono ampiamente con quanto è stato raccontato dalle vittime; assai raramente vengono contestate, sono passate in giudicato e fanno ormai parte della Storia. Spesso vengono date per note. Sono molto più importanti le motivazioni e le giustificazioni: perché lo hai fatto? Ti rendevi conto di commettere un delitto?
Le risposte a queste due domande, o ad altre analoghe, sono molto simili fra loro, indipendentemente dalla personalità dell'interrogato, sia egli un professionista ambizioso ed intelligente come Speer, o un gelido fanatico come Eichmann, o un funzionario di vista corta come Stangl di Treblinka e Höss di Auschwitz, o un bruto ottuso come Boger e Kaduk inventori di torture. Espresse con formulazioni diverse, e con maggiore o minor protervia a seconda del livello mentale e culturale di chi parla, esse vengono a dire tutte sostanzialmente le stesse cose: l'ho fatto perché mi è stato comandato; altri (i miei superiori) hanno commesso azioni peggiori delle mie; data l'educazione che ho ricevuta, e l'ambiente in cui sono vissuto, non potevo fare altro; se non l'avessi fatto, l'avrebbe fatto con maggiore durezza un altro al mio posto. Per chi legge queste giustificazioni, il primo moto è di ribrezzo: costoro mentono, non possono credere di essere creduti, non possono non vedere lo squilibrio fra le loro scuse e la mole di dolore e di morte che essi hanno provocata. Mentono sapendo di mentire: sono in mala fede.
Ora, chiunque abbia sufficiente esperienza delle cose umane sa che la distinzione (l'opposizione, direbbe un linguista) buona fede/ mala fede è ottimistica ed illuministica, e lo è tanto più, ed a molto maggior ragione, se applicata a uomini come quelli appena nominati. Presuppone una chiarezza mentale che è di pochi, e che anche questi pochi perdono immediatamente quando, per qualsiasi motivo, la realtà passata o presente provoca in loro ansia o disagio. In queste condizioni c'è bensì chi mente consapevolmente falsificando a freddo la realtà stessa, ma sono più numerosi coloro che salpano le ancore, si allontanano, momentaneamente o per sempre, dai ricordi genuini, e si fabbricano una realtà di comodo. Il passato è loro di peso; provano ripugnanza per le cose fatte o subite, e tendono a sostituirle con altre. La sostituzione può incominciare in piena consapevolezza, con uno scenario inventato, mendace, restaurato, ma meno penoso di quello reale; ripetendone la descrizione, ad altri ma anche a se stessi, la distinzione fra vero e falso perde progressivamente i suoi contorni, e l'uomo finisce col credere pienamente al racconto che ha fatto così spesso e che ancora continua a fare, limandone e ritoccandone qua e là i dettagli meno credibili, o fra loro incongruenti, o incompatibili con il quadro degli eventi acquisiti: la mala fede iniziale è diventata buona fede. Il silenzioso trapasso dalla menzogna all'autoinganno è utile: chi mente in buona fede mente meglio, recita meglio la sua parte, viene creduto più facilmente dal giudice, dallo storico, dal lettore, dalla moglie, dai figli.
Più si allontanano gli eventi, più si accresce e si perfeziona la costruzione della verità di comodo. Credo che solo attraverso questo meccanismo mentale si possano interpretare, ad esempio, le dichiarazioni fatte all'«Express» nel 1978 da Louis Darquier de Pellepoix, già commissario addetto alle questioni ebraiche presso il governo di Vichy intorno al 1942, e come tale responsabile in proprio della deportazione di 70 mila ebrei. Darquier nega tutto: le foto dei cumuli di cadaveri sono montaggi; le statistiche dei milioni di morti sono state fabbricate dagli ebrei, sempre avidi di pubblicità, di commiserazione e di indennizzi; le deportazioni ci saranno magari anche state (gli sarebbe stato difficile contestarle: la sua firma compare in calce a troppe lettere che dànno disposizioni per le deportazioni stesse, anche di bambini), ma lui non sapeva verso dove e con quale esito; ad Auschwitz le camere a gas c'erano sì, ma servivano solo per uccidere i pidocchi, e del resto (si noti la coerenza!) sono state costruite a scopo di propaganda dopo la fine della guerra. Non intendo giustificare quest'uomo vile e sciocco, e mi offende sapere che ha vissuto a lungo indisturbato in Spagna, ma mi pare di poter ravvisare in lui il caso tipico di chi, avvezzo a mentire pubblicamente, finisce col mentire anche in privato, anche a se stesso, e coll'edificarsi una verità confortevole che gli consente di vivere in pace. Tenere distinte la buona e la mala fede è costoso: richiede una profonda sincerità con se stesso, esige uno sforzo continuo, intellettuale e morale. Come si può pretendere questo sforzo da uomini come Darquier?
Se si leggono le dichiarazioni fatte da Eichmann durante il processo di Gerusalemme, e di Rudolf Höss (il penultimo comandante di Auschwitz, l'inventore delle camere ad acido cianidrico) nella sua autobiografia, vi si riconosce un processo di elaborazione del passato, più sottile di quello ora accennato. In sostanza, questi due si sono difesi nel modo classico dei gregari nazisti, o meglio di tutti i gregari: siamo stati educati all'obbedienza assoluta, alla gerarchia, al nazionalismo; siamo stati imbevuti di slogan, ubriacati di cerimonie e manifestazioni; ci hanno insegnato che la sola giustizia era ciò che giovava al nostro popolo, e la sola verità erano le parole del Capo. Che cosa volete da noi? Come potete pensare di pretendere da noi, a cose fatte, un comportamento diverso da quello che è stato il nostro, e di tutti quelli che erano come noi? Siamo stati diligenti esecutori, e per la nostra diligenza siamo stati lodati e promossi. Le decisioni non sono state nostre, perché il regime in cui siamo cresciuti non ci concedeva decisioni autonome: altri hanno deciso per noi, e non poteva avvenire altrimenti, perché eravamo stati amputati della capacità di decidere. Non solo decidere ci era stato vietato, ma ne eravamo diventati incapaci. Perciò non siamo responsabili e non possiamo essere puniti.
Anche se proiettata sullo sfondo dei camini di Birkenau, questa argomentazione non può essere presa come frutto di pura impudenza. La pressione che un moderno Stato totalitario può esercitare sull'individuo è paurosa. Le sue armi sono sostanzialmente tre: la propaganda diretta, o camuffata da educazione, da istruzione, da cultura popolare; lo sbarramento opposto al pluralismo delle informazioni; il terrore. Tuttavia, non è lecito ammettere che questa pressione sia irresistibile, tanto meno nel breve termine dei dodici anni del Terzo Reich: nelle affermazioni e nelle discolpe di uomini dalle gravissime responsabilità, quali erano Höss e Eichmann, è palese l'esagerazione, ed ancor più la manomissione del ricordo. Entrambi erano nati ed erano stati educati molto prima che il Reich diventasse veramente «totalitario», e la loro adesione era stata una scelta, dettata più da opportunismo che da entusiasmo. La rielaborazione del loro passato è stata opera posteriore, lenta e (probabilmente) non metodica. Domandarsi se sia stata fatta in buona o in mala fede è ingenuo. Anche loro, così forti di fronte al dolore altrui, quando il destino li ha messi davanti ai giudici, davanti alla morte che hanno meritato, si sono costruiti un passato di comodo ed hanno finito per credervi: in special modo Höss, che non era un uomo sottile. Quale appare dal suo scritto, era anzi un personaggio talmente poco propenso all'autocontrollo ed all'introspezione che non si accorge di confermare il suo grossolano antisemitismo nell'atto stesso in cui lo rinnega e lo nega, e da non rendersi conto di quanto appaia viscido il suo autoritratto di buon funzionario, padre e marito.
A commento di queste ricostruzioni del passato (ma non solo di queste: è un'osservazione che vale per tutte le memorie), si deve notare che la distorsione dei fatti è spesso limitata dall'obiettività dei fatti stessi, intorno ai quali esistono testimonianze di terzi, documenti, «corpi del reato», contesti storicamente acquisiti. E' generalmente difficile negare di aver commesso una data azione, o che questa azione sia stata commessa; è invece facilissimo alterare le motivazioni che ci hanno condotto ad un'azione, e le passioni che in noi hanno accompagnato l'azione stessa. Questa è materia estremamente fluida, soggetta a deformarsi sotto forze anche molto deboli; alle domande «perché lo hai fatto?», o «cosa pensavi facendolo?», non esistono risposte attendibili, perché gli stati d'animo sono labili per natura, e ancora più labile è la loro memoria.
Come caso limite della deformazione del ricordo di una colpa commessa, c'è la sua soppressione. Anche qui il confine tra buona e mala fede può essere vago; dietro i «non so» e i «non ricordo» che si sentono nei tribunali c'è talvolta il preciso proposito di mentire, ma altre volte si tratta di una menzogna fossilizzata, irrigidita in una formula. Il memore ha voluto diventare immemore e ci è riuscito: a furia di negarne l'esistenza, ha espulso da sé il ricordo nocivo come si espelle un'escrezione o un parassita. Gli avvocati difensori sanno bene che il vuoto di memoria, o la verità putativa, che essi suggeriscono ai loro difesi, tendono a diventare dimenticanze e verità effettive. Non occorre sconfinare nella patologia mentale per trovare esemplari umani le cui affermazioni ci lasciano perplessi: sono certamente false, ma non riusciamo a distinguere se il soggetto sa o non sa di mentire. Supponendo per assurdo che il mentitore diventi per un istante veridico, lui stesso non saprebbe rispondere al dilemma; nell'atto in cui mente è un attore totalmente fuso col suo personaggio, non è più discernibile da lui. Ne è un esempio vistoso, nei giorni in cui scrivo, il comportamento in tribunale del turco Alì Agca, l'attentatore di Giovanni Paolo Secondo.
Il modo migliore per difendersi dall'invasione di memorie pesanti è impedirne l'ingesso, stendere una barriera sanitaria lungo il confine. E più facile vietare l'ingresso a un ricordo che liberarsene dopo che è stato registrato. A questo, in sostanza, servivano molti degli artifizi escogitati dai comandi nazisti per proteggere le coscienze degli addetti ai lavori sporchi, e per assicurarsi i loro servizi, sgradevoli anche per gli scherani più induriti. Agli "Einsatzkommandos", che nelle retrovie del fronte russo mitragliavano i civili sull'orlo delle fosse comuni che le vittime stesse erano costrette a scavare, veniva distribuito alcool a volontà, in modo che il massacro venisse velato dall'ubriachezza. I ben noti eufemismi («soluzione finale», «trattamento speciale», lo stesso termine «Einsatzkommando» appena citato, che significa letteralmente «Unità di pronto impiego», ma mascherava una realtà spaventosa) non servivano solo ad illudere le vittime ed a prevenirne le reazioni di difesa: valevano anche, nei limiti del possibile, ad impedire che l'opinione pubblica, e gli stessi reparti delle forze armate non direttamente implicati, venissero a conoscenza di quanto stava accadendo in tutti i territori occupati dal Terzo Reich.
Del resto, l'intera storia del breve «Reich Millenario» può essere riletta come guerra contro la memoria, falsificazione orwelliana della memoria, falsificazione della realtà, negazione della realtà, fino alla fuga definitiva dalla realtà medesima. Tutte le biografie di Hitler, discordi sull'interpretazione da darsi alla vita di quest'uomo così difficile da classificare, concordano sulla fuga dalla realtà che ha segnato i suoi ultimi anni, soprattutto a partire dal primo inverno russo. Aveva proibito e negato ai suoi sudditi l'accesso alla verità, inquinando la loro morale e la loro memoria; ma, in misura via via crescente fino alla paranoia del Bunker, aveva sbarrato la via della verità anche a se stesso. Come tutti i giocatori d'azzardo, si era costruito intorno uno scenario intessuto di menzogne superstiziose, in cui aveva finito col credere con la stessa fede fanatica che pretendeva da ogni tedesco. Il suo crollo non è stato soltanto una salvazione per il genere umano, ma anche una dimostrazione del prezzo che si paga quando si manomette la verità.

Anche nel campo ben più vasto delle vittime si osserva una deriva della memoria, ma qui, evidentemente, manca il dolo. Chi riceve un'ingiustizia o un'offesa non ha bisogno di elaborare bugie per discolparsi di una colpa che non ha (anche se, per un paradossale meccanismo di cui diremo, può avvenire che ne provi vergogna); ma questo non esclude che anche i suoi ricordi possano essere alterati. E' stato notato, ad esempio, che molti reduci da guerre o da altre esperienze complesse e traumatiche tendono a filtrare inconsapevolmente i loro ricordi: rievocandoli fra loro, o raccontandoli a terzi, preferiscono soffermarsi sulle tregue, sui momenti di respiro, sugli intermezzi grotteschi o strani o distesi, e sorvolare sugli episodi più dolorosi. Questi ultimi non vengono richiamati volentieri dal serbatoio della memoria, e perciò tendono ad annebbiarsi col tempo, a perdere i loro contorni. E' psicologicamente credibile il comportamento del Conte Ugolino, che prova ritegno nel raccontare a Dante la sua morte tremenda, e si induce a farlo non per accondiscendenza, ma solo per vendetta postuma contro il suo eterno nemico. Quando diciamo «non lo dimenticherò mai» riferendoci a qualche evento che ci ha feriti profondamente, ma che non ha lasciato in noi o intorno a noi una traccia materiale o un'assenza permanente, siamo avventati: anche nella vita «civile», dimentichiamo volentieri i particolari di una malattia grave da cui siamo guariti, o di un'operazione chirurgica riuscita bene.
A scopo di difesa, la realtà può essere distorta non solo nel ricordo, ma nell'atto stesso in cui si verifica. Per tutto l'anno della mia prigionia ad Auschwitz, ho avuto come amico fraterno Alberto D.: era un giovane robusto e coraggioso, chiaroveggente più della media, e perciò assai critico nei confronti dei molti che si fabbricavano, e si somministravano a vicenda, illusioni consolatorie («la guerra finirà fra due settimane», «non ci saranno più selezioni», «gli inglesi sono sbarcati in Grecia», «i partigiani polacchi stanno per liberare il campo», e così via: erano voci che correvano quasi ogni giorno, puntualmente smentite dalla realtà). Alberto era stato deportato insieme col padre quarantacinquenne. Nell'imminenza della grande selezione dell'ottobre 1944, Alberto ed io avevamo commentato il fatto con spavento, collera impotente, ribellione, rassegnazione, ma senza cercare rifugio nelle verità di conforto. Venne la selezione, il «vecchio» padre di Alberto fu scelto per il gas, ed Alberto cambiò, nel giro di poche ore. Aveva sentito voci che gli sembravano degne di fede: i russi erano vicini, i tedeschi non avrebbero più osato persistere nella strage, quella non era una selezione come le altre, non era per le camere a gas, era stata fatta per scegliere i prigionieri indeboliti ma recuperabili, come suo padre, appunto, che era molto stanco ma non ammalato; anzi, lui sapeva perfino dove li avrebbero mandati, a Jaworzno, non lontano, in un campo speciale per convalescenti adatti soltanto per lavori leggeri.
Naturalmente il padre non fu più visto, ed Alberto stesso scomparve durante la marcia di evacuazione del campo, nel gennaio 1945. Stranamente, senza sapere del comportamento di Alberto, anche i suoi parenti che erano rimasti nascosti in Italia sfuggendo alla cattura, si sono condotti come lui, rifiutando una verità insopportabile e costruendosene un'altra. Appena rimpatriato, ritenni doveroso andare subito alla città di Alberto, per riferire alla madre ed al fratello quanto sapevo. Fui accolto con cortesia affettuosa, ma appena ebbi cominciato il mio racconto la madre mi pregò di smettere: lei sapeva già tutto, almeno per quanto riguardava Alberto, ed era inutile che io le ripetessi le solite storie di orrore. Lei sapeva che il figlio, lui solo, era riuscito ad allontanarsi dalla colonna senza che le S.S. gli sparassero, si era nascosto nella foresta ed era in salvo nelle mani dei russi; non aveva ancora potuto mandare notizie, ma presto lo avrebbe fatto, lei ne era sicura; ed ora, che per favore io cambiassi argomento, e le raccontassi come io stesso ero sopravvissuto. Un anno dopo mi trovai per caso a passare per quella città, e visitai di nuovo la famiglia. La verità era leggermente cambiata: Alberto era in una clinica sovietica, stava bene, ma aveva perso la memoria, non ricordava più nemmeno il suo nome; però era in via di miglioramento e sarebbe ritornato presto, lei lo sapeva da fonte sicura.
Alberto non è mai ritornato. Sono passati più di quarant'anni; non ho più avuto il coraggio di ripresentarmi, e di contrapporre la mia verità dolorosa alla «verità» consolatoria che, aiutandosi l'uno con l'altro, i parenti di Alberto si erano costruita.

Un'apologia è d'obbligo. Questo stesso libro è intriso di memoria: per di più, di una memoria lontana. Attinge dunque ad una fonte sospetta, e deve essere difeso contro se stesso. Ecco: contiene più considerazioni che ricordi, si sofferma più volentieri sullo stato delle cose qual è oggi che non sulla cronaca retroattiva. Inoltre, i dati che contiene sono fortemente sostanziati dall'imponente letteratura che sul tema dell'uomo sommerso (o «salvato») si è andata formando, anche con la collaborazione, volontaria o no, dei colpevoli di allora; ed in questo corpus le concordanze sono abbondanti, le discordanze trascurabili. Quanto ai miei ricordi personali, ed ai pochi aneddoti inediti che ho citati e citerò, li ho vagliati tutti con diligenza: il tempo li ha un po' scoloriti, ma sono in buona consonanza con lo sfondo, e mi sembrano indenni dalle derive che ho descritte.

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