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IL SISTEMA CARCERARIO ITALIANO FRA REPRESSIONE E MISTIFICAZIONE
di Vincenzo Accattatis.


Premessa.

1. Questo saggio è, per una parte, una denuncia del sistema delle misure di sicurezza e la narrazione delle vicende che mi hanno coinvolto come giudice di sorveglianza del tribunale di Pisa.
Per la seconda parte, è invece una riflessione sulla funzione svolta dal giudice di sorveglianza nella istituzione penitenziaria e sulla logica interna di detta istituzione.
2. La narrazione della mia esperienza di giudice di sorveglianza si rivela per me alquanto imbarazzante.
Che credito si potrà dare alle mie parole, visto che io sono diretta parte in causa?
Penso di ovviare in qualche modo all'inconveniente fornendo un'accurata versione dei fatti ed ogni possibile riscontro oggettivo e documentario. Confido - in definitiva - che il lettore saprà ben distinguere le circostanze oggettive dalle mie considerazioni personali; per ricavare dalle prime, piuttosto che dalle seconde, i propri convincimenti.
3. Una seconda difficoltà andava superata, quella cioè di fornire una narrazione dei fatti che non risultasse troppo appesantita da considerazioni strettamente giuridiche, comprensibili solo agli addetti ai lavori.
Per ovviare in qualche modo a questa difficoltà, ho cercato di ridurre quanto più possibile le considerazioni di carattere giuridico; ma, naturalmente, non le ho potute eliminare del tutto, visto che il discorso giuridico è un presupposto indispensabile per indagare a fondo la logica delle istituzioni:
Fino a che punto le istituzioni rispettano i propri principi?
Fino a che punto, invece, spinte da una logica propria, contrastano i principi di legalità?
E' possibile una garanzia giuridica nell'istituzione penitenziaria?
Qual è il ruolo svolto dal giudice di sorveglianza nella istituzione: è un ruolo effettivamente garantistico - e cioè di salvaguardia dei diritti di libertà della persona nei confronti delle prevaricazioni del potere - oppure è un ruolo di copertura e di mistificazione?
L'istituzione penitenziaria riesce a tollerare l'operatore giuridico deciso a praticare con intransigenza i principi costituzionali?
Qual è la logica interna dell'istituzione penitenziaria?
Che cosa accade quando un operatore penitenziario si pone in contrasto con la logica della istituzione?
Che cosa significa «rieducazione» secondo la logica della istituzione penitenziaria?
Il principio di rieducazione seguito dall'istituzione penitenziaria coincide con quello espresso dalla Costituzione?
Per cercare di fornire una risposta a queste domande, non si può, ovviamente, prescindere del tutto dal ragionamento giuridico.


I.
UN GIUDICE DI SORVEGLIANZA INDESIDERABILE.

1. "La misura di sicurezza detentiva della casa di lavoro o colonia agricola ed il rispetto della persona umana".

1. All'inizio del 1971, assumendo le funzioni di giudice di sorveglianza presso il tribunale di Pisa ho avuto modo di rendermi conto della realtà della misura di sicurezza della casa di lavoro o colonia agricola; di quella misura cioè che è stata introdotta dal fascismo, aggiuntivamente alla pena, per i cosiddetti delinquenti abituali, professionali e per tendenza.
La misura di sicurezza, secondo le previsioni della legge, funziona in due tempi. Nel primo tempo (che dura da due a quattro anni, a seconda che si tratti di delinquenti abituali, professionali o delinquenti per tendenza) il giudice di sorveglianza non può in alcun caso revocare la misura: la può revocare solo il ministro di grazia e giustizia, ai sensi dell'art. 207 del codice penale. Questo primo tempo si chiama «periodo minimo» della misura di sicurezza. Nel secondo tempo, la misura di sicurezza può essere revocata sia dal ministro che dal giudice di sorveglianza. Secondo una parte della «dottrina», mentre il giudice di sorveglianza, per revocare la misura, deve preventivamente accertare che l'internato non sia più socialmente pericoloso - o, che è lo stesso, che sia stato «rieducato» - questa condizione non esisterebbe invece per la revoca ministeriale. Ed infatti il ministro di grazia e giustizia usa revocare le misure con decreti immotivati.
La differenza fra condannati (soggetti alla esecuzione della pena) ed internati (soggetti alla esecuzione della misura di sicurezza detentiva) sostanzialmente è questa: che i secondi godono di licenze, mentre i primi non ne godono. Questo vantaggio ha però il suo rovescio nel fatto che se l'internato non rientra in carcere al termine della licenza, o rientra con ritardo, vede rinnovarsi il periodo minimo della misura, con la conseguenza che la misura di sicurezza viene a prolungarsi in modo automatico (talvolta di due anni in due anni); senza che il giudice possa in alcun modo intervenire per farla cessare.
Questo modo automatico di prolungarsi della misura di sicurezza, in applicazione dell'art. 214 del codice penale, non è affatto eccezionale, ma rappresenta invece la regola. Vi sono internati che vedono il prolungarsi automatico della misura di sicurezza di anno in anno per cinque, dieci, quindici anni. E' per questo che gli internati usano chiamare la misura di sicurezza detentiva «ergastolo bianco» (1). S'intende, comunque, che la possibilità di risocializzazione, o, se si vuole, di rieducazione degli internati, dovrebbe essere realizzata, nelle intenzioni della legge, mediante il lavoro (non a caso la misura di sicurezza si chiama «casa di lavoro» e «colonia agricola»), oltre che mediante particolari tipi di trattamento rieducativo ad opera di psicologi, sociologi, eccetera. - Tutto questo non esiste nella realtà, sicché gli internati subiscono la misura di sicurezza come una normale detenzione aggiuntiva ed a tempo indeterminato, rispetto alla pena già scontata (non un giorno in meno di quella prevista dal codice penale) per i reati commessi.
Le carceri, quindi, così come sono, non risocializzano affatto l'internato ma tendono, se mai, a desocializzarlo. La conseguenza logica di un simile processo a ritroso parrebbe essere una sola e cioè che l'internato, per il fatto di essere sempre più «diseducato» dal carcere, è costretto a restare sempre in carcere. Nella realtà questo non avviene perché i giudici di sorveglianza gestiscono la misura di sicurezza in modo paternalistico.
Riporto quanto ho scritto nell'ordinanza già citata:

«In un sistema penale che non si preoccupa di guardare le misure così come vengono in concreto applicate - appagandosi dell'atteggiamento del 'come se' -, in un sistema penale che tollera ancora istituti carcerari divenuti luoghi di degradazione umana (dilagare della omosessualità, eccetera), pretendere che un giudice, al termine di un certo periodo (uno, due, tre quattro anni), si pronunci sull'internato per stabilire se egli, durante l'internamento, sia stato 'rieducato' o 'risocializzato' è una pura e semplice ipocrisia. In linea di principio, l'internato, alla fine del periodo minimo di internamento, sarà 'più pericoloso' di prima; in ogni caso, il sistema carcerario avrà funzionato perché lo divenga. Il sistema si affida allora al 'buon cuore' del giudice, al giudice umano che chiude un occhio, che finge essere la risocializzazione avvenuta».

Ed ancora, cito sempre dalla medesima ordinanza:

«Dice la corte di cassazione: 'E' compito del giudice di sorveglianza, allo scadere del termine minimo, procedere al riesame della pericolosità del reo ed accertare se la finalità di prevenzione sia stata raggiunta' (2). Ciò appare incontestabile. Solo che va detto: ma se lo Stato non offre i mezzi perché detta finalità possa essere raggiunta - anzi predispone uno strumento che, in concreto, funziona in senso contrario - perché il mancato raggiungimento della finalità di prevenzione (che non è ottenibile se non in termini di 'rieducazione'), deve gravare sulla persona umana dell'internato?»

Come si è visto, per evitare un simile inconveniente, il giudice quasi sempre sopperisce con il suo «buon cuore», revocando la misura allo scadere del periodo minimo. Naturalmente, quando può farlo e cioè quando non s'imbatta nello sbarramento predisposto dal fascismo con l'art. 214 del codice penale.

2. Occorre ora brevemente considerare qual è la popolazione che vive la crudele esperienza dell'internamento nella casa di lavoro o colonia agricola.
Si tratta, in sostanza, di ladruncoli e piccoli truffatori plurirecidivi; di gente cioè costretta a vivere di espedienti. La misura di sicurezza è infatti congegnata in modo da scattare non in funzione della gravità dei reati, ma in funzione della pluralità delle condanne.
Chi va in carcere una serie innumerevole di volte per reati contro il patrimonio, subisce poi, immancabilmente, «il trattamento» della misura di sicurezza.
Lo stato si difende insomma da chi vive di espedienti rinchiudendolo in carcere a tempo indeterminato.
E' questa la vera sostanza della misura di sicurezza della casa di lavoro o colonia agricola.

3. Ma se questa è la realtà della misura di sicurezza, il «titolo» per cui essa viene applicata non è unico ma è duplice.
Occorre ritornare su questo aspetto della questione perché è di importanza fondamentale.
Il titolo dell'internamento è duplice nel senso che l'internamento avviene, secondo la legge:

1) perché una persona risulta pericolosa per la società;
2) perché deve essere rieducata.

L'ulteriore reclusione (rispetto alla pena già scontata) viene insomma motivata dalla legge non in un solo modo, ma in due modi da non concepire in senso alternativo ma cumulativo. Per meglio dire, possono essere considerati come alternativi dallo stato totalitario (ammettiamo, dal fascismo), ma non possono essere concepiti che come cumulativi da uno stato che pone fra i principi fondamentali del proprio ordinamento (artt. 2 e 3 della Costituzione repubblicana) il rispetto della persona umana. Il rispetto della persona umana significa, prima di tutto, che la persona non può essere mai considerata strumento, che non può essere mai degradata a cosa; neanche se messa a confronto con le esigenze della società organizzata. «Pericoloso per la società» significa pericoloso per la collettività. Ciò può essere titolo per l'internamento. Ma non mai titolo esclusivo: bisogna poi mettere in conto il rispetto dovuto alla persona; ed ecco allora perché si dice e si deve dire: internamento «al fine» di rieducare. Se questo fine non fosse presente, se questo fine non risultasse realmente perseguito, la persona umana risulterebbe completamente strumentalizzata rispetto agli interessi collettivi. Risulterebbe cioè trattata come oggetto e non come soggetto.
Ecco perché la concreta azione rieducativa deve essere tenuta sempre in primo piano nella esecuzione della misura di sicurezza. Ecco perché il giudice di sorveglianza deve vedere nell'azione di garanzia di questa finalità il suo scopo principale e cioè la ragione stessa per la quale egli si trova nell'istituzione. Chi tradisce questa finalità tradisce, a mio avviso, la sua funzione di giudice; tradisce lo scopo fondamentale che la Costituzione gli indica con gli articoli 2 e 3.
E - si badi - il valore della persona umana non è solo un valore civile di primaria grandezza; è anche un valore politico di grande importanza.
Il concetto di persona umana nasce, com'è noto, con il cristianesimo e viene alimentato da tutta la migliore corrente di pensiero laico (illuminismo, idealismo, eccetera), per sboccare nella concezione marxista. Credo che non esista valore umanamente più ricco e politicamente più unificante del valore «persona umana». Ed ecco perché la Costituzione repubblicana, che è nata come sintesi di esperienze culturali diverse (cristiana, liberale e marxista), ha posto giustamente al centro del suo discorso, oltre che i principi della sovranità popolare e della dignità del lavoro (art. 1), anche il valore della persona umana (artt. 2 e 3).
L'art. 27 della Costituzione, che parla di «rieducazione del condannato», deve essere letto in relazione all'art. 13, che parla di «libertà personale inviolabile» e, soprattutto, in relazione agli artt. 2 e 3, che parlano di rispetto e di «sviluppo della persona umana». Ma non sempre viene letta così. Abitualmente, accade invece che l'art. 27 della Costituzione non venga affatto tenuto presente, sicché delle due finalità che «giustificano» la misura di sicurezza (prevenzione e rieducazione) ne viene tenuta presente solo una, la prima. Con questo modo di procedere, il rispetto della persona viene completamente sacrificato alle ragioni della pubblica sicurezza, secondo la logica dello stato totalitario.

2. "Una via legale per aprire il carcere: licenza di lavoro agli internati".

La premessa che ho fatto era indispensabile perché si capisse la realtà, diciamo così, «strutturale», nella quale mi sono trovato ad operare come giudice di sorveglianza. Di questa realtà, non appena ho iniziato la mia esperienza, ho colto i due aspetti fondamentali e cioè l'assoluta incongruenza delle norme ordinarie rispetto a quelle costituzionali ed il più grande contrasto fra enunciati legali (costituzionali e di leggi ordinarie) e pratica realizzazione del regime della misura di sicurezza della casa di lavoro o colonia agricola.
Per ovviare al primo inconveniente, non era possibile un mio intervento immediato e diretto, considerato che è principio fondamentale del nostro ordinamento che il giudice è soggetto alla legge. Finché le leggi esistono, il giudice deve applicarle; salvo a denunciarle come sospette di incostituzionalità alla corte costituzionale. Ciò che ho fatto con una prima ordinanza in data 15 febbraio 1971, pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» del 5 maggio 1971, n. 212, e con una seconda e molto più elaborata ordinanza, già citata, con la quale ho investito la corte costituzionale delle seguenti questioni:

1) incostituzionalità della casa di lavoro o colonia agricola;
2) incostituzionalità del processo di sicurezza (3);
3) incostituzionalità dell'art. 214 c.p.;
4) incostituzionalità dell'art. 207 c.p., nella parte in cui assegna al ministro il potere di revocare le misure di sicurezza.

Ma, se per ovviare al primo inconveniente non era possibile - come già detto - alcun mio intervento diretto, considerato, appunto il principio della soggezione del giudice alla legge, per ovviare al secondo inconveniente era possibile un certo tipo di intervento diretto, considerato il correlativo principio della soggezione del giudice «soltanto» alla legge (art. 101 della Costituzione). In un caso come nell'altro ho, in altri termini, ritenuto mio preciso dovere costituzionale intervenire così come in pratica sono intervenuto, sempre nel rispetto dei limiti impostimi dalla Costituzione, ma anche nell'esplicazione dei poteri dalla stessa assegnatimi.
Il secondo intervento, si è concretato nella parziale disapplicazione del regolamento penitenziario per contrasto con i principi costituzionali e con la legge ordinaria. E' noto infatti che il giudice può disapplicare i regolamenti quando li ritenga contrari alle leggi. Sulla base di questi presupposti giuridici e, soprattutto, sulla base del presupposto di fatto che nelle carceri giudiziarie di Pisa non esistevano le condizioni elementari minime per la realizzazione della finalità istituzionale assegnata alla misura di sicurezza detentiva della casa di lavoro o colonia agricola non solo dalla Costituzione ma anche dalle norme ordinarie, al fine di consentire agli internati di lavorare all'esterno ed offrir loro, per questa via, una possibilità concreta di risocializzazione, ho concesso ai medesimi licenze di lavoro per periodi più lunghi di quelli previsti dal regolamento penitenziario; nel rispetto però di precisi limiti e con precise cautele. Questi provvedimenti, come già accennato, non sono stati frutto di una presa di posizione estemporanea e cervellotica, ma, tutt'al contrario, sono scaturiti come conclusione di un consapevole travaglio nascente dalle presenti contraddizioni del sistema carcerario; quelle contraddizioni già evidenziate.

3. "Il ministero interviene per chiudere il carcere".

1. Il ministero di grazia e giustizia non si è mostrato però d'accordo con questo secondo tipo di intervento sicché, con missiva del 12 gennaio 1972, n. 3478/71, mi ha chiesto di considerare l'opportunità di revocare il provvedimento, in data 24 settembre 1971, con il quale avevo concesso a dichiarato delinquente abituale in contrabbando dalla corte di appello di Napoli e sottoposto alla misura di sicurezza della casa di lavoro per il periodo minimo di anni due, una licenza straordinaria per lavoro con decorrenza 24 settembre 1971 - 24 novembre 1972, e cioè per un periodo pari ad anni uno e mesi due.
L'invito ministeriale mi è stato rivolto in considerazione del fatto che gli artt. 278 n. 2 e 283 del vigente regolamento penitenziario non prevedono questo tipo di licenza ma consentono al giudice di sorveglianza la potestà di concedere agli internati:
1) ai sensi dell'art. 278 n. 2, una licenza finale di esperimento negli ultimi sei mesi precedenti la scadenza del periodo minimo;
2) ai sensi dell'art. 283, una licenza non superiore a giorni quindici per gravi esigenze personali o familiari, morali o materiali.
Va inoltre aggiunta - anche se la missiva ministeriale non ne ha fatto parola - la possibilità, ai sensi dell'art. 278 n. 1, di concedere una licenza non superiore a giorni trenta non più di una volta l'anno.
Rispondendo alla missiva sopra indicata, ho avuto cura di esporre i motivi che mi hanno indotto a prendere i provvedimenti in questione, motivi che qui riassumo.

2. Il primo punto fermo da cui occorre partire è il seguente: il regolamento penitenziario, approvato con R.D. 18 giugno 1931, n. 787, è un vero e proprio regolamento (come è stato affermato dalla corte costituzionale con le sentenze n. 72 del 27 giugno 1968, n. 91 del 10 luglio 1968, n. 40 del 20 marzo 1970), in quanto tale disapplicabile dal giudice tutte le volte che non lo ritenga conforme alle norme di legge; com'è espressamente stabilito dall'articolo 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, All. E.
Nella sentenza n. 72 del 1968 la corte costituzionale ha avuto, in particolare, cura di affermare:

«E' ovvio che le norme regolamentari, quando siano ritenute illegittime per contrasto con la Costituzione, possono e debbono (non diversamente dai casi in cui siano ritenute illegittime per contrasto con leggi ordinarie) essere disapplicate ai sensi dell'art. 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, All. E, dai giudici chiamati a farne applicazione».

Fissato questo punto, diciamo così, cardinale, occorre stabilire perché le norme regolamentari richiamate nella missiva ministeriale dovevano considerarsi illegali, e, quindi, dovevano essere disapplicate.
Esse, a mio avviso, dovevano considerarsi illegali nella misura in cui si ponevano in contrasto con la realizzazione della finalità istituzionale della misura di sicurezza della casa di lavoro o colonia agricola.
Dire finalità istituzionale è lo stesso che dire finalità ricavabile dalle norme di legge.
Vengono così in considerazione, prima di tutto, le norme costituzionali che sono le norme primarie dell'ordinamento.
La Costituzione distingue fra pene e misure di sicurezza (art. 27 ed art. 25 u.c. e sentenze 29 maggio 1968, n. 53 - 16 giugno 1970, n. 96 della corte costituzionale).
La misura di sicurezza è finalizzata alla risocializzazione dell'internato: se è vero infatti che la pena deve «tendere» alla rieducazione, non vi è dubbio che la misura di sicurezza - per il fatto di non essere pena ma successiva alla pena e per il fatto di doversi da essa distinguere - deve essenzialmente consistere in interventi rieducativi e risocializzanti.
Questa stessa finalità della misura di sicurezza è enunciata dall'art. 213 c.p. che, al terzo comma, parla di «particolare regime educativo o curativo e di lavoro» ed è ripetuta, con ridondanza di termini, dall'art. 271 del regolamento penitenziario.
L'art. 3 capoverso della Costituzione è posto a salvaguardia del principio di effettività; ciò significa che le finalità istituzionali (in questo caso della misura di sicurezza della casa di lavoro o colonia agricola) non possono restare dei meri enunciati programmatici ma devono essere realizzati in concreto, mediante strumenti idonei. E' compito della «Repubblica» far questo dice l'art. 3 della Costituzione; ma ciò vuol dire che è compito non solo del parlamento ma anche dei giudici, anche dei pubblici funzionari. Anche il giudice di sorveglianza di Pisa doveva quindi ritenersi impegnato direttamente dalla Costituzione ad adoperarsi - nei limiti dei suoi poteri, ben s'intende - per rendere effettiva la finalità istituzionale della misura di sicurezza a salvaguardia della persona umana dell'internato (artt. 2 e 3 della Costituzione) e della libertà personale proclamata inviolabile (art. 13). Ma la risocializzazione degli internati è condizionata all'esistenza (o inesistenza) di quegli idonei stabilimenti di cui parla l'art. 213 c.p., di personale specializzato, e, soprattutto, dalla possibilità per gli internati di lavorare. Come si è visto, l'art. 213 c.p. vede il lavoro come mezzo essenziale per il raggiungimento della finalità istituzionale.
Nelle carceri di Pisa mancavano invece tutte le condizioni di cui sopra si è parlato, e, soprattutto, non vi era alcuna possibilità di lavorare.
Ciò risulta in modo indiscutibile dalla missiva in data 10 novembre 1971, inviatami dal direttore delle carceri giudiziarie di Pisa in risposta ad un preciso quesito.

«Oggetto: richiesta di informazioni circa la possibilità di lavoro attualmente esistente per i sottoposti alla misura di sicurezza della casa di lavoro assegnati presso le Carceri giudiziarie di Pisa.
Con riferimento alla nota su indicata, si comunica che presso queste Carceri giudiziarie attualmente non esiste alcuna lavorazione gestita da imprese private mediante l'impiego della mano d'opera dei detenuti e internati qui ristretti. Infatti la Società Metallurgica Italiana, che gestiva una lavorazione per il montaggio di portalampade e loro parti, ha cessato la sua attività con il 31 dicembre 1970.
Inoltre si fa presente che non vi sono lavorazioni gestite per conto dell'Amministrazione per cui gli internati ristretti in questo Istituto, vengono impiegati solo nei servizi della casa come scopino, cuciniere, portavitti, lavandai, eccetera. Detti servizi, essendo in numero molto ridotto, riescono appena ad occupare una limitatissima percentuale di internati che ne fanno richiesta».

Circa la richiesta di revocare la licenza di lavoro concessa a D. P., andava inoltre detto, ed in effetti ho fatto rilevare al ministero, che dall'estratto della cartella biografica di detto internato era rilevabile che egli viveva in «ozio involontario». Che egli avesse voglia di lavorare era dimostrato in modo inconfutabile dal fatto che aveva inoltrato domanda per poter lavorare all'esterno e che - essendo stata accolta la sua richiesta - lavorava regolarmente da vari mesi senza dar luogo ad alcun rilievo negativo (secondo quanto riferitomi nei rapporti quindicinali dalla polizia). La finalità istituzionale della risocializzazione sembrava così posta nel miglior modo sulla via della pratica attuazione. Far rientrare l'internato in carcere solo perché il regolamento - e cioè un atto amministrativo disapplicabile dal giudice - sembrava formalmente non consentirlo, avrebbe significato far prevalere la forma sulla sostanza delle cose, la lettera sullo spirito; o, se si vuole restare ancorati al discorso concretamente giuridico, la volontà dell'esecutivo sulla finalità istituzionale espressa dalla legge ordinaria e dalla Costituzione.
Lo stesso ministero di grazia e giustizia, con circolare n. 4014/2473 del 1 agosto 1951, ha inoltre testualmente affermato:

«L'attuale regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, in vigore dal 1931, contiene disposizioni che non sembrano più rispondenti alle moderne esigenze penitenziarie [...].
Questo Ministero, pertanto ne aveva proposto la riforma che ha trovato però ostacoli insormontabili [...].
Tuttavia l'amministrazione penitenziaria, di fronte alle impellenti necessità di un miglioramento della vita carceraria "ha attuato di fatto ed in via di esperimento alcune modificazioni delle disposizioni vigenti" relative al trattamento dei detenuti; esse si sono dimostrate talmente soddisfacenti... che "inducono a perseverare nella via intrapresa"».

Quindi il ministero disapplica regolarmente il regolamento (mentre questo è vietato espressamente dalle leggi) ed invece - a dire del ministero - detto regolamento non potrebbe essere disapplicato dal giudice (mentre ciò è previsto espressamente dalle leggi). Ci troviamo evidentemente di fronte ad un vero e proprio capovolgimento di valori.

3. Dopo aver comunicato al ministero tutte le ragioni già esposte, ho ritenuto di fornirgli anche il consuntivo generale dell'esperienza delle licenze di lavoro e cioè di illustrargli gli aspetti sostanziali e pratici.
Riproduco qui parte della mia relazione in data 4 maggio 1972.

«Il consuntivo generale appare molto positivo, sì da incoraggiare la prosecuzione dell'esperienza e sì da consigliarne la generalizzazione.
Su circa 100 internati assegnati a casa di lavoro o colonia agricola presso l'istituto per minorati fisici delle carceri giudiziarie di Pisa, sono stati mandati fino ad oggi in licenza straordinaria per lavoro 58 internati. Alcuni di essi svolgono regolare attività lavorativa da molti mesi senza dar luogo a rilievi negativi: segno sicuro del loro avvio alla risocializzazione.
Questa sicurezza è avvalorata dai seguenti, ulteriori dati, estremamente confortanti:
- per n. 19 internati, la licenza straordinaria di lavoro è stata già commutata in licenza finale di esperimento al termine di un proficuo e prolungato rapporto lavorativo (4);
- n. 8 internati hanno inoltre terminato proficuamente e senza dar luogo a rilievi negativi anche la licenza finale di esperimento, sicché nei loro confronti è stata già revocata la misura di sicurezza;
- solo 3 internati su 58 hanno abbandonato il posto di lavoro, sicché nei loro confronti è stato disposto l'ordine di rientro. Percentuale bassissima, quest'ultima, ove la si compari alla media di mancato rientro e di applicazione dell'art. 214 c.p. in caso di normale licenza».

In conclusione, per la quasi totalità delle licenze di lavoro concesse, l'esperimento di risocializzazione sembra proficuamente riuscito. In 8 casi su 58 l'esperimento è già sicuramente riuscito. In altri 19 casi appare ormai probabile che riesca. In totale, 27 casi molto incoraggianti. E si tenga conto che le revoche di misura effettuate dopo un lungo e proficuo esperimento di lavoro all'esterno, non sono dello stesso genere di quelle concesse ad internati che sono vissuti quasi costantemente in stato di detenzione, magari in completo ozio, ma offrono una speranza effettiva e concreta - perché già concretamente sperimentata - di reinserimento sociale più o meno prolungato o definitivo.

4. Dopo aver inviato questa mia risposta al ministero, ho ricevuto comunicazione di un'altra lettera ministeriale, in data 1 febbraio 1972, con la quale il ministero mi ha ancora chiesto, per il tramite della presidenza della corte di appello di Firenze e della presidenza del tribunale di Pisa, di voler revocare la licenza straordinaria di lavoro concessa all'internato. In questa seconda lettera, il ministero ha osservato che, per via dei provvedimenti di licenza per lavoro la «misura di sicurezza detentiva» sarebbe stata da me trasformata in quella della libertà vigilata, commutazione che, come la revoca, può essere operata, a norma del combinato disposto degli artt. 76 c.p. e 207 c.p., dal ministero di grazia e giustizia (5). A questa seconda lettera ho risposto con una completa relazione nella quale ho osservato:

- che, pur essendo l'art. 207 ultimo comma c.p. sospetto di incostituzionalità (come da mia ordinanza già citata), non v'è dubbio che allo stato deve essere applicato, in quanto tuttora vigente;
- che appare però inconferente il richiamo all'art. 76 c.p. che, manifestamente, non ha nulla a che vedere con gli argomenti che qui interessano;
- che, comunque, non è dubbio che fino alla scadenza del periodo minimo della misura di sicurezza, il potere di «commutazione» della misura detentiva in misura non detentiva spetti solo al ministro di grazia e giustizia.

Fatte queste premesse, ho così proseguito.

«Non è vero che la licenza straordinaria di lavoro trasformi la misura di sicurezza detentiva in libertà vigilata, giacché - come si rileva dal modulo allegato - solo sul presupposto della persistenza del rapporto di lavoro e della continuità della prestazione da parte dell'internato (prestazione che, peraltro, non dia luogo a rilievi negativi), la licenza di lavoro viene quindicinalmente rinnovata. Si dice 'quindicinalmente rinnovata' perché in pratica questa è la verità. In caso di rilievi negativi, la licenza viene infatti revocata. Il che vuol dire che la misura è e resta detentiva. La condizione di libertà temporanea inerisce al sistema delle licenze (sistema tutt'altro che restrittivo, ove si riscontri il presupposto della possibilità della risocializzazione che resta lo scopo primario della misura di sicurezza così come definita non solo dalla Costituzione ma anche dalla legge ordinaria) e non è propria delle licenze di lavoro. Delle licenze di lavoro è propria solo la parziale disapplicazione del regolamento a termini della legge 20 marzo 1855, n. 2248, All. E. Le informazioni quindicinali significano che l'internato è periodicamente soggetto all'ordine di rientro.
L'analogia pratica fra la condizione dell'internato in licenza straordinaria di lavoro e quella del libero vigilato è quindi solo una analogia e nulla più.
In conclusione, e in punto di diritto e in punto di fatto, va negata la pratica coincidenza fra internato in licenza di lavoro e libero vigilato, coincidenza ravvisata invece dal ministero.
Ma, ove pure si verificasse una tal quale pratica coincidenza, non si vede perché mai questa conseguenza di ordine puramente pratico dovrebbe essere considerata tanto rilevante da portare a negligere o a pretermettere i principi costituzionali da me richiamati.
Si consideri poi che io non ho affatto invocato l'applicazione dell'ultimo comma dell'art. 230 c.p. che mi consente, 'al termine della assegnazione', di disporre direttamente e cioè senza il beneplacito del ministero, la conversione della casa di lavoro in libertà vigilata. Ove ciò avessi fatto sarei incorso in errore, visto che - come già detto - non è dubbio che fino a tale termine il potere di conversione delle misure compete solo al ministro; ma, da ciò, a voler negare, sulla base di pratiche analogie, i poteri che al giudice discendono dalle altre norme di legge - primo fra tutti quello che discende dall'art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, All. E -, ci corre e ci corre parecchio».

Ho proseguito la mia relazione dicendo:

«Naturalmente, alla base di questa strana 'controversia' - 'strana' perché vede il ministero intento a premere su di un giudice (soggetto soltanto alla legge) perché revochi i propri provvedimenti giurisdizionali - sta la contraddittorietà, incertezza ed ambiguità del sistema delle misure di sicurezza. Sistema bicipite che pretende di essere giurisdizionale pur continuando a mantenere profili amministrativi che ingenerano ogni sorta di disputa; determinando, al limite, anche frizioni o conflitti fra i poteri dello stato.
Agli argomenti addotti dal ministero (per verità molto scarsi e formali) io rispondo con altri argomenti, che mi sembrano molto più fondati. Non è detto però che questi argomenti siano definitivi o risolutivi: non solo perché nessuno può rivendicare a sé la pretesa dell'infallibilità, ma anche e soprattutto perché è nella natura stessa del sistema delle misure di sicurezza, come attualmente configurato, e cioè nella sua duplice e contraddittoria veste (amministrativa da un lato e giurisdizionale dall'altro) una oggettiva ed inesauribile fonte di dispareri e di conflitti.
Data questa situazione, appare oltremodo auspicabile ed urgente un intervento risolutivo del parlamento o della corte costituzionale che, sciogliendo i nodi delle molteplici contraddizioni, elimini in radice la fonte stessa delle controversie. Nell'attesa, non resta che la discussione e lo scambio dei punti di vista perché le divergenze, nell'ambito del possibile e nel rispetto delle reciproche competenze e autonomie, possano al massimo essere appianate. E' in questo spirito che invio la presente relazione, oltre che al ministero, e, per conoscenza, al presidente del tribunale di Pisa ed al presidente della corte di appello di Firenze, anche ad alcuni giudici di sorveglianza. La problematica sollevata dalla presente relazione interessa infatti tutti i giudici di sorveglianza che hanno responsabilità di case di lavoro, colonie agricole o manicomi giudiziari. Del punto di vista di questi giudici intenderei avvalermi ove anch'essi intendessero esprimermi il loro parere.
Invio inoltre la relazione al consiglio superiore della magistratura che, come mi ha conferito le funzioni di giudice di sorveglianza, potrà domani ancora confermarmele perché io possa continuare a svolgere dette funzioni, tanto importanti per gli interessi umani che coinvolgono, con lo stesso impegno con cui oggi le svolgo a salvaguardia dei fondamentali principi espressi dalla nostra Costituzione, primi fra tutti i principi di effettività, di libertà e di rispetto della persona umana.
Invio infine copia della relazione alla corte costituzionale per metterla a conoscenza dei gravi problemi pratici che può creare l'attuale, ambiguo e contraddittorio sistema delle misure di sicurezza, e, più in particolare, perché la corte sia in grado di prendere diretta conoscenza di come un regolamento - dichiarato tale da ben tre distinte pronunce - possa, in concreto, data la vischiosità del nostro ordinamento e la confusione dei piani e delle competenze, continuare a svolgere una indebita azione imbrigliante dell'attività dei giudici, con grave costo per la piena esplicazione dei principi costituzionali».

5. Il significato dell'invio della relazione ai giudici di sorveglianza, al consiglio superiore ed alla corte costituzionale era stato messo da me bene in chiaro:

1) ai vari giudici di sorveglianza avevo ritenuto di inviare la relazione per averne consiglio;
2) al consiglio superiore, garante dell'indipendenza di giudizio dei giudici, per averne sostegno;
3) alla corte costituzionale, già da me investita del problema di costituzionalità della misura di sicurezza, per averne un pronto intervento chiarificatore.

Ecco quali effetti hanno prodotto le mie sollecitazioni:

1) la corte costituzionale a tutt'oggi non si è ancora pronunziata;
2) il consiglio superiore mi ha rimosso dalle funzioni;
3) il ministro di grazia e giustizia mi ha sottoposto a giudizio disciplinare per avere io inviato la relazione, per conoscenza, ai giudici di sorveglianza.

Gli ultimi due interventi sono stati conclusivi e risolutivi, ma, a lato di questi interventi, diciamo così, «di vertice», vi sono state altre iniziative che occorre partitamente considerare.
Il lettore sa già che le missive ministeriali mi sono state comunicate tramite la dirigenza degli uffici giudiziari (corte d'appello e tribunale). Ciò significa che questa dirigenza non ha costituito uno schermo agli interventi dell'esecutivo. Bisogna ora verificare se detti interventi siano stati in qualche modo contrastati da altri organi dello stato. Il che serve poi per stabilire se in Italia vi sia una PUBBLICA AMMINISTRAZIONE in senso indifferenziato che si snoda per i vari ruoli e le varie competenze restando però sempre se stessa, o se sia stata invece realizzata una dialettica effettiva fra i ruoli e le competenze, secondo il concetto dello stato di diritto.
Gli interessi, o, se si vuole, i principi fra loro in conflitto risultano oltremodo chiari.
Per quanto riguarda il piano di diritto sostanziale, si è trattato di scegliere fra il principio di rieducazione e quello di prevenzione; o, se si vuole, fra il rispetto della persona umana e le esigenze di pubblica sicurezza.
Per quanto riguarda il piano, diciamo così, «formale», si è trattato invece di scegliere piuttosto che fra autonomia del giudice e subordinazione all'esecutivo, fra due modi diversi di fare il giudice.
Di fronte alle pretese dell'esecutivo io ho infatti rivendicato non solo la mia piena autonomia di giudice ma ho fornito inoltre una certa definizione della funzione giudiziaria che non risulta da tutti condivisa. Parlando di giudice come garante di libertà e del rispetto della persona umana nei confronti dell'esecutivo; parlando di giudice garante, in prima persona, del principio di effettività; parlando di giudice capace di imporre all'esecutivo le sue scelte, io ho parlato in effetti di una nuova specie di giudice che molto faticosamente si va facendo strada in Italia, non certo di quella che ci viene dalla tradizione.
Il giudice che ci viene dalla tradizione (albertina prima e fascista poi) è il giudice fondamentalmente sottomesso - per ragioni storiche e di costume - agli orientamenti dell'esecutivo. La Costituzione repubblicana ha innovato profondamente rispetto a questa tradizione; ma, come si sa, la Costituzione repubblicana è ancora quasi tutta da realizzare. Si tratta, se mai, di vedere quanta parte di essa risulti fino ad oggi realizzata. A questo fine il presente saggio offre qualche utile riscontro.

6. Faccio subito una precisazione. Tutto il discorso giuridico che io ho svolto dianzi non l'ho fatto al fine di dimostrare che la tesi ministeriale non può essere accettata perché assurda, infondata, eccetera. - Così, ad esempio, io ho cercato di fornire adeguata motivazione del punto di vista secondo il quale la licenza di lavoro non trasforma la misura di sicurezza da detentiva in non detentiva. Penso che la mia motivazione sia più ampia di quella, veramente esigua, offerta dal ministero (indice chiaro del pressappochismo della motivazione ministeriale è l'indicazione di una norma del tutto fuor di luogo, come ho avuto già cura di rilevare). In materia giuridica, dove quasi tutto è opinabile, è difficile pretendere di procedere in termini di certezze assolute; o, se si vuole, è difficile pretendere di «denudare» o di «smascherare» le pubbliche istituzioni mediante l'evidenza di un ragionamento giuridico. Io non pretendo tanto. Pretendo solo di dire che la motivazione offerta dal ministero è opinabile almeno quanto la mia.
Orbene, la corte di appello di Firenze che, come vedremo fra un momento, ha sposato la tesi ministeriale, fatta propria dalla procura generale di Firenze, e, quindi, dalla procura della repubblica di Pisa, non ha offerto maggiori argomentazioni rispetto a quelle fornite dal ministero. Ciò nonostante ha «scelto» nella medesima direzione, così come ha scelto nella medesima direzione (andando però oltre il segno) il consiglio superiore della magistratura. E' questa scelta, in definitiva, che conta, non tanto la motivazione. La carenza di motivazione vale solo a denunciare che di scelta appunto si tratta; che si tratta cioè di opzioni fondamentali le quali, per chi le vive, valgono come delle «cose ovvie» e cioè quasi come evidenze di fatto che non hanno bisogno di particolare dimostrazione.
Se io entrerò, in seguito, in puntuali ragionamenti giuridici, non lo farò quindi con la pretesa di dimostrare che ho ragione mentre altri ha torto, ma solo per dimostrare la opinabilità delle scelte, e, quindi, la «pregiudizialità» delle medesime.

7. Il capitolo che seguirà sarà dedicato ad illustrare la serie degli interventi diretti a far concludere che «la via legale per aprire il carcere» deve ritenersi invece illegale.
Il successivo capitolo sarà dedicato ad illustrare la serie degli interventi diretti a far concludere che un giudice di sorveglianza che emette licenze di lavoro - da ritenersi illegali (vedi la serie degli interventi precedente) - si comporta come non si dovrebbe comportare e quindi deve essere espulso dall'istituzione penitenziaria.
Se indugerò nella cronistoria dei singoli interventi è perché voglio mostrare in modo preciso ed articolato il concreto modo di vivere delle istituzioni: il loro intrecciarsi, il loro vicendevole sorreggersi, eccetera. Sarà così possibile stabilire, con conoscenza di causa, se vi sia e quale sia la dialettica fra i vari organi e le varie competenze.

4. "Una via processuale per chiudere il carcere".

1. "Primo intervento". Non so se su sollecitazione ministeriale, il procuratore generale di Firenze incomincia ad indagare «in periferia», e cioè nei luoghi dove gli internati lavorano, per sapere come vanno le cose. Io non vengo affatto informato di queste investigazioni; apprendo la cosa casualmente, dalla risposta data dagli organi di polizia al procuratore generale; inviata per conoscenza anche a me. Gli ignari organi di polizia non potevano certo prevedere che ad essere «indagato» era il giudice di sorveglianza.
Nello stesso torno di tempo, la procura generale mi richiede l'invio di «blocchi» di fascicoli di sorveglianza relativi agli internati in licenza di lavoro. Replico alla procura generale - che, peraltro, non ha alcuna specifica competenza in materia - che i fascicoli mi servono diuturnamente, sicché non posso inviarli in blocco senza che mi venga fornita una precisa motivazione circa le ragioni della richiesta, dell'urgenza, eccetera; dico che, se mai, posso inviare i fascicoli in fotocopia, considerato che non posso privarmi degli originali. La procura generale insiste. Si instaura, su questo punto, un braccio di ferro. La conclusione è che i fascicoli originali vengono inviati alla procura generale d'autorità, contro il mio consenso. Io resto quindi privo di molti fascicoli di internati in licenza di lavoro; anche se, com'è ovvio, gli originali sono predisposti perché restino presso la cancelleria del giudice competente. Della cosa investo il consiglio superiore che, dopo circa sei mesi, fornisce una risposta alquanto sibillina:

«Con riferimento alla nota indicata in oggetto comunico che il consiglio superiore... ha deliberato di segnalarLe l'opportunità che dei fascicoli processuali richiesti dal Procuratore Generale venga fatta fotocopia».

Da questa risposta non si ricava bene se il consiglio superiore abbia inteso darmi ragione o mi abbia dato torto; ed infatti l'espressione «venga fatta fotocopia» può essere letta nel senso «venga trasmessa fotocopia» oppure «venga trattenuta fotocopia».
Presso il tribunale di Pisa sono state sostenute «validamente» entrambe le tesi. Io continuo a pensare che il consiglio superiore abbia inteso darmi ragione almeno all'80 per cento.

2. "Secondo intervento". Su sollecitazione del procuratore generale, il procuratore della repubblica di Pisa impugna varie licenze di lavoro dopo avermi chiesto la comunicazione dei provvedimenti. Io non avevo inviato al procuratore della repubblica la comunicazione dei provvedimenti di licenza solo perché detti provvedimenti sono degli ordini di servizio, espressamente qualificati come non «reclamabili» (6). In altri termini, mentre i provvedimenti con i quali il giudice di sorveglianza applica, modifica o revoca le misure di sicurezza - chiamati dalla legge decreti - sono impugnabili, non lo sono i provvedimenti, diciamo così, di «gestione interna» della misura di sicurezza, come sono appunto le licenze.
In questo senso offre un prezioso insegnamento la corte di appello di Firenze che, con provvedimento in data 28 aprile 1972, ha testualmente affermato:

«Ritenuto:
- che la concessione di una licenza da parte del giudice di sorveglianza a persona sottoposta a misura di sicurezza detentiva... non rientra tra i provvedimenti previsti dall'art. 635 c.p.p. ... rientrando nella normale esecuzione della misura stessa come si evince anche dal disposto dell'art. 263 e 264 del Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, che distinguono i provvedimenti di cui al successivo art. 278 da quelli previsti dall'art. 635 c.p.p. e stabiliscono che i primi vengono adottati mediante ordini di servizio, anziché con decreto;
- che pertanto in relazione a tali ordini di servizio non può trovare applicazione l'art. 640 c.p.p. che disciplina il ricorso avverso i decreti emessi dal giudice di sorveglianza a norma dell'art. 635 c.p.p.;
Per questi motivi, visti gli artt.... dichiara inammissibile il ricorso».

Ci si sarebbe aspettato che la corte di appello di Firenze, pronunciando qualche mese dopo sui ricorsi proposti dal pubblico ministero contro le licenze di lavoro, avesse confermato questa stessa giurisprudenza; che, d'altronde, discende pianamente dalle norme di legge; o che, almeno, avesse spiegato qualche argomento per giustificare il mutamento di indirizzo, eccetera.
Niente di tutto questo. Investita dal problema, la corte non si è domandata affatto se il pubblico ministero avesse o no il diritto di impugnare le licenze di lavoro e se essa, in conseguenza, avesse competenza a decidere il merito della questione. E' entrata nel merito ed ha affermato che le licenze di lavoro sarebbero illegittime perché trasformerebbero la misura di sicurezza da detentiva in non detentiva. Come si vede, è la stessa tesi sostenuta dal ministero di grazia e giustizia (alla quale io ho ampiamente replicato) e fatta propria dal procuratore generale.
Vediamo ora se la corte di appello si è fatta carico della mia replica al ministero, se ha approfondito gli argomenti; se ha scelto, insomma, fra il pro ed il contro dopo accurata riflessione.
Trascrivo qui «tutta» la motivazione offerta dalla corte di appello sul merito della questione:

«Il giudice di sorveglianza... ha sostituito una misura di sicurezza con altra e ciò rientra nella sua specifica competenza funzionale, ma non ricorrevano gli estremi né di fatto (decorrenza della durata minima stabilita dalla legge), né soprattutto di diritto non essendo prevista una forma di sostituzione di quelle usate [sic!] dal giudice di sorveglianza di Pisa».

Nient'altro (7). E' vero che la corte ha cura di aggiungere: «Poiché il provvedimento impugnato manca di qualsiasi motivazione, la corte non può controbattere argomenti che non conosce». Il provvedimento impugnato non conteneva infatti alcuna particolare motivazione solo perché era un ordine di servizio (8). Gli ordini di servizio non abbisognano di particolari motivazioni, proprio perché non sono impugnabili. L'avere il pubblico ministero impugnato un ordine di servizio ha fatto sì che la corte si trovasse di fronte ad un provvedimento privo di motivazione. Ciò ha autorizzato la corte a dichiarare i miei provvedimenti illegittimi con un provvedimento sostanzialmente privo di motivazione. La mancanza di motivazione avrebbe dovuto invece indurre la corte a prendere in considerazione il problema se fosse il caso di ritenere ammissibile l'impugnazione del pubblico ministero.
Comunque, la relazione da me inviata al ministero in data 4 maggio 1972 (contenente la confutazione della tesi ministeriale) era stata mandata per conoscenza - come si ricorderà - anche al presidente della corte di appello, oltre che al presidente del tribunale; era stata inoltre da me consegnata al pubblico ministero non appena ho conosciuto la sua intenzione di impugnare i provvedimenti di licenza. Era stata mandata a tutti i giudici di sorveglianza italiani (oltre che ad ispettori ministeriali del settore penitenziario, a docenti di diritto penale, eccetera), in vista del convegno sulle misure di sicurezza detentive svoltosi a Pisa nel giugno del 1972. Era cioè ampiamente conosciuta. E, d'altronde, era stata tenuta presente dallo stesso pubblico ministero nell'atto di formulare i motivi di impugnazione, visto che nel provvedimento della corte si legge: «... dal contenuto dei motivi di gravame sembrerebbe che il giudice di sorveglianza ritenesse disapplicabile il regolamento penitenziario... ogni volta non appaia conforme a norme di legge...» Ciò nonostante, la corte non ha ritenuto di approfondire ulteriormente gli argomenti. E' entrata con decisione nel merito ed ha accolto la tesi prospettata dal pubblico ministero.
Se ho indugiato particolarmente su questa pronuncia della corte è perché, come fra poco meglio si vedrà, essa è divenuta in seguito un punto di riferimento decisivo per tutti i successivi interventi; relativi, questa volta, non più ai provvedimenti di licenza di lavoro, ma alla mia condotta di giudice di sorveglianza.
Sembra che fra le due cose vi sia un salto ed invece, nella realtà, vi è stata continuità.
Resta ancora da dire che i provvedimenti della corte di appello di Firenze sono stati anch'essi impugnati. Sulla impugnazione dovrà decidere la corte di cassazione che - almeno lo spero - dovrà prendere in pregiudiziale considerazione il problema della impugnabilità, e, quindi, della competenza della corte di appello ad annullare i provvedimenti di licenza; come dovrà decidere - ove mai ritenesse di entrare nella decisione di merito - se sia esatto o meno il punto di vista affermato dalla corte di appello, o se invece non sia esatto il mio punto di vista.
Beninteso, neanche la decisione della corte di cassazione «farà stato», come si dice in gergo curiale, oltre il caso deciso. E' interessante comunque notare che attualmente, nonostante siano intervenute autorevoli prese di posizione dirette a «valorizzare» il giudizio espresso dalla corte di appello di Firenze (di contro al mio giudizio), giuridicamente parlando, detto giudizio non vale di più di quello contenuto nei miei provvedimenti. Con questa differenza però che, allo stato, non è ancora sicura la competenza della corte di appello a conoscere e ad annullare i provvedimenti di licenza, mentre è del tutto certa la mia competenza ad emetterli.
E, con questo, non è ancora chiuso il discorso sul punto. Finora si è parlato infatti in termini puramente formali e cioè strettamente giuridici. Ora si deve invece introdurre il discorso sostanziale; il discorso che riguarda gli uomini, la loro condotta, la loro vita. Vanno cioè considerati, a questo punto, i vari «casi umani» presi in considerazione dalla corte di appello.
La corte di appello di Firenze ha preso in considerazione la vicenda di quattro internati in licenza di lavoro. In tutti e quattro i casi la licenza di lavoro ha raggiunto lo scopo che si prefiggeva. Questo aspetto della questione è stato del tutto trascurato e dal pubblico ministero e dalla corte di appello di Firenze. E' stato ritenuto «indifferente» rispetto ai problemi da decidere.
Penso sia necessario considerare i quattro casi di cui parlo, visto che essi sono in grado di offrire un preciso riscontro circa l'attendibilità dei dati da me offerti nel consuntivo generale dell'esperienza, di sopra riportato.
"Primo caso". La corte ha preso in esame il caso dell'internato M. C. al quale, con ordine di servizio del 13 dicembre 1971, avevo concesso una licenza di lavoro quindicinalmente rinnovabile fino al 14 marzo 1972. M. C. ha sempre lavorato (come risulta dai rapporti quindicinali di pubblica sicurezza costantemente favorevoli), non ha mai dato occasione a rilievi negativi sicché, con provvedimento del 14 marzo 1972, ha goduto della licenza finale di esperimento, licenza che si è protratta vantaggiosamente per l'internato. Con decreto del 18 ottobre 1972, su parere favorevole dello stesso procuratore della repubblica la misura di sicurezza gli è stata quindi revocata. Risulta così, in modo indiscutibile, che per M. C. l'esperienza della licenza di lavoro ha avuto esito positivo. In punto di diritto, va osservato che, nel momento in cui la corte di appello di Firenze ha deciso, non si è trovata più in presenza di una licenza di lavoro, ma di una situazione completamente diversa: la misura era stata infatti già revocata e quindi non esisteva più. Si trattava, se mai, di ripristinarla. Ma questo punto non era stato sottoposto affatto al giudizio della corte; ché, anzi, come si è visto, il pubblico ministero era stato d'accordo perché la misura venisse revocata.
Ciò nonostante, la corte è entrata egualmente nel giudizio di merito ed ha annullato i provvedimenti di licenza, sicché il pubblico ministero mi ha chiesto di far rientrare in carcere M. C. che era ormai un libero cittadino (come si è detto, la misura di sicurezza gli era stata già revocata) socialmente ben inserito. Mi sono rifiutato di farlo, sollevando conflitto di competenza (9).
"Secondo caso". Il secondo caso deciso dalla corte riguarda l'internato D. F. Anche D. F. ha goduto di una licenza di lavoro, anch'egli ha sempre lavorato senza dar luogo a rilievi negativi, anch'egli ha beneficiato quindi della revoca della misura di sicurezza. Con questa differenza però, che mentre la revoca di M. C. era stata concessa da me, su parere favorevole del pubblico ministero, la revoca in favore di D. F. era intervenuta anticipatamente per intervento del ministro di grazia e giustizia; naturalmente sul presupposto della buona condotta dell'internato.
Anche in questo caso, al momento di decidere, la corte si è trovata quindi non già di fronte ad una licenza di lavoro, ma di fronte ad una misura di sicurezza già revocata. Anche questa volta però la corte è entrata nel merito del giudizio per annullare la licenza di lavoro sicché, anche questa volta, il pubblico ministero mi ha chiesto di far rientrare in carcere D. F. Ho replicato come nel caso precedente.
"Terzo e quarto caso". Gli ultimi due casi decisi dalla corte riguardano F. S. e N. F. Anche a questi due internati ho concesso licenze di lavoro. Anch'essi si sono applicati con assiduità al lavoro sicché è stata loro concessa la licenza di esperimento che ha assorbito completamente la licenza di lavoro precedentemente concessa. Ciò non ha impedito però alla corte di appello di annullare le licenze di lavoro, pur se esse erano state ormai «consumate» dalle licenze di esperimento emesse in stretta applicazione del regolamento penitenziario.
In definitiva, ci troviamo di fronte a quattro casi su quattro che testimoniano la buona riuscita dell'esperienza. Quattro internati sono stati socialmente reinseriti, ma, secondo alcuni organi dello stato, sarebbero dovuti ritornare in carcere per restarvi a tempo indeterminato.

5. "Il lupo e l'agnello: cronistorie dell'espulsione di un giudice di sorveglianza".

1. "Primo intervento". Nella sua relazione inaugurale dell'anno giudiziario 1973, il procuratore generale di Firenze, collegandosi alle decisioni prese dalla corte di appello, si è espresso nei miei confronti nel modo seguente:

«Per questo, il giudice che disapplica la legge, sia pure sotto la parvenza della interpretazione evolutiva, si arroga un potere che, secondo la Corte costituzionale, non gli compete [...]. Casi molto sintomatici, a questo proposito, si sono verificati nel nostro distretto quando, con provvedimenti successivamente riconosciuti illegittimi dalla nostra corte di appello, individui sottoposti a misure di sicurezza detentiva sono stati posti in libertà senza che la legge lo consentisse. A nessuno può sfuggire la gravità di simili provvedimenti che, discostandosi dal precetto legislativo, hanno sconvolto il regime delle misure di sicurezza [...]. Si noti, tra l'altro, che allorquando si incomincia a disapplicare una legge, si provocano aspettative inquietanti, e tra gli sprovveduti si ingenera la convinzione che il giudice, se lo voglia, abbia il potere di non applicare la legge; si spiega allora come, con un paradossale capovolgimento dei valori, i magistrati prevaricatori siano spesso pubblicamente lodati...»

La replica al procuratore generale è venuta dalla sottosezione dell'Associazione nazionale magistrati di Pisa che, all'unanimità, si è espressa nei seguenti termini:

«Le pubbliche censure mosse dal procuratore generale al giudice di sorveglianza di Pisa appaiono inammissibili:
a) perché, per l'autorità da cui provengono e la risonanza che hanno avuto, sostanzialmente configurano un richiamo inflitto, fuori di ogni garanzia di difesa, da chi non dispone di alcuna potestà disciplinare sui giudici;
b) perché non è ammesso, nel nostro ordinamento, un tipo di sindacato sui provvedimenti del giudice quale quello esercitato dal procuratore generale;
c) perché i provvedimenti del giudice di sorveglianza di Pisa hanno ricevuto i controlli processuali e sono ancora "sub judice" dovendo su di essi pronunciarsi la corte di cassazione».

A questi rilievi molti altri se ne potrebbero aggiungere. Mi limito solo a considerare un altro aspetto.
Il procuratore generale ha creduto di potersi fondare, circa la pretesa illegalità dei miei provvedimenti, sulle pronunce della corte di appello - già più volte richiamate senza rendersi conto che le pronunce dei giudici «superiori» non fanno «testo» per gli altri giudici; in nessun senso, salvo il carattere di esemplarità delle pronunce della corte di cassazione (ai sensi dell'art. 65 dell'ordinamento giudiziario) e salvo l'obbligo, nei soli giudizi di rinvio, di attenersi alla massima enunciata dalla cassazione. Altrimenti, che significherebbe la soggezione del giudice «soltanto» alla legge? Pretendere che una sentenza di corte di appello - peraltro impugnata e quindi soggetta ancora al giudizio della cassazione - «faccia testo» fino al punto da segnare, per gli altri giudici, il confine fra legalità ed illegalità, significa pretendere nient'altro che essa valga come norma di legge. Ed in effetti è questo il ruolo che il procuratore generale ha preteso che svolga la pronuncia della corte di appello, solo perché ha il pregio di avergli dato ragione.
Al procuratore generale serviva, in pratica, «un titolo» su cui basarsi. In mancanza di meglio, si è servito di un titolo illegittimo.

2. "Secondo intervento". Il ministro di grazia e giustizia inizia contro di me azione disciplinare, formulando il seguente capo di incolpazione:

«CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Il Sostituto Procuratore Generale

dott. ... delegato con decreto 24/1/1973 del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione alla istruzione sommaria del procedimento disciplinare promosso con richiesta in data 30/12/1972, dal Ministro della Giustizia nei confronti del dott. Vincenzo Accattatis, giudice di sorveglianza presso il Tribunale di Pisa; visti gli artt. 27 e 32 del R.D.L. 31/5/1946 n. 511, e 59 del D.P.R. 16/8/1958 n 916;
al predetto dott. Vincenzo Accattatis l'infrazione disciplinare prevista dall'art. 18 del R.D.L. 31/5/1946 n. 511 per aver mancato ai suoi doveri, inviando ai giudici di sorveglianza presso i Tribunali di Venezia, Livorno, Modena, Viterbo, Reggio Emilia, Firenze, Santa Maria Capua Vetere, Messina e Napoli con l'intento, dissimulato dalla richiesta di volersi avvalere del loro parere, di invitare i predetti ad adottare provvedimenti analoghi a quelli da lui presi e ritenuti illegittimi dalla Corte di Appello di Firenze, copia della sua relazione datata 4/5/1972, diretta al Ministero della Giustizia, nella quale esprimeva il proprio convincimento sulla incostituzionalità della misura di sicurezza della assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro, del processo di sicurezza e degli artt. 214 e 207 ultima parte c.p., nonché sulla disapplicabilità parziale degli artt. 278 n.n. 1 e 2 e 283 del regolamento penitenziario, perché illegittimi per contrasto con la realizzazione della finalità istituzionale della misura di sicurezza detentiva espressa dalla Costituzione e dalla legge ordinaria».

In un avvio di dialogo professionale si ravvisa una intenzione sovvertitrice. Si fa il processo a questa intenzione presunta e nascosta. In definitiva, si dice (è bene cercare di chiarire il testo della incolpazione che è quasi incomprensibile): tu hai inviato la relazione per convincere gli altri e non per essere convinto dagli altri! Ma, vivaddio, che cos'è mai il dialogo se non la volontà di convincere gli altri accompagnata alla disponibilità di lasciarsi convincere dagli altri?!
Il processo alle intenzioni presunte è poi legato ad una strana pretesa, la stessa che ha guidato il procuratore generale nella sua invettiva contro di me; e cioè che il provvedimento della corte di appello, ancora «sub judice», possa valere come criterio di legalità (e cioè come norma di legge) per fondare il procedimento disciplinare ai miei danni. E che dire poi del fatto che le pronunce della corte di appello sono intervenute solo il 30 ottobre 1972, mentre io ho inviato agli altri giudici di sorveglianza la mia relazione il 4 maggio 1972! Come potevo io conoscere il 4 maggio 1972, ciò che avrebbe potuto decidere la corte di appello il 30 ottobre 1972?
La storia del lupo e dell'agnello sembra qui ripetersi in modo evidente.

3. "Terzo intervento". Il presidente della corte di appello ed il procuratore generale di Firenze, disattendendo la decisione del presidente del tribunale di Pisa e di tutti i magistrati riuniti in assemblea, propone che io venga rimosso dalle funzioni di giudice di sorveglianza.
Per quali motivi? Gli stessi già sopra enunciati: io avrei «sovvertito» il sistema delle misure di sicurezza e così via. L'iniziativa nei miei confronti parte contemporaneamente all'iniziativa contro altri magistrati italiani. La pubblica opinione si solleva. Si parla di epurazione nella magistratura. Una assemblea della sezione toscana dell'Associazione nazionale magistrati vota a stragrande maggioranza un documento che enuncia i requisiti minimi perché si possa dire che in Italia i principi di indipendenza della magistratura e di inamovibilità del giudice sono una cosa seria.
Trascrivo integralmente questo importante documento.

«L'assemblea sezionale dell'Associazione Nazionale Magistrati, riunita a Firenze il 7 dicembre 1972;
ESPRIME viva e profonda preoccupazione per le proposte di trasferimento ad altre funzioni di magistrati di questo ed altri distretti;
PRENDE ATTO delle attestazioni di solidarietà espresse ai predetti magistrati nell'ambito dei propri uffici;
RILEVA che provvedimenti del genere, ove non si verifichino le condizioni appresso indicate, possono vanificare la garanzia della inamovibilità ed attentare così all'indipendenza dei magistrati, sancita dall'art. 107 della Costituzione, là dove dispone 'i magistrati non possono essere destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio Superiore della Magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite nell'ordinamento giudiziario o con il loro consenso';
OSSERVA che tali condizioni, nel caso che non vi sia l'assenso del magistrato al trasferimento, si realizzano in linea sostanziale e processuale quando:

a) il trasferimento sia disposto per necessità organizzative degli uffici in base a rigorosi criteri oggettivi e predeterminati, e non per motivi attinenti alla attività giudiziaria (censurabile solo con i metri di impugnazione processuale) e per fatto da valutarsi in sede disciplinare con le relative garanzie di difesa;
b) il trasferimento sia proposto dai capi degli uffici interessati dopo essersi consultati con i propri collaboratori e dopo aver messo i magistrati direttamente interessati in condizione di conoscere immediatamente le ragioni delle proposte e di presentare i propri rilievi;

MANIFESTA l'esigenza che il Consiglio Superiore della Magistratura, la cui ragion d'essere è appunto l'indipendenza di tutti e di ciascun magistrato, deliberi su tutti i casi in corso e futuri alla luce dell'art. 107 della Costituzione e dei criteri suddetti, che si identificano con i profili normativi enunciati dal Consiglio stesso nella circolare del 19/11/1969; e, mediante una tempestiva comunicazione dei propri deliberati e delle relative motivazioni, tranquillizzi i cittadini che aspirano ad avere magistrati i quali, al di là o al di sopra della ragion di Stato o di esigenze contingenti servano soltanto la verità e la giustizia» (10).

Questo è certamente un nobile documento che fa onore ai magistrati italiani (11).
Il documento approvato dall'assemblea di Firenze è stato poi fatto proprio, nella sua sostanza, dalla giunta esecutiva centrale dell'Associazione nazionale magistrati (organismo che, com'è noto, riunisce quasi tutti i magistrati italiani) ed è stato inoltre approvato alla unanimità da una assemblea generale straordinaria della stessa associazione. Per evitare quella che è stata chiamata l'«epurazione della magistratura» sono state inoltrate al consiglio superiore petizioni da parte di avvocati, di docenti universitari, di amministrazioni locali, eccetera. - Sono intervenute inoltre interrogazioni parlamentari, eccetera. - L'iniziativa è stata quindi costretta a rientrare. Il consiglio superiore ha rigettato tutte le proposte di tramutamento dei giudici, tranne due; ma in uno dei due casi l'accoglimento è avvenuto con decisione tanto contraddittoria da non poter essere portata ad esecuzione. Solo per il mio caso la decisione ha quindi avuto pratica applicazione.
Quali sono state le ragioni che hanno indotto il consiglio a prendere questa grave decisione? Mai era accaduto prima che il consiglio rimuovesse un magistrato dalle sue funzioni contro la sua volontà ed al di fuori delle garanzie del procedimento disciplinare.
I magistrati riuniti in assemblea avevano dichiarato che, a loro avviso, un simile fatto non sarebbe dovuto mai accadere. Invece è accaduto, sicché si ripropone in modo pressante la domanda: quali ragioni hanno indotto il consiglio superiore a prendere la grave decisione?
Si passa così ad analizzare il quarto e più risolutivo intervento.

6. "L'intervento risolutivo del consiglio superiore della magistratura".

1. Ecco le ragioni addotte dal consiglio per giustificare la sua decisione. Le rilevo da un comunicato stampa emesso dal consiglio il 2 maggio 1973. La pronuncia è quindi intervenuta dopo circa cinque mesi dalla proposta. Ci sarebbe da aspettarsi una motivazione molto ampia e calibrata. Leggiamola.

«Il consiglio superiore della magistratura, prese in esame le richieste relative alle assegnazioni dei magistrati agli uffici del distretto della corte di appello di Firenze; ritiene che la proposta di non confermare il dottor Accattatis nell'incarico di giudice di sorveglianza del tribunale di Pisa risponde ad esigenze organizzative e funzionali di detto ufficio; sottolinea, al riguardo, che il predetto magistrato ha disposto che autori di reati, internati, in quanto socialmente pericolosi, nella sezione per minorati fisici delle carceri di Pisa, in esecuzione di misure di sicurezza, riacquistassero la libertà, attraverso la concessione di cosiddette licenze di lavoro, per un periodo di gran lunga eccedente quello massimo di quindici giorni previsto dall'art. 283 del regolamento penitenziario; rileva che tali provvedimenti, sistematicamente attuati, si traducono in una revoca anticipata delle predette misure di sicurezza, revoca non rientrante nei poteri del giudice di sorveglianza; osserva che il sistema adottato ha provocato un danno sociale, come è confermato dal fatto che alcuni dei beneficiari delle licenze sono stati coinvolti in episodi criminosi nel corso delle predette licenze».

Per ancorare il proprio provvedimento ad un minimo di consenso, il consiglio ha creduto di dover asserire di avermi rimosso dalle funzioni per «esigenze organizzative e funzionali dell'ufficio». Alle «necessità organizzative degli uffici» si erano infatti richiamati - come si è visto - tutti i magistrati riuniti in assemblea, sicché il consiglio non poteva prescindere del tutto da una simile indicazione. Va però rilevato che i magistrati riuniti in assemblea non avevano solo parlato di «necessità organizzative degli uffici» ma avevano anche posto, come seconda condizione di legittimità, che il tramutamento avvenisse «in base a rigorosi criteri obiettivi e predeterminati»; di tali criteri non è invece traccia nella delibera.
Ed ancora, quanto può dirsi appropriato il richiamo fatto dal consiglio alle esigenze organizzative e funzionali dell'ufficio? Se nel preambolo della decisione si legge questa espressione, nella motivazione viene invece precisato che la decisione viene presa per aver io concesso agli internati «cosiddette licenze di lavoro, per un periodo di gran lunga eccedente, eccetera»; licenze che, a giudizio del consiglio, sarebbero illegittime perché si tradurrebbero «in una revoca anticipata della misura di sicurezza, non rientrante nei poteri del giudice di sorveglianza». Questa, evidentemente, è una schietta valutazione sul merito dei miei provvedimenti che poco ha a che fare con le addotte «esigenze organizzative...»! Dire che un certo tipo di provvedimento «non rientra nei poteri» di un certo giudice significa, evidentemente, segnare il limite alla competenza dei giudici; significa dire ciò che i giudici possono o non possono fare, possono o non possono decidere. Significa, inoltre, predire a tutti i giudici che ritenessero di emettere provvedimenti analoghi a quelli «censurati» dal consiglio, che non possono emetterli, pena la loro rimozione dalle funzioni. Vuole il caso però (lo abbiamo già detto) che sulla legittimità dei provvedimenti di licenza deve ancora pronunciarsi la corte di cassazione. «Che cosa farà la Cassazione, - si domanda «Politica del Diritto», - solleverà conflitto di attribuzioni fra i poteri dello Stato? non terrà alcun conto della 'sentenza' del consiglio superiore considerandola illegittima per straripamento di potere? oppure dichiarerà cessata la materia del contendere» (12). Si chiede invece «Qualegiustizia»: «Che farà la Cassazione? Se i sette membri del collegio giudicante dovessero dar ragione al giudice di sorveglianza correrebbero il rischio di essere trasferiti al civile?» (13). Ed io mi chiedo: come possono essere modificate le pronunce della corte di appello di Firenze visto che su di esse si è basato il procuratore generale di Firenze per chiamarmi pubblicamente giudice prevaricatore; su di esse si è basato il ministro di grazia e giustizia per mettermi sotto procedimento disciplinare; su di esse si è basato il consiglio superiore per rimuovermi dalle funzioni (andando però molto oltre il segno indicatogli dalla corte di appello)? Far cadere le pronunce della corte di appello significherebbe far cadere tutto questo mastodontico castello; significherebbe cioè sconfessare il procuratore generale, eccetera.
Ma ritorniamo alle affermazioni di merito fatte dal consiglio superiore della magistratura: che fondamento può attribuirsi all'affermazione secondo la quale io, mediante i provvedimenti di licenza, avrei revocato anticipatamente le misure di sicurezza?
Certamente nessuno. Com'è stato giustamente rilevato:

«... delle licenze di lavoro si può dir tutto, tranne che si traducano in una revoca anticipata della misura di sicurezza. La revoca anticipata è qualcosa di simile alla grazia: il ministro, una volta che l'abbia concessa a norma dell'art. 207 ultima parte c.p., non può più tornarci sopra e ci vorrà un nuovo provvedimento giudiziario per far rientrare il beneficiato in carcere. Viceversa, con la licenza di lavoro, l'internato viene soltanto ammesso a lavorare fuori dallo stabilimento, quando la possibilità di svolgere un'attività lavorativa manchi all'interno e sia invece già garantita all'esterno; la persistenza del rapporto lavorativo è condizione essenziale del perdurare della licenza, che può essere immediatamente revocata dal giudice di sorveglianza qualora l'autorità di pubblica sicurezza, obbligata a riferire quindicinalmente sulla condotta dell'internato, comunica che questi non lavora più o ha comunque trasgredito alle prescrizioni impostegli; e se poi l'internato in licenza si rende irreperibile o comunque si sottrae volontariamente all'esecuzione della misura di sicurezza, ecco scattare la gravissima sanzione di cui all'art. 214 c.p., applicata dallo stesso giudice di sorveglianza che ha concesso la licenza: il periodo minimo di durata della misura ricomincia così a decorrere daccapo dal giorno in cui l'internato viene arrestato» (14).

D'altronde, la tesi del consiglio appare del tutto «singolare» visto che neanche la corte di appello di Firenze ha parlato di revoca, ma, come si è visto, di trasformazione della misura da detentiva in non detentiva. Si vede qui, chiaramente, come non siano le precise motivazioni giuridiche a contare. Ciò che vuol dire in definitiva il consiglio è questo: il giudice di sorveglianza ha fatto una cosa che turba la normale gestione del carcere; ha fatto una cosa che non è tollerata dall'amministrazione penitenziaria, quindi deve essere rimosso dalle funzioni.
Per rendersi meglio conto che proprio questa è la vera motivazione, basta considerare che cosa ha detto il consiglio del giudice di sorveglianza supplente dottor Paolo Funaioli. Ha detto che il dottor Funaioli poteva continuare a svolgere le funzioni di giudice di sorveglianza visto che aveva concesso una sola licenza di lavoro «non suscettibile di creare permanenti situazioni di disagio organizzativo nell'amministrazione penitenziaria». E' questa, in effetti, la vera motivazione espressa dal consiglio. Io sono stato rimosso perché, con le licenze di lavoro, ho creato «permanenti situazioni di disagio organizzativo nell'amministrazione penitenziaria». Fra il disagio dell'amministrazione penitenziaria e le ragioni che mi hanno mosso a concedere agli internati le licenze di lavoro, il consiglio ha scelto mettendosi «dalla parte» dell'amministrazione penitenziaria. E' stata questa la sua vera scelta.

2. Restano ora da fare alcuni rilievi circa il preteso «danno sociale» che il consiglio pretende sia stato provocato dagli internati in licenza.
Con riferimento all'esperienza pisana non mi risulta affatto che si sia verificato alcun particolare danno sociale; mi risulta invece con certezza - e credo di aver fornito di sopra precisi riscontri - che molti internati, per via delle licenze di lavoro, si sono socialmente reinseriti. D'altronde, quando il legislatore ha predisposto il sistema delle licenze ha dato per scontato che qualche «danno sociale» potesse verificarsi. La logica del «danno sociale», concepita come la concepisce il consiglio, porterebbe a far regredire e non a far progredire il sistema delle misure di sicurezza perché, al limite, per eliminare ogni pericolo di danno, occorrerebbe eliminare ogni tipo di licenza. A questa conseguenza non è arrivato neanche il legislatore del 1931 e non possiamo certo arrivare noi nel 1973,

«La concessione delle licenze - dice la Relazione sul regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena al n. L X I X - ... è connaturale ad ogni istituto di rieducazione e di riadattamento, sia perché attenua quell'afflittività, che è elemento non voluto, ma inseparabile dallo stato di detenzione, il quale qui è mezzo e non fine, sia perché offre la possibilità di provare, al vaglio delle difficoltà e dei pericoli della vita libera, i risultati dell'opera di rieducazione e di cura, cui è stato l'internato sottoposto... Senza dubbio - prosegue la relazione - la concessione della licenza può presentare qualche pericolo, se non è preceduta da accurato esame sulle condizioni dell'internato e non è seguita da controllo sul modo come viene trascorsa. Ma a ciò provvedono gli artt. 278 e 279 del regolamento».

Alla misura di sicurezza non è quindi connaturale la detenzione, che rappresenta, se mai, una «dura» necessità anche per il legislatore del 1931 (che è «mezzo» e non «fine», come dice la relazione citata), ma è invece connaturale lo scopo della risocializzazione ed è quindi connaturale la concessione delle licenze. Gli artt. 278 e 279 configurano solo dei limiti di natura amministrativa che possono essere superati dal giudice in applicazione delle norme di legge (art. 5 legge 20 marzo 1865, n. 2248, All. E), e, prima di tutto, delle norme costituzionali.
In conclusione, la logica del «danno sociale», fatta propria dal consiglio superiore della magistratura, non può essere in alcun caso accettata. Contro questa logica deve invece valere quella del rispetto della persona umana, che è poi la logica della Costituzione.


I I.
LA LOGICA DEL SISTEMA CARCERARIO ITALIANO.

1. "Le mie colpe nei confronti dell'amministrazione penitenziaria".

Come si è visto:

- il ministero ha espresso la tesi che le licenze di lavoro avrebbero trasformato la misura di sicurezza da detentiva in non detentiva;
- il pubblico ministero ha fatto propria questa tesi e la ha sostenuta davanti alla corte di appello;
- la corte di appello l'ha fatta propria e ha dichiarato quindi illegittimi i miei provvedimenti, senza neanche porsi il problema se avesse competenza a decidere.

Sulla pronuncia della corte di appello ha fatto leva:

- il procuratore generale per potermi chiamare pubblicamente giudice prevaricatore;
- ancora il procuratore generale ed il presidente della corte di appello per proporre al consiglio superiore la mia rimozione;
- il ministro di grazia e giustizia per iniziare nei miei confronti procedimento disciplinare.

Ed ecco allora come una iniziativa, partita dal ministero, è ritornata ancora al ministero; dopo essersi caricata, per strada, di «valore legale».
Si è visto anche che la vera ragione per la quale il consiglio superiore ha deciso di rimuovermi dalle funzioni è una ragione di carattere amministrativo. "In altri termini, la PUBBLICA AMMINISTRAZIONE non ha tollerato che nella istituzione penitenziaria continuasse ad operare «un tipo come me». Questa mi sembra la verità di fondo che emerge da tutta la vicenda".
A questo punto si pone allora la domanda: perché la PUBBLICA AMMINISTRAZIONE non ha tollerato che nella istituzione penitenziaria continuasse ad operare «un tipo come me»? In altri termini, quali sono state le mie «colpe» nei confronti dell'amministrazione penitenziaria? Non parlo delle mie colpe, diciamo così, di carattere giuridico e formale: abbiamo già visto che non ce ne sono o devono ritenersi quanto mai discutibili; mi riferisco alle mie colpe di carattere «sostanziale» e cioè alle mie «vere colpe».
Se sono stato espulso (questo fatto è certo) vuol dire che ho commesso delle gravi colpe; se queste colpe non sono di carattere giuridico e formale, vuol dire che sono di altro genere. Bisogna cercare di individuarle. questo il problema che resta da analizzare.

2. "La funzione ideologica del giudice di sorveglianza".

1. Per cercare di individuare quali sono state le mie «vere colpe» nei confronti della istituzione penitenziaria, è necessario preliminarmente considerare quale sia la funzione svolta dal giudice di sorveglianza nella istituzione penitenziaria.
Il giudice di sorveglianza svolge, nel nostro ordinamento, una funzione eminentemente ideologica, inteso il termine nell'accezione marxiana. Egli serve alla istituzione penitenziaria soprattutto per fornirle una copertura garantistica: il nostro sistema penitenziario è infatti garantista solo perché vi è il giudice di sorveglianza - e cioè la magistratura - che vigila sulla esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza. Se non vi fosse, il nostro sistema penitenziario non sarebbe garantista.
In altri termini, il giudice di sorveglianza serve a fornire una copertura ad un certo tipo di gestione penitenziaria che nella sua sostanza rimane autoritaria ed affidata al potere esecutivo giacché nelle carceri italiane, ancor oggi, il potere che conta realmente, il potere che ha pratica incidenza, il potere effettivo, è interamente nelle mani dell'amministrazione. I giudici di sorveglianza sono pochi, sono oberati di altro lavoro, non hanno il tempo materiale di adempiere le funzioni cui sono chiamati; praticamente non le adempiono o le adempiono molto male. Quasi sempre i giudici mancano di poteri di incidenza reale (15). Data questa situazione, i giudici di sorveglianza servono solo per garantire la «parvenza di un controllo», non un controllo reale. La «parvenza del controllo» è veramente necessaria all'istituzione perché «occorre» si dica che un controllo giudiziario c'è, che c'è un giudice che vigila sulla esecuzione della pena e della misura di sicurezza. Perché, in altri termini, si dica che l'esecuzione avviene sotto le opportune garanzie. Ma le garanzie non si vogliono. Esse devono solo apparire. Se l'operatore penitenziario prende sul serio la sua «apparenza» e vuole che diventi «sostanza»; se cioè prende sul serio «i principi» che governano «in teoria» la sua funzione - ed è questo, in definitiva che ho cercato di fare io - e vuole che diventino realtà, l'istituzione reagisce contro di lui e tende ad emarginarlo e ad espellerlo; dimostrando così che ciò che essa effettivamente vuole è solo l'apparenza, non la sostanza della garanzia giuridica.
Siamo così in grado di intendere la prima grave colpa di cui mi sono macchiato nei confronti dell'amministrazione penitenziaria.
"La mia più grave colpa, veramente imperdonabile, è stata quella di essermi attivato e cioè di non essere rimasto passivo strumento di copertura dell'amministrazione penitenziaria".
Colpa ancora maggiore, naturalmente, è stata quella di avere - nientemeno! - preteso di imporre il mio punto di vista all'amministrazione. Questo atteggiamento, che nel mio linguaggio chiamo di «autonomia», è stato considerato dall'amministrazione come «atto di insubordinazione» che andava «in ogni caso» sanzionato, perché non si ripetesse (si veda l'atto di incolpazione da cui emerge chiara la preoccupazione che il mio atteggiamento potesse avere «diffusività»).
I giudici che pretendono «imporre» i loro punti di vista all'amministrazione penitenziaria, dove mai si sarebbe arrivati!
Dal punto di vista dell'amministrazione, si è trattato di un vero e proprio «atto sovversivo». Ecco perché essa ha reagito con tanta energia coinvolgendo nella sua azione numerosi organi dello stato.

2. In un articolo pubblicato qualche tempo fa su «Le Monde», Maurice Duverger ha sostanzialmente affermato che solo che i magistrati prendano coscienza del potere che hanno e si decidano ad esercitarlo, le libertà possono trovare sufficiente tutela ed il potere amministrativo sufficiente controllo. In altri termini, secondo Duverger, il potere giudiziario rinuncia a svolgere la funzione garantistica che potrebbe e dovrebbe svolgere.
Penso invece che i magistrati hanno un ampio potere di controllo solo ove di fatto rinunzino ampiamente ad esercitarlo. Vedo, in altri termini, nel non esercizio della funzione garantistica da parte dei magistrati non una loro mancanza di consapevolezza o di determinazione - perché anche questa mancanza, sociologicamente, deve trovare la propria spiegazione - ma l'accettazione, da parte loro, della propria reale funzione che è in parte ideologica; e cioè in concreto non praticata solo perché non praticabile.
Duverger mostra di far coincidere la funzione garantistica astrattamente enunciata con il potere reale che hanno i giudici, con ciò obliterando completamente quella che è la funzione ideologica delle istituzioni.
Se i magistrati non esercitano fino in fondo i loro poteri ciò in parte si verifica perché essi sono sostanzialmente solidali con l'area generale del potere che essi dovrebbero controllare, ma in parte si verifica anche perché, per antica esperienza, essi conoscono bene l'ambito dei loro poteri reali e sanno ben distinguerlo da quella più vasta area che in astratto potrebbe essere praticata ma che, in concreto, non è lecito, e, comunque, non è prudente praticare.
In altri termini, i magistrati conoscono l'area del loro potere reale e l'area della loro funzione ideologica e le accettano entrambe. Naturalmente il problema, preso nella sua interezza, è molto più complesso. Lo spazio di agibilità «reale» del potere giudiziario (contrapposto a quello ideologico e mistificatorio) dipende da molti fattori, ma prima di tutto dipende dal generale equilibrio della società. In una società «democratica» e cioè in una società in cui vi sono varie forze contrapposte in equilibrio instabile fra loro (organizzazioni imprenditoriali ed organizzazione dei lavoratori; partiti di destra, di centro e di sinistra, eccetera) gli spazi di agibilità del giudice sono evidentemente molto maggiori che nella società monolitica e dittatoriale.
Quindi, il primo presupposto perché il giudice possa agire è che vi sia nella società un certo tipo di equilibrio di poteri reali e cioè di forze sociali. E' questo (certo tipo di equilibrio) in definitiva, la fonte del «contropotere» dei giudici e cioè dell'esercizio di un potere giudiziario orientato in funzione di garanzia delle libertà dei cittadini, di controllo dell'esercizio di potere della classe dominante, eccetera.
Se oggi in Italia vi sono dei «pretori di assalto», non è certo per caso né perché vi sono dei giudici che hanno finalmente preso coscienza del loro potere e cioè della possibilità che hanno di esercitare il loro potere anche in funzione garantistica. Bisogna infatti domandarsi perché mai solo oggi questi giudici hanno preso coscienza di detta possibilità e sono determinati a sperimentarla. E la risposta non è difficile. Ciò accade, evidentemente, perché la crescita della presenza alternativa delle organizzazioni democratiche (sindacati, partiti di sinistra, eccetera) fa da supporto all'esercizio alternativo del potere da parte dei giudici; sebbene questo esercizio - come la mia personale vicenda dimostra - sia ancora molto incerto e precario.
Insomma, la «nuova coscienza» dei giudici fa tutt'uno con la crescita democratica della società, è cioè piuttosto effetto che non causa del maturare in senso democratico dell'intera società.

3. "La logica dell'emenda".

1. Un'altra colpa grave di cui mi son macchiato nei confronti dell'amministrazione penitenziaria è la seguente: ho avuto il torto di considerare i condannati - e, in particolare, gli internati - soggetti e non oggetti. Li ho considerati cioè persone capaci di rivolgere delle «domande», di avanzare delle «pretese» nei confronti dell'amministrazione penitenziaria.
Ora è ben noto che fra il condannato e l'amministrazione non si instaura un rapporto «reciproco», da soggetto a soggetto, da persona a persone; si instaura invece, tradizionalmente, un rapporto «non reciproco» per il quale l'amministrazione può esigere «tutto» dal condannato (le ispezioni anali, eccetera sono riti di iniziazione finalizzati in questa precisa direzione), mentre il condannato non può richieder nulla. Non ha «diritto» a nulla. Se qualcosa gli viene concessa è solo a titolo «grazioso» ed egli deve sempre ringraziare per quel tanto che si fa per lui.
"E' questa la logica profonda che vive nell'istituzione penitenziaria. E' la logica della emenda", che risale all'antica tradizione della chiesa.
E' contro questa logica, in definitiva, che deve ergersi, in modo «sovversivo» quella del rispetto della persona umana.
"La mia seconda grave colpa nei confronti della amministrazione penitenziaria è stata quindi quella di aver portato avanti la logica liberatrice del rispetto della persona umana" (che fa capo, come si è visto, alla più profonda ed autentica tradizione cristiana) "contro quella reificante della emenda".

2. Occorre ancora insistere sulla logica della emenda, visto che essa è - come abbiamo visto - la logica più profonda dell'amministrazione penitenziaria.
Occorre ancora dire, in proposito, che questa logica non solo presiede alla esecuzione della pena ed orienta l'opera «educativa» dell'amministrazione penitenziaria, ma orienta e fonda tutto il diritto penale.
Il concetto di emenda muove infatti dal presupposto che l'«agente» del delitto sia il singolo individuo: egli ed egli solo è il «colpevole» del mal fatto. Fra «evento» delittuoso, «azione» ed «agente» si instaura un «nesso di causalità» ed in questo nesso vive il delitto come «ente» a sé. Ente prodotto dalla «libera volontà». In tal modo è reciso ogni nesso «eziologico» fra delitto e società. Ciò significa, fra l'altro, che «la società» non è responsabile in alcun modo del delitto; essa è «innocente», come innocenti sono tutti i cittadini che fanno parte della società. La società non è in alcun modo «causa» del delitto, essa «si difende» dal delitto, e provvede poi a «redimere» il reo secondo i precetti morali ed educativi impartiti dalla scuola e dalla chiesa. La società quindi, di fronte al delitto, si autoerige come «ente morale» e cioè come stato. Essa reagisce al male (sanzione, pena) ma a fin di bene (rieducazione). Mediante questo tipo di operazione, non solo le cause sociali del delitto (emarginazione, disoccupazione, spinte culturali della società dei consumi, eccetera) vengono tutte messe fra parentesi ed annullate (per giocare, tutt'al più, il ruolo di «attenuanti»; quando non giocano in concreto quello di aggravanti), ma la società si scarica di ogni responsabilità.
Ma come può accadere che la società si scarichi delle proprie responsabilità? Questo problema è molto vasto e generale. Per restare nei limiti del nostro discorso, pare solo utile richiamare la particolare responsabilità culturale che si sono assunte due scuole giuridiche ancor oggi molto celebrate: la cosiddetta scuola classica e la scuola positiva. La prima ha svolto il ruolo di continuare a sostenere il carattere individuale della responsabilità, mentre la seconda si è assunto il più importante e grave compito di liquidare la problematica marxista, riducendola a delle conclusioni antropologiche.
Secondo l'impostazione marxista, dal delitto occorre risalire alla società. La scuola positiva si è incaricata di bloccare questo processo fermandolo sull'«uomo delinquente». Il delitto è stato così visto come frutto di «spinte» che stanno a monte delle determinazioni della «libera volontà». Solo che queste spinte non sono state «localizzate» nella società, ma nella «natura» (organica, psicologica, eccetera) dell'«agente». L'ulteriore passaggio dall'«agente» alla «società» è stato così ostruito.

3 . Ma se questa è la logica «rieducativa» espressa dall'amministrazione penitenziaria, come deve intendersi quella espressa dalla Costituzione? L'art. 27 della Costituzione parla di rieducazione, ma l'art. 3 parla di «sviluppo» della persona umana. Come deve intendersi quindi il concetto di rieducazione alla luce dell'esigenza di non reprimere ed oggettivare ma di sviluppare la personalità umana dei condannati? Evidentemente deve intendersi nel senso che la istituzione penitenziaria dovrebbe preparare il recluso a divenire membro attivo e onesto della società. Ma il recluso, normalmente, non è che un sottoproletario disoccupato o sottoccupato (sono milioni, in Italia, i disoccupati ed i sottoccupati), che ruba o truffa per vivere. Come fare per farlo divenire un membro attivo ed «onesto» della società? «Educandolo» a lavorare? Ma se nella società non vi è lavoro, a che fine educarlo a lavorare? Forme reali di «rieducazione», pratiche di «probation», eccetera sono pensabili solo in regime di piena occupazione (quando l'industria «va a cercare» la propria manodopera finanche nei manicomi o nelle carceri, e tende quindi a «portar via» la manodopera dai manicomi e dalle carceri). In ogni caso, in situazioni sociali diverse da quelle che esistono in Italia. Ed ecco allora che l'istituzione penitenziaria si conforma «spontaneamente» alle reali dinamiche sociali, e cioè alle ragioni «strutturali» della società, invece che alle ragioni «formali» della Costituzione. Ecco perché, al di là delle «astratte» enunciazioni di principio, essa tende ad un solo pratico risultato: indurre il recluso ad accettare la propria ineliminabile condizione di esclusione. Indurlo ad accettarla come cosa inevitabile e fatale.
Se il recluso è un escluso, se è un sottoproletario, egli non lo è per libera scelta ma perché la società produce esclusi e sottoproletari.
Ma se la situazione dell'escluso è bloccata in quanto all'esclusione, la situazione del recluso non può non essere bloccata in quanto alla reclusione. "L'istituzione, insomma, deve favorire l'accettazione, da parte del recluso, della propria condizione sociale, quale che sia. Il carcere deve tendere a questo: a ridurre il recluso alla passività perché l'escluso possa essere ridotto ad accettare la propria esclusione". Ed ecco allora che l'istituzione favorisce la presenza di operatori che spingono l'escluso-recluso alla cristiana rassegnazione, mentre tende ad espellere gli altri operatori.
Ha detto il cardinale Ursi al Convegno della pastorale carceraria, svoltosi a Napoli nei giorni 20-23 ottobre 1970, che sono «solo centinaia quelli che hanno la fortuna di andare in carcere, perché al carcere vengono messi in condizione di rinascita, di rinnovamento [...]. I detenuti, invero, sono coloro che sono caduti nella rete del Pescatore, cioè del Cristo» . Ed ancora: «Vi confido che quando mi è dato di entrare negli istituti di prevenzione e di pena io cammino tra quelle celle per un pellegrinaggio dello spirito, e penso che in un certo senso, quei poveri fratelli reclusi sono i più fortunati, i chiamati alla vera libertà, alla rinascita, alla santità cristiana [...]. A me piace, parlando dei fratelli reclusi, chiamare l'istituto di pena non carcere, ma la santa casa della rinascita umana e cristiana».
I reclusi, e, quindi, gli «esclusi», sono i «più fortunati», perché...
Ecco qual è la logica della emenda. Ecco qual è la forma di «rieducazione» congeniale all'istituzione penitenziaria, e, prima ancora, alle reali dinamiche sociali. Non a caso nelle carceri la religione ha una posizione eminente come forma educativa. La logica della emenda rappresenta una costante della tradizione educativa della chiesa, quella costante che fa sì che la chiesa continui in generale a svolgere un ruolo di conservazione nella società.

4. Abbiamo visto che, parlando in generale, non c'è lavoro nelle case di reclusione. Può accadere inoltre - anche questo abbiamo visto - che non vi sia lavoro, neanche in una «casa di lavoro». Abbiamo visto infine «perché» non vi è lavoro nelle case di reclusione. Quando il lavoro c'è, è perché vi sono delle industrie che cercano nel carcere manodopera a basso prezzo per tipi di lavorazioni che hanno bisogno di largo impiego di manodopera non specializzata. «L'ergoterapia carceraria» è insomma subordinata alle esigenze della società industriale.
Ma la problematica relativa al lavoro carcerario non si esaurisce qui; essa è invece molto ricca, anche se ancor oggi poco esplorata. Il lavoro carcerario ha infatti una storia cui vale la pena accennare.
All'inizio, e cioè con il sorgere della società industriale - quando i contadini venivano espulsi dalle campagne per essere convogliati nelle fabbriche come manodopera a basso prezzo (16) - il lavoro carcerario aveva una effettiva funzione «educativa». Anche allora però vi era una larga parte di mistificazione; vi era cioè una «ideologia» del lavoro carcerario. Ed infatti, gli «oziosi e vagabondi» che venivano rinchiusi in carcere per essere «rieducati» mediante il lavoro, erano, per larga parte, persone prive di posto di lavoro solo perché la società non aveva «a sufficienza» posti di lavoro. L'offerta di manodopera, ieri più di oggi, superava largamente la domanda. Quindi si trattava di persone che vivevano in «ozio forzato» (per avere un indice quantitativo di questo «ozio forzato» basti pensare ai milioni e milioni di lavoratori emigrati all'estero in cerca di lavoro). La giustificazione ideologica dell'internamento consisteva però nel far passare l'«ozio forzato» come «ozio volontario». Per tale via, la società si assolveva da ogni responsabilità, scaricandola sul singolo
Oggi il lavoro carcerario non soddisfa più - lo abbiamo visto prima - la logica della «educazione al lavoro», soddisfa solo il secondo tipo di logica: quella ideologica. Si tratta, in altri termini, della grande mistificazione del lavoro che non c'è (nella società e quindi nel carcere) mentre deve apparire «come se» ci fosse e cioè «come se» dipendesse dalla «scelta individuale» (anche qui!) di Tizio o Caio lavorare o non lavorare.
Giustamente i detenuti, nel corso delle loro proteste hanno asserito:

«Il carcere deve essere luogo di rieducazione... dunque l'impegno fondamentale deve essere rivolto a rendere effettivo il diritto dei detenuti ad un lavoro qualificato... dunque officine e lavoro artigianali mentre a Rebibbia non esiste nulla né una macchina né un tornio» (17).

Chi punta sul lavoro nelle carceri, punta su di una contraddizione oggettiva e cioè tende a far emergere, al di sotto della mistificazione, la effettiva realtà che vi si nasconde.
Si consideri un'altra misura di sicurezza, quella non detentiva della «libertà vigilata». Fra le prescrizioni che si impongono al libero vigilato vi è sempre quella di darsi a «stabile lavoro». Ora ve lo immaginate un «pregiudicato», circondato dalla «naturale» diffidenza e per di più costantemente sottoposto a vigilanza di polizia, che riesca a trovare «stabile lavoro», magari in un periodo di recessione economica - come quella attuale - capace di creare un altro milione di disoccupati?! La prescrizione di darsi a «stabile lavoro» gioca, evidentemente, solo un ruolo mistificatorio e cioè quello di «far apparire» «come se» l'ozio e quindi la delinquenza fossero «scelte volontarie». A questo punto lo stato può intervenire come «ente morale» per reprimere il male (che, come diceva Kant, e, ancor prima, sant'Agostino, è sempre frutto della «libera volontà») a fin di bene. A fin di bene? Sì, al fine di rieducare, mediante il lavoro. E così si ricomincia.

5. In definitiva, alla domanda: ma che cosa deve fare l'emarginato, il disoccupato, eccetera quando, uscito dal carcere, dopo essersi emendato, ritorna allo stato di disoccupazione, di emarginazione, eccetera visto che lo stato non si preoccupa affatto di trovargli un lavoro e di toglierlo dalla condizione di emarginazione? Le istituzioni, come la chiesa, che seguono la logica dell'emenda, non hanno altra risposta da dare che questa: deve rassegnarsi; il che, se non significa un invito al misticismo, significa un invito alla passività. Ed in effetti la logica dell'emenda procede proprio «come se» il risultato dell'accettazione potesse essere conseguito per via spontanea, «in modo che» esso possa essere invece conseguito per via repressiva. L'eventualità della spontaneità gioca, in altri termini, anch'essa un ruolo ideologico, giacché vale a legittimare moralmente la realtà repressiva.
Ovviamente, non è che le istituzioni «scelgano» di essere autoritarie invece che democratiche: la scelta è implicita nella struttura sociale. In definitiva, ciò che accade nel carcere non è diverso da ciò che accade in generale nella società. Le scelte emergenti dalla logica strutturale della società (per il carcere: l'esigenza che il recluso sia costretto ad accettare la propria condizione sociale, quale che sia) vengono sempre imposte ai cittadini come imperativi categorici (è questa la più profonda verità «strutturale» che - a mio avviso - emerge dalla morale kantiana). Imperativo categorico significa: risultato che deve essere conseguito «in ogni caso e con tutti i mezzi». Ora, nei confronti del comando che esprime l'imperativo categorico vi può essere adesione spontanea (nella società capitalistica: classi privilegiate e parassitarie) e consenso coatto e mistificato (classi sfruttate, emarginati, reclusi). In definitiva, nella società capitalistica (18) le pubbliche istituzioni sono costrette a reggersi in gran parte sul consenso coatto e mistificato e cioè sull'autoritarismo, mentre solo in minima parte possono reggersi sul consenso spontaneo e cioè sull'autentica autorità (19).
Sarebbe peraltro molto strano che il processo di manipolazione e di coazione che esiste nella società non si «esprimesse» anche nel carcere. Se nella società la logica della spontaneità e del consenso viene in pratica rifiutata per ragioni strutturali, per le stesse ragioni è rifiutata dal carcere.
Si ritrova così, per altra via, una verità già acquisita: in una società dove vi è emarginazione ed esclusione la logica carceraria non può essere diversa da quella che è e cioè non può non proporsi l'obiettivo di garantire l'accettazione, da parte degli esclusi, e, quindi, dei reclusi, di detta società «così come è». Il carcere rappresenta, in definitiva, l'«estremo» tentativo per realizzare questo tipo di «rieducazione»; naturalmente, con la collaborazione della scuola (istruzione) e della chiesa (religione).
La famiglia, in questo momento, viene esclusa: essa, evidentemente, ha fallito in modo irrimediabile la sua funzione di integrazione sociale.

6. Che l'effettivo sviluppo della personalità dei reclusi sia guardato dall'istituzione penitenziaria con estremo sfavore è poi dimostrato da un fatto molto eclatante e significativo: i detenuti vanno prendendo sempre più coscienza della loro condizione e perciò, nella misura in cui reclamano i loro diritti organizzando proteste collettive, eccetera si affermano come soggetti di diritto superando nel contempo la loro chiusura individualistica ed egoistica, che è una componente quasi costante del «delitto» (parlo, evidentemente, del delitto cosiddetto «comune», non già del delitto politico che scaturisce da tutt'altra matrice psicologica). Il delitto è infatti molto spesso il tentativo, da parte del soggetto, di risolvere il problema della esclusione sociale mediante una scelta egoistica di carattere individuale. Il «delinquente» (ed è questa la sua vera «infelicità», perché, per questa parte, è proprio figlio della società contro cui reagisce) non lotta assieme ad altri per cambiare le cose e cioè per cambiare, con proprio personale sacrificio (è questa invece la matrice del cosiddetto «delitto politico»), le condizioni sociali dell'esclusione; ma cerca solo di risolvere il proprio personale problema, magari ai danni di un altro escluso (si pensi, ad esempio, allo sfruttamento della prostituzione). La presa di coscienza sociale, la «lotta» insieme agli altri reclusi, è quindi superamento della «chiusura» individualistica, e, quindi, è superamento della matrice psicologica del delitto (20). Orbene, come ha reagito l'istituzione a questa presa di coscienza politico-sociale? L'ha ritenuta il maggior pericolo sicché ha reagito con la più dura delle repressioni. Il ministro dell'interno ha pensato finanche di mobilitare l'esercito: iniziativa che deve essere apprezzata per la sua coerenza; ed infatti se dal delitto comune si passa all'iniziativa politica, dalla repressione carceraria deve evidentemente passarsi, non foss'altro che per ragioni di competenza, a quella militare.

7. Ma l'addomesticamento e la repressione, anche per i detenuti, non sempre avviene in forme violente e vistose, talvolta avviene in forme sottili e molto complesse.
Una delle forme più sottili è il particolare rapporto che si instaura fra l'operatore penitenziario ed il recluso. L'operatore penitenziario, come singolo, non ha alcuna responsabilità, di fronte ai reclusi, circa l'andamento generale della gestione penitenziaria. Anch'egli, in certo senso, è una vittima; anch'egli subisce le costrizioni e le impossibilità ambientali: edifici inadeguati, carenza di mezzi, eccetera. Reclusi ed operatori penitenziari dopotutto convivono insieme e condividono le medesime restrizioni; che vengono vissute però dagli operatori come scelte indiscutibili che stanno a monte della loro responsabilità personale. E' questa la logica della «subordinazione» dell'operatore rispetto all'istituzione e cioè rispetto alla gerarchia «superiore». «In forza» di questa subordinazione, l'operatore singolo si presenta di fronte al recluso come «innocente», sicché può «spendere» questa innocenza a sostegno dell'istituzione: nel senso cioè di bloccare - a livello di un discorso da persona a persona, da uomo ad uomo - le legittime pretese dei reclusi.
In un certo senso, l'operatore chiama il recluso «a farsi carico» della sua impossibilità ad operare in una determinata direzione; in nome della propria innocenza di operatore, lo chiama a star buono, a non metterlo in condizioni difficili, eccetera.
E' un po' il discorso che veniva fatto agli studenti nel 1968-69: perché ce l'avete coi poliziotti? Anch'essi sono figli del popolo, anch'essi sono proletari che si guadagnano da vivere. Questa verità sembra indiscutibile: ha il solo torto di far accettare lo «status quo» in nome dell'innocenza dei funzionari.
Un altro mio torto nei confronti della pubblica amministrazione è stato quello di non essermi mai avvalso di questa innocenza a vantaggio dell'amministrazione. Alla luce dei principi costituzionali, ho ritenuto di non essere innocente nei confronti dei detenuti ma responsabile. Ho fatto quindi valere questa mia responsabilità chiamando a responsabilità la stessa amministrazione (21). Ma, così facendo, ho addirittura rovesciato il ruolo dell'operatore penitenziario (ecco un'altra grave colpa che non poteva essermi perdonata), rovesciando, nel contempo, il rapporto non reciproco esistente fra reclusi ed amministrazione: ho considerato i reclusi come soggetti; li ho visti come titolari di un diritto di credito costituzionale nei confronti della pubblica amministrazione; ho mostrato come la pubblica amministrazione, piuttosto che «ente morale», dovesse essere considerata un debitore in flagranza di inadempimento. Ho infine deciso di saldare io stesso il debito contratto dalla pubblica amministrazione avvalendomi dei miei poteri di garanzia sicché ho concesso le licenze di lavoro.
Questo è parso veramente troppo alla PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
Questo non poteva in alcun modo essere tollerato.

8. In conclusione, penso che le tre gravi colpe che hanno portato alla mia espulsione dall'istituzione sono state le seguenti:

1) essermi attivato come giudice di sorveglianza facendo così saltare il mio ruolo di copertura ideologica;
2) aver portato avanti la logica liberatrice del rispetto della persona umana contro quella reificante della emenda, rovesciando così il rapporto non reciproco che esiste nella istituzione;
3) aver rovesciato il mio ruolo di operatore penitenziario.

Non si pensi però che queste colpe siano di per sé tali da determinare, come effetto inesorabile per l'operatore penitenziario, la sua espulsione. Bisogna mettere sempre nel conto - l'ho già avvertito prima - il rapporto di forze esistente nella società. Il rapporto di forze esistente nella società negli anni 1968-70 mi ha consentito di concepire per l'esercizio dei miei poteri (naturalmente per me è valso molto l'esempio di liberalizzazione portato avanti nell'ospedale psichiatrico di Gorizia) la libertà che ho ritenuto di esercitare - mantenendomi sempre nell'area di applicazione delle norme giuridiche. Il fatto di essermi mantenuto nell'ambito della legalità, ma sfruttando però tutti gli spazi del mio potere in senso alternativo, non mi ha salvato dalla espulsione. Ciò è avvenuto perché la spinta democratica portata avanti dalle classi popolari negli anni indicati è stata bloccata dagli atti di terrorismo (bombe di Milano, eccetera), sicché le classi dominanti - usando i consensi della paura (22) - sono riuscite a ricostituire un precario equilibrio di centro-destra. E' in questo clima di restaurazione che è maturata la mia espulsione.
Ma va fatta anche un'altra precisazione. Non è detto che l'iniziativa democratica nelle istituzioni debba sempre sfociare nella espulsione degli operatori - a Gorizia come a Pisa - quando essa può essere sfruttata come un fiore all'occhiello del sistema di potere. Essa fa paura quando si salda sul movimento generale e quando ha diffusività. Iniziative come la mia e quella goriziana hanno fatto paura proprio perché si sono saldate - sono state espressione - sul movimento che ha scosso la società italiana dal 1968 in poi. Come è noto, questo movimento ha coinvolto anche gli esclusi, anche i detenuti, anche gli internati in manicomio, eccetera. L'iniziativa di liberalizzazione ha fatto quindi paura perché espressione di questo generale movimento. Non vi fosse stato questo movimento, sarebbe stato nient'altro che un fiore da mettere all'occhiello in occasione dei convegni internazionali.


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