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CRIMINI DI PACE
di Franco Basaglia e Franca Basaglia Ongaro.


1.
Il tecnico del sapere pratico.

«Gli intellettuali sono i 'commessi' del gruppo dominante per l'esercizio delle funzioni subalterne dell'egemonia sociale e del governo politico, cioè: 1) del consenso 'spontaneo' dato dalle grandi masse della popolazione all'indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante, consenso che nasce 'storicamente' dal prestigio (e quindi dalla fiducia) derivante al gruppo dominante dalla sua posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione; 2) dell'apparato di coercizione statale che assicura 'legalmente' la disciplina di quei gruppi che non 'consentono' né attivamente né passivamente, ma è costituito per tutta la società in previsione dei momenti di crisi nel comando e nella direzione in cui il consenso spontaneo vien meno». Gramsci, 1930 (1).

Quando si leggevano queste definizioni dell'intellettuale, della sua funzione nel mondo della produzione, del suo rapporto con il gruppo dominante, era facile interpretarle come un'analisi storica della condizione dell'intellettuale in uno stato borghese, che non ci coinvolgeva direttamente in ciò che eravamo o ci preparavamo ad essere. Usciti dalla guerra, si credeva di poter costruire - contribuendo ciascuno nel proprio settore - un mondo che fosse diverso da quello contro cui si era lottato, e ci si preparava a svolgere un ruolo positivo, qualunque esso fosse, nell'edificazione di una nuova società.
La speranza aveva avuto vita breve. Quasi subito ci si era ritrovati, ciascuno prigioniero del proprio ruolo, cioè ciascuno riconfermato nel proprio posto, nella propria classe: i lavoratori e il sottoproletariato nel loro ruolo di classe oppressa, che solo attraverso la lotta riesce ad attuare le sue conquiste; la borghesia riconfermata nei suoi valori, nella sua legge economica, nelle sue proprietà; i tecnici e gli intellettuali, riportati - attraverso il binario della carriera professionale - alla borghesia da cui provenivano. Nel momento in cui ci si accingeva a costruire qualcosa che tenesse conto dei bisogni e dei diritti di tutti i cittadini, ci si riscontrava con la realtà della lotta di classe e con la conferma della divisione del lavoro che manteneva intatti i ruoli e le regole del gioco. La resistenza, come movimento popolare, veniva neutralizzata dalla nuova classe dirigente che, mano a mano, la svuotava del suo significato originario di partecipazione e di consenso popolare, facendola diventare un valore astratto, mercificato dal gruppo dominante che, in suo nome, riproponeva la propria dominazione.
In questo gioco ambiguo, dove la distanza fra ciò che si è e ciò che si vuole essere è anche subordinata all'impossibilità di agire e di trasformare la realtà, l'intellettuale, figlio della borghesia, poteva prendere le parti della classe oppressa, senza che questo gli richiedesse una messa in discussione dei valori cui automaticamente aderiva sul piano della propria professionalità o del proprio mestiere. Poteva cioè permettersi una vita professionale o intellettuale totalmente aderente ai valori, alle ideologie che la classe dominante trasmetteva sotto i crismi dell'oggettività della scienza, e continuava ad esserne - consapevole o no - il «commesso» e il «funzionario».
L'ambiguità è ora evidente, ma allora non era altrettanto chiara. L'intellettuale o il tecnico militante nei partiti di sinistra, svolgeva contemporaneamente una pratica professionale di segno opposto alla sua attività politica: ingegnere in fabbrica, medico d'ospedale, giudice, psichiatra in manicomio, insegnante, ciascuno confermava con la propria pratica professionale, ciò che altrove negava, senza la consapevolezza di quello che comportava essere i «funzionari» dell'ideologia dominante nella propria sfera di lavoro. Gli intellettuali si ritrovavano a essere i teorici, così come i tecnici si ritrovavano a essere i pratici, dell'ideologia dominante, senza che la loro presa di coscienza e attività politiche intaccassero il carattere ideologico della loro teoria e della loro pratica.
La consapevolezza di essere «commessi», «funzionari» del gruppo dominante nel proprio settore di lavoro pratico cominciò a manifestarsi - dopo anni di polemiche a livello teorico sulla funzione dell'intellettuale impegnato e sulla natura del suo impegno politico - in uno scontro diretto fra ideologia e pratica, che partiva dalla pratica. Furono cioè quelli che Sartre definisce i "tecnici del sapere pratico", gli esecutori materiali delle ideologie e dei "crimini di pace" da esse legalizzati e giustificati, gli intellettuali di serie C, o i ragionieri della scienza che cominciarono a mettere in discussione il ruolo svolto nel proprio settore specifico, in rapporto all'ideologia scientifica di cui erano portatori e rappresentanti nella pratica di loro competenza: coloro cioè che affrontano problemi pratico-teorici, traducendo l'astrazione della teoria nella pratica istituzionale.
Questa presa di coscienza cominciò a nascere in settori in cui i tecnici professionali (o gli intellettuali, per restare nella citazione gramsciana) hanno abitualmente il compito di assicurare "legalmente la disciplina di quei gruppi che non «consentono» né attivamente, né passivamente", dove cioè il tecnico ha a che fare con problemi di ordine pubblico e la necessità sociale di "disciplinare i gruppi che non consentono" è più pressante, anche se mascherata dalle teorie scientifiche che giustificano i provvedimenti pratici con cui vi si risponde. Fra questi settori, il manicomio, istituto terapeutico e di controllo, di riabilitazione e di segregazione, dove il consenso del controllato e del segregato è ottenuto a priori attraverso la mistificazione della terapia e della riabilitazione.
In questo settore, in cui siamo direttamente impegnati, la distanza fra l'ideologia ("l'ospedale è un istituto di cura") e la pratica ("l'ospedale è un luogo di segregazione e di violenza") è evidente. Inoltre, la classe di appartenenza degli internati contrasta esplicitamente con l'universalità della funzione dell'internamento ospedaliero: il manicomio non è l'ospedale per chi soffre di disturbi mentali, ma il luogo di contenimento di certe devianze di comportamento degli appartenenti alla classe subalterna.
Che cos'è la devianza di questi internati rispetto all'altra, quella che si incontra altrove, nelle cliniche universitarie, nei gabinetti di consultazione, nelle cliniche private, durante gli anni di preparazione scientifica e di addestramento? Qual è il comune denominatore fra il primo tipo di malato e il secondo, o quale ne è la differenza sostanziale? Che funzione terapeutica ha il manicomio se riesce a distruggere chiunque vi entri? Chi è lo psichiatra che si presta a questa distruzione? In nome di cosa agisce nell'applicare teorie scientifiche che servono solo a eliminare chi ha la sfortuna di esserne l'oggetto? In nome di chi si perpetrano questi crimini? Quale funzione sociale, che sfugge abitualmente alla comprensione dello stesso psichiatra, svolge il manicomio? Cioè, qual è la finalità di questa organizzazione ospedaliera che non risponde a un solo bisogno di chi ne varca la soglia? E quali sono i bisogni cui si dovrebbe rispondere? E' in grado lo psichiatra, rappresentante in proprio o per conto terzi, dei valori e delle verità della borghesia, di riconoscere e individuare questi bisogni? In che cosa consiste il servizio che presta nei confronti dell'assistito, se non nell'esercizio di un potere e di una violenza che è delegato a esercitare, per poter contenere una «violenza» che non si sa bene cosa sia? Ma questo potere e questa violenza non sono impliciti negli stessi strumenti che la psichiatria come scienza, gli offre per garantire il controllo e, insieme, il «consenso» di chi viene violentato? Che cos'è dunque la psichiatria e che cos'è la «malattia» che si incontra nel manicomio? Come non vedere nel dilatarsi e nel restringersi dei limiti di norma, a seconda della classe del «disturbato» e a seconda della situazione di espansione o di recessione economica, del paese che può o non può riaccogliere le persone riabilitate, la relatività di un giudizio scientifico che, di volta in volta, muta il carattere irreversibile delle sue definizioni? (2).
E' da questi interrogativi, nati dallo scontro pratico con la realtà manicomiale, che è iniziata la lenta opera di corrosione delle «verità scientifiche» e la messa in discussione del loro diretto rapporto con la struttura sociale e con i valori dominanti, da parte di coloro che avrebbero dovuto esserne automaticamente i rappresentanti. Questi tecnici pratici incominciarono cioè a rifiutare - di fronte alla realtà con cui si scontravano - il ruolo di funzionari del consenso, rifiutando di legittimare con il loro avallo (che era l'avallo della scienza) la discriminazione di classe e la violenza in cui, di fatto, si traducevano il loro intervento e il loro lavoro.
Creare le condizioni per cui potessero riaffiorare i bisogni dell'utente del servizio per potervi rispondere, era già di per sé mettere in crisi i bisogni di chi affidava al tecnico una delega di segno opposto. Il contenimento e la segregazione non sono la risposta alla malattia mentale, ma la risposta ai bisogni della società che in tal modo elimina il problema, delimitando lo spazio del suo contenimento. Rifiutare di essere i sorveglianti di questi oggetti contenuti, tentando di stimolare ogni capacità vitale e soggettiva in essi distrutta o assopita, era già - per i tecnici - scegliere di stare dalla parte di quelli che sarebbero stati delegati a opprimere, pur con l'ambiguità che questa scelta comportava: il prestatore del servizio restava il tecnico (appartenente alla classe borghese, con il potere e il prestigio implicito nel suo ruolo), così come l'assistito restava il proletario o il sottoproletario (succube e oggetto di quel prestigio e di quel potere).
Tuttavia il rifiuto da parte del tecnico intaccava - nonostante l'ambiguità - qualche cosa di fondamentale: la coincidenza fra il mandato della scienza e quello della società. La malattia mentale è incomprensibile e irriducibile, quindi non si può che contenerla in uno spazio adatto al contenimento; la società «libera» ha bisogno di isolare e separare gli elementi di disturbo sociale e delega gli «scienziati» a controllarne il contenimento. Spezzare questa unità era mettere praticamente a nudo la subordinazione pratica della scienza agli interessi di una società, che non rappresenta gli interessi di "tutti" i cittadini. Era rendere evidente che la scienza - in questo settore - si limita a legalizzare le finalità che una società che si definisce «libera», non può proclamare apertamente: lo stato borghese tutela gli interessi della borghesia, gli altri - sani o malati che siano - sono "sempre" elementi di disturbo sociale, se non accettano le norme che sono fatte per la loro subordinazione. E' solo con la lotta che riescono a far valere i loro diritti. Smascherare nella pratica che la fabbrica è nociva alla salute, che l'ospedale produce malattia, che la scuola crea emarginati e analfabeti, che il manicomio produce pazzia, che le carceri producono delinquenti e che questa produzione «deteriore» è riservata alla classe subalterna, significa spezzare l'unità implicita nella delega data ai tecnici che hanno il compito di confermare, con le loro teorie scientifiche, che pazzi, malati, ritardati mentali, delinquenti sono ciò che sono "per natura", e che scienza e società non possono modificare processi connaturati nell'uomo. Liberare i bisogni reali dell'utente di un servizio dai bisogni artificiali, prodotti in modo tale che la risposta al bisogno si traduca nel controllo della classe subordinata, significa rompere questo meccanismo e rendere esplicita, sulla pratica, la funzione delle ideologie scientifiche come supporto falsamente neutrale dell'ideologia dominante.
Ovviamente il movimento che tendeva a questa chiarificazione - sotto la spinta dei bisogni reali dell'utente, una volta creata la condizione perché potessero affiorare ed esprimersi - non ha trovato appoggi, né comprensione. Tecnici che rifiutano il compito di funzionari del consenso non possono che essere eliminati (e le forme di eliminazione vanno dagli incensamenti da parte del settore più illuminato, alle incriminazioni e ai processi da parte dei settori più retrivi), tanto più se i meccanismi attraverso cui si attua questo consenso risultano chiari allo stesso utente del servizio.
Tuttavia, se, da un lato, è nella logica del controllo che i garanti dell'ordine costituito si tutelino dai franchi tiratori, d'altro lato la comprensione di questi processi, mentre appariva chiara all'utente che cercava assieme al tecnico ribelle gli strumenti e la via della sua liberazione, risultava parziale e confusa al rappresentante politico della classe cui egli appartiene. In ciò è consistito il limite di un'azione emblematica, che, dimostrando praticamente la funzione discriminante di classe di un'ideologia scientifica, è riuscita a costruire una finalità comune fra tecnico borghese e classe oppressa, solo nello spazio che si tentava di liberare. Ma in quegli anni, il rappresentante politico dell'utente del servizio che lotta per la rivendicazione dei diritti della classe oppressa, se proponeva la messa in discussione della presunta neutralità della scienza come discorso generale, riteneva anche che essa dovesse essere subordinata alla soluzione della contraddizione primaria fra classe operaia e capitale. Non riconosceva validità né incisività politica ad una critica della scienza che agisse su questa stessa contraddizione, partendo dalla messa in crisi pratica di un'ideologia scientifica. Il che significa accettare - in attesa che la contraddizione primaria sia risolta - l'obiettività della scienza in certi settori, dei suoi strumenti tecnici e delle sue teorie interpretative, come non si tratti di uno dei mezzi di manipolazione e di controllo del la classe subalterna.
Gli elementi per la comprensione di questi processi e di questi meccanismi in quel momento non potevano venire che dai tecnici, che li individuavano nella pratica. Ma ciò che il tecnico stava imparando a rifiutare, era ancora un valore oggettivamente scientifico per i rappresentanti politici della classe oppressa e il linguaggio era ancora incomunicabile, trasmissibile solo attraverso una lettura e un'interpretazione della pratica che si stava attuando. Il tecnico non poteva perdere la sua autonomia in questa ricerca (e non si trattava, in questo caso, della libertà rivendicata dall'intellettuale), o sarebbe stato ripreso nella dimensione politica di tipo istituzionale, che lo avrebbe riportato in posizioni acritiche nei confronti di ciò che faceva nel suo settore di lavoro. La politicità della sua azione nel proprio terreno professionale sarebbe stata, cioè, riportata nel gioco politico di tipo istituzionale, nel senso che il suo ruolo sarebbe ridiventato quello dell'intellettuale che si limita a scegliere la parte della classe oppressa, continuando ad agire nel suo settore come garante dei valori dominanti. Ma la rivendicazione all'autonomia in questa ricerca, era facilmente interpretabile come una rivendicazione all'autonomia del tecnico che, comunque, restava un borghese e la sua azione è rimasta isolata in mezzo a fraintendimenti ed equivoci. Si trattava, di fatto, di un ampliamento del terreno di lotta, dove il tecnico, attraverso il suo rifiuto a essere «commesso» della classe dominante, proponeva la ricerca, in un settore pratico, del significato e della funzione di quella particolare ideologia scientifica; ricerca che avrebbe potuto allargare la lotta in altri settori, arricchendola di nuovi contenuti e di nuovi militanti.
Mentre la riflessione su queste esperienze cominciava a essere pubblicizzata, con gli equivoci che ne hanno accompagnata la pubblicizzazione ("la malattia mentale non esiste; è un'invenzione della borghesia" eccetera) esplodeva, nel 1968, la ribellione degli studenti che rifiutavano globalmente il loro futuro di «funzionari del consenso». Fra il '60 e il '70, gli anni che avevano visto i movimenti operai far fronte ai tentativi neofascisti di Tambroni per sfociare poi nelle lotte dell'autunno '69, dei tecnici cominciavano a rifiutare praticamente la delega di potere implicita nel loro sapere, gli studenti rifiutavano di assumerla.
Pur con le ambiguità tipiche di tutti i movimenti borghesi, siamo, in questo caso, oltre la posizione dell'intellettuale che «sa» e che guida le masse. La posta in gioco è ora il rapporto tra il tecnico, la scienza e la sua pratica "di cui le masse sono l'oggetto", una volta che il tecnico - in particolare quello delle scienze umane - abbia riconosciuto che il suo ruolo, in questo sistema sociale, è quello di manipolare il consenso attraverso le ideologie che egli stesso produce e mette in atto.
Che gli intellettuali e i tecnici di una società borghese, così come tutte le sue istituzioni, esistano per salvaguardare gli interessi, la sopravvivenza del gruppo dominante e i suoi valori, è cosa ovvia. Ma non è altrettanto automatico riconoscere e individuare, nella pratica quotidiana, quali siano i processi attraverso i quali gli intellettuali o i tecnici continuano a produrre - ciascuno nel proprio settore - ideologie sempre nuove che mantengono inalterata la loro funzione di manipolazione e di controllo. Soprattutto non è altrettanto automatico che la classe subalterna, anche la più politicizzata, riconosca nella scienza e nelle ideologie la manipolazione e il controllo di cui è oggetto, e non invece un valore assoluto, che accetta perché al di là della propria possibilità di conoscere e di comprendere, e perché manipolata in modo da non conoscere, né comprendere. Capire, insieme a coloro che sono oggetto di questa manipolazione (pur con le ambiguità presenti in chi è contemporaneamente soggetto di manipolazione e ne rifiuta l'uso nel senso della delega), e rendere praticamente espliciti i processi attraverso i quali un'ideologia scientifica riesce a far accettare alla classe subalterna misure che apparentemente rispondono ai suoi bisogni e che, di fatto, la distruggono (in questo consistono le ideologie) può essere forse politicamente più efficace, anche se meno avventuroso, del fingersi gli operai che non siamo, o del prendere a prestito da loro le motivazioni alla lotta, quando il terreno in cui agiamo ci coinvolge in una serie di complicità, la cui natura non è esplicita né riconoscibile da chi le subisce.
Il rifiuto del ruolo, il rifiuto della delega comportano un uso dialettico del ruolo e della delega, attraverso la critica della scienza e delle ideologie di cui i tecnici non accettano più di essere garanti. La critica teorico-pratica della scienza in quanto ideologia (cioè in quanto strumento di manipolazione in vista del consenso) comporta la conoscenza del rapporto diretto tra committente (gruppo dominante), funzionario (l'intellettuale o il teorico che produce l'ideologia e il tecnico che la traduce in pratica) e la finalità d'uso, da parte del committente, dell'ideologia in quanto tale. Ma i meccanismi della delega e l'uso che il committente fa dell'ideologia scientifica, non sono espliciti e neppure tanto evidenti. Chi è oggetto della manipolazione e del controllo di una branca della scienza qual è ad esempio, la medicina, è difficile che identifichi diagnosi e cura come una forma di manipolazione e di controllo, quando non di distruzione; al massimo la ritiene una risposta insufficiente ai propri bisogni. Ma anche questi bisogni sono manipolati e condizionati in vista della risposta che si vuole darvi. Il ricoverato in ospedale psichiatrico è, tradizionalmente, ritenuto da tutti tanto più delirante quanto meno riconosce l'internamento come la risposta al disturbo di cui soffre (mentre allo stato attuale della quasi totalità dei nostri manicomi, l'unico ad avere ragione è lui). Individuare e chiarire assieme a chi è oggetto di questa manipolazione, i processi attraverso i quali essa avviene, e fare critica della scienza e, insieme, agire politicamente nel senso che la classe subalterna, oggetto di questa manipolazione, può impadronirsi della conoscenza di questi processi in modo da arrivare a rifiutarli.
In questo campo di lotta il tecnico borghese non ha più mediazioni né deleghe: è sullo stesso piano dell'utente del servizio che deve prestare, perché è "con lui" che deve trovare le risposte a bisogni che non sono quelli tradizionalmente riconosciuti dalla psichiatria, dalla medicina. Il tecnico, sia per il tipo di preparazione avuta, sia per la classe cui appartiene, conosce solo i bisogni precostituiti e condizionati dall'ideologia: se non è l'utente con cui agisce a esprimerli, ripropone una risposta che resta all'interno della cultura da lui incorporata, e che si traduce in misure repressive nei confronti di coloro ai quali dovrebbe prestare il servizio. E' solo con l'utente che può imparare a conoscerli e a individuarli, al di fuori dell'ideologia che condiziona e determina la realtà. Così come il tecnico storicizza l'internato o l'utente del servizio sanitario, abitualmente destorificato dal fatto di essere oggetto di questo servizio, egli stesso entra in una storia nuova, che non è la storia della classe cui appartiene. In questa dimensione egli si pone fuori della logica della domanda e dell'offerta (dove la domanda è sempre subordinata al tipo di offerta che si è disposti a dare o che conviene dare), rompendo la logica economica secondo cui ogni risposta ai bisogni si traduce in un'organizzazione che vive e prospera sulla dilatazione dei bisogni cui dovrebbe rispondere. Storificando e quindi soggettivando l'oggetto della sua ricerca, il tecnico si storicizza al di fuori della logica borghese, trovando nella ricerca della liberazione dell'oppresso, anche la liberazione dall'oppressione di cui egli stesso è insieme soggetto e oggetto.
Il tecnico borghese vive una condizione di alienazione da cui può uscire rompendo la condizione di oggettivazione in cui vive l'oppresso. Il modello che il tecnico rappresenta automaticamente nella logica del capitale è il passaggio dall'oppressione all'alienazione, cioè l'identificazione da parte della classe oppressa nei valori che egli esprime e garantisce. E' quindi solo dalla ricerca di uno spazio reciproco di soggettivazione che possono scaturire i bisogni e, insieme, il tipo di risposte necessarie, ed è nella comune ricerca di una liberazione pratica che il tecnico tradisce il proprio committente. In questo caso, il ruolo, la classe di appartenenza, il prestigio lo tutelano relativamente agli occhi del committente tradito, perché egli smaschera i meccanismi attraverso cui le ideologie sono strumenti di manipolazione e di controllo, insieme alla stessa classe manipolata e controllata. Il che significa mettere in piazza i segreti di famiglia, quelli che di solito conosce solo il padre e che neppure i figli devono sapere, altrimenti avrebbero poco rispetto per il padre e per la famiglia.

La nascita delle scienze umane sembrava dare inizialmente nuove aperture e nuove prospettive alla lotta per la liberazione dell'uomo. Psichiatria, psicologia, psicoanalisi sembravano poter offrire nuovi strumenti di indagine e di intervento per lenire la sofferenza umana. La criminologia proclamava di voler proteggere - assieme alla società - il criminale dalle sue tendenze abnormi. La sociologia sembrava offrire uno strumento di analisi e di conoscenza dei fenomeni sociali, tale da consentire la trasformazione della realtà e il superamento delle contraddizioni indagate e individuate. Ma, una volta immesse queste nuove scienze nella logica della divisione in classi, quindi nella logica dell'oppressione di una classe sull'altra, esse si sono praticamente tradotte in ulteriori strumenti, utili alla conferma di questa oppressione.
Tale processo ha dato origine a una serie di corpi culturali che codificano e determinano i comportamenti, passano sotto silenzio i bisogni primari, ne creano di artificiali, insegnano agli uomini il significato della loro nascita, cosa sono, quale deve essere la loro vita, quale è il rapporto da instaurare fra di loro, quale deve essere e quale forma deve assumere la loro morte. Se le religioni hanno avuto la funzione di manipolazione e di controllo attraverso la distinzione fra bene e male, fra premio e castigo, colpa e punizione, le scienze umane pare si siano specializzate nella focalizzazione del "normale" rispetto al patologico, del comportamento corretto rispetto a quello deviante o criminale, il tutto non più in rapporto a un valore assoluto che, se pure a livelli diversi, accomunava gli uomini di fronte alla morte e alla responsabilità dei loro «peccati», ma in rapporto all'interesse del committente. Queste discipline, nate in nome dell'uomo e della sua liberazione, hanno cioè avuto la funzione di determinare i comportamenti «normali», di definire i limiti di norma, di controllarne, attraverso terapia e reclusione, le deviazioni, non sulla base dei bisogni dell'uomo (cioè dei bisogni di tutti gli uomini, compresi quelli che deviano) ma come risposta alle esigenze della legge economica, ai bisogni del gruppo dominante, che deve contare sul controllo dei più per garantire la propria sopravvivenza. Di questo controllo, intellettuali e tecnici delle scienze umane sono stati i legittimatori.
Forse mai come in questo momento storico e alla luce di questi casi limite drammaticamente emblematici, si è profilato così chiaro il ruolo del tecnico professionale nella società capitalistica. Esso pare riassumere - a distanza di secoli - quello dell'intellettuale alla corte dei signori, dove il poeta, il pittore, il musicista lavoravano esplicitamente su commissione. Ma allora era così grande la distanza tra signore e servo, che il signore non aveva bisogno di mediazioni per coprire i suoi abusi: ciò che commissionava agli «artisti» erano opere che dovevano confermare il suo prestigio e il suo potere. La commissione era esplicita. Solo quando il servo ha cominciato a organizzarsi per opporsi al signore e la realtà sociale si è modificata, inquinata come è stata dai concetti di uguaglianza e di democrazia, le ideologie sono servite a consentire al signore di proclamare come reali e indiscussi questi principi, conservando, insieme, il dominio e gli abusi propri della sua classe. Ovviamente è un discorso storicamente "poco corretto", ma nel suo schematismo simbolico può servire alla comprensione dell'uso di un certo tipo di tecnico o di intellettuale, in qualità di funzionario del consenso, quando occorra far passare per qualcosa di diverso ciò che potrebbe contrastare con i principi dei diritti dell'uomo, che non possono non essere formalmente sostenuti.
Ora, non è privo di significato ricordare che negli ultimi duecento anni la tortura risultava ufficialmente scomparsa, come ragione di stato, nei paesi «civili». Le forme di controllo in vigore attraverso deleghe, commessi, funzionari, produttori di ideologie erano evidentemente sufficienti a garantire l'ordine. Soltanto nei paesi in cui non è ancora conosciuta la falsa libertà dai bisogni rappresentata dallo sviluppo industriale, e dove non si conoscono ancora i vantaggi offerti dall'uso delle scienze umane e delle ideologie, come forma di controllo sociale, la tortura si praticava illegalmente, con tutti i caratteri dell'«inciviltà».
Ma a duecento anni di distanza il «disagio della civiltà» pare stia facendo ricomparire un po' ovunque la tortura. E ciò che più sorprende è che si tratta di una tortura preventiva, dove si tortura e si uccide chi non ha niente da confessare, se non il proprio rifiuto a essere massacrato, distrutto, ucciso. Una tortura attuata per ottenere il consenso incondizionato, l'accettazione passiva, l'adeguamento a una norma sempre più rigida e ristretta che risponde sempre meno ai bisogni di chi vi si deve sottomettere. La "ragione di stato" sta prevalendo sull'ultimo umanesimo, e la violenza non teme più di rivelarsi per ciò che è. Il controllo da parte dei suoi legittimatori è risultato quantitativamente insufficiente? O si tratta della messa in moto dell'"apparato di coercizione statale... costituito per tutta la società in previsione dei momenti di crisi nel comando e nella direzione in cui il consenso viene meno"?
Sull'onda delle grandi lotte sociali, sotto la pressione dei movimenti che rivendicano i diritti all'uguaglianza e alla non discriminazione, è sempre più difficile per la classe al potere ottenere il consenso spontaneo; il gioco è troppo chiaro, soprattutto dove sono più chiare ed esplicite le contraddizioni. Occorre rafforzare l'"apparato di coercizione statale", l'infrastruttura politica può gestire direttamente, tramite le istituzioni più dichiaratamente repressive (magistratura e esercito), il proprio potere e i tecnici delle scienze umane possono essere utilizzati per garantire la «scientificità» e la «legalità» della tortura e dei crimini. Ne è un esempio ciò che sta accadendo nei paesi dell'America latina dove psicologi e psichiatri sono delegati ad assistere "tecnicamente" i torturati (3).
A seconda dei livelli di sviluppo di un paese e della consistenza delle forze di opposizione, si ricorre dunque all'"apparato di coercizione statale" o alla dilatazione del numero dei «funzionari del consenso». Negli Stati Uniti, il paese a maggior sviluppo industriale e tecnologico, la maggior accessibilità a una preparazione tecnico-professionale di tipo superiore e la creazione di ruoli intermedi in cui le nuove leve professionali possano identificarsi, hanno contribuito - attraverso la costituzione di una classe media universale - alla distruzione delle forze popolari che hanno, per lo più, aderito ai valori e all'etica della classe dominante. Il tutto a scapito del proprio sottoproletariato e del proletariato e sottoproletariato di paesi meno sviluppati.
Da noi, anche se la struttura scolastica ha ancora un carattere altamente discriminatorio, si sta mettendo in moto lo stesso processo, ma i nuovi ruoli per cui si preparano i nuovi tecnici delle scienze umane (sociologi, psicologi, operatori sociali) addirittura non esistono e lo scontento dei giovani è ancora in atto. La sfasatura è tutta da colmare perché la realtà sociale del nostro paese è casuale, abborracciata, inventata, provvisoria. In più - fatto il cui peso è di importanza fondamentale - esiste una classe operaia che non ha ancora ricevuto, come dice Dedijer, «il bacio della morte», cioè non è ancora stata assimilata ai valori della borghesia in modo da sentirli propri e difenderli.
In questo momento sembra, dunque, utile tentare di analizzare e di chiarire la funzione del tecnico in una società borghese per capire - al di là delle astratte polemiche sulla negazione del ruolo e sul timore di essere assorbiti e reintegrati come produttori di nuove ideologie - in quale misura sia possibile, per il tecnico che ha preso coscienza di questi processi, agire in modo che la classe subalterna si appropri di queste conoscenze, ottenibili, del resto, solo se "si cercano assieme ad essa" attraverso l'individuazione dei suoi bisogni. Il pericolo che il lavoratore del negativo (come lo definirà Lourau più oltre) sia riassorbito come produttore di nuove ideologie, è reale, e lo sarà quanto più si resterà isolati dai bisogni che dobbiamo individuare, ma non possiamo permetterci di essere paralizzati da questi timori. Ogni contraddizione aperta richiama la chiusura di un'ideologia che la definisca e la codifichi, ma essa porta in sé la futura contraddizione. Sta in noi riuscire a individuarla, e continuare, anche attraverso un'analisi critica di ciò che siamo e di ciò che facciamo, di ciò che significa essere «funzionari del consenso», e di ciò che può significare rifiutare di esserlo; individuando sul terreno pratico quali possano essere le modalità di questo rifiuto, in modo che esso possa assumere peso e significato in rapporto alla classe che dovrebbe essere portata al «consenso spontaneo», all'adesione ai valori dominanti, anche attraverso la conferma, quotidianamente attuata dal nostro intervento tecnico.
Siamo consapevoli di entrare in una problematica politico-culturale da anni dibattuta, che potrebbe risultare fine a se stessa, ma ciò che a noi interessa di questa polemica è tentare di affrontarla da un'angolatura che la riporti sul terreno pratico: funzionario del consenso non è solo l'intellettuale classico che produce ideologie. Oggi ogni tecnico spicciolo - anche proveniente dalla classe operaia o da una piccolissima borghesia quasi proletaria, che ha tratto vantaggio dalla maggiore accessibilità alla cultura borghese - per il fatto di identificarsi nel suo ruolo e di difenderlo per sé, rappresenta e impone i valori dominanti. Si devono analizzare anche a questa luce i processi attraverso i quali la classe dominante ingloba, nei propri valori e nel proprio terreno, parte della classe dominata, allargando il cerchio dei suoi funzionari con l'accessibilità a ruoli nei servizi terziari, che danno l'illusione di partecipare al potere e che, in quanto tali, garantiscono la fedeltà di chi li copre.
Scopo della nostra analisi è quindi trovare una risposta agli interrogativi che ci si pone dopo la denuncia pratica, perché essa non resti separata dalla classe per la cui liberazione è stata attuata.
Il rifiuto da parte del tecnico della delega datagli dal committente e la ricerca, assieme a chi dovrebbe essere l'oggetto della sua manipolazione, di un rapporto alternativo, può facilitare la comprensione e la conoscenza, da parte di chi è manipolato, dei processi attraverso cui si attua questa manipolazione? Può, cioè - ad esempio nel caso dell'assistenza psichiatrica -, questo rifiuto pratico andare oltre la creazione di realtà che abbiano un valore simbolico, per arrivare a stimolare nel malato l'appropriazione e la soggettivazione della malattia? Può essere uno strumento per promuovere la coscienza del proprio ruolo sociale, all'interno del gioco sociale generale? L'intellettuale o il tecnico professionale deve, a questo fine, abdicare a ciò che è, ma ciò che è, è anche la classe cui appartiene, e non si può abdicare a una classe per sceglierne un'altra: può tuttavia usare gli strumenti di cui dispone per mettere a nudo praticamente i processi di manipolazione e di controllo che sarebbero impliciti nel suo intervento? Quali sono i limiti di questa messa a nudo e in che modo la conoscenza di questi processi può diventare di dominio della classe manipolata? Se il tecnico professionale è il funzionario - consapevole o inconsapevole - dei "crimini di pace" che si perpetrano nelle nostre istituzioni, in nome dell'ideologia dell'assistenza, della cura, della tutela dei malati e dei più deboli, o in nome dell'ideologia della punizione e della riabilitazione, può essere utile mettere in piazza, non solo lo stato di violenza e di arretratezza - ancora reale, ancora pressoché identico - delle nostre istituzioni repressive (manicomi, carceri, istituti per minori, eccetera), quanto i meccanismi attraverso cui la scienza giustifica e legittima queste istituzioni? E queste conoscenze possono diventare patrimonio della classe subalterna, così che fra le sue rivendicazioni essa esiga una scienza, da essa controllata, che risponda ai suoi bisogni, consapevole dei modi e dei meccanismi attraverso cui la scienza borghese può continuare a non rispondervi?
Nella nostra realtà sociale le diverse branche delle scienze non possono che pianificare risposte formalmente universali (cioè programmate per tutti i cittadini), che di fatto si traducono nella risposta ai bisogni del gruppo dominante e nel controllo o contenimento dei bisogni del gruppo dominato. Ogni servizio progettato serve agli organizzatori e all'organizzazione in sé, più che agli utenti, altrimenti non si spiegherebbe, ad esempio, l'enfatizzazione dei servizi sanitari in rapporto alla qualità dell'assistenza prestata. Nella logica del capitale, ogni istituzione diventa un organismo produttivo, dove la finalità e la giustificazione del suo esistere (per l'ospedale: l'assistito) risultano marginali. Per quanto possa apparire paradossale, l'ospedale è fatto per i medici e per il personale, non per i malati. Inoltre l'intervento tecnico si presenta sotto la veste della neutralità, dove si presume non esista divisione tra la figura sociale del prestatore del servizio e quella del cliente che lo richiede.

Un esempio esplicito del modo in cui abitualmente si programma un servizio sanitario pubblico (cioè in totale assenza dell'utente e come espressione di una logica scientifica che tende essenzialmente a rispondere ai bisogni degli organizzatori) è un questionario, inviato nel '72 sul tema "Utopia e realtà dell'organizzazione psichiatrica futura". Il questionario era stato inviato dal professor Christian Müller, direttore della clinica psichiatrica di Cery, Losanna, a uno di noi e a pochi altri psichiatri rappresentanti, agli occhi del ricercatore, la punta avanzata della «scienza» nel settore specifico. Se ne riportano qui solo la premessa introduttiva e stralci della risposta allora formulata:

«Supposez que vous viviez dans une societé occidentale, de type européen ou américain, organisée selon vos idées et conceptions politiques. Vous seriez appelé à organiser des services de santé mentale et de psychiatrie pour un groupe démographique limité de 100000 habitants dans un cadre urbain. Vous seriez libre de choisir seul les moyens dans le cadre d'un budget en proportion raisonable par rapport au revenu de cette population».

Ciò che si vuole puntualizzare, rispondevamo, è la premessa di carattere generale: chiedere di formulare un'ipotesi teorica ("l'organizzazione di un servizio psichiatrico per un'astratta popolazione di centomila abitanti") precisando contemporaneamente i limiti e i confini concreti in cui la teoria deve essere circoscritta ("un paese occidentale europeo o americano") significa proporre un discorso puramente astratto dove l'ipotesi, anziché servire a trasformare la realtà, è da questa fin dall'origine determinata e neutralizzata. Il mondo occidentale contiene tante e tali contraddizioni primarie e secondarie che qualunque servizio ipotizzato senza tenerne conto o senza approfondirne il significato e il peso, non può che muoversi sul piano dell'astrazione, dato che, in assenza di queste conoscenze, è impossibile individuare quali siano i bisogni cui il servizio dovrebbe rispondere. Senza questi riferimenti, l'ipotesi «tecnica» non può che rispondere alle esigenze del tecnico, mai a quelle dell'assistito, come risultato appunto di un'astrazione che non si confronta sul terreno concreto dei bisogni.
Come si può ritenere che l'organizzazione psichiatrica, oggi, sia un mondo chiuso che continua a rifarsi all'ideologia tecnico-scientifica di chi ha il compito di gestirla? Dove e come individuare i bisogni concreti cui si dovrebbe rispondere, se essi sono costantemente determinati e creati nella forma più adatta alla risposta? Nel nostro contesto sociale i termini "realtà" e "utopia" proposti dal questionario, non sono termini contraddittori, tesi a produrre una nuova, successiva realtà che realizzi e incorpori parte dell'utopia: essi sono ridotti a termini complementari per i quali sono progettate sfere d'azione separate, in modo che l'una possa tradursi senza contraddizioni nell'altra. "Realtà" e "utopia" esistono entrambe come facce solo apparentemente diverse dell'ideologia, quale falsa utopia realizzata a solo beneficio della classe dominante. La realtà in cui viviamo è essa stessa ideologia, nel senso che non corrisponde al concreto, ma è il prodotto di definizioni, codificazioni, classificazioni, norme e provvedimenti, messi in atto dalla classe dominante per costruire la realtà a propria immagine, cioè secondo i propri bisogni. Tanto meno queste norme e questi provvedimenti rispondono alle esigenze dell'intera comunità, tanto più essi agiscono come strumento di dominio sulla classe che li subisce. Così come ogni ipotesi utopica, in quanto elemento contraddittorio di una realtà che non può rivelare le sue contraddizioni perché non vuole trasformarle, si traduce in una ideologia della trasformazione, realizzabile se usata come strumento di dominio.
Nella nostra struttura sociale, determinata da una logica economica cui sono subordinati tutti i rapporti e le regole di vita, non esiste né la realtà, cioè il "praticamente vero" su cui verificare le ipotesi come risposte reali ai bisogni, né l'utopia come elemento ipotetico che trascenda la realtà per trasformarla. L'utopia può esistere solo nel momento in cui l'uomo sia riuscito a liberarsi dalla schiavitù dell'ideologia, in modo da esprimere i propri bisogni in una realtà che si riveli costantemente contraddittoria e tale da contenere gli elementi che consentano di superarla e trasformarla. Solo allora si potrebbe parlare di realtà come del "praticamente vero", e di utopia come elemento prefigurante la possibilità di una trasformazione reale di questo "praticamente vero". Ma allora non si tratterebbe più di una utopia, quanto di una ricerca costante sul piano dei bisogni, delle risposte più adeguate alla costruzione di una vita possibile per tutti gli uomini.
Inoltre, si può presumere di organizzare un'area ipotetica secondo la propria "filosofia" politica e tecnica, se l'area ipotizzata è inserita in una sfera politico-economica ben determinata, che non lascia spazio alle contraddizioni, se non quando siano state tradotte in ideologie? Come ipotizzare un servizio di assistenza psichiatrica che non sia la risposta ai bisogni specifici che si rivelano nella realtà? Come ipotizzare i bisogni cui si dovrebbe rispondere, se non trasferendo nell'area dell'astrazione la conoscenza ideologica che ne abbiamo? Cosa conosciamo di questi bisogni se essi sono precondizionati, se essi sono il risultato di una logica e di una cultura che determinano il modo in cui devono manifestarsi, in rapporto alla qualità della risposta che si è disposti a dare?
Quando ci si prefigge di organizzare un servizio sanitario (nel nostro caso psichiatrico) la difficoltà sta nel trovare risposte concrete alle domande concrete che provengono dalla realtà in cui si agisce. Ma le risposte aderenti alla realtà dovrebbero insieme superarla per trasformarla. In questo senso, nell'ipotizzare un'organizzazione sanitaria, si corre il rischio di cadere in due errori opposti: da un lato quello di proporre risposte che vanno oltre il livello di realtà in cui si muovono i bisogni, creandone altri, attraverso la produzione di nuove realtà-ideologie cui le misure adottate sono pronte a rispondere; dall'altro, quello di restare così aderenti alla realtà, da proporre risposte chiuse nella stessa logica che produce il problema da affrontare. In entrambi i casi la pratica resta immutata - resta cioè sempre una realtà-ideologia, e le risposte si limitano a definire e a circoscrivere la problematica di ogni settore specifico.
Nel terreno dell'assistenza, il primo caso corrisponde alla creazione di nuovi servizi che, anziché far fronte alla malattia da curare, ne rileveranno nuove forme non ancora codificate, per le quali i servizi progettati saranno l'adeguata risposta ideologico-reale. L'ipotesi prospettata non nasce come diretta risposta a bisogni individuati, ma come evoluzione di un pensiero scientifico che procede seguendo la propria logica e, insieme, la logica economica dell'area in cui agisce. In questo modo prefigura ideologicamente la realtà cui si propone di rispondere, creando bisogni artificiali e occultando quelli reali. I servizi psichiatrici a carattere preventivo, così come si progettano e si attuano oggi, restano inseriti nella logica scientifica e nella logica economica che hanno risposto alla malattia mentale con la segregazione: la malattia è incurabile e incomprensibile; il suo sintomo principale è la pericolosità e l'oscenità; quindi l'unica risposta scientifica è il manicomio dove tutelarla e controllarla. Questo assioma coincide con l'altro in esso implicito: la norma è rappresentata dall'efficienza e dalla produttività; chi non risponde a questi requisiti, deve trovare una sua collocazione in uno spazio in cui non intralci il ritmo sociale. Scienza e politica economica vanno di pari passo, confermando la prima i limiti di norma più confacenti e utili alla seconda. La scienza serve così a confermare una "diversità" patologica che viene strumentalizzata secondo le esigenze dell'ordine pubblico e dello sviluppo economico, assolvendo la sua funzione di controllo sociale. Conservando questi presupposti, i servizi a carattere preventivo che non portano alla trasformazione della logica dell'esclusione e della strumentalizzazione della malattia, sono la dimostrazione pratica del dilatamento del campo dell'abnorme, più che del suo restringimento in seguito alla cura. Essi di fatto non rispondono al problema della malattia e all'insieme dei processi che la alimentano, ma si limitano ad assorbire nel suo campo comportamenti, in precedenza tollerati come normali (vedi ad esempio le forme di devianza prima accettate e ora definite come abnormità malate). L'utopia-ideologia, in questo caso, non fa che trasferire a un differente livello la codificazione di "diversità", confermandone la natura «disuguale», quindi confermando la logica della separazione fra salute e malattia e la conseguente esclusione a determinati livelli sociali.
Il caso invece dell'aderenza totale alla realtà corrisponde alla costruzione di strutture sanitarie tecnicamente più efficienti, che ovviamente conservano intatta la logica in cui sono inserite la malattia, la sua definizione e codificazione, nonché la natura delle misure finora adottate per rispondervi. Per troppo realismo si continuano a dare solo risposte aderenti allo scetticismo nei confronti del problema, implicito nelle strutture degli «asili»; si continuano cioè a dare risposte "negative" e riduttive che si limitano a confermare la negatività della realtà in cui l'«ipotesi utopica» non ha presa e non serve a trasformare la logica su cui essa si sostiene.
Ciò che deve mutare per poter trasformare praticamente le istituzioni e i servizi psichiatrici (come del resto tutte le istituzioni sociali) è il rapporto fra cittadino e società, nel quale si inserisce il rapporto fra salute e malattia. Cioè riconoscere come primo atto che la strategia, la finalità prima di ogni azione è l'uomo (non l'uomo astratto, ma tutti gli uomini), i suoi bisogni, la sua vita, all'interno di una collettività che si trasforma per raggiungere la soddisfazione di questi bisogni e la realizzazione di questa vita per tutti. Ciò significa capire che il valore dell'uomo, sano o malato, va oltre il valore della salute o della malattia; che la malattia, come ogni altra contraddizione umana, può essere usata come strumento di appropriazione o di alienazione di sé, quindi come strumento di liberazione o di dominio; che ciò che determina il significato e l'evoluzione di ogni azione è il valore che si riconosce all'uomo e l'uso che si vuol farne, da cui si deduce l'uso che si farà della sua salute e della sua malattia; che in base al diverso valore e uso dell'uomo, salute e malattia acquistano o un valore assoluto (l'uno positivo, l'altro negativo) come espressione dell'inclusione del sano e dell'esclusione del malato dalla norma; o un valore relativo, in quanto avvenimenti, esperienze, contraddizioni della vita che si svolge tra salute e malattia. Quando il valore è l'uomo, la salute non può rappresentare la "norma" se la condizione umana è di essere costantemente fra salute e malattia.
Quando invece i rapporti sociali di produzione sono fondamento di ogni relazione fra uomo e uomo come nella società capitalistica, si capisce anche come la malattia - di qualunque natura essa sia - possa diventare uno degli elementi usabili all'interno di questa logica, sfruttabile come conferma di un'esclusione, la cui natura irreversibile è data dalla categoria di appartenenza del paziente e dal suo potere economico e culturale. Questo non significa - come spesso è stato frainteso - che la malattia mentale non esista e che non si tenga conto in psichiatria, cioè in medicina, dei processi fondamentali dell'uomo. Significa che la malattia, come segno di una delle contraddizioni umane, può essere usata all'interno della logica dello sfruttamento e del privilegio, venendo così ad assumere un'altra faccia - la faccia sociale - che la fa diventare di volta in volta qualcosa di diverso da ciò che è originariamente.
Programmare un servizio sanitario che parta dalle premesse politico-sociali ora accennate e che ne lasci inalterati i meccanismi, significa accettare di includere nel terreno della malattia anche ciò che con la malattia non ha niente a che fare. Il servizio progettato, anziché rispondere ai bisogni reali, contribuirà in tal modo a dilatare il terreno della malattia, inglobandovi gli elementi di natura sociale che le si sovrappongono e in cui si finisce per identificarla. Se l'ipotesi tecnica non è possibile che come traduzione automatica di ideologia-realtà, le strutture terapeutiche non rispondono mai alla malattia, ma al "doppio" che ne viene costruito come risposta alle esigenze della produzione e del consumo (4).
Se si vuol dunque rispondere ai bisogni reali, è necessaria la consapevolezza dell'uso che viene esplicitamente fatto della malattia a certi livelli sociali, in modo che i servizi progettati non servano a dilatarla anziché ridurla.
Da queste premesse è facile dedurre che è impossibile e insieme inutile progettare un servizio per un'ipotetica popolazione astratta. Impossibile, se la risposta si limita a muoversi sul terreno (ideologico) dell'utopia realizzata solo a beneficio di pochi, dato che non siamo in grado, così facendo, di conoscere i bisogni dei più cui rispondere; inutile, se resta chiusa nei limiti della realtà attuale (che è realtà-ideologia) senza superarla per trasformarla. Il medico o i gruppi interdisciplinari, non organizzano i servizi sanitari come semplice risposta tecnica a un bisogno umano. Essi si limitano a svolgere la delega implicita nel loro ruolo: quella che proviene dalla loro appartenenza alla classe dominante e che consente di usare la propria conoscenza tecnica come strumento di potere e di dominio sulla classe dominata, per la quale l'alternativa allo sfruttamento in caso di malattia o di menomazione, è solo l'eliminazione o la segregazione, quindi la distruzione totale.
Se questo rapporto di dominio sta alla base del rapporto fra uomo e uomo, come presumere che il rapporto terapeutico tra medico e paziente sia esente dalla componente di classe implicita in ogni relazione sociale? Come parlare di profilassi psichiatrica, se uno dei luoghi più nocivi alla salute del cittadino è l'istituzione sanitaria (ospedali, ambulatori, dispensari) dove vige a tutti i livelli il rapporto di sopraffazione implicito nella struttura della nostra società? Se le istituzioni create e programmate per la prevenzione (primaria, secondaria e terziaria) sono esse stesse produttrici di malattia, la prevenzione non serve che a confermare la loro funzione in quanto strumenti di controllo "attraverso" la malattia che sarà, quindi, alimentata anziché curata. In questo senso esse risultano inefficaci se confermano la natura dei rapporti di dominio, attraverso il rapporto tecnico-assistito. Nel momento in cui nascono queste organizzazioni sanitarie, dobbiamo essere coscienti del ruolo che esse giocano. Il tecnico, nel mettere a disposizione dell'assistito le sue conoscenze, mette in atto automaticamente il ruolo di potere che gli viene dalla sua figura sociale, dalla classe cui appartiene, dal prestigio che gli deriva dal posto che detiene. Se nel rapporto con l'assistito appartenente alla sua classe, questo potere è controbilanciato dal potere dell'altro, nel rapporto con l'assistito appartenente alla classe subalterna esso agisce solo come una forma di dominio e di distanza, che impedisce all'altro di esistere come figura sociale, come uomo avente dei diritti.
La rottura del binomio sapere-potere, attualmente automatico e inscindibile nel ruolo del medico, è l'unica alternativa alla perpetuazione di questa distanza e di questo dominio. E' in tal senso che tendono ad agire i tecnici che hanno preso coscienza di questi processi, perché attraverso la rottura del potere medico, gli assistiti possano esigere un'assistenza che è loro diritto avere e che è dovere dei tecnici prestare. Ma finché esiste questo potere, come prodotto della divisione in classi, non si possono affrontare le contraddizioni umane come contraddizioni naturali (in medicina, la contemporanea presenza nella vita di salute e malattia), perché la malattia della classe subalterna continuerà a diventare un valore negativo assoluto, strumentalizzabile in ogni senso, contrapposto al valore assoluto positivo, rappresentato dalla salute che resta la condizione indispensabile per mantenersi all'interno del ciclo produttivo. Finché è la classe dominante a programmare i nuovi servizi sanitari (5) che dovrebbero rispondere ai bisogni di tutti, le nuove strutture continueranno a rispondere ai bisogni della classe che li programma. Per questo l'organizzazione risponde ai bisogni del tecnico più che a quelli dell'assistito, anche se apparentemente il medico cura e l'assistito viene curato.
Fin qui la nostra risposta al questionario. Ed è qui che si ripropone il ruolo del tecnico che, presa coscienza nella propria pratica professionale di questi meccanismi, deve individuare, assieme a chi è oggetto di oppressione, l'uso concreto che viene quotidianamente fatto dalla scienza borghese ai danni della classe subalterna, perché attraverso questa ricerca essa arrivi a conoscere tutti i meccanismi attraverso cui passa l'oppressione e li inglobi come altri contenuti della sua lotta. E tanto più l'intervento del tecnico riuscirà ad essere diverso da quello dell'intellettuale che insegna a chi è oppresso la via della liberazione, quanto più egli stesso si riconoscerà oggetto dei medesimi meccanismi, in quanto delegato a metterli in atto e a legittimarli.
La chiusura dell'esperienza, vissuta per undici anni nell'ospedale psichiatrico di Gorizia (6), può forse rappresentare un tentativo, da parte del tecnico, di portare fino in fondo il suo rifiuto a essere complice della copertura di un'emarginazione di classe che la scienza legittima attraverso l'alibi del controllo della devianza psichica. Le dichiarazioni allora rilasciate dal gruppo curante sembrano chiarire, più di qualunque commento, il significato di quell'azione e la posizione assunta dai tecnici nei confronti di una problematica che non trovava modo né possibilità di evolversi, se non riproponendo la logica manicomiale, precedentemente distrutta, che si sarebbe ricostruita nell'isolamento e nell'impossibilità di proporre a un livello diverso la problematica.
Al di là del valore reale-simbolico che può aver avuto la dimostrazione pratica della possibilità di «aprire» un manicomio e della graduale riabilitazione degli internati, si trattava principalmente di portare alla ribalta una problematica sociale che - partendo da una pratica particolare - proponesse temi e confronti generali. La validità di un tale tipo di azione - pur con i limiti impliciti nel fatto di essere condizionata e circoscritta dalle stesse strutture burocratico-amministrative cui l'organizzazione ospedaliera è legata - resta comunque l'uso che se ne fa, nel momento in cui essa esprime un nuovo tipo di contraddizioni. Ma parlare di «uso» di un'azione non significa, come le interpretazioni più grossolane e volgari hanno spesso ipotizzato, che i malati vengono strumentalizzati in nome della «rivoluzione»; né che, se non possono essere usati per «la rivoluzione», è inutile ogni tipo di intervento. L'uso di quest'azione significa che gli internati, nel graduale processo riabilitativo, esprimono e rappresentano - in rapporto alla struttura sociale e all'ideologia - un punto nodale dei problemi che, di volta in volta, devono essere rilanciati per essere affrontati a un livello diverso. E il compito dei tecnici è continuare a rilanciarli.
In questo senso vanno letti i documenti qui trascritti, come segno dell'uso politico di un momento repressivo del condizionamento sociale generale.

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Comunicato alla stampa (7).

A undici anni dall'inizio della trasformazione del manicomio di Gorizia oggi ho consegnato alla Procura della Repubblica la proposta di redigere il certificato di guarigione nei confronti di 130 persone internate presso il nostro istituto, insieme alla proposta di trasformare, in virtù dell'art. 4 della Legge n. 431/1968, 68 degenti in ammalati «volontari», persone cioè che volontariamente chiedono un'assistenza psichiatrica, conservando tuttavia il diritto di essere dimessi su loro richiesta. Restano 52 degenti che rientrano ancora nella Legge 1904, oltre i già attuali «volontari».
Ho consegnato al Presidente dell'Amministrazione Provinciale una relazione dettagliata dal punto di vista amministrativo sulla situazione attuale dell'Ospedale e la proposta da me avanzata al Procuratore della Repubblica. Ho messo al corrente della cosa il medico provinciale ed ho contemporaneamente rassegnato le mie dimissioni da direttore dell'ospedale assieme ai medici dell'équipe.
Partiti dall'ipotesi che il manicomio, oltre che servire di asilo per i malati di mente servisse come luogo di scarico per le persone genericamente devianti prive di soluzioni economiche e sociali, si è proceduto in questi anni alla lenta riabilitazione di chi era stato distrutto più dal lungo periodo di segregazione che dalla malattia in sé. Oggi non si può accettare di continuare a mantenere la maggior parte dei degenti segregati in un'istituzione che, per il fatto stesso di non consentire aperture e sbocchi, li farebbe velocemente retrocedere al grado di istituzionalizzazione e di distruzione personale in cui li avevamo trovati. Non è qui il caso di indagare perché l'Amministrazione Provinciale di Gorizia si sia rifiutata di aprire i centri esterni proposti e programmati fin dal '64 (vedi in particolare quello di Cormons, pronto da più di due anni) né di spiegare il suo atteggiamento concretamente negativista - al di là delle parole e delle dichiarazioni pubbliche - che ha sempre reso difficile ogni avvicinamento da parte dell'ospedale con gli enti locali con cui sarebbe stato possibile tessere una rete protettiva, sia in fase di post-cura che in fase preventiva, che avrebbe consentito e consentirebbe la finale riabilitazione di molti «volontari», costretti invece a riistituzionalizzarsi nella routine comunitaria.
In questa situazione "la nostre presenza nell'Ospedale Psichiatrico goriziano, oltre ad essere inutile, ci sembra dannosa per quei degenti - ed è la maggioranza - per i quali noi continuiamo a rappresentare, in qualità di psichiatri, la giustificazione al loro internamento". Se si tratta di persone per le quali non è stato possibile trovare una soluzione esterna, perché sole, perché povere, perché rifiutate, non per questo noi possiamo continuare a mantenerle rinchiuse nell'etichetta di ammalato mentale, con le conseguenze ed i significati che tale etichetta comporta.
Non sappiamo attualmente quali possano essere le decisioni del Procuratore della Repubblica, né quelle del Presidente dell'Amministrazione Provinciale. Sappiamo solo che ci allontaniamo con amarezza dall'ospedale di Gorizia dove, nonostante le polemiche e gli attacchi e nonostante l'assedio in cui siamo rinchiusi, siamo riusciti a dimostrare in dieci anni di lavoro come sia possibile esercitare onestamente la medicina e come si possa fare della psichiatria uno strumento di liberazione e non di oppressione come lo è stato per troppo tempo.
La pubblicizzazione della nostra azione sarà ancora una volta interpretata come desiderio di notorietà e di successo. Ma dichiarando apertamente conclusa l'impresa iniziata più di dieci anni fa, risulta forse più facile far comprendere al pubblico interessato a questo problema, suo come nostro, il senso del discorso pratico che abbiamo incominciato e portato avanti fino ad ora. Non è stato facile né per noi, né per quelli che ci hanno preceduti e che stanno ora lavorando in luoghi diversi, allo stesso fine. Ma crediamo di aver dato con questo una dimostrazione pratica di che cosa sia l'etichetta psichiatrica di malato mentale e quale uso ne possa venir fatto.
Forse l'unica cosa che potremo dire, a conclusione di questa dichiarazione, è che i malati, gli ex malati, gli ex internati che sono stati per tanti anni con noi, hanno dimostrato di avere compreso appieno la nostra azione, esprimendo come loro esigenza, maturata insieme alla nostra stessa maturazione, la necessità di una soluzione che vada oltre i confini della medicina e di cui hanno dato testimonianza con la maturità e la chiarezza con la quale hanno affrontato nelle nostre assemblee la discussione sul loro futuro. Per loro ci auguriamo che nessun collega possa tornare in questo ospedale per rifabbricare con un tratto di penna la loro malattia e la loro tragica carriera.

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Egregio Signor Presidente (8),
dopo la dichiarazione da Lei rilasciata a «Il Piccolo» sulla situazione che è venuta a crearsi nell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia in seguito alla posizione presa dal Direttore incaricato dottor Domenico Casagrande, sento la necessità di intervenire pubblicamente per fare alcune precisazioni.
Condivido incondizionatamente l'operato del dottor Casagrande che ritengo estremamente corretto sul piano tecnico, morale e civile. La decisione da lui presa non è che la conseguenza logica del lavoro iniziato undici anni fa e la conferma pratica della sua validità. Definirla una reazione «emotiva» e quindi immatura, mi sembra significhi prendere questa decisione come un'azione isolata e totalmente staccata dal contesto in cui è nata. Reattiva a che cosa potrebbe essere una presa di posizione di questo genere, se non all'impossibilità di procedere in un'azione che rischia di riproporsi nuovamente come una «gestione manicomiale» nel momento in cui non ha prospettive né sbocchi? Quale segno di immaturità rappresenterebbe, se da anni si aspettano a Gorizia (e le aspettavo da anni anch'io) le soluzioni esterne che sole potrebbero consentire la riabilitazione ed il graduale reinserimento dei degenti che non hanno più motivo di rimanere in manicomio? Non è forse segno di serietà professionale richiamare l'attenzione del pubblico sui limiti che incontra il tecnico nell'espletamento del suo lavoro, limiti rappresentati dalle responsabilità degli enti pubblici da cui l'assistenza dipende? E non è segno di responsabilità civile e sociale richiamare alla propria responsabilità gli organismi preposti alla gestione del bene pubblico?
Se tutto questo è segno di immaturità, sarebbe da augurarsi che gli immaturi fossero più numerosi.
Del resto le Sue stesse dichiarazioni sono contraddittorie dato che, se da un lato afferma e riconosce la validità di quello che Lei definisce «il metodo Basaglia», dall'altro l'Amministrazione Provinciale da Lei presieduta non permette praticamente di procedere oltre, decretando in questo modo la morte per asfissia di questo stesso metodo. Se Lei è disposto a riconoscere che l'opera di trasformazione avvenuta nell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia è stata un'azione determinante per il risveglio del problema psichiatrico in Italia, perché dovrebbe aspettare l'indicazione per un ulteriore sviluppo dallo studio della situazione psichiatrica italiana in generale? Quali indicazioni possono venire da uno studio astratto di una realtà da trasformare quando invece siamo di fronte a dei bisogni concreti cui rispondere in una realtà già trasformata? Le commissioni di studio non sono, in questo caso, che l'alibi per il rallentamento burocratico di ogni azione che vuole procedere, perché spinta da esigenze e da necessità reali. Ciò che si è tentato di fare nell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia è stato rispondere ai bisogni immediati dei malati, bisogni che gradualmente, di pari passo con la riabilitazione dei pazienti, sono venuti qualitativamente maturando ed evolvendo. Che cosa potrebbe fare ora il gruppo curante dell'ospedale se non fermarsi, dichiarando che non è di loro competenza rispondere al tipo di bisogni che attualmente la maggior parte dei degenti presenta?
Il tecnico che vuole agire a difesa e a tutela di chi chiede il suo aiuto e la sua opera può usare gli strumenti che «la scienza» gli offre solo se riesce a farli diventare mezzi di liberazione e non di oppressione. La scienza - così come la legge - nasce sempre come esigenza di tutela e di liberazione dell'uomo, ma è facile si traduca in un nuovo strumento di oppressione. La tecnica - così come la legge - può dunque essere usata come strumento di liberazione se riusciamo ogni volta a comprendere i bisogni reali cui si deve rispondere, evitando di presumere o di accettare che la scienza e la legge servano a rispondere ai bisogni dei tecnici o della società che li delega. L'ospedale è costruito per la cura dei malati e non per dare un ruolo al gruppo curante o difendere la società dal malato. Nel momento in cui il degente di un ospedale presenta necessità che vanno oltre la malattia di cui ha sofferto, il medico - continuando a mantenerlo rinchiuso nell'etichetta della malattia - non risponde più ai suoi bisogni ed in questo modo ne arresta il processo di riabilitazione e di liberazione.
Per questo la presa di posizione del dottor Casagrande è perfettamente coerente con tutto quanto abbiamo finora sostenuto e questa sua proposta - nata dalle esigenze stesse dei malati dell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia - potrebbe essere la proposta pratica per un'alternativa alla scienza ed alla violenza dell'istituzione: una proposta che richiama le responsabilità di tutti alla ricerca di una soluzione comune, dove non ci sia l'eterno capro espiatorio che paga per la salvezza e la sicurezza degli altri.

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Cari amici (9),
dopo undici anni di lavoro oggi lasciamo l'Ospedale e sapete con quale animo, dato che è anche il vostro. E' inutile parlare ancora con voi del significato di questa nostra ultima presa di posizione: la conoscete perfettamente perché è nata dalle vostre stesse esigenze, alle quali non era più di nostra competenza rispondere.
Si doveva in qualche modo rendere chiaro all'opinione pubblica, direttamente interessata a questi problemi, quale era il punto a cui si poteva arrivare in un'istituzione trasformata e quali erano gli ostacoli contro cui si scontrava ogni sua successiva evoluzione, in modo che fossero chiare le responsabilità e le competenze.
L'Ospedale Psichiatrico di Gorizia ha dato in questi anni un'indicazione pratica sul modo in cui si possono affrontare i problemi dell'uomo malato e della sua sofferenza. Tutti insieme abbiamo fatto fronte a fatiche, incomprensioni, lotte, ma siamo riusciti fino ad ora a portare avanti un'azione che ha avuto un valore dimostrativo tale da far rinascere in molti la speranza della possibilità di un rapporto diverso fra gli uomini.
Nella Provincia di Gorizia e ben oltre i suoi confini, è ora il cittadino il potenziale malato, il potenziale utente del servizio sanitario, che parlano e discutono dell'ospedale aperto, dell'ospedale chiuso, della necessità di una riforma sanitaria che risponda ai bisogni dei malati. Ciò significa che è il cittadino che si è impadronito - attraverso un'azione pratico-dimostrativa e la sua divulgazione attuata con tutti i mezzi a disposizione - del problema della sua malattia e della sua cura.
Quest'ultimo gesto che porta il nostro allontanamento dall'ospedale non è che la coerente dimostrazione pratica del rifiuto di accettare i limiti che ci vengono imposti dall'esterno e che interferiscono nel nostro lavoro distruggendolo e deteriorandolo attraverso la tecnica dei tempi lunghi, del rimandare a domani quello che si può fare oggi. In queste condizioni noi stessi, alle vostre legittime domande: «quando vado a casa?», dovremmo riprendere le menzogne dei vecchi manicomiali che rispondevano «domani», sapendo bene che quel domani non esisteva nel vostro calendario.
Quello che ci unisce anche in questo atto di rifiuto responsabile di una complicità che noi non possiamo sostenere nei vostri confronti, è quello che abbiamo fatto insieme a voi degenti, infermieri ed a tutti i medici che ci hanno preceduto. Forse il significato più profondo di quanto è accaduto nell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia è che quanto è avvenuto è veramente il risultato di uno sforzo, di un lavoro di responsabilizzazione di tutti i membri dell'istituzione che risultano - tutti insieme - autori dell'opera di capovolgimento pratico attuata.
Quando uno di voi ha detto che la trasformazione in atto nel nostro ospedale non era opera dei medici, ma che i medici avevano messo le chiavi nella toppa ed i malati le avevano poi girate per aprire la porta, aveva dimostrato di aver capito quello che altri organi responsabili non hanno ancora compreso.
L'Ospedale Psichiatrico di Gorizia - per la sua storia e per essere diventato un punto di riferimento nell'evoluzione della psichiatria italiana - aveva la responsabilità di denunciare quali e di quale natura fossero gli ostacoli che impedivano il procedere della sua evoluzione. Non è stato un gioco irresponsabile fatto alle vostre spalle: noi siamo perfettamente consapevoli del grado di maturità e di responsabilità cui è arrivato attualmente l'intero ospedale. Abbiamo fatto una lotta assieme e in molte circostanze abbiamo vinto e siamo riusciti a dimostrare qualcosa di molto importante. Se noi ci lasciamo ora, questa non è una sconfitta nostra né vostra: è un'altra tappa della nostra lotta che dobbiamo continuare insieme, anche se separati.
I nuovi medici che ci sostituiranno forse non sapranno e non capiranno subito che cosa siamo stati l'uno per l'altro; non sapranno e non capiranno subito che cosa significa costruire o tentare di costruire insieme la propria liberazione; non sapranno e non capiranno subito che cosa volevamo ancora fare assieme e ci è stato impedito di fare.
Ma adesso sta a voi dimostrare tutto questo: l'Ospedale non potrà mutare perché siete voi a determinarne l'andamento ed il ritmo di vita. Le parti si sono ormai capovolte. Sarete voi a dimostrare ai nuovi medici le esigenze a cui devono adeguarsi; sarete voi a curare e sedare la loro ansia perché il loro compito non è facile, meno facile del vostro dato che ormai sapete di che cosa avete bisogno; sarete voi a far capire loro che cosa è stato il nostro lavoro di questi anni e a testimoniare come si fa a responsabilizzarsi quando si è irresponsabili.
Per questo, nel lasciarvi, siamo sereni anche se addolorati: perché sappiamo che quello che abbiamo fatto assieme è "vostro" e nessuno potrà distruggerlo. Non solo, ma perché abbiamo la certezza che tutti voi, degenti ed infermieri, siate in grado di continuare la vostra e nostra battaglia, sapendo che noi saremo altrove, ma sempre lottando per le stesse cose.

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Egregio Signor Presidente (10),
nella sua qualità di Presidente della Commissione del concorso dell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia e di Presidente dell'Amministrazione Provinciale, Le comunico di aver deciso - dopo i noti fatti - di presentare le mie dimissioni da membro di detta Commissione.
Gli avvenimenti che si sono succeduti in questo ultimo mese mi hanno portato a maturare questa decisione. A questo punto, che senso ha il mio avallo in un concorso ormai chiaramente definito, quando la staffetta che ha già preso possesso dell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia porta il nome del «Caposcuola» che la seguirà?
L'Amministrazione Provinciale di Gorizia è finalmente libera di dar corso alle operazioni di chiusura di un'esperienza che - secondo quanto Lei stesso ha avuto modo di dichiarare più d'una volta - ha dato l'avvio alla trasformazione dell'assistenza psichiatrica in Italia, ma ha evidentemente provocato, insieme, troppe tensioni e polemiche portando alla ribalta nazionale un problema che era bene restasse ancora coperto in tutte le sue ambiguità. E' troppo facile imputarci di avere strumentalizzato un'azione per farci della pubblicità: Lei sa bene che se il problema dell'assistenza psichiatrica è ora patrimonio dei suoi utenti, lo si deve soprattutto a ciò che è stato fatto a Gorizia e al modo in cui è stato divulgato il significato di questa esperienza.
Ora comunque il gioco è finalmente chiaro. L'Amministrazione Provinciale di Gorizia non può più dichiarare di essere pronta a continuare la cosiddetta «linea Basaglia» perché l'ultima opportunità di dimostrare "praticamente" questa intenzione, era capire il senso implicito nell'ultimo gesto dell'attuale gruppo curante che voleva, in vista di un cambio della guardia chiaramente auspicato dall'Amministrazione Provinciale attraverso il suo comportamento nei confronti della gestione dell'Ospedale, impegnare concretamente gli organi responsabili per il futuro della loro istituzione psichiatrica.
L'impegno è stato eluso burocraticamente e questo sgombra da ogni equivoco l'operato dell'Amministrazione Provinciale che non potrà più schermarsi dietro la «linea Basaglia» ufficialmente appoggiata e praticamente osteggiata in tutti i modi. Il momento è chiarificatore e particolarmente importante per quello che lo svolgersi dei fatti ha lasciato capire: perché la realtà pratica rappresentata dall'Ospedale Psichiatrico di Gorizia sta fungendo da verifica della moralità politica sia della classe medica che di quella politico-amministrativa. Non è infatti casuale che gli ultimi interventi dell'Amministrazione Provinciale di Gorizia siano stati appoggiati e riconosciuti come propri dal M.S.I. e dalle ali più regressive e immobiliste di ogni schieramento politico. Contemporaneamente, da parte dei medici si assiste al rompersi del corporativismo che finora ha tenuto ferreamente legata la categoria, mostrando esplicitamente la natura della frattura interna, fondata su una scelta tecnico-politica fondamentale: l'uso della scienza come strumento di liberazione o di oppressione.
Il modo in cui l'Amministrazione Provinciale di Gorizia ha inteso uscire dall'impasse in cui il suo ospedale e i suoi degenti l'avevano messa, testimonia dunque definitivamente la sua scelta per il futuro. Per questo non intendo avallare con la mia presenza una decisione che esclude dal proprio terreno di lavoro chi ha lottato per trasformare non solo il manicomio di Gorizia, ma i manicomi italiani, l'atteggiamento generale verso il malato mentale e la stessa definizione di malattia come qualcosa di infamante e di irreversibile.
A questo punto, per quanto ci lega ai degenti dell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia e per quello che è stata per noi e per loro questa lunga, faticosa esperienza comune, non mi resta che augurarmi che l'Amministrazione Provinciale, disponendo di un'équipe medica più arrendevole e meno «facinorosa» si trovi nella necessità di far fronte velocemente, senza resistenze e rinvii, all'esigenza dei suoi degenti e che questo atto si traduca in una spinta ad agire per tappare le falle di una situazione altrimenti insostenibile.
Per questo, per non turbare il procedere della vita dei degenti, non interverremo più, né con polemiche, né con attacchi, sul problema della conduzione dell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia sperando che nessun degente abbia a pagare per il gesto di irresponsabilità dettato da un'evidente ripicca politica dei suoi amministratori.

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I medici dimissionari di Gorizia rifiutavano dunque di proporre un modello di conduzione ospedaliera che si sarebbe inevitabilmente tradotto in una gestione di tipo manicomiale, dove il tecnico non avrebbe potuto che riassumere il ruolo di manipolatore e di funzionario del consenso. La terapeuticità della prima fase critica era implicita nel processo di trasformazione di un terreno istituzionale in cui tutti i componenti erano presi in causa, così come i rapporti fra questo e il sistema sociale di cui esso è espressione. Nel momento in cui la nuova gestione è accettata solo se si propone come un nuovo modello tecnico, chiuso in sé e senza la possibilità di un'evoluzione successiva, cioè senza la possibilità di aprire a un livello diverso le contraddizioni, il processo di trasformazione si arresta e viene ridotto a un processo di adattamento alle nuove norme, che distrugge la terapeuticità dell'organizzazione ospedaliera, attraverso la stereotipizzazione della dinamica iniziale. E' questo processo regressivo di adattamento che i tecnici goriziani hanno rifiutato, proponendo un'indicazione di quella che poteva essere la successiva evoluzione, se questa non fosse stata impedita e bloccata.
Le contraddizioni aperte devono essere richiuse, e allora sono «irresponsabili», «emotivi», «immaturi» coloro che le hanno rese evidenti (senza ricordare che forse non ci sono aggettivi per qualificare quelli che ci avevano preceduti e che tuttora agiscono nei manicomi) e l'ordine si ricompone con la repressione e l'occultamento dei problemi reali.
L'esperienza di Gorizia doveva essere "comunque fisicamente" eliminata, perché la finalità di quest'azione non era proporsi come un nuovo modello tecnico, come lo poteva essere in Inghilterra la comunità terapeutica di Maxwell Jones, o in Francia il Tredicesimo Arrondissement, vetrine psichiatriche in cui esporre il nuovo prodotto pronto al consumo. Essa, partendo dalla psichiatria e dal manicomio come situazioni emblematiche, proponeva una problematica politica e sociale che non voleva limitarsi alla trasformazione umanitaria dell'ospedale - pur attuandola - ma che considerava questa un'occasione per mettere praticamente in discussione la finalità dell'esistenza del manicomio e delle modalità della sua esistenza, in rapporto alla nostra struttura sociale.
Nel momento in cui la contraddizione non poteva essere portata all'esterno, nella società più vasta, le dimissioni del gruppo curante - prigioniero nell'isola comunitaria che aveva costruito - erano un modo di rilanciarla e di riproporre il problema dell'assistenza psichiatrica su un piano ulteriore di esplicitazione e di lotta.
E' su questo tema e sulla posizione dei tecnici del sapere pratico, che abbiamo avuto, nell'inverno del '72, una conversazione con J.-P. Sartre, conversazione che prosegue, in un tempo successivo, in quella di Dedijer e da questi trascritta nei suoi appunti sulla storiografia.

FRANCO BASAGLIA Il tecnico borghese, delegato alla gestione delle diverse specificità professionali, può essere considerato un intellettuale in senso gramsciano, in quanto depositario e insieme produttore di temi e di idee che servono al mantenimento dell'istituzione in cui opera, e di riflesso alla sopravvivenza della propria classe e del sistema sociale in cui è inserito.
In questa prospettiva, anche alla luce dei movimenti che si sono verificati in questi ultimi anni da parte di tecnici che rifiutavano la delega sociale implicita nel proprio ruolo, come vede la problematica dell'intellettuale e del tecnico-professionale in rapporto alla pratica istituzionale? Questo, sia per quanto riguarda l'azione nelle istituzioni in generale, che in quelle psichiatriche in cui noi siamo più direttamente coinvolti.
J.-P. SARTRE Sono poco informato sulla psichiatria. Ho seguito i suoi lavori e sono perfettamente d'accordo su quanto lei ha detto. Posso comunque parlarle di ciò che penso dell'intellettuale.
Per me l'intellettuale non è semplicemente un tecnico. Per esempio uno studioso americano che si occupi della bomba atomica non è un intellettuale, bensì ciò che io chiamo un «tecnico del sapere pratico»: diventa un intellettuale nel momento stesso in cui comincia a interrogarsi sull'importanza della bomba atomica e finisce col contestare il lavoro che fa; vale a dire nel momento in cui constata la propria contraddizione, che è quella di servirsi di tecniche che si fondano sull'universale per fini particolari, appartenenti a un gruppo particolare. Egli si trova allora in contraddizione con se stesso: creato per tecniche universali, serve i fini, per esempio, di una borghesia o di una casta che lo utilizzano per i propri interessi. Dunque egli si trova in totale contraddizione con se stesso.
Questo è ciò che io chiamo il vecchio intellettuale, quello che si trovava fra il 1930-60. Questo personaggio aveva due difetti: in primo luogo reputava di dover restituire l'universale ovunque apparisse chiaramente che lo si utilizzava per il particolare. Conseguentemente doveva avvicinarsi alle masse, che rappresentano il vero universale e alle loro necessità o ai loro bisogni, ma nello stesso tempo egli doveva restare un intellettuale: vale a dire continuava a essere soddisfatto di costituire questa «coscienza infelice», questo rapporto fra l'universale e il particolare che gli consentiva di mantenersi quasi a livello di capo, ossia continuando ad essere l'intellettuale che firmava proteste, che promuoveva dibattiti e che poteva prender parte a certe azioni politiche. In definitiva era un capo. Egli non riteneva di avere una disposizione innata per essere tale, ma reputava che il suo potere gli venisse dal sapere acquisito e dalla contraddizione che trovava in sé. Inoltre - e questo è il secondo difetto - gli intellettuali costituivano un gruppo particolarmente definito, poiché erano tecnici scontenti del lavoro che facevano. Giungevano a considerare la rivoluzione come la dittatura del gruppo intellettuale.
Dopo il '68, da noi è apparso evidente, ai più giovani, come ci fosse qualcosa di completamente contraddittorio nell'intellettuale, nel senso che egli era partigiano d'azione per un fine universale e, nello stesso tempo, sapeva di essere individualizzato da ciò che gli si domandava a livello statale, a livello della classe privilegiata, ed egli soffriva di questa sua contraddizione, ma eleggeva la sua sofferenza a buona sofferenza: era contento di sé perché trovava che questa contraddizione gli permetteva di mettere a nudo tutte le azioni pretese universali, ma in realtà particolari, intraprese da un governo o da una classe.
Ora è evidente per questi giovani che, se la contraddizione dell'intellettuale fosse stata vera, totale, egli avrebbe dovuto sopprimersi in quanto intellettuale; avrebbe cioè dovuto rifiutarsi di mantenere quella contraddizione non necessaria, per vedere ciò che rappresentano le classi, le istituzioni forgiate dalla società civile e dalla società politica. E' sufficiente raggiungere le masse per trovare il loro vero scopo, non limitandosi a criticare la classe dirigente, ma entrando nella vita reale e costante che queste conducono contro di essa.
Ciò significa che un intellettuale, oggi, dopo il '68, cosciente della sua contraddizione, deve sopprimersi in quanto intellettuale; il che non significa in quanto tecnico: egli può essere medico o ingegnere, ma deve sopprimersi come intellettuale per raggiungere le masse. Non deve più essere una coscienza tormentata che plana sopra le masse (eravamo tutti così prima del 1968), ma deve essere come uno dei tanti della massa, che ha il proprio mestiere e che esamina i problemi dal punto di vista della «necessità universale», cioè dei bisogni della massa in generale. Gli intellettuali d'oggi affermano: bisogna che ci sopprimiamo in quanto tali. Non vediamo l'intellettuale nello stesso modo. Coloro di cui parlo, coloro che vogliono sopprimersi, capiscono che la contestazione deve essere contemporaneamente globale e particolare.
Ecco il mutamento, che potrebbe essere capitale, che si sta ora verificando da noi. Molti giovani, educati per essere tecnici del sapere pratico, a un certo momento hanno smesso di esserlo; sono entrati per esempio, nelle fabbriche, ne «les établis», come si dice da noi. Questi intellettuali sono ora degli operai e fanno nello stesso tempo un lavoro politico. Essi hanno dunque certe qualità che acquisiscono durante i loro studi e che possono sempre servire; ma queste qualità non le mettono al di sopra della massa. Ciò dà loro un'occupazione o un lavoro vero e proprio. Essi possono forse redigere meglio una cosa richiesta da un gruppo popolare, ma nell'azione sono eguali agli altri.
Nasce allora un problema difficile perché naturalmente la società non ammette questa gente. Si tratta, è evidente, di persone che sono automaticamente dall'altra parte della società. Il che significa la contestazione di tutte le istituzioni, poiché queste istituzioni comprendono proprio l'elemento particolare che conosciamo. Questi giovani sono quindi nell'illegalità, perché contestano contemporaneamente e il tipo di istituzione e tutte le istituzioni formate da una società che usa l'universale come mezzo per soddisfare necessità particolari, e, insieme, essi si negano in quanto intellettuali.
Originariamente l'intellettuale è un prodotto dell'istituzione borghese, ma quando egli giunge a cogliere le sue contraddizioni con forza, non gli resta che una soluzione: gettarsi nell'illegalità, cioè insieme agli altri, gettarsi nel rifiuto e nella contestazione dell'insieme della società che lo ha formato. Ciò presuppone che egli militi per una società in cui l'intellettuale non esisterà più, ma in cui tutti saranno contemporaneamente tecnici del sapere pratico e manuale, per esempio come in Cina: lavorano coi contadini, poi fanno anche un lavoro proprio. E' questa, secondo me, la situazione e l'aspirazione degli intellettuali che devono tornare alle masse.
Quindi va da sé che tutto ciò li porta alla contestazione di quanto fa la società nei riguardi dei marginali - prendo questo esempio, ma avrei potuto prenderne altri - e tra questi marginali di coloro che sono chiamati normalmente i pazzi, da una società che si riconosce buona e rifiuta a priori i marginali.
Che si può fare se sono rifiutati? Li si mette in prigione per un tempo più o meno lungo. La società che noi vogliamo realizzare è una società in cui non ci saranno emarginati. Non ce ne saranno perché questi marginali sono, in realtà, come gli intellettuali, persone che non si adattano alla società così com'è attualmente. Poiché al giorno d'oggi c'è gente che agisce così, in modo solitario ed è chiaro che li si può chiamare pazzi. Ma in verità si può dire semplicemente che essi sono stati posti in una situazione solitaria e che contestano isolatamente l'insieme sociale, ivi compresa la ragione stessa.
Il problema non è dunque l'istituzione della psichiatria (che crea pazzi); il problema è sapere come si possano aiutare nella loro contestazione uomini che contestano da soli, in modo oscuro, complicato, ingarbugliato; come li si possa aiutare a contestare in modo più chiaro. E possibile? E' molto difficile. E' certo, comunque, che la psichiatria è esattamente il contrario di ciò che dovrebbe essere per poter aiutare queste persone. L'idea stessa della guarigione mi sembra assurda: guarire, in questa società, significa adattare le persone a dei fini che esse rifiutano, significa quindi insegnar loro a non contestare più, adattarle alla società. Questo è stato uno dei grandi torti della psicoanalisi. Evidentemente lo scopo della psicoanalisi è quello di prendere un individuo, che è più o meno ai margini, e adattarlo. Se diventa un buon dirigente o qualche altra cosa, lo si è guarito. Ora, non lo si è guarito affatto, lo si è massacrato. Non è questo il punto. Bisogna cercare in lui, capire la sua contestazione, capire ciò che voleva dire.
Per quanto ci riguarda, nel momento stesso in cui neghiamo l'intellettuale, attribuiamo molta importanza alla soppressione di ogni istituzione psichiatrica che parta da principi esattamente opposti a quelli che dovrebbero costituirne la base. Non si prendono mai le persone come individui da considerare in se stessi; si prendono in rapporto a degli schemi: questo è sano, questo è malato, eccetera. Tutto ciò non ha alcun significato per noi, e mentre lottiamo contro ogni forma di prigione (il Gruppo d'informazione delle prigioni è un gruppo di intellettuali che si occupano delle carceri e cercano di trasformare il regime carcerario per poterlo sostanzialmente sopprimere in futuro) ci sono persone, che qui in Francia chiamiamo «antipsichiatri», ma il cui fine è esattamente quello cui ho appena accennato: cioè prendere gli individui in quanto tali, il che è una forma dell'universalità (coloro che li criticano credono che sia individualismo; in realtà è una forma di universalismo) e provare a dar loro una forma più sociale di contestazione, senza per altro mutare nulla dell'individuo.
BASAGLIA Il tecnico borghese accetta automaticamente la gestione dell'istituzione come una cosa morta, come non fosse possibile ridomandarsi che cosa ne sia il contenuto, o come non dipendesse da lui la definizione che il suo stesso intervento tecnico conferma. Quali sono, secondo lei, i problemi teorici e pratici del tecnico di fronte alla realtà, tenuto conto che la realtà stessa in cui viviamo non è che ideologia?
SARTRE Effettivamente il tecnico ha un'attività pratica ed è circondato dall'ideologia che, d'altra parte, è sostanzialmente in contraddizione con se stessa. Per esempio uno psichiatra, nel momento in cui ha la sua pratica, si trova a contatto diretto con degli emarginati, cioè con quelli che la società chiama pazzi; si trova circondato non solo da un'ideologia, ma da un'istituzione, per esempio l'ospedale psichiatrico, il quale definisce i pazzi (l'istituzione e l'ideologia definiscono il pazzo): il tecnico pratico non ha per nulla lo stesso rapporto del tecnico. L'uomo che vede, che cura, non ha alcun rapporto con il tecnico teorico. Finché non avrà rinunciato a questo tipo di istituzione, sarà costretto a continuare ad applicarla; sarà medico di un ospedale psichiatrico e gli si dirà: ciò che si deve fare, si deve fare: sta scritto. Si tratta contemporaneamente dell'istituzione e dell'ideologia, essendo l'ideologia nient'altro che la traduzione a livello diverso dell'istituzione.
A questo punto, in quanto pratico, egli si trova in conflitto con una concezione che è semplicemente quella della classe dominante. Ma essa si trasferisce anche nelle classi contestatrici, poiché tutto ciò che noi diciamo sarà necessario spiegarlo alle masse perché capiscano: anch'esse sono abituate a pensare che un pazzo è un pazzo: la classe dominante ha dato loro la sua ideologia a questo proposito.
Allo stesso modo si incontrano delle difficoltà, per esempio, nella verità pratica delle carceri: c'è l'ideologia (si punisce) e poi c'è la verità (i detenuti subiscono una punizione diversa da quella che è stata loro inflitta). Non si pone neppure il problema se si ha il diritto di punire e in quale modo. Ma se si condanna un uomo a quattro anni di galera, teoricamente, nello spirito del giudice si tratta di quattro anni di isolamento in una camera con del cibo e basta. In realtà significa metterlo all'inferno, perché c'è gente che ha paura di lui, che lo picchia o lo tortura: una costante tentazione al suicidio (ha visto che ci sono uno o due suicidi al giorno, attualmente?) Questa è la verità. Non si potrebbe mai supporre che un giudice che dà quattro anni di galera a un colpevole, lo condanni per quattro anni a essere picchiato, torturato e messo in condizioni di tentare il suicidio. C'è qui una contraddizione profonda: da un lato l'uomo del potere e dall'altro l'uomo del potere pratico, il direttore della prigione, il guardiano, i quali vedono che in pratica non è così. Essi si schierano dalla parte del tecnico ed è questo che porta ai suicidi, alle rivolte o alle torture.
Anche qui è chiaro che la verità pratica è diversa da quella ideologica. Un'ideologia esce dalla pratica ed è esattamente quella che noi dobbiamo mettere a punto oggi. Però non sono gli intellettuali che devono fare questo, ma l'insieme delle persone.
BASAGLIA E' questo il problema. Si tratta della costruzione di un'alternativa pratica che non risponda più ai bisogni di chi la crea, ma a quelli per cui sarebbe formalmente creata. Occorre agire direttamente nella situazione, per arrivare a comprendere quali siano i bisogni cui si dovrebbe rispondere. Bisogna cioè costruire assieme agli altri, al malato, al carcerato, a chi abitualmente è oggetto di oppressione e di manipolazione da parte di una classe, anche attraverso la scienza e la tecnica, uno strumento capace di rispondere praticamente ai bisogni, opponendosi alla strumentalizzazione che traduce la scienza in uno dei mezzi di oppressione di classe.
SARTRE Penso che, nel mondo borghese, la scienza sia anche ideologica. Essa cioè contiene elementi universali, ma è talmente orientata che contiene degli enunciati particolari presentati come universali. Si tratta di enunciati erronei, che tuttavia appartengono al campo della scienza e ciò si verifica soprattutto al livello in cui la scienza teorica diventa scienza tecnica e pratica. Su alcuni punti specifici, per esempio, la psichiatria e altri, sta alle masse reclamare una concezione diversa della scienza. Le scienze umane sono scienze borghesi. Esse arrivano al punto di giustificare i massacri degli indiani, e sappiamo tutti che cosa significhi.
Abbiamo pubblicato in «Temps Modernes» dei numeri sull'antropologia. Gli etnologi capiscono questo problema e affermano: poiché siamo sempre legati all'imperialismo, consideriamo questa gente come selvaggi; se non ci fossero i soldati, non ci accetterebbero. Allora, cosa si può fare? Si è fatta una lunga discussione a questo proposito.
Si tratta di un punto molto preciso in cui scienza, imperialismo, tutto si mescola. Occorrerebbe chiarire ciò che vi è di ideologia borghese nella scienza, a livello degli stessi concetti pratici. Per esempio, secondo me, la psicoanalisi, è completamente borghese. Non ha i mezzi per svilupparsi tra le masse, dove non ha alcun senso. Si fa la psicoanalisi di gruppo, ma è una pazzia, perfino dal punto di vista di Freud. D'altra parte è vero che coloro che la praticano sono borghesi e, in quanto tali, incapaci di capire le situazioni attuali. Ricordo il caso di un amico di ventisette anni che faceva parte di un movimento di contestazione di sinistra. Ha avuto molti guai, è vissuto solo, si è drogato con L.S.D. ed è andato da uno psicoanalista. Ma costui non è stato in grado di distinguere ciò che sono la vita di un giovane militante di questo tipo e le sue pulsioni. Per esempio, sosteneva che il giovane aveva un certo ascendente sui compagni perché voleva interpretare il ruolo del padre. E' assurdo. Non voleva rappresentare il padre. Si tratta di ben altro. Gli psicoanalisti non sanno rendersi conto di ciò che succede a un giovane che è stato sconvolto nel '68.
Lei ha perfettamente ragione, infatti: ci sono concetti scientifici che possono essere accompagnati da concetti borghesi.
BASAGLIA Di fronte al compito di rovesciare praticamente un'istituzione e insieme l'ideologia su cui si fonda (scuola, ospedale, carcere, eccetera) il tecnico ha due possibilità: o un capovolgimento ideologico che si limita a proporre un successivo modello di gestione, o un capovolgimento pratico che abbia in sé elementi utopici capaci di prefigurare una possibilità di rapporto in grado di rovesciare il "segno" secondo cui la scienza e la tecnica borghese sono orientati. Ma il pericolo di questo rovesciamento pratico è la caduta in una successiva ideologia, dato che ci si continua a muovere sul terreno minato dell'ideologia-realtà borghese.
SARTRE Si tratterebbe di proporre dei mutamenti ulteriori che non sono ancora realizzabili. Capisco il suo punto di vista, ma non sono del tutto d'accordo. Mi sembra che se ci si limita a considerare la negazione di queste istituzioni insita nelle masse e a studiare questa negazione stessa, a rinforzarla, non ci sarà bisogno di passare attraverso l'utopia. Ci si attacca alla scienza pratica, ci si attacca alle istituzioni, senza formulare ciò che sarà dopo. Semplicemente ciò che si vuole non è dato e ciò che si vuole non è mai esattamente ciò che sarà dato. Può essere meglio. Capisce cosa voglio dire? Non sono molto lontano da lei, solo che non mi piacciono tanto le utopie. Si nega ciò che si ha, lo si nega globalmente e anche individualmente, e si cerca di distruggerlo: secondo me questa è la strada per arrivare a qualcosa.
BASAGLIA Ma in questa nostra realtà, cercare una scienza costruita assieme ai suoi utenti reali o potenziali, è già un'utopia (anche se capisco che il mio modo di usare questo termine non è filosoficamente corretto). Questo non significa staccarsi dalla realtà pratica, ma tentare di trovare risposte ai bisogni reali delle persone, alla cui cura, la scienza si dichiara votata: realizzare questo diventa «utopico» nella nostra realtà.
SARTRE Molti accetterebbero questo discorso, ma per me la parola utopia è troppo carica di non essere, di ciò che si immagina. D'altra parte, in fondo, l'utopia deriva già dal sistema, come negazione delle istituzioni. Secondo me, sono problemi di questo genere, problemi positivi che devono necessariamente uscire dalle distruzioni che vogliamo: perché non si tratta di negare, di rifiutare globalmente il sistema attuale. Il sistema attuale c'è e bisogna lottare a poco a poco contro di esso.
E' nella pratica che si trovano gli elementi che, in un momento molto vicino, possono diventare delle indicazioni ideologiche nuove. Si tratta d'altronde di sapere se possiamo sopprimere tutte le ideologie. Anche questo è un problema. Esiste un'ideologia valida, quando l'ideologia in generale non è la scienza? Questo pone il problema della filosofia. Ed è un problema che non voglio trattare, oggi. Soprattutto per me, questi sono dei problemi: potrebbe esserci un'ideologia universale che fosse la buona filosofia, diversa dalla scienza? Oppure si deve sopprimere ogni ideologia? E' difficile. Dipenderà anche da ciò che sarà la nuova scienza. Essa potrà sostituire la filosofia se userà procedimenti diversi dai vecchi metodi analitici, i quali fanno sì che una legge sia y = f(x). Se sarà qualcosa di diverso, se dalla dialettica nascerà un'altra scienza, allora forse la filosofia sarà inutile. Ma tutto ciò lo si saprà solo attraverso la negazione. E' questo che bisogna vedere. Per esempio, se l'uomo diventa ciò che sarà attraverso la negazione del suo ruolo di psichiatra e del ruolo di malato, se si arriverà a qualcosa come una nuova concezione dell'uomo, della realtà sociale, se ciò esisterà, forse non ci sarà più bisogno della filosofia. Se invece non lo si farà, se la scienza resterà del tipo y = f (x), allora occorrerà che esista una concezione dialettica, che sarebbe la filosofia, la sola ideologia possibile. Ma tutto questo io non lo so, non si sa.
BASAGLIA Anni fa lei ha scritto una frase che mi aveva molto colpito: «le ideologie sono libertà mentre si fanno, oppressione quando sono fatte». Non so se si tratti di una mia proiezione, ma mi sembra che in questa enunciazione sia presente la necessità di vivere a mano a mano le contraddizioni che si aprono, anche se ricorrendo a una ideologia nata originariamente come rifiuto e negazione, senza attaccarsi alla stessa ideologia per sopravvivere. Ma il problema è come, in questa società, riusciamo a sopravvivere senza aver bisogno di ricorrere a strumenti di difesa, evitando di cadere nella stessa logica contro cui si lotta.
SARTRE Capisco all'incirca quello che ho potuto voler dire. C'è una parte di creatività in qualsiasi ideologia, anche in una ideologia borghese. Ma una volta fatta, si è alienati. Se ci deve essere una nuova creazione, che sia una ideologia alla quale non si sia alienati. Che si sia noi stessi ideologia. Tutti questi sono problemi.
BASAGLIA Rifacendomi a questo proposito al caso che lei conosce, di Gorizia, potremmo dire che, dopo la prima fase di denuncia pratica della funzione dell'ideologia psichiatrica, si correva il rischio di cristallizzarsi nella nuova ideologia (la nuova gestione «buona» dell'istituzione, il nuovo modello tradotto in una nuova tecnica terapeutica) che avrebbe riproposto, anche se a un livello diverso, la stessa logica oppressiva contro cui si era lottato. Il secondo passo attuato è stato quello di proporre a un livello successivo la problematica istituzionale. A passi graduali fino ad arrivare alle dimissioni clamorose dei medici, è stato possibile proporre praticamente il problema dell'assistenza sanitaria su un piano a mano a mano più reale, rendendo esplicito che si trattava soprattutto di un problema di assistenza pubblica, cui gli organi responsabili hanno sempre eluso con la complicità della psichiatria e delle istituzioni psichiatriche. Questo gesto può essere interpretato come una rinuncia o lo ritiene un intervento valido nella strategia della lotta nelle istituzioni?
SARTRE E' difficile saperlo. Potrei prevedere un po' ciò che farebbe il governo francese, ma non conosco abbastanza quello italiano. Mi sembra che i politici e gli amministratori italiani siano più elastici di quelli francesi. Forse tenteranno di evitare la totale disgregazione provocata dalle dimissioni, forse... semplicemente perché mi sembrano più elastici. Da noi, con il governo attuale si accetterebbero le dimissioni dei medici e li si sostituirebbero con altri medici fascisti. Ci sono stati casi, non altrettanto importanti, in cui le cose sono andate esattamente così.
BASAGLIA Si potrebbe concludere, allora, che l'importante è uscire dalla logica implicita nell'opposizione fra i termini «vittoria» e «sconfitta». L'unica possibilità è ancora quella di continuare a lottare, perché nella lotta si aprono nuove contraddizioni e, insieme, la possibilità di un rapporto con gli altri.
SARTRE Questo è quello che penso per il momento. Vorrei però sapere a che cosa porterebbe una rivoluzione, perché ci sono certi modi di contestazione, che sono anche i nostri, e poi c'è sempre qualcuno che vuole prendere il potere. Non sarebbe allora semplicemente un rovesciamento di potere da parte di un altro? Non c'è nessun vantaggio. Oppure si tratterebbe, malgrado tutto, di una maggior possibilità per noi? Comunque è certo che io sono dalla parte di quelli che sperano di prendere il potere con una lotta rivoluzionaria, sono in realtà essenzialmente dall'altra parte, cioè auspico la soppressione delle istituzioni, dell'ideologia che è insita nella scienza e un po' dovunque. Mi auguro che si cerchino di istituire rapporti diversi fra gli uomini e non può esserci fallimento perché tutto ciò che si fa resta in un certo modo. Penso che tutto ciò che è fatto in questo momento, resti.

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Per Sartre l'intellettuale è dunque colui che, presa coscienza delle proprie contraddizioni e di quelle della realtà in cui vive, si nega in quanto tale, attraverso una contestazione che è insieme globale e particolare. Nel nostro discorso il termine «intellettuale» era invece usato nell'accezione gramsciana di «funzionario del consenso», il che mantiene una certa sfasatura nella discussione. Quando, tuttavia, si parla qui di un tecnico del sapere pratico che ha preso coscienza del proprio ruolo di potere nel gioco sociale e agisce all'interno di questa presa di coscienza, l'interpretazione non è diversa se entrambi, intellettuale e tecnico, tendono ad agire sulle contraddizioni proprie e della realtà. Lo stesso Sartre parla, altrove, della necessità di scindere il binomio sapere-potere, mantenuto indissolubile nei depositari della cultura tradizionale, il che corrisponde al rifiuto del proprio ruolo sociale (il "potere" del tecnico) e all'uso del "sapere" non più in nome di interessi particolari (la tutela dei valori dominanti), ma in nome degli interessi della classe dominata. Il problema che si vuole qui approfondire è, però, in che cosa consista praticamente questa "negazione dell'intellettuale in quanto tale", o la scissione fra sapere-potere del tecnico che, pur negando il proprio potere, implicitamente lo conserva.
Che, ad esempio, uno studente di medicina faccia l'operaio rinunciando, come scelta politica, a fare il medico, forse può servire più a lui che agli operai. Non sarebbe più utile avere un medico in più a difesa degli interessi degli operai, pur con le ambiguità che il medico continuerebbe a portare con sé, nella sua scelta di voler «stare dall'altra parte»? Non è ancora una scelta di purezza totale, nell'ambito di una soluzione personale, per uscire dalla «coscienza infelice»? Un borghese non resta borghese anche se fa l'operaio, per il fatto stesso di avere la possibilità di scegliere di farlo, e di non esservi spinto dalla necessità o dall'impossibilità di fare altro? Non continua a disporre di tutti gli strumenti culturali tradizionalmente incorporati, che lo fanno essere sempre un operaio «diverso», anche se non usa questi strumenti per fare il capo? Sono problemi e posizioni che in questi ultimi anni si vanno chiarendo e su cui torneremo più oltre. Per il momento ci interessa qui riprendere un tema, accennato nelle risposte di Sartre, che ci sembra mettere a fuoco il filo principale della nostra analisi: la necessità di far sì che le masse si approprino delle conoscenze dei tecnici che rifiutano di essere funzionari del consenso, perché anche «le masse sono abituate a pensare che un pazzo è un pazzo: la classe dominante ha dato loro la sua ideologia a questo proposito».
E' in questo senso che si muove questa nostra analisi, nel tentativo di mettere a fuoco la necessità di individuare e smascherare assieme alla classe oppressa, facilitando l'espressione dei suoi bisogni reali, i processi attraverso cui si attua la sua manipolazione; processi che si sovrappongono allo sfruttamento e all'oppressione, richiedendo e imponendo un adesione inconsapevole e spontanea a valori che implicitamente la distruggono.
Non è privo di significato il fatto che uno dei problemi centrali della rottura della logica manicomiale sia l'atteggiamento degli infermieri e del personale (appartenenti alla stessa classe degli internati). Abbiamo tutti incorporato il concetto positivistico della malattia, come una modificazione biologica per la quale non c'è nulla da fare, se non isolarla e proteggerla con l'internamento: che è come dire che tutti riteniamo che se uno è pazzo è pazzo e vada in manicomio. E' dunque anche su questo terreno che si deve agire, ed è questo il nostro terreno di lotta.
La questione allora è rendere sempre più esplicito nella pratica a cosa serve la psichiatria in quanto scienza, a cosa servono il manicomio e le altre istituzioni punitive nel nostro sistema sociale, e come queste istituzioni dell'esclusione sopravvivono anche in quanto fonti di lavoro per infermieri, secondini, medici, assistenti, operatori sociali, eccetera. All'interno della logica economica da cui siamo determinati, ogni apparente risposta ai bisogni di tutti è, di fatto, una risposta ai bisogni del gruppo dominante, che si attua, da un lato, attraverso il contenimento degli elementi di disturbo sociale, dall'altro attraverso l'istituzione di posti di lavoro che possono garantire il consenso spontaneo, offrendo un'identificazione nel proprio ruolo. Qui si gioca esplicitamente sulla divisione all'interno della stessa classe: fra emarginati, pazzi, malati (sempre appartenenti al proletariato o sottoproletariato) e infermieri, inservienti, personale paramedico eccetera che, se pur proletari, esplicano un ruolo positivo nel ciclo produttivo (cioè nell'organizzazione ospedaliera) che difendono per sé e per la propria sopravvivenza assolvendo, anche se a livelli diversi, il compito di funzionari del consenso.
Su questa divisione si scontra ogni azione di trasformazione, perché è su questa ambiguità che si mantiene la difficoltà, per il personale infermieristico o ausiliario, di raggiungere una coscienza di classe.
La logica manicomiale gioca dunque su due piani: l'incorporazione da parte di tutti del concetto di malattia, e la divisione tra personale e internati.
Nel campo della psichiatria, la scuola positivista, che trova il suo epigono in Lombroso, aveva chiusa la problematica aperta dalle sue stesse ipotesi, assolutizzando in un'ideologia scientifica l'individuazione, nei malati di mente così come nei criminali, di un'ipotetica alterazione originaria cui non si poteva rispondere che con un'assolutizzazione pratica: l'internamento. L'internamento di questa diversità biologica aveva così trovato la sua giustificazione scientifica nell'ideologia medica che - secondo la nuova legge del 1904 sull'assistenza psichiatrica - doveva da un lato sancire la necessità della cura dell'assistito, dall'altro salvaguardare la società dalla pericolosità del folle. Ma la contraddizione su cui si fonda questa legge - contraddizione insanabile fra concetto di custodia e di cura, fra interesse del singolo (il malato ricoverato) e sicurezza sociale (la collettività da difendere dalla pericolosità rappresentata dalla malattia) - si è tradotta in un totale prevalere della custodia sulla cura a danno ovviamente dell'internato e a favore della società. L'accettazione di questa logica è servita, quindi, dall'inizio del secolo a oggi, a garantire il controllo sociale di comportamenti definiti come biologicamente diversi, di natura irreversibile, assicurando insieme l'incolumità della società «civile».
Ma l'azione di trasformazione attuata negli ultimi anni nelle istituzioni psichiatriche, ha reso evidente come molto spesso questa diversità, codificata sotto l'etichetta della malattia, possa essere una diversità di tutt'altra natura: un peccato originario, quello di appartenere alla classe dominata, la cui presenza nel consorzio sociale è accettata solo finché essa si adegua a regole istituite per la sua subordinazione.
Se ora si cerca di esaminare quali siano stati finora i movimenti rivendicativi da parte della classe operaia in questo secolo, sconcerta vedere come sia stato trascurato - fino a questi ultimi anni - il problema della sua salute, preso in esame solo in rapporto alla nocività dei posti di lavoro, dove esso si presenta macroscopicamente e in una relazione esplicita più diretta. Il fatto è però facilmente spiegabile con l'incorporazione, da parte di tutti, del concetto positivistico della malattia, che poneva il problema su una sfera «oggettiva», «scientifica», totalmente separata dal terreno proprio dell'azione politica.
Ciò significa che finora abbiamo tutti accettato le definizioni di malattia che ci venivano proposte e, insieme, le conseguenze che una simile accettazione comportava: la separazione netta fra il terreno della malattia, di competenza dei medici e della medicina, e quello della salute dove si poteva inserire il gioco della lotta politica. Ma dal momento in cui è risultato chiaro che l'evoluzione di una malattia può essere diversa a seconda della classe del malato, così come la codificazione stessa della malattia, la scissione fra i diversi terreni di competenza non è più accettabile, come non è più accettabile la delega data ai medici e agli infermieri di custodi e garanti di questa scissione.
E' qui che si inserisce il problema di una trasformazione del tipo di lotta politica all'interno delle istituzioni sanitarie, di cui si conoscono finalità e funzioni appunto politiche. Ma per quanto è dato vedere, ad esempio nelle istituzioni psichiatriche, la lotta del corpo infermieristico che assolve la prima delega di controllo e di dominio sull'internato, sta muovendo soltanto ora i primi passi che non seguano il sentiero della pura rivendicazione sindacale di tipo corporativo. Se si tralascia come uno dei temi di questa lotta, la qualità del rapporto di dominio che esiste fra infermiere e internato in un'istituzione psichiatrica (il discorso vale ovviamente per tutta la medicina in generale), non si fa che confermare anche a livello della lotta proletaria la qualità del rapporto di dominio fra medico e infermiere. Le rivendicazioni salariali (più che legittime, soprattutto dopo la conferma dell'enorme distanza sancita dalla recente legge sull'aumento degli stipendi dei medici) non possono essere disgiunte dalle rivendicazioni di una riqualificazione del lavoro dell'infermiere, che dovrebbe passare attraverso la ricerca di un tipo di rapporto diverso sia con il proprio oggetto di lavoro (l'internato), che con il corpo medico che rappresenta nell'ospedale la garanzia del mantenimento dell'ideologia dominante. Ma anche in questa sfera il bersaglio della lotta presenta notevoli ambiguità. La richiesta di una nuova dignità professionale dell'infermiere ospedaliero, di un suo addestramento che ne qualifichi diversamente l'intervento tecnico, è vista come l'adeguamento al modello medico, come nuovo modo, più qualificante, di essere infermiere. Ma la sudditanza e la subordinazione dell'infermiere al medico (che sarebbe conservata e mantenuta intatta, anche attraverso questa nuova identificazione proposta all'infermiere nella nuova qualifica ) ricalca il modello di dominio precedente; modello che se resta valido nel rapporto fra medico e infermiere, si riconferma in quello fra infermiere e internato, dove l'internato troverebbe le indicazioni verso l'appropriazione della salute nella dipendenza dall'infermiere e dal personale curante. Esattamente come nell'attuale logica manicomiale.
Nella lotta per la difesa e l'appropriazione del proprio posto di lavoro da parte del corpo infermieristico, non è ancora apparso in modo generalizzabile e generalizzato un elemento fondamentale: la complicità dell'infermiere con l'internato (che appartiene alla sua stessa classe), per liberarsi dalla sudditanza al potere medico che rappresenta, nell'istituzione ospedaliera, la garanzia del controllo. La lotta che si va attuando in questi ultimi anni nelle istituzioni psichiatriche, ha posto nei giusti termini l'identificazione fra intervento tecnico e intervento politico. Ciò significa che tutti i ruoli che giocano nell'organizzazione ospedaliera assolvono una funzione precisa nel controllo e nell'eliminazione dell'internato, attraverso una serie di deleghe di cui tutti siamo complici. Ma il rifiuto di questa delega non è automatico: esso passa attraverso una serie di mediazioni, poiché l'istituzione esiste e sopravvive, nella forma in cui riesce a esistere e a sopravvivere, soprattutto per i ruoli di potere che offre individualmente e cui è difficile rinunciare. Privilegi che si consolidano, gerarchie burocratiche che consolidano i privilegi, un sottobosco di ricatti, di potere, in cui l'aggressione viene sempre a ricadere sull'ultimo anello della gerarchia istituzionale: l'internato.
La lotta per la trasformazione delle istituzioni psichiatriche ci ha dimostrato quanto sia difficile rompere questo cerchio di deleghe di potere anche per quanto riguarda il corpo infermieristico, il quale si è sempre trovato, come tutti i dominati, a incorporare come modalità di rapporto l'aggressione del dominatore (in questo caso il medico) e a tradurla nell'aggressione dell'internato. Il mantenimento dell'istituzione manicomiale e della logica dell'internamento è sempre stato attuato, e lo è tuttora, soprattutto attraverso la delega di questa aggressione all'infermiere, come colui che è a diretto contatto con l'internato. Il manicomio può continuare a esistere semplicemente perché crea le condizioni per cui i giochi di potere, dal medico a tutte le gerarchie subalterne burocratiche e amministrative, possono sprigionare - anziché la loro carica terapeutica nei confronti dell'internato - la loro aggressività. In questo modo la funzione di controllo del manicomio è garantita a tutti i livelli e per tutti i ruoli.
Ora, la liberazione attuata in alcune istituzioni psichiatriche apre la funzione del gruppo curante a prospettive di lotta diverse, che coinvolgono le stesse organizzazioni politiche e sindacali, e che possono essere individuate anche nelle indicazioni pratiche emerse in questi anni di lavoro.
Nella fabbrica e nei luoghi di sfruttamento della classe operaia, l'individuazione dei modi di lotta è chiara: l'oggetto del lavoro mostra esplicitamente l'alienazione cui è costretto l'operaio; la nocività della fabbrica mostra esplicitamente le conseguenze sulla sua salute; la sua azione rivendicativa è direttamente a scapito della logica padronale. Ma quando l'oggetto del proprio lavoro è un "uomo", il problema si complica, perché l'operaio dell'istituzione psichiatrica o sanitaria è messo in condizione di scaricare l'aggressione che subisce, e che dovrebbe essere rivolta contro il padrone, sull'oggetto del suo lavoro che è un uomo, per di più sofferente, in balia del suo potere. Se l'operaio in lotta ha solo da perdere le proprie catene, l'infermiere che lotta nell'ospedale si trova a dover perdere la possibilità di imporre le catene a chi dipende da lui. In questo senso ha buon gioco l'ideologia della custodia e della cura che copre tutto (ed è suo compito coprire tutto) così che lo stesso agente dell'aggressione non sia mai consapevole di quello che fa. Il medico, l'infermiere, l'operatore psichiatrico devono scontrarsi con l'ideologia medica che giustifica ogni loro intervento ai danni dell'internato, e non è subito chiaro quali siano i termini della lotta per distruggere questa logica.
E' solo nel momento in cui l'opera di trasformazione di una istituzione psichiatrica pone l'internato come soggetto primo della trasformazione, che i ruoli del corpo curante cominciano a stagliarsi più chiaramente nelle loro esplicite funzioni. Cioè è solo nel momento in cui esistono, l'uno di fronte all'altro, l'"assistito" e "colui che lo assiste", che si intravvede la possibilità di considerare questi due poli (su cui l'istituzione si fonda, creandoli come poli oppositivi, antagonisti) come termini contraddittori di un problema: salute e malattia, rispettivamente rappresentate l'una dal gruppo curante, l'altra dall'internato. Ma si tratta di una salute e di una malattia che non sono nettamente separate. Così come l'internato è "anche" «malato» della violenza e della segregazione di cui è oggetto, l'infermiere e il gruppo curante sono "anche" «malati» della violenza e della segregazione di cui sono i soggetti, in quanto delegati a metterle in atto. Su questa comunità di intenti - la lotta contro la sofferenza, comune sia all'internato sia al suo custode - può nascere una nuova strategia di intervento che vada oltre la sola rivendicazione economica da parte dei lavoratori; rivendicazione che, per quanto legittima, continuerebbe a mantenere internato e internante chiusi nella medesima catena di violenza, se non si arricchisce di nuovi temi e nuove finalità.
La lotta attuata in questi anni ha messo in crisi, oltre l'ideologia scientifica che legittimava la violenza manicomiale, il rapporto fra i diversi livelli dei gestori di questa violenza. Ciò che si è visto e che varrebbe la pena di analizzare, è che uno dei cardini su cui ha buon gioco il nostro sistema sociale per la conservazione di queste istituzioni, è dunque - oltre al medico, suo diretto rappresentante - l'infermiere che, pur appartenendo alla stessa classe dell'internato che custodisce, è oppresso dalla delega medica e giuridica, dalla minaccia della perdita del posto di lavoro, dalla responsabilità che scala gerarchica e burocrazia scaricano su di lui ed è, insieme, corrotto dalla possibilità di vivere il suo ruolo di carceriere come alternativa all'oppressione di cui è oggetto. In queste condizioni non può che identificarsi totalmente nel ruolo che gli viene imposto, tanto da non riuscire più a vedere in che cosa consista lo schieramento di classe in una situazione in cui tutto è confuso fra custodia e cura, fra responsabilità giuridica e rischio personale, fra la subordinazione al medico come detentore della salute e una malattia di cui l'infermiere - esattamente come il medico - capisce i parametri solo in base a un comportamento più o meno tollerato dall'organizzazione ospedaliera.
In questa situazione, la scelta dell'infermiere non è facile, né è facile maturarla insieme. Tanto più che parte delle contraddizioni aperte dall'azione attuata in alcune istituzioni psichiatriche, sono state recuperate dalla classe medica che - messa in crisi da queste realizzazioni - si difende, nel migliore dei casi, attraverso un corporativismo illuminato che tende a razionalizzare il problema attraverso la messa al bando puramente verbale dell'ideologia custodialistica e l'assunzione di un'altra ideologia: quella sociologica. Le parole d'ordine più attuali e più moderne sono ora la medicina preventiva, il mantenimento della salute, la lotta nel territorio che spesso si riducono praticamente ad alibi, utili appena a coprire la realtà che resta immodificata alle loro spalle: perché restano immodificate la struttura istituzionale e il modello delle deleghe e del potere su cui essa si fonda.
Queste parole hanno e avranno senso se si riesce a rompere il cerchio istituzionale: cioè se si riesce a rompere per primo il potere medico, al cui modello si adatta e si adegua il potere dell'infermiere. Ma ci si muove ancora in un terreno diviso, dove tecnica e politica agiscono in sfere separate e non come due aspetti complementari dello stesso problema. La presa di coscienza delle proprie complicità può portare a soggettivare il lavoro (ad assumerlo in proprio, in prima persona, sulle proprie spalle, a proprio carico, con tutto ciò che una tale posizione comporta), non delegandone ad altri significato e conseguenze: la scienza da un lato e l'organizzazione politico-sociale dall'altro. La lotta corporativa piccolo borghese cui si assiste nella quasi totalità dei manicomi, è l'evidenza di questa scissione: l'infermiere non lotta quasi mai in modo organizzato per la trasformazione del proprio lavoro, del proprio rapporto con l'internato, per la propria liberazione dall'ideologia che ha incorporato e che crede utile alla propria difesa, mentre è fatta per impedirgli di prendere coscienza di sé del proprio posto nella società, della delega repressiva implicita nel proprio ruolo. Continua a mantenere separata la presa di coscienza del significato del proprio lavoro pratico, dalla lotta politico-sindacale che attua fuori del campo, in nome delle sue rivendicazioni di tipo corporativo, perpetuando ancora una volta la divisione su cui si fonda l'unità totalizzante del manicomio.
Quando si determina la crisi dell'organizzazione ospedaliera, ci sono due possibilità: o una sua razionalizzazione e l'inglobamento dell'istituzione nell'ideologia della psichiatria sociale e nella formazione di un nuovo tipo di controllo che richiuda a un livello diverso le contraddizioni aperte (11); o la presa in carico di questa crisi anche da parte dei lavoratori che, se vogliono agire coerentemente rispetto alla presa di coscienza politica del proprio lavoro e del proprio ruolo, devono partecipare direttamente alla trasformazione del loro rapporto con l'internato e dell'ideologia che hanno incorporato. In questo caso il peso della crisi può essere "diviso" con il medico che l'ha originariamente provocata, ma il soggetto determinante dell'azione deve diventare l'infermiere che, nella complicità con l'internato, deve arrivare a togliere dalle mani del «padrone» la smagliatura del sistema, per usarla politicamente a favore della propria classe.
E' in questo momento che le organizzazioni politiche e sindacali - se non vogliono rappresentare l'organo frenante di questa operazione - possono diventare i protagonisti della trasformazione, aprendo nel campo della salute un nuovo tipo di lotta, che sia una lotta unica per il sano e per il malato. In caso contrario, l'ambiguità delle posizioni assunte, manterrà la divisione all'interno della stessa classe, divisione che inconsapevolmente continuerà ad agire per l'oppressione del lavoratore sano (l'infermiere che, giustificato dal suo impegno politico nelle forze sindacali, vive nell'illusione di avere "anche" una parte di potere che esercita come violenza sull'internato), e del lavoratore emarginato (l'internato che resta soggetto a questo potere).
In questi ultimi anni le forze di sinistra hanno, spesso giustamente, vista l'ambiguità di tanti movimenti eversivi nel campo. Gruppi separati che entrano in competizione in un gioco intellettualistico, nel quale spesso la sofferenza del malato e lo stato di disagio nel lavoro degli infermieri, sono l'occasione per l'affermarsi di nuovi giochi di potere. Il tecnico, per la cultura che ha incorporato e contro cui lotta, e per la classe cui appartiene, può facilmente ricadere nel ruolo classico riproponendo la sua distanza e il suo dominio, quindi riproponendo la divisione nella lotta. E' per questo che il confronto con le forze sindacali e operaie è indispensabile, sia come verifica che come controllo. Ma si stanno facendo solo ora i primi passi per una chiarificazione di una linea comune nelle lotte, sul terreno delle istituzioni e delle loro ideologie. Finora non c'è stata, da parte di queste forze, un'azione esplicita, diretta a rompere il cerchio istituzionale che chiude internati e infermieri nella stessa morsa. Il rapporto diretto con l'utente di un servizio, che viene spesso auspicato tralasciando il rapporto istituzionale, può avvenire solo quando l'organizzazione politica sia in grado di affrontarlo: quando cioè l'attore della trasformazione nella gestione della salute sia realmente il lavoratore, che pretende un servizio che risponda alle sue esigenze e che possa controllare direttamente. Ma non lo si ottiene dichiarando che questo presupposto già esiste, come spesso viene affermato. I limiti dei movimenti anti istituzionali psichiatrici - che sono stati finora guardati con giusto sospetto dalle forze sindacali - è ancora quello di nascere da un'avanguardia medica, seguita da un'esigua avanguardia di infermieri. E' questo che mantiene l'azione su un piano individuale, di gruppi separati dove hanno buon gioco rivalità, tensioni psicologiche e bisogno di affermazione di tipo intellettualistico. Ed è questo che si tenta di superare con la costituzione di gruppi che si prefiggono di rompere sia il corporativismo dei medici che quello degli infermieri (eludendo il pericolo dell'identificazione da parte dell'infermiere nell'ideologia piccolo borghese alimentata dall'identificazione nel modello medico), con la proposta di una lotta unitaria dove il tecnico riesca "a offrire una pratica che serva di verifica a istanze politiche, non solo sanitarie e tanto meno non solo psichiatriche" (12).
Ma le prospettive di lotta non sono semplici. Anche perché, oltre alle difficoltà implicite in una lotta che coinvolge il potere medico e insieme l'ideologia dominante, si accavallano i problemi che provengono dal nascere di nuove ideologie fra gli stessi operatori che lottano.
Il rapporto con i giovani tecnici immessi nel terreno istituzionale, è un rapporto di crisi permanente, il che sarebbe una condizione ottimale, se di questa crisi fosse ben chiara la natura. Appena usciti dalle rivolte studentesche, essi hanno alle spalle un'esperienza dove era possibile mantenere aperte le contraddizioni della situazione in cui si trovavano ad agire, poiché rifiutavano globalmente il futuro preparato per loro dal nostro sistema sociale. Nella condizione dello studente questo rifiuto può essere globale, non esistendo una compromissione diretta da parte di chi ha, per definizione, un ruolo «passivo» all'interno della logica dell'apprendimento. L'unico strumento di difesa a sua disposizione è il rifiuto che, se generalizzato a tutti gli studenti, diventa l'unico strumento di potere di cui questi godono.
Si ha, tuttavia, l'impressione che, dal '68, si viva una situazione di onnipotenza, frutto della presa di coscienza da parte degli studenti della loro forza. La validità di questo rifiuto globale, nei momenti di riflusso come quello attuale, si riduce, e non si può non riconoscerne il limite quando esso sia costretto, per l'impossibilità di un'azione pratica, a tradursi in slogan come espressione di una forma di istituzionalizzazione nella lotta, nella verifica della correttezza del discorso politico di un gruppo rispetto a un altro, nella parcellizzazione in gruppi, conseguente a questa verifica che avviene solo sul piano verbale, o nell'ironia come segno di impotenza (l'altra faccia adialettica dell'onnipotenza) di fronte alla realtà su cui si deve incidere. Il senso di onnipotenza sorto nei momenti «caldi» corrispondeva alla presa di coscienza di esserci come forza, e di riconoscere il proprio peso nel gioco sociale, in un momento storico in cui l'azione è stata possibile. Ma perché questa forza sia concreta e sopravviva nei momenti di riflusso, bisogna tendere all'unità delle forze in lotta per contrapporsi - non divisi - al mondo che ci vuole distruggere, e bisogna conoscere i meccanismi della logica con cui veniamo distrutti. In caso contrario, tutte le fughe sono possibili e tutte si traducono nella creazione di una nuova forma di oppressione.
Nonostante i legami professati con la classe operaia, raramente essi sono "praticamente veri". Considerarsi il deterrente che fa esplodere i movimenti operai, non è allora molto diverso dall'essere l'intellettuale che sceglie di stare dall'altra parte e che dà le indicazioni per le modalità e i tempi della lotta. Inoltre, i movimenti studenteschi del '68 stanno assumendo agli occhi degli stessi studenti, un valore ideologico - come lo ha assunto la resistenza - che giustifica fratture, giochi di gruppo, mancanza di unità. Ed è da questa consapevolezza che, dopo le prime incertezze, si sta assistendo a una maggiore concretezza del movimento, forse come risposta alla minaccia di una nuova forma di fascismo e di repressione che incombe sul paese.
Resta tuttavia un fatto di importanza, a nostro avviso, fondamentale: lo studente ha anche un suo terreno specifico di lotta su cui finora non ha sufficientemente inciso, perché era più facile la fuga verso una politicizzazione più allargata che gli consentiva di sentirsi «politicamente corretto», anche se accettava di subire le forme essenziali della politica dell'apprendimento: cioè la sua graduale distruzione. Su questo piano ciascuno reagisce isolatamente, con insofferenze psicologiche individuali, ma non c'è un'azione organica contro l'ideologia educativa, che impegni gli studenti a misurarsi sul loro terreno, anche se le denunce a questo proposito sono numerose.
Ad esempio, sempre restando nell'ambito della medicina, per poter accedere a posti di ruolo negli istituti ospedalieri, si esige la frequenza ad una scuola di specializzazione della durata di tre o quattro anni. Ma il numero delle domande supera, come sempre, i posti disponibili, e, mentre non esiste un movimento organizzato che rifiuti questa selezione, si assiste alla corsa ai pochi posti nelle scuole di specializzazione, con tutti i mezzi dalle raccomandazioni ad alto livello alle pressioni di tipo clientelare: non esiste un rifiuto organizzato che esiga l'accessibilità a tutti alle scuole di specializzazione (ammesso che queste servano nel modo in cui sono organizzate) o che rifiuti in blocco l'istituzione della specializzazione. Chi ottiene il posto se lo tiene, e chi è escluso accetta di esserlo, come una fatalità. Ma ciò implica l'accettazione del fatto che lo specializzando dovrà incorporare per altri tre o quattro anni un numero di nozioni assunte acriticamente, così come acriticamente vengono propinate, perché la sua critica tende a svolgersi altrove, fuori del terreno dell'ideologia scientifica, propria del ruolo che esplica. In questo senso la frattura tra l'azione politica e quella nella propria specificità particolare, così come quella fra teoria e pratica, ricalca i modi della formazione classica del funzionario del consenso.
Superata la fase di denuncia e di rifiuto della scuola di classe, dove si esplica la politicizzazione di questi studenti o neolaureati? In che modo incidono nell'istituzione e nell'ideologia di cui sono oggetto? In che modo usano la forza di cui hanno preso coscienza? L'onnipotenza vissuta nei momenti «caldi», in un momento di riflusso, come quello attuale, in cui gli spazi d'azione man mano si restringono, può facilmente tradursi in un'impotenza pratica, proprio nel terreno in cui ci si dovrebbe misurare. Il passaggio nella politica generale senza la mediazione del proprio terreno specifico, potrebbe allora essere una fuga in una nuova ideologia che giustifica e nasconde l'impotenza pratica, spostando su un terreno più allargato e meno definito la lotta, riagganciandosi alla contraddizione primaria fra classe operaia e capitale. In questa dimensione lo studente non può che limitarsi a prendere a prestito dalla classe operaia i temi e le motivazioni alla lotta, tralasciando quelli che provengono dalla sua situazione reale che, una volta intaccata, amplierebbe l'arco dei settori messi in crisi, e potrebbe creare collegamenti pratici con le lotte operaie.
E' ancora Gramsci a darci, a questo proposito, una chiave interpretativa del momento che stiamo vivendo.

«La quistione dei giovani. Esistono molte 'quistioni' dei giovani. Due mi sembrano specialmente importanti: 1) La generazione 'anziana' compie sempre l'educazione dei 'giovani'; ci sarà conflitto, discordia eccetera, ma si tratta di fenomeni superficiali, inerenti ad ogni opera educativa e di raffrenamento, a meno che non si tratti di interferenze di classe, cioè 'i giovani' (o una cospicua parte di essi) della classe dirigente (intesa nel senso più largo, non solo economico, ma politico-morale) si ribellano e passano alla classe progressiva che è diventata storicamente capace di prendere il potere: ma in questo caso si tratta di 'giovani' che dalla direzione degli 'anziani' di una classe passa alla direzione degli 'anziani' di un'altra classe; in ogni caso rimane la subordinazione reale dei 'giovani' agli 'anziani' come generazione, pur con le differenze di temperamento e di vivacità su ricordate. 2) Quando il fenomeno assume un carattere così detto 'nazionale', cioè non appare apertamente l'interferenza di classe, allora la quistione si complica e diventa caotica. I 'giovani' sono in istato di ribellione permanente, perché persistono le cause profonde di essa, senza che ne sia permessa l'analisi, la critica e il superamento (non concettuale e astratto, ma storico reale); gli 'anziani' dominano di fatto, ma... après moi le déluge, non riescono ad educare i giovani, a prepararli alla successione. Perché? Ciò significa che esistono tutte le condizioni perché gli 'anziani' di un'altra classe debbano dirigere questi giovani senza che possano farlo per ragioni estrinseche di compressione politico-militare. La lotta, di cui si sono soffocate le espressioni esterne normali, si attacca come una cancrena dissolvente alla struttura della vecchia classe, debilitandola e imputridendola: assume forme morbose, di misticismo, di sensualismo, di indifferenza morale, di degenerazione patologica psichica e fisica, eccetera. La vecchia struttura non contiene e non riesce a dare soddisfazione alle esigenze nuove: la disoccupazione permanente o semipermanente dei così detti intellettuali è uno dei fenomeni tipici di questa insufficienza, che assume carattere aspro per i più giovani, in quanto non lascia 'orizzonti aperti'. D'altronde questa situazione porta ai 'quadri chiusi' di carattere feudale-militare, cioè inacerbisce essa stessa i problemi che non sa risolvere» (13).

Dobbiamo essere consapevoli del fatto che la ribellione degli studenti ha, attualmente, un carattere «'nazionale', cioè non appare apertamente l'interferenza di classe... I 'giovani' sono in istato di ribellione permanente, perché persistono le cause profonde di essa, senza che ne sia permessa l'analisi, la critica e il superamento... La lotta, di cui si sono soffocate le espressioni esterne normali, si attacca come una cancrena dissolvente alla struttura della vecchia classe, debilitandola e imputridendola: assume forme morbose, di misticismo, di sensualismo, di indifferenza morale, di degenerazione patologica, psichica e fisica, eccetera. La vecchia struttura non contiene e non riesce a dare soddisfazione alle esigenze nuove: la disoccupazione permanente o semipermanente dei così detti intellettuali è uno dei fenomeni tipici di questa insufficienza che assume carattere aspro per i più giovani, in quanto non lascia 'orizzonti aperti'...»
Solo essendo consapevoli della natura e del carattere di questo stato di ribellione permanente, ci sembra che esso possa tradursi in un movimento di appoggio reale alle lotte operaie; evitando il pericolo della mistificazione di una nuova forma di interclassismo, dove le motivazioni che spingono alla lotta sono inevitabilmente diverse. E' attraverso l'analisi e la coscienza della diversità di queste motivazioni, che si può forse evitare la caoticità di cui parla Gramsci, riconoscendo il carattere «nazionale», quindi non di classe, del movimento stesso e applicando, anche nel caso della ribellione degli studenti, l'analisi che si è qui abbozzata per la ribellione del tecnico del sapere pratico che, solo attraverso la messa in crisi del proprio ruolo nel proprio terreno specifico (quindi dell'ideologia di sua competenza) in rapporto alla struttura sociale, può agganciarsi praticamente alle lotte della classe oppressa. Senza la mediazione nello specifico, da dove nasce la vera motivazione alla sua lotta, la ribellione dello studente assume il carattere di uno scontento vago, dove si prendono a prestito altre motivazioni, mancando la coscienza delle proprie.
Una volta individuate le contraddizioni sul proprio terreno specifico (e quindi le proprie motivazioni alla lotta), sono queste che devono essere portate "fuori" e diventare patrimonio della classe oppressa e non viceversa. E' la classe operaia, con il suo lavoro, che finanzia scuole, università e istituzioni, ed è anche di queste che deve appropriarsi. Ma per farlo deve anche appropriarsi delle conoscenze dei processi attraverso i quali queste istituzioni perpetuano la divisione, ed è lo studente, così come il tecnico del sapere pratico, che deve portare sul terreno della lotta politica generale queste conoscenze.
Se non si esce da questo equivoco, si corre il rischio di continuare a restare invischiati nel proprio settore specifico, da un lato recitando la parte dell'operaio oppresso (perpetuando la separazione fra il settore privilegiato della lotta politica e il proprio settore di studio o di lavoro), e dall'altro limitandosi, nel proprio terreno specifico, a una sterile polemica, spesso fine a se stessa, per evidenziare contraddizioni interne, il cui sbocco e il cui unico significato è che diventino oggetto di conoscenza e motivo di rivolta da parte della classe oppressa con cui si vuole combattere.
Non si può lottare "per" la classe oppressa, o "in nome" della classe oppressa, altrimenti continueremmo a mantenere la distanza dell'intellettuale classico. E' "con" la classe oppressa che dobbiamo lottare, ma questo essere insieme, per non ridursi a una pura enunciazione verbale, significa portare praticamente le nostre motivazioni alla lotta, così da ampliarne i settori e la profondità, e non prenderne a prestito altre che, in bocca nostra - di noi tecnici o studenti borghesi - suonano vuote e stonate destando il giusto sospetto della classe con cui si vuole lottare. In questo modo la ribellione dello studente può trovare reali agganci con la lotta operaia.
L'equivoco è evidente nel momento in cui lo studente - una volta laureato - affronta la realtà di un ruolo professionale che teoricamente rifiuta; cioè nel momento in cui diventa tecnico del sapere pratico. Il ruolo che si trova a coprire è il primo strumento di difesa individuale di cui dispone e - nei momenti di crisi - può usarlo, confondendo la natura delle contraddizioni in cui si trova a vivere e che egli stesso contribuisce ad aprire con la sua azione.
Il caso particolare del lavoro in un ospedale psichiatrico in trasformazione, può dare un'esemplificazione, anche se schematica e parziale, di questo fenomeno.
La contraddizione aperta dalla liberazione dell'internato e dalla creazione di alternative che lo facciano uscire dall'unica dimensione istituzionale in cui era costretto, lascia inevitabilmente nell'angoscia il corpo curante, compresi gli infermieri; angoscia che è inversamente proporzionale al grado di coinvolgimento e di partecipazione che si riesce a creare. Si tratta di una crisi che è essa stessa elemento di rottura, per la messa in discussione dei ruoli e per la presa di coscienza della delega in essi implicita. Ma la crisi in cui cade un'organizzazione, nel momento in cui si rompe la rigidità dei ruoli di tutti coloro che ne fanno parte, deve essere affrontata come una contraddizione costante, avendo il gruppo curante non solo la responsabilità della liberazione del manicomio, in quanto luogo di violenza e di segregazione, ma anche quella del graduale riappropriarsi della libertà degli internati, in precedenza distrutti da questa violenza e da questa segregazione.
La libertà acquisita dai degenti limita implicitamente la libertà di cui, per tradizione, gode il gruppo curante, e che coincide con la libertà della società, di cui i tecnici e le leggi sono garanti. L'impegno totale nei confronti dell'internato è uno dei segni della partecipazione alla sua oggettivazione, per arrivare alla conquista della soggettivazione di tutti - internati, infermieri e medici. Ma questa limitazione, implicita nella responsabilità nei confronti dell'impresa comune della trasformazione, è talvolta vissuta dai giovani tecnici come un'imposizione autoritaria (l'autorità, altra ambiguità e altra paura da sfatare nel momento in cui si voglia raggiungere una finalità comune) che limita la loro autonomia e il senso di onnipotenza incorporato nelle rivolte studentesche. Il manicomio in trasformazione viene facilmente vissuto come se si trattasse di un terreno liberato, che non comporta compromissioni con l'organizzazione sociale, amministrativa, burocratica, e dove l'azione possa agganciarsi direttamente alla lotta politica generale, senza mediazioni attraverso lo specifico particolare.
La contraddizione fra negazione e gestione dell'istituzione è la prima di cui si deve tener conto. Ma davanti a questa, che appare come una compromissione con il potere, i nuovi tecnici, reduci dalle rivolte studentesche, tendono spesso a privilegiare la radicalizzazione di un solo polo della contraddizione - la negazione - senza tener conto che questa si inserisce all'interno di un'organizzazione e di una ideologia scientifica la cui logica è nostro compito spezzare. Cioè, una volta aperta la contraddizione, anziché agire in essa, si finisce per agire su un solo polo, cadendo nell'equivoco del gauchisme, come estremo lusso di chi non ha una pratica su cui incidere e da cui essere contraddetti. Abituati a una situazione di non compromissione apparente, che per la prima volta si confronta in un terreno limitato da regole all'interno dell'ideologia e della burocrazia, si trova difficoltà a misurarsi con una realtà drammatica, la cui inerzia sembra sempre inghiottire tutto.
Inoltre, l'abitudine ad avere davanti a sé un nemico, chiaro quanto generico e globale, contro cui lottare (il sistema sociale, il capitalismo) rende difficile l'individuazione di ciò contro cui si lotta in un'azione in cui la negazione della tradizionale logica istituzionale è contemporanea alla costruzione di una logica di rapporto da inventare e da creare insieme. E' facile allora scegliere un nemico interno, che varia di momento in momento e di situazione in situazione. Su questo terreno minato, la costruzione di una finalità comune si frantuma in rivoli e in gruppi antagonistici che ripropongono la logica della divisione, contro cui si vuole lottare.
Dopo tre anni di lavoro concreto, queste posizioni vanno sfumando come risultato di un addestramento pratico in cui gli operatori sono venuti via via misurandosi, adattando il tiro alla realtà nella quale agiscono. Tuttavia, nella prima fase, la frustrazione che subentra davanti al fatto che «il lavoro in un ospedale psichiatrico in trasformazione non è poi tanto rivoluzionario» e risulta più compromesso di quanto il bisogno di purezza totale e l'aspirazione a una lotta globale possano consentire di accettare, ha avuto due sbocchi che vale la pena di analizzare:
a) La ricerca di un agente rivoluzionario che, per l'appartenenza alla classe proletaria, dovrebbe garantire «la linea politicamente corretta» dell'azione. Di qui lo spostamento dell'interesse politico dall'internato (che pure appartiene alla classe proletaria) all'infermiere, come lotta tendente allo sviluppo di una sua presa di coscienza politica. Si tende cioè a tralasciare come problema secondario quello dell'internato, di conseguenza quello del rapporto dell'infermiere con l'internato, per la cui liberazione si sta lottando; rapporto che, scientificamente e burocraticamente istituzionalizzato nell'ospedale, coincide però con il rapporto di sopraffazione su cui si fonda il nostro sistema sociale. Si tralascia cioè il problema della rottura della logica istituzionale, che è rottura del rapporto di sopraffazione.
Questo comporta il rischio di proporre all'infermiere una identificazione diretta con il medico e con i valori della borghesia, anziché la presa di coscienza di appartenere alla stessa classe dell'internato; presa di coscienza che porterebbe a identificare la lotta per la propria liberazione con quella per la liberazione dell'internato. L'infermiere si trova così ad assumere facilmente una nuova delega, quella che il medico ribelle gli propone attraverso l'identificazione nei suoi valori e nelle sue motivazioni mediate alla lotta proletaria: la delega alla «rivoluzione» astratta e globale che, impostata al di fuori delle motivazioni reali della sua classe, assume nell'infermiere il carattere della rivoluzione borghese che gli propone il medico. Il risultato che ne consegue non può che essere l'indebolimento dell'infermiere stesso e l'assorbimento di un giudizio e di un linguaggio che sono tipici del medico e della sua classe.
b) La difesa a oltranza della propria autonomia di lavoro, possibile in un'istituzione in trasformazione, che, se separata dalla responsabilità nei confronti della strategia comune nella lotta - il secondo polo della contraddizione può facilmente tradursi nella difesa di privilegi acquisiti - anche se non propriamente conquistati - e quindi nella difesa del proprio potere, mascherato sotto lo slogan del l'antiautoritarismo e della lotta alla gerarchia. In questo modo può riproporsi il gioco delle dinamiche di gruppo, delle resistenze e controresistenze, dove la finalità comune scompare, per lasciar posto a una situazione ambigua in cui si può essere facilmente ripresi nel vortice delle interpretazioni psicodinamiche e delle tendenze paranoidi.
Inoltre, in questi ultimi anni, l'ideologia genericamente definita hippy o della propria liberazione individuale è contemporaneamente presente, come parte della loro cultura, in coloro che si impegnano in una lotta anti-istituzionale. Ciò significa che l'ideologia del tutto-subito contrasta con l'inerzia dell'istituzione, che corrisponde all'inerzia della società su cui si agisce. Il tutto-subito ha senso se sono il popolo, il proletariato, le masse a esigerlo, ma reclamato dagli studenti o dai tecnici (se non esiste un rapporto su un piano pratico comune, e la coscienza della diversità delle motivazioni alla lotta) suona come uno slogan vuoto e come la razionalizzazione della nostra impotenza, o come un'ulteriore rivendicazione del nostro privilegio. Nella lotta per il tutto - non si sa quando - che esigerà la classe oppressa, dovrà essere incluso anche il tutto che studenti e tecnici vogliono per gli altri e per sé, e gli studenti e i tecnici, che imparano a conoscere i meccanismi e i processi attraverso i quali le ideologie producono ciò che producono, devono trasmetterne l'esigenza in modo tale che la classe oppressa se ne appropri come parte del tutto verso cui tende.
Le perplessità che nascono di fronte alla situazione che ne deriva devono essere approfondite perché lo stato di ribellione permanente si traduca in uno strumento di lotta positivo. Ma i livelli di comprensione della realtà su cui si agisce variano secondo l'esperienza e la cultura che ognuno di noi si porta appresso e se, nel momento in cui l'azione pratica è possibile e il suo significato è chiaro per tutti, la finalità della lotta risulta comune, nei momenti di chiusura e di riflusso si ripropongono le diversità e le esigenze individuali. Sono dunque le stesse difficoltà a procedere, gli ostacoli contro cui dobbiamo sempre scontrarci, il clima di minaccia di violenza in cui ci si trova a vivere, che ripropongono la divisione e i giochi psicologici, come difesa di fronte alla paura di soccombere. Ma dobbiamo saperlo e non cadere nella trappola della divisione, senza neppure accorgerci di esserne direttamente vittime e responsabili.
Agire nella pratica significa muoversi nell'incertezza della ricerca di nuove forme di lotta che si esprimono attraverso la pratica. Ma ciò che tutti abbiamo incorporato è la necessità, per sopportare questa incertezza, di vivere un solo polo delle contraddizioni che via via andiamo aprendo, polo che può essere di volta in volta l'uno o l'altro a seconda del bisogno.
Se si vuole trasformare la realtà - e la realtà di cui disponiamo è questa e solo questa - resta sempre il problema della contemporanea trasformazione di noi stessi, e il discorso vale ovviamente per tutti. Ma la trasformazione dell'uomo è la più difficile, impregnati come siamo di una cultura che ci porta a chiudere ogni contraddizione - comprese le nostre, individuali - attraverso la razionalizzazione e il rifugio nell'ideologia che ne enfatizza e ne prende in considerazione un solo polo.

In questi ultimi anni, ci siamo trovati ad agire su piani diversi e insieme analoghi, con Ronald Laing - entrambi impegnati, se pur con modalità e con strumenti diversi, in una lotta concreta per questa trasformazione.
La pratica e la teoria di Laing tendono a mettere a fuoco e a privilegiare - pur mantenendo presenti gli altri piani del discorso - il momento della trasformazione soggettiva; così come noi tendiamo a privilegiare, pur mantenendo presenti gli altri piani del discorso, quello della trasformazione sociale. La pratica e la teoria di Laing tendono cioè a smuovere dall'interno l'inerzia dell'uomo, nel rapporto con se stesso e con l'altro; così come noi tendiamo a smuovere, attraverso la nostra azione in uno specifico particolare, l'inerzia del mondo sociale.
Ma privilegiare non deve significare assolutizzare, perché questi due momenti - il soggettivo e il sociale - sono due facce di una sola realtà, dato che nell'uomo esse coesistono e da esse egli è contemporaneamente determinato.
Per questo e alla ricerca di un denominatore comune fra le esperienze in atto nel campo della psichiatria, abbiamo avuto una conversazione con Ronald Laing, alla fine del '72, in occasione di una sua conferenza, il cui testo figura in questa raccolta.

FRANCA BASAGLIA In questi ultimi anni movimenti politici e culturali hanno proposto praticamente nuove forme e nuove prospettive di lotta. In un momento di stasi come l'attuale potrebbe essere utile riflettere su ciò che è stato modificato nel panorama sociale, culturale e politico dagli interventi di forze che, in campi diversi o analoghi, hanno agito secondo una linea di rifiuto dei valori in corso.
Nel momento dell'azione queste forze si sono trovate a muoversi ciascuna sul proprio terreno di competenza, come risposta immediata ai bisogni che emergevano dalla situazione in cui erano inserite. In questa ricerca di una risposta reale ai bisogni - così nel campo della psichiatria in cui siamo direttamente coinvolti, come nel campo della scuola da parte dei movimenti studenteschi o nelle carceri o nei movimenti operai - l'impotenza pratica che subentra nel momento in cui l'azione viene bloccata o razionalizzata, può facilmente tradursi nel bisogno di privilegiare come scelta di carattere assoluto la propria modalità di intervento o lo stesso terreno d'azione, in opposizione e in antagonismo ad altri. Ancora una volta ciò che nasce come risposta a bisogni reali in un momento dato, può tradursi nella risposta ai bisogni del gruppo che agisce. La relativa possibilità d'azione e quindi la relativa possibilità di realizzare "praticamente" quello che si vorrebbe essere e che si vorrebbe fosse la vita, facilmente si trasforma nel vivere ideologicamente la propria posizione assunta e il proprio campo d'azione, privilegiandoli come gli unici possibili, come forma di difesa per garantire la propria sopravvivenza. Ma procedendo in questo modo, non si riesce mai a creare un legame di complementarietà fra i vari settori in cui ci si muove, restando prigionieri della stessa logica che produce le condizioni di un antagonismo permanente che sempre si rinnova all'interno di ogni forza, nata originariamente per combatterla.
In questo senso può essere utile avvicinarsi a delle esperienze pratico-teoriche diverse, nello stesso campo d'azione o in campi analoghi, con una reciproca disponibilità per comprendere ciò che nell'esperienza dell'altro può servire a chiarire la propria e viceversa.
Il problema dibattuto dell'agire dentro alle istituzioni o fuori delle istituzioni, dentro al sistema o fuori del sistema, presuppone che esistano un "dentro" e un "fuori" delle istituzioni, un "dentro" e un "fuori" del sistema, come posizioni nettamente separate e antagoniste. Ma il dentro e il fuori sono creati come poli opposti e incomunicabili proprio dal sistema sociale che si fonda sulla divisione a tutti i livelli. Quindi, accettando questa premessa, noi siamo già all'interno del gioco. E' forse sull'unione dentro-fuori che si dovrebbe tentare di agire, perché la realtà è un dentro e fuori costantemente collegato, dove si inserisce "l'ideologia del dentro" e "l'ideologia del fuori", come realtà-ideologie separate.
C'è chi lavora dentro e chi lavora fuori delle istituzioni, ma si tratta di una denominazione formale, per definire il terreno d'azione, la natura dei legami burocratici e le responsabilità legali presenti più in un settore che in un altro. In realtà non esiste un "fuori totale", ipotizzato invece dalla stessa logica contro cui si lotta, a conferma della "totalizzazione del dentro": se esiste un fuori totalmente staccato dalle istituzioni e dal sistema, il "dentro" si conferma come inattaccabile. Ciò che importa è sapere cosa si fa fuori o dentro, e quale legame fra dentro e fuori si riesce a mantenere, per non cadere nell'errore di creare il dentro come alibi del fuori, e il fuori come alibi del dentro.
Tu hai lavorato per molti anni nelle istituzioni psichiatriche e da molti anni lavori all'esterno. Quali pensi siano i limiti dell'uno e dell'altro tipo di lavoro?
LAING Si parla da sempre dei limiti del lavoro nelle istituzioni: il ruolo istituzionalizzato, il controllo economico dal vertice, un'organizzazione burocratica molto complessa; tutto controllato dalle forze politiche. Le cariche, al vertice, sono controllate su basi politiche. In altre parole, tutto è controllato da forze che non hanno niente a che fare con la medicina. Lo stesso controllo dei medici, che pure sono una corporazione reazionaria, sarebbe meglio di questo controllo non-medico.
I limiti si scoprono nel momento in cui qualunque azione radicale viene bloccata, perché non esiste un minimo margine di controllo sull'apparato burocratico eccetto quello effettuato dai burocrati. Anche se si possono fare delle ricerche sul sistema, oltre un certo limite la ricerca si svuota. Non so in Italia in che misura si verifichi questo, ma penso che ognuno deve capire e conoscere cos'è il sistema, e poi decidere se passare il resto della vita dentro o no. Se Franco pensa di poter mutare in modo significativo le cose, nella direzione da lui voluta, restando all'interno delle istituzioni e pensa sia possibile farlo, io rispetto questa sua opinione e mi auguro riesca in quello che si prefigge. Io ho fatto enormi sforzi per tentare di fare quello che mi prefiggevo all'interno del sistema, dieci anni fa circa, ma non c'era spazio per farlo. Così, potevo o restare nel sistema tentando di fare quello che volevo fare senza farlo, oppure uscirne. Ne sono uscito. Naturalmente non ne sono uscito del tutto, perché volevo influenzare il sistema dall'esterno e penso di aver inciso più dalla posizione in cui mi sono messo, di quanto avrei potuto fare se fossi stato consulente in qualche ospedale psichiatrico a Inverness o nel consiglio di amministrazione dell'ospedale regionale del North-West.
BASAGLIA In realtà non esiste un "fuori del sistema", quindi i legami fra dentro e fuori sono continui. Si tratta di un'angolatura o di una prospettiva diversa.
LAING Siamo giunti ora a una specie di negoziato con la gente «nel sistema». La nostra azione non è stata spazzata via come qualcosa che si può ignorare, perché abbiamo tenuto aperti i canali di contatto. Il sistema, in qualche modo, è stato intaccato dalla nostra azione. Esiste un'alternativa reale, in atto, che non è stata distrutta o dispersa e non lo sarà in futuro, perché ormai andrà avanti. Superata la fase iniziale, quando poteva essere ancora facilmente schiacciata dalla mano pesante dell'establishment, ora non può più essere distrutta. Per quanto riguarda l'establishment, niente ha tanto successo quanto il successo, come diceva sempre Jack Sutherland (direttore della Tavistock Clinic). E la nostra azione ha avuto successo in questi termini, i soli termini che questa gente riconosce: esiste cioè come fatto sociale.
Nell'ospedale psichiatrico si può procedere all'infinito senza cambiare niente, perché l'apparato burocratico ha risorse infinite: può semplicemente sospendere uno da una carica, spostare una persona o un'altra, creare uno scandalo, sovvenzionare un settore di lavoro piuttosto che un altro, bloccare una ricerca o farla morire per mancanza di fondi. Ogni volta che si verifica qualcosa di reale e di diverso, che dà fastidio, può essere bloccato.
Ma anche restando mezzo dentro e mezzo fuori si può fare qualcosa. Non ci sono leggi contro il fatto di vivere in una casa con dei malati. Perché non farlo?
BASAGLIA Non ci sono leggi per quanto riguarda le responsabilità nei confronti dei pazienti? Di chi è la responsabilità in questo caso?
LAING Certo, ci sono leggi molto severe anche qui. Solo che non esistono leggi contro il fatto che un medico viva con un non medico, che sia paziente di un altro medico. C'è molta gente sposata con schizofrenici. Non ci sono leggi a questo proposito. Né ci sono leggi contro il fatto che qualcuno diagnosticato schizofrenico viva da qualche parte, né c'è una legge contro il fatto che un medico viva con lui o con lei. Basta che nessuno di coloro che abitano in un edificio, sia paziente di qualcuno che abita nello stesso edificio. Non occorre neppure che siano medici; possono essere studenti di medicina o chiunque altro. Non c'è niente da ridire su questo, se si dichiara che non si fa alcun trattamento medico. Se poi la cosa fosse portata all'estremo, ne uscirebbe un caso giudiziario straordinario, che potrebbe sollevare molte questioni interessanti.
Noi abbiamo dovuto prendere contatti con le amministrazioni cittadine, parlare con la polizia, gestire eventuali interpellanze in parlamento, o con il ministero della sanità. Nessuna azione legale è stata intrapresa contro di noi. Nessun membro di queste comunità è mio paziente. Quando uno dei medici americani, venuto a lavorare con noi a Londra, ha chiesto l'autorizzazione al General Medical Council, ha dovuto spiegare che cosa avrebbe fatto. Così ha spiegato quello che stavamo facendo: niente medicine, niente ricette, nessuna forma di trattamento. Noi non diamo trattamenti medici. La cosa fu spiegata al G.M.C. e risposero che, per quello che si faceva, non occorrevano autorizzazioni. Si può lavorare con la Philadelphia Association a Londra e non essere laureati in medicina, perché non si fa un lavoro di tipo medico. Degli studenti di Bristol ne hanno avuto abbastanza della psichiatria, così come la vedevano praticare, hanno comperato una casa e sono andati ad abitare con dei pazienti, come in una comune. Anche in America ci sono comunità il cui staff è costituito da studenti di scienze sociali, antropologi, sociologi, psicologi, molti, ma non esclusivamente, sono studenti di medicina e fanno andare avanti tutto loro. Non è la cosa più facile del mondo vivere con persone estremamente disturbate, che soffrono molto. E' per questo che è difficile, perché riuscire a sopportare quest'agonia non è semplice. Io non sono pronto per una cosa del genere in questo momento, ma c'è gente che è disposta a farlo. Avrei potuto farlo dieci o venti anni fa.
BASAGLIA E' del resto l'agonia che si affronta ogni giorno nelle istituzioni e forse è anche per questo che è difficile lavorare «dentro». Questa è anche la difficoltà contro cui ci scontriamo: perché tollerare quest'agonia diventa sempre più pesante.
LAING Penso che quando si invecchia e si è fatto questo lavoro per un certo numero di anni, si diventa come dei vecchi boxeurs. Dopo un certo periodo bisognerebbe ritirarsi e dedicarsi all'addestramento. Le persone più adatte per questo tipo di lavoro, ora, possono già essere troppo vecchie fra qualche anno. E' come per gli atleti: gli anni migliori sono quelli della giovinezza, quando si è in grado di far fronte agli sforzi. Quando si invecchia, ne hai abbastanza, così i più vecchi possono preparare i più giovani. I giovani possono fare questo lavoro: quando hai vitalità e resistenza, quando puoi far fronte al fatto di non dormire per notti di seguito e essere completamente esaurito e poi ci dormi sopra. E' un lavoro molto impegnativo e molto faticoso sia fisicamente che emotivamente. Può andar bene per uno studente o per una persona fra i venti e i trent'anni, prima di avere una propria famiglia o "dopo" che la famiglia è cresciuta; non quando si hanno dei figli piccoli.
BASAGLIA Il problema dell'addestramento dei giovani è il punto centrale anche del lavoro nelle istituzioni. Ma il panorama italiano in questo settore è ancora molto confuso.
Nel campo della psichiatria, da un lato la preparazione universitaria continua a mantenersi completamente fuori di ogni contraddizione reale: il malato curato nelle cliniche universitarie è un malato particolare che deve presentare un particolare interesse didattico e scientifico, secondo l'interpretazione di ciò che è la didattica e la scienza del docente. Si tratta quindi di una realtà in un certo modo artificiosa. La realtà dei malati nei manicomi, dove si pratica la «vera psichiatria», è completamente sconosciuta ai giovani che hanno bisogno invece di una preparazione pratica che li metta direttamente in contatto con il terreno su cui dovranno agire. Ma le scuole di specializzazione esigono la frequenza degli specializzandi, e il potere universitario riesce ancora a stroncare e a distruggere molte potenzialità.
D'altro lato c'è stata un'azione pratica (mi riferisco a quanto è successo a Gorizia) che ha tentato di rendere esplicita, da un lato la funzione dell'ideologia psichiatrica come copertura di contraddizioni sociali; dall'altro, la natura politica della definizione dei limiti di norma che vengono via via stabiliti fuori dai confini della psichiatria e che la psichiatria si limita a confermare.
Il problema che si presenta ora è che molti giovani che provengono dai movimenti studenteschi, spesso cadono in un equivoco, presente in molti altri settori della vita sociale: privilegiando l'aspetto «politico» del loro intervento tecnico, tendono a non ritenere come fondamentale quello che resta sempre il problema centrale dell'ospedale psichiatrico, l'internato; e tendono a orientare il loro interesse, appunto politico, verso «l'infermiere», ritenendo questa, una scelta «politicamente più corretta». Praticamente, vivono come ideologico-umanitario il rapporto con il malato, rifiutando di limitare il loro intervento alla sua riabilitazione e cura; e come «politico» il rapporto con l'infermiere (risalendo alla sua appartenenza alla classe operaia), come se si trattasse di un passo oltre nella lotta alla logica istituzionale.
In un certo senso quello che era stato un movimento teso alla comprensione dei modi di sviluppo e di mantenimento di un'ideologia su un terreno pratico specifico, da cui allargare la comprensione pratica della funzione delle ideologie nel nostro sistema sociale, rischia di rientrare nel campo dell'ideologia politica generale, perdendo ogni possibilità di presa sulla pratica specifica istituzionale. Si tratterebbe cioè del ritorno dallo specifico al generale, come regressione allo stadio del «politico istituzionale», che precedeva l'appropriazione del significato politico, implicito in ogni intervento tecnico specifico.
Questa è la situazione da cui si parte per l'addestramento in Italia e credo non solo in Italia. Del resto si tratta di un fenomeno evidente in tutti i settori, non solo nelle istituzioni psichiatriche: lo scontro dei giovani con la realtà del loro ruolo professionale. Per questo vale la pena di tentare di capire cosa sta accadendo, per non rischiare di continuare a capovolgere le situazioni, senza mai muoversi dal punto da cui si è partiti.
LAING E cosa fanno Franco e il suo gruppo? Cosa dicono alle persone che vengono da loro? Dànno un'interpretazione politica della situazione italiana che si può leggere anche altrove? Se si vuole fare qualcosa con gli infermieri, i giovani devono occuparsi, con gli infermieri, dei pazienti e avere meno paura di quanta ne abbiano gli infermieri. Altrimenti sono scuse per non affrontare i pazienti. Il loro compito è dare l'esempio agli infermieri attraverso il loro modo di «affrontare» i pazienti.
BASAGLIA E' quello che succedeva a Gorizia, ma nei giovani politicizzati c'è ora la paura di cadere nella trappola dell'ideologia di ciò che Gorizia ha rappresentato.
LAING Ci deve essere qualcuno che riesca a superare questo panico, questa fuga dal dolore degli altri che ci ricorda la nostra infelicità, la nostra incapacità o la nostra disperazione; qualcuno che riesca a stare con una persona che si accorge di non poter assolutamente aiutare, senza avvertire un senso di fallimento nel non riuscire a farlo. Questa "capacità negativa" è molto importante ed è fondamentale per l'analisi. Affrontare l'incertezza e il dubbio se si stia arrivando da qualche parte o dove si stia arrivando e avvertire un disorientamento completo di fronte a questo genere di cose: questa è una posizione ideologica falsamente positiva, che è fuga difensiva dall'esercizio della capacità negativa di cui parlavo prima, ed è una posizione completamente adialettica. Il giovane psichiatra che si sia impadronito di un nuovo linguaggio, incorporato come ideologia, sviluppa una sorte di sindrome di agitazione: ha il senso di colpa, ha le sue paure personali e può non essere onesto con se stesso, arrivando - molto spesso - ad assumere un'aria di purezza e di superiorità perché lui appartiene alla New Left o Post New Left e non è fascista; mentre, in pratica, può non essere meglio o può essere anche peggio di qualche psicoterapeuta idealista borghese che fa pagare la visita ai suoi pazienti, ma che magari fa un lavoro serio.
Penso che la migliore soluzione sia che gli psichiatri che hanno fatto esperienza negli anni e che non hanno adottato una di queste false soluzioni, insegnino ai giovani con l'esempio e non con le parole o con seminari...
BASAGLIA E' quello che si tenta di fare e se ci si riesce l'istituzione dovrebbe risultare terapeutica a tutti i livelli, anche per i terapisti. In ciò consiste anche l'addestramento. Ma occorre arrivare a comprendere praticamente i limiti reali in cui ci si muove.
In Inghilterra c'è, nel rapporto con i giovani in addestramento, un problema analogo, dato che in molti altri paesi europei si assiste allo stesso fenomeno?
LAING Non è un problema per noi, perché chi viene a fare il training con noi, vive "con" i malati. Non è che passi parte del tempo con loro, vivono tutti assieme.
BASAGLIA Ma in un'istituzione psichiatrica ci sono, ad esempio, mille degenti e settecento infermieri, per cui l'azione si complica anche per il terreno stesso in cui si opera e per l'insieme di regole cui è soggetta l'organizzazione ospedaliera.
LAING Appunto. Ma cosa vi impedisce di disporre di una casa dove possano vivere dieci o quindici persone, per metà studenti di medicina e per l'altra metà «schizofrenici»? Questa «casa» potrebbe far parte dell'addestramento di tutti, per un certo periodo, e potrebbe essere aggiunta a ogni ospedale psichiatrico. E' una cosa semplice da fare. Qui non occorrono infermieri; ognuno corre i suoi rischi, senza bisogno di regole: tutti fanno quello che possono per riuscire a vivere insieme. Se volete lasciar stare la questione istituzionale, fatelo.
BASAGLIA Continuare ad agire nelle istituzioni può anche avere un valore reale-simbolico per dimostrare come si possa, nonostante tutto, resistere ad esse, e questo agli occhi della maggioranza delle persone che vive al loro interno, in tutti i ruoli che le istituzioni comprendono. Agire all'esterno potrebbe allora diventare la proposta di un'alternativa di cui non tutti possono usufruire e il suo valore esemplare verrebbe ridotto nel momento in cui si tratta di una situazione privilegiata rispetto a quelle istituzionali. Inoltre resterebbe sempre aperto il problema che tutto diventa «istituzione» e che, a un certo punto - come tu stesso dici - non si può andar «fuori» più di tanto.
Puoi comunque dire in che misura la tua azione ha inciso sul concetto e sulla definizione di malattia mentale nel tuo paese?
LAING Se entri in una libreria, nella sezione dedicata alla psichiatria, e leggi i testi principali che vengono pubblicati nel mondo, non ti accorgeresti né che esisto io, né che esiste questo tipo di approccio alla malattia. Poi se si apre una pagina del discorso inaugurale del Royal College of Psychiatrists appena costituito, mentre all'inizio pare che questo modo diverso di avvicinare la malattia non esista affatto, ci sono due paragrafi che difendono la posizione del sistema, contro una posizione di cui il sistema finge di ignorare l'esistenza. Oppure un professore di psichiatria si mette in contatto con me e mi dice un po' ironicamente che i suoi attacchi nei miei confronti sembrano provocare sui suoi studenti l'effetto opposto e cioè che gli studenti e il suo staff domandano che io vada a parlare con loro. Benché non voglia che io incontri i suoi studenti, sarebbe tuttavia contento se incontrassi i membri più vecchi del suo staff, dietro le quinte, come per aprire dei negoziati.
C'è una specie di brontolio, soprattutto fra gli psichiatri più anziani che si sentono togliere la terra sotto i piedi da un mutamento della coscienza degli psichiatri più giovani. Non so dire la portata di questa cosa. Ho l'impressione che anche in America succeda lo stesso. Non penso che molti giovani credano ai testi di psichiatria nel modo in cui molti di noi credevamo venticinque anni fa: devono ancora fare esami, devono ancora appropriarsi del linguaggio, ma molti sono profondamente insoddisfatti. Molti si rendono conto che tutto è pesantemente istituzionalizzato, sanno da dove vengono i soldi, come sono controllati i posti di lavoro, come sono controllate le carriere, il che offre loro prospettive molto limitate. E' un genuino cambiamento delle coscienze che si sta verificando in tutto il mondo e sta succedendo qualcosa anche nella professione psichiatrica. Si tratta di qualcosa di molto sottile, in certi settori è più forte che in altri, ma anche quando è debole esiste lo stesso.
BASAGLIA Quali sono i progetti pratici attuali?
LAING Sto cercando di trovare denaro per la Philadelphia Association. I valori dei beni immobili a Londra crescono molto rapidamente, per cui ci sembra un buon momento per comprare una casa e avere un posto stabile, senza avere più l'angoscia di non essere in grado di pagare l'affitto o di doversi spostare da una casa all'altra. Abbiamo già una segreteria, una biblioteca e un luogo dove tenere dei seminari. Vogliamo avere un posto per tutto, poter disporre di fondi per borse di studio. Insomma tutto quello che si può avere con il denaro ci serve ed è bene avere i soldi per comprarlo. Ci occorrerebbe un posto in campagna che dovrebbe, naturalmente, funzionare in stretto rapporto con la città. Non occorre parlare dei vantaggi specifici della campagna. Spero si apra presto un luogo analogo a New York, che sarà strettamente legato a noi e spero riusciremo a trovare presto - e non occorre sia in campagna - una specie di quartiere generale centrale per l'addestramento dei terapisti. Come tentavo di dire l'altra sera, vorremmo collegare i fattori fisici, emozionali, psichici e sociali alle scienze mentali. In altre parole, un tipo di addestramento che non divida questi fenomeni, così come tuttora si fa, o che non si limiti a riempire di parole il vuoto di pratica. Non so di nessun centro di addestramento per terapisti che prepari in questo lavoro sul proprio corpo, sulle sensazioni ed emozioni, insieme alla cosiddetta psicoterapia, lavorando con diadi, triadi, sistemi familiari, network, eccetera. Noi vogliamo, combinando insieme pratica e teoria, una terapia che comprenda tutti i campi, senza escluderne alcuni o senza dedicarci allo studio esclusivo di altri. Lo si potrà fare, oltre ai seminari teorici, ai gruppi di studio e all'analisi implicita nel nostro mandato, lavorando con le famiglie e vivendo nella comunità. Spero che riusciremo a fare questo centro. Si tratterebbe di un centro di addestramento dove potrebbe venire gente di tutto il mondo, per questo non occorre sia in Inghilterra piuttosto che negli Stati Uniti. Qualunque posto va bene.

*

Laing, confuso non sempre a ragione con l'antipsichiatria di David Cooper, ripropone ora, come si vedrà più oltre, la costituzione di un «asilo», che risponda - fuori da ogni burocrazia organizzativa e istituzionale - al bisogno di riparo, di protezione, di tutela di chi vive un'esperienza «diversa». Un luogo dove il diverso possa esprimersi senza limitazioni, e dove si impari a convivere con esso. Ma così come Laing augura a noi di resistere a lottare nelle istituzioni, noi auguriamo a lui che il suo «asilo» riesca a non diventare un'istituzione, restando - come resterà inevitabilmente - inserito nella logica sociale ed economica dell'area in cui sorgerà, anche se non ne sarà burocraticamente condizionato e determinato. Resteranno comunque i limiti di un'azione che, per essere più approfondita sul piano del «soggetto», finisce per non avere la stessa approfondita incisività sul piano politico-sociale in cui il soggetto è oggettivato.
Ma ciò che dobbiamo anche imparare - e questa raccolta di resoconti teorico-pratici di esperienze diverse ne testimonia un tentativo - è vivere in modo complementare e non antagonistico l'azione dell'altro, per uscire, anche su questo piano, dalla logica della divisione e non trovarci, ciascuno isolato nel proprio piccolo campo d'azione, a riproporre il gioco dell'intellettuale classico, geloso delle sue idee e delle sue piccole invenzioni.


2.
La scienza e la criminalizzazione del bisogno.

In questi ultimi anni va delineandosi sempre più chiara la compresenza di due tipi di guerra: la guerra imperialista e i movimenti antiimperialisti presenti un po' ovunque nel mondo; e la guerra quotidiana, perpetua, per la quale non sono previsti armistizi: la guerra di pace, con i suoi strumenti di tortura e i suoi crimini, che ci va abituando ad accettare il disordine, la violenza, la crudeltà della guerra come norma della vita di pace.
Ospedali, carceri, manicomi, fabbriche, scuole sono i luoghi in cui si attuano e si perpetuano questi crimini in nome dell'ordine e della difesa dell'uomo. Ma l'uomo che si vuole difendere non è l'uomo reale: è ciò che l'uomo deve essere dopo la cura, l'indottrinamento, la distruzione, l'appiattimento delle sue potenzialità, il recupero. E' l'uomo scisso, separato, diviso, su cui ha buon gioco questo tipo di manipolazione per il suo totale adattamento a questo ordine sociale che vive sulla criminalizzazione e sul crimine.
Ospedali e farmaci uccidono più di quanto non riescano a curare (una statistica americana ha riconosciuto che l'80 per cento della medicina serve a curare malattie generate dalla medicina stessa). Le carceri producono più delinquenti di quanti ne entrino. I manicomi fabbricano i malati su misura: cioè costruendo passività, apatia e annientamento personale necessari al controllo e alla conduzione dell'organizzazione ospedaliera. Nelle fabbriche si sfruttano gli operai, costringendoli a condizioni di lavoro nocive e distruttrici, dove le «morti bianche» sono preventivate come un male necessario al progresso dell'uomo. Le scuole continuano a non insegnare e a non svolgere il loro ruolo educativo, eliminando chi non ha «imparato» e non è stato «educato». Gli studenti che esigono una ristrutturazione dell'insegnamento e una garanzia per il loro futuro, sono accusati di sovvertire l'ordine pubblico; mentre gli studi universitari sono sempre più scadenti e squalificati, sì che ci saranno, da un lato, posti di lavoro per chi si è preparato all'estero o presso le scuole di specializzazione delle industrie, e dall'altro una nuova ondata di laureati disoccupati o sottoccupati. Mari e fiumi sono inquinati e inaccessibili, perché portano nelle loro acque la morte chimica che le industrie producono, e solo davanti a questa morte generale si progettano spese di miliardi per depuratori e impianti di filtraggio che potevano essere costruiti per prevenirla e non correre ai ripari dopo i funerali.
Tutto questo in nome del bene della comunità, in nome del progresso che darà all'uomo il benessere e la felicità. Ma quale uomo?
In ogni momento di crisi riaffiorano i concetti astratti di «uomo» e di «umano». E' in nome di quest'uomo astratto che esiste il progresso delle scienze, il progresso della civiltà. E' in risposta ai bisogni di un uomo che non esiste, che questo progresso può continuare a svilupparsi come progresso della tecnologia, dell'industria, del grande capitale che dell'uomo e della sua vita non sa che farsene, se non sfruttarlo e ridurlo alla sua logica il meno scopertamente possibile. E allora è umano il progresso, se l'industria e il capitale sono in fase di espansione; così come sono umani il regresso, l'austerità, il regime di economia che riportano l'uomo a vecchi valori perduti (come nel caso della recente falsa crisi energetica), nei momenti di crisi dell'industria e del capitale. Secondo le circostanze favorevoli o sfavorevoli, è la logica economica a stabilire ciò che è umano e ciò che non lo è, ciò che è sano e ciò che è malato, ciò che è bello e ciò che è brutto, ciò che è corretto e ciò che è riprovevole.
Sono discorsi di un'ovvietà tale che ci si vergogna a farli. E' ancora e sempre la storia ormai banale del bambino che vede il re nudo, in mezzo a una folla impaurita e vigliacca, resa impaurita e vigliacca dalla manipolazione di cui è oggetto. Ma i re sono sempre nudi e siamo noi che li vestiamo accettando e subendo la manipolazione, senza rifiutare il loro gioco da funamboli dove si cambiano continuamente le carte in tavola e si stabiliscono, di volta in volta, nuove regole per la nostra vita. Ideologie scientifiche e istituzioni hanno il compito di garantire questa manipolazione, unendo nello stesso gioco (se pure, ovviamente, a gradi diversi di possibilità e di alternative) manipolatori e manipolati, controllori e controllati, gli uni attraverso l'identificazione nei loro ruoli apparentemente attivi e autonomi, gli altri nel subire ciò che non sono in grado di rifiutare.
Pure si continua a sostenere che - nell'ultimo secolo - sono stati fatti passi giganteschi verso la conquista da parte dell'uomo della propria libertà e del proprio destino. La scienza, in ogni campo, dichiara di essere alla ricerca di strumenti sempre nuovi, per la liberazione dell'uomo dalle proprie contraddizioni e dalle contraddizioni della natura. Ma se si analizzano e soprattutto si agisce all'interno delle istituzioni create dalla nostra «scienza» e dalla nostra «civiltà», ci si rende conto di come ogni strumento tecnicamente innovatore non sia in realtà servito che a dare un nuovo aspetto formale a condizioni di cui restavano immutati natura e significato.
Nel campo specifico della reclusione - e in questo termine vogliamo ora comprendere sia quella manicomiale che quella carceraria, i due poli principali su cui si incentrano gli interventi di questa raccolta - dal tempo della nave dei folli, che, secondo la leggenda medievale, vagava per i mari e i fiumi con il suo carico abnorme e indesiderato, la scienza e la civiltà non pare siano riuscite ad offrire che un ancoraggio più pesante a queste isole di esclusione, dove devianza malata e devianza sana («colpevole» e «responsabile», quindi «delinquenza») trovano la loro collocazione. Per l'uomo moralmente traviato il carcere, per l'uomo malato nello «spirito» il manicomio: questa la grande conquista della scienza.
Per secoli matti, delinquenti, prostitute, omosessuali, alcolizzati, ladri e bizzarri avevano diviso lo stesso luogo dove la diversità della natura della loro «abnormità» veniva appiattita e livellata da un elemento comune a tutti: la deviazione dalla «norma» e dalle sue regole, unita alla necessità di isolare l'abnorme dal commercio sociale. Le mura dell'asilo circoscrivevano, contenevano e nascondevano l'indemoniato, il pazzo (espressione del male dello spirito involontario e irresponsabile), insieme al delinquente (espressione del male intenzionale, responsabile). Pazzia e delinquenza rappresentavano, insieme, la parte dell'uomo che doveva essere eliminata, circoscritta e nascosta, finché la scienza non ne sancì la netta divisione attraverso l'individuazione dei diversi caratteri specifici.
Secondo il razionalismo illuminista, il carcere doveva essere l'istituzione punitiva per chi trasgrediva la norma, incarnata nella legge (la legge che tutela la proprietà, che definisce i comportamenti pubblici corretti, le gerarchie dell'autorità, la stratificazione del potere, l'ampiezza e la profondità dello sfruttamento). Il pazzo, il malato dello «spirito», colui che si appropriava di un bene comunemente attribuito alla ragione dominante (il bizzarro che viveva secondo norme create dalla "sua" ragione o dalla "sua" follia) cominciarono ad essere classificati come "malati" per i quali occorreva un'istituzione che definisse chiaramente i limiti fra ragione e follia, e dove poter relegare e rinchiudere con una nuova etichetta chi contravveniva all'ordine pubblico su criteri di pericolosità malata o di pubblico scandalo.
Carcere e manicomio - una volta separati - continuarono tuttavia a conservare l'identica funzione di tutela e di difesa della «norma», dove l'abnorme (malattia o delinquenza) diventava norma nel momento in cui era circoscritto e definito dalle mura che ne stabilivano la diversità e la distanza.
La scienza ha dunque separato la delinquenza dalla follia, riconoscendo a entrambe una nuova dignità: alla follia quella di essere tradotta in una astrazione - la sua definizione in termini di malattia; - e alla delinquenza quella di diventare oggetto di ricerca da parte di criminologi e scienziati, che arrivarono ad individuare generici fattori biologici come originari del comportamento abnorme, fino alla scoperta del cromosoma "y" soprannumerario. Ma, nonostante la separazione formale delle due entità astratte (delinquenza e malattia) ciascuna con la propria istituzione specifica, "praticamente" resta inalterata la stretta relazione dell'una e dell'altra con l'ordine pubblico: il che mantiene inalterata la funzione di entrambe le istituzioni come tutela e difesa di questo ordine. Inoltre, nonostante l'astratto riconoscimento di questa nuova dignità, né il delinquente che deve espiare l'offesa fatta alla società, né il pazzo che deve pagare per il suo comportamento scorretto e inadeguato, sono stati mai considerati uomini, e le istituzioni costruite per loro (per la loro "rieducazione" e "redenzione" da un lato, e per la loro "cura" e "riabilitazione" dall'altro) non hanno modificato né la funzione né la natura, continuando a seguire, nella loro evoluzione separata, un binario parallelo. Riformatori dei codici da un lato, frenologi e specialisti dall'altro, hanno di volta in volta stabilito nuovi regolamenti, classificazioni, teorie, suddivisioni che lasciavano ogni volta immutato il rapporto fra la società «civile» e gli elementi che ne vengono esclusi. Ma, insieme, hanno anche lasciata immutata la natura dell'esclusione fondata sulla violenza, la mortificazione, la totale distruzione dell'uomo istituzionalizzato, dimostrando che la finalità effettiva degli istituti di rieducazione e di cura resta sempre la soppressione di chi dovrebbe essere rieducato e curato.
L'analisi della diversa organizzazione istituzionale della devianza, in rapporto ai diversi gradi di sviluppo tecnologico industriale ed economico, ci può chiarire l'immutabilità della funzione di questa organizzazione: il controllo e l'eliminazione, attuati con strumenti più o meno espliciti, più o meno sofisticati, dell'oggetto in essa contenuto.
Nei paesi dove la situazione economico-sociale, per il suo grado di sviluppo, non esige - in nome del suo funzionamento - un tipo di sovrastruttura istituzionale "divisa", la devianza occupa ancora per lo più lo stesso spazio: l'internamento indifferenziato o la violenza esplicita, senza coperture. La scienza non è ancora stata chiamata a fornire giustificazioni teoriche a un tipo di discriminazione che non risulta ancora necessario. Cioè non è ancora stata chiamata a portare la sua opera colonizzatrice nella divisione dell'abnorme. Non si conosce l'utilità di questa divisione che servirà a uno stadio di sviluppo successivo. La violenza, o la minaccia di violenza, è ancora uno strumento sufficiente a garantire l'ordine pubblico. Nel caso esista questa divisione fondata su principi scientifici, essa risulta un tipo di organizzazione istituzionale, una sovrastruttura di importazione - implicita nella logica imperialista - che non risponde minimamente alla realtà locale. Che, per esempio, in una città come Rio de Janeiro esista un tentativo di importazione dell'organizzazione istituzionale della devianza di tipo yankee, significa che in una zona che tende a industrializzarsi, occorre un tipo di controllo diverso. Ma la realtà generale del Brasile, o quella del Nord-Est del Brasile, conserva nella violenza scoperta o nell'internamento indifferenziato, l'unico strumento di controllo. Non è necessario mistificare, attraverso un atteggiamento scientifico «diviso», le misure repressive prese nei confronti dei comportamenti devianti. L'assurdità ad esempio dell'esistenza dell'organizzazione psicoanalitica kleiniana a Porto Alegre, ne è una chiara dimostrazione: essa serve solo agli psicoanalisti che la gestiscono, mentre la sofferenza del popolo, i bisogni del popolo cui non si risponde, vengono controllati altrove: da una violenza esplicita che non ha bisogno di mascherarsi sotto coperture scientifiche sofisticate.
E' in questa ottica che l'orrore della tortura nei paesi sudamericani e non, assume una forma organizzata, diventando "istituzione". Essa rappresenta cioè la sovrastruttura, l'organizzazione istituzionale realmente rispondente al livello strutturale di quei paesi. La "tortura come istituzione" diventa l'unico strumento che i politici (cioè i militari) sanno usare per il controllo di una situazione che non può che essere controllata da uno stato continuo di "minaccia di violenza". Per un popolo che non ha la speranza di mutare la sua condizione invivibile, o che non traduce in una lotta concreta questa speranza, la minaccia dell'internamento in carcere o in manicomio come sanzione per i comportamenti devianti, non ha presa, perché per chi non mangia o non ha una casa dove dormire, l'internamento può anche essere una soluzione alla sopravvivenza. La tortura è allora l'unico mezzo di eliminazione, l'unica minaccia di distruzione reale, quindi il vero controllo sociale rispondente a un livello di sviluppo ancora arcaico. Struttura economica e organizzazione istituzionale coincidono sempre, a ogni livello di sviluppo, e non è casuale che i manicomi vengano a strutturarsi in senso tecnico-istituzionale con l'inizio della rivoluzione industriale; così come tutte le forme di assistenza pubblica vengono a trovare la loro più ampia configurazione istituzionalizzata, nel momento in cui si deve dividere il produttivo dall'improduttivo. Con la nascita dell'era industriale il rapporto non è più fra l'uomo e la società dell'uomo, ma fra uomo e produzione, il che crea un nuovo uso discriminante di ogni elemento (abnormità, malattia, devianza, eccetera) che possa essere d'intralcio al ritmo produttivo.
Al livello di sviluppo tecnologico dei paesi occidentali questa organizzazione del controllo non è più esplicita. Essa è mascherata e insieme legittimata dalle diverse ideologie scientifiche: per il manicomio dall'ideologia medica che trova nella definizione dell'irrecuperabilità della malattia la giustificazione alla natura violenta e segregante dell'istituzione; per il carcere dall'ideologia della punizione. Il carcerato paga per la colpa commessa ai danni della società; il malato paga per una colpa non commessa, e il prezzo che paga è così sproporzionato alla «colpa» da fargli vivere una doppia forma di alienazione, che gli proviene dalla totale incomprensione e incomprensibilità della situazione che si trova costretto a vivere. L'ideologia della punizione su cui si fonda il carcere e l'ideologia medica, o meglio l'ideologia dell'irrecuperabilità della malattia, su cui si fonda il manicomio, sono di fatto totalmente estranee al problema dell'uomo delinquente o dell'uomo malato; cioè sono totalmente estranee al problema della delinquenza come a quello della malattia. La loro funzione è quella di un semplice contenimento delle devianze e quindi del loro controllo. L'ideologia copre la repressione semplicemente giustificandola e legittimandola. Ma la violenza legittimata resta violenza.
Se la finalità riabilitativa di entrambe le istituzioni fosse reale, ci sarebbero detenuti ed internati riabilitati e reinseriti nel contesto sociale. Il che accade molto raramente, poiché l'ingresso nell'una o nell'altra di queste istituzioni segna, di regola, l'inizio di una carriera di cui si conoscono gli sviluppi e le conseguenze. L'affinità formale fra queste istituzioni sembra, dunque, realizzarsi, per entrambe, su un piano puramente negativo. Se pure nuove interpretazioni tendono a giustificare o a spiegare in termini di dinamica psico-sociale sia colpa che malattia, la realtà delle istituzioni in cui esse sono relegate resta fondata sul concetto di colpa da espiare, da pagare attraverso la punizione, anche nel caso della malattia.
I pazzi che Pinel aveva separato dai delinquenti in catene, sono tuttora realmente e simbolicamente incatenati, gli uni e gli altri in istituzioni separate, ma fondate sugli stessi principi distruttivi; definiti e rinchiusi negli stessi giudizi di valore che ne stabiliscono comunque la natura "diversa". I pazzi hanno ottenuto dal razionalismo illuminista la dignità di malati e i delinquenti sono passati dall'ambito della colpa morale a quello di un'astratta giustificazione endogena - recuperati nel campo dell'indagine positivista. Ma per entrambi la realtà e la violenza restano le stesse. Che si usi e si organizzi in modo sofisticato la tortura; che le catene siano reali come nelle nostre istituzioni o che siano simboliche come nelle istituzioni dei paesi tecnicamente più sviluppati, non fa differenza, se la finalità è sempre la tutela del gruppo dominante, ottenuta attraverso la distruzione degli elementi che intralciano l'ordine sociale. La logica della subordinazione e della repressione resta la stessa se tende a creare persone totalmente sottomesse acriticamente e totalmente identificate nelle leggi che hanno violato o che possono violare.
Ma questa netta separazione e questo isolamento, in luoghi di segregazione, di contraddizioni umane quali la delinquenza e la malattia, comportano contemporaneamente la messa a fuoco di questi fenomeni come se coloro che ne risultano colpiti, ne risultassero insieme definitivamente marchiati. L'effetto paradossale di questo stigma è che proprio da coloro che hanno già dimostrato la tendenza ad un comportamento anomalo si esige una vita esemplare e perfetta, perché chi è stigmatizzato è riconoscibile, disuguale, lo si individua subito, abitualmente è più debole, più esposto, la sua situazione è precaria, non ha una forza economica, sociale e culturale da opporre alla crociata crudele che esige solo da lui la perfezione di condotta e di comportamento. Quella che incarna il detenuto o il malato, è una contraddizione che non può essere mantenuta aperta perché, a causa del suo diretto rapporto con l'ordine pubblico minacciato, essa deve immediatamente essere definita e codificata per neutralizzarne uno dei significati: la messa in discussione delle regole assolute che garantiscono questo ordine.
La delinquenza e la malattia sono contraddizioni dell'uomo. Possono "anche" essere dati naturali, ma per lo più sono prodotti storico-sociali, e tuttavia si continua a farne pagare le conseguenze - sotto coperture scientifiche diverse - a chi ne è colpito, come se si trattasse sempre e solo di colpe individuali, usate come occasione per distruggere chi, in qualche modo, è fuori o intralcia il ciclo produttivo. Sono infatti sempre i marginali - chi non ha potere culturale o economico da opporre, chi non ha un ruolo «positivo» da giocare, chi non ha uno spazio privato dove vivere le proprie devianze, al riparo - a cadere sotto le sanzioni più rigorose. Il gruppo dominante salvaguarda l'ordine pubblico (il ritmo produttivo, l'efficienza della sua organizzazione, l'andamento della vita innaturale che produce e impone) salvaguardando sé e, insieme, chi lavora per lui, dalla minaccia potenziale rappresentata dai marginali (coloro che non producono, coloro che volontariamente si escludono o involontariamente sono esclusi dal commercio sociale), giocando, insieme, sulla minaccia di una sua possibile emarginazione. Paradossalmente si ripropone, in nome dello sfruttamento e dell'efficienza, la dialettica servo-signore, dove il signore garantisce il servo dalla minaccia rappresentata da chi può turbare l'ordine del suo lavoro, creando le istituzioni dove isolare e neutralizzare questa minaccia. Ma l'esistenza di queste istituzioni agisce, insieme, come minaccia per il servo che può cadere nelle sanzioni in esse implicite. Questi organismi cosiddetti riabilitativi hanno dunque una duplice funzione: la violenza come sistema concreto di eliminazione e di distruzione, e la violenza come minaccia simbolica di questa eliminazione e distruzione.
Al nostro livello di sviluppo, ogni contraddizione deve essere isolata e trovare lo spazio separato dove l'individuo paghi in proprio per la contraddizione che rappresenta. Ciò che importa è individuare subito il "diverso" e isolarlo per confermare che non siamo noi (i sani, i normali, i buoni cittadini), non è la struttura della nostra organizzazione sociale a produrre contraddizioni. E' sempre l'altro, lo straniero, l'estraneo, il corruttore, sono le «cattive compagnie» che producono il contagio, contagio che deve essere prevenuto e neutralizzato a tutela della acontraddittorietà della norma, cioè dei parametri secondo cui viene definito l'ordine morale e pubblico. In questa caccia all'individuazione precoce della diversità per confermarla come disuguaglianza, si fonda il carattere preventivo delle ideologie, così come nella conferma di questa disuguaglianza si fonda il carattere violento delle istituzioni.
A questo punto ha buon gioco l'interdisciplinarietà, la complicità della scienza con la legge, per cui si può, secondo i casi, definire psicopatico, debole o pazzo morale il delinquente che non deve essere definitivamente stigmatizzato come tale, nei casi in cui la stigmatizzazione di malato mentale risulti meno lesiva di quella di delinquente. Le perizie psichiatriche non sono che uno strumento che consente il passaggio da un terreno all'altro, attraverso una misurazione quantitativa (sul cui carattere soggettivo è inutile soffermarsi) degli elementi abnormi presenti nel soggetto esaminato.
Ma chi varca la porta del carcere, del penitenziario, del manicomio o del manicomio criminale, entra in un mondo dove tutto "agisce praticamente" per distruggerlo, anche se è formalmente progettato per salvarlo. E tuttavia i criminologi continuano a riconoscere la realtà carceraria come l'espressione più diretta ed evidente della delinquenza naturale del detenuto; così come gli psichiatri continuano a riconoscere la realtà manicomiale come segno del deterioramento psichico e morale prodotto dalla malattia.
E' su questa logica distruttiva che si mantiene l'efficienza dell'organizzazione istituzionale, perché è l'istituzione in quanto organizzazione che non può permettersi rischi. Ma i rischi che non si permette l'istituzione, si traducono in realtà pratiche negative per gli uomini che essa contiene, per i quali non esistono necessità, esigenze, bisogni cui si debba rispondere, perché l'essere definiti malati di mente, o delinquenti, li priva di ogni più elementare diritto, anche se le istituzioni continuano a definirsi riabilitative e terapeutiche. Questo non può però non significare anche che le cosiddette istituzioni riabilitative hanno, in realtà, una funzione esplicita: quella di dare un ruolo istituzionale controllabile, a chi non è controllabile attraverso la sua partecipazione al ciclo produttivo (e questo comprende ovviamente tutti gli istituti cosiddetti positivi: scuola, famiglia, fabbrica, università, luogo di lavoro). Chi è fuori da questo cerchio e non accetta le regole del gioco, deve trovare un luogo in cui assumere un ruolo specifico sul quale l'istituzione deputata giocherà poi nel graduale processo distruttivo che le compete.
L'interscambiabilità delle istituzioni e delle caratteristiche di ciò che contengono ne è una dimostrazione. Si tratta di vasi comunicanti il cui accesso è reso possibile da un cambio di definizione o di etichetta del contenuto. Un ragazzo internato in un istituto di rieducazione, passerà al carcere o al manicomio a seconda dell'accento che si vorrà porre sulla sua devianza sana o malata. Più difficile sarà per lui riuscire a evitare l'uno o l'altro, una volta marchiato dalla sua appartenenza all'istituto di rieducazione.
Questo il tipo di organizzazione istituzionale corrispondente al livello di sviluppo più o meno generalizzato dei paesi europei.
Ad un livello tecnologico-industriale più avanzato, quale ad esempio quello degli Stati Uniti, il controllo classico della devianza attraverso le istituzioni segreganti, non basta più. Il sistema capitalistico, oltre a produrre un aumento dei beni di consumo che vengono imposti come segno del grado di benessere raggiunto dalla popolazione, produce contemporaneamente un aumento di contraddizioni, cioè un aumento di deviazioni dalla regola. Il controllo di queste deviazioni non passa più unicamente attraverso le istituzioni segreganti e violente (che tuttavia continuano a esistere). Ci si può anche permettere di progettare la ristrutturazione formale di queste istituzioni che possono essere ammodernate, rese meno esplicitamente repressive, più tolleranti, perché il controllo avviene essenzialmente altrove - attraverso la dilatazione nel "territorio" e attraverso un nuovo tipo di individuazione del "diverso", più capillare e più sottile: l'individuazione precoce, la prevenzione, i servizi assistenziali, il welfare state, la traduzione in conflitti psicologici da curare, di comportamenti che con la psicologia hanno poco a che fare.
Questo tipo di controllo della devianza che recupera la maggior parte dei conflitti sociali nel terreno della psicologia, della medicina e dell'assistenza è un nuovo modello pronto per l'esportazione (in parte già in atto) nei paesi a un livello di sviluppo più arretrato. La sua applicazione pratica, in zone in cui questo tipo di controllo non è ancora necessario alla tutela dell'ordine pubblico e dello sviluppo industriale, comporta il nascere di problemi e di necessità artificiali, cui il nuovo modello istituzionale è preparato a rispondere. Ma è preparato a rispondervi in quanto problemi e bisogni artificiali da esso stesso prodotti che, per il loro essere estranei alla realtà concreta in cui cominciano a manifestarsi, risultano essi stessi occasione di dominio. E' la distanza tra bisogno reale e bisogno artificiale che serve in questo senso, perché l'imposizione di una cultura estranea è una delle forme classiche di dominio e di colonizzazione, ben collaudata dai missionari portatori della loro fede e dei loro valori morali, la cui azione precedeva l'arrivo degli eserciti conquistatori. La dominazione passa sempre attraverso la distruzione, l'annientamento della cultura «indigena». Soltanto nel momento in cui viene privato, oltre che della propria economia, dei propri valori, il dominato è pronto a subire quelli del conquistatore che, quanto più sono lontani dalla sua cultura, tanto più lo pongono spontaneamente nella posizione succube e subordinata del «conquistato». Del resto, la difficoltà ad accedere alla cultura borghese da parte del proletariato, è uno degli aspetti di questo meccanismo, dato che essa serve a confermare anche agli occhi della stessa classe proletaria, la propria inferiorità di fronte a una cultura lontana e incomprensibile.
L'oppressione si muove sempre a due livelli: o l'uccisione e il massacro, o l'imposizione di nuovi valori e ideologie che servono come strumenti di manipolazione per mascherare la violenza dell'uccisione e del massacro.
L'esportazione di ideologie e di organismi di controllo come ad esempio la comunità terapeutica o i Community Mental Health Centers in paesi sottosviluppati, non ha che questo significato: la loro esistenza e il loro nascere è un alibi alla perpetuazione della violenza scoperta che continua ad attuarsi come risposta concreta, rispondente al livello di sviluppo dei paesi in cui le nuove ideologie tecnico-scientifiche vengono esportate.
Dove esiste una presa di coscienza da parte di un popolo, della necessità di trovare da sé le risposte ai propri bisogni, la strategia del dominio si riscopre per quello che è: ritorna alla violenza esplicita, all'uccisione, al massacro come sistema arcaico di colonizzazione. La distruzione del movimento di Unità Popolare in Cile, ne è un chiaro esempio. Davanti all'appropriarsi da parte del popolo dei propri bisogni e degli strumenti per rispondervi direttamente, il sistema imperialista salta e ovviamente non è disposto a correre rischi. In questo caso la violenza legalizzata, rappresentata dalle istituzioni, non serve più: si ritorna alla "violenza come istituzione", senza bisogno di coperture o di mistificazioni scientifiche o non. Si uccide, si tortura e si elimina chi ha scoperto il gioco e cerca gli strumenti adeguati per uscirne.
Questi tipi diversi di violenza (esplicita, legittimata dalle ideologie scientifiche, diluita e mascherata sotto la copertura dell'organizzazione assistenziale) sono le diverse modalità di controllo in rapporto ai diversi gradi di sviluppo di un paese. Ma sono, insieme, anche compresenti e contemporanei, nel senso che, nei momenti di crisi, viene scelta la modalità di intervento e di repressione più adatta a garantire il controllo, e non importa più se si passa esplicitamente da un controllo fondato sull'analisi psicologica dei conflitti, alle uccisioni in massa. Chi ha il potere trova sempre il modo di legittimare la violenza, semplicemente imponendola e magari fondendo insieme i diversi strumenti di cui dispone, fino ad arrivare a "umanizzare la tortura", garantendo al torturato l'assistenza dello psicologo o dell'assistente sociale.
Il livello socio-economico dei paesi europei è comunque tuttora legato - se pure a gradi diversi - al controllo istituzionale come forma di repressione. Si stanno solo ora progettando riforme - in alcuni paesi già in atto - per le nuove istituzioni tolleranti, dove malattia, devianza, delinquenza possono essere controllate senza dover ricorrere a una violenza troppo esplicita. Ma nella logica del capitale costruire nuove carceri significa costruire nuovi carcerati; così come costruire nuovi ospedali significa fabbricare nuovi malati, se la finalità resta l'organizzazione dei bisogni e non la risposta a questi bisogni. L'organizzazione dei bisogni comporta soltanto la creazione di nuovi organismi che vengono automaticamente inseriti nel ciclo produttivo, offrendo nuovi ruoli, nuovi posti di lavoro, nuovi servizi che mettono in moto il medesimo circuito produttivo, tipico di qualunque altra organizzazione la cui giustificazione alla propria esistenza è la sua stessa sopravvivenza e il mantenimento o l'aumento degli oggetti che contiene.
Da noi nessuno oggi osa più sostenere, a parole, che le istituzioni chiuse e violente non siano indegne di un paese «civile». Nessuno ignora le condizioni disumane in cui vivono gli internati. Ma la trasformazione delle istituzioni porta soltanto a un apparente mutamento formale che, se anche offrirà, per quanto riguarda la vita quotidiana degli internati, parziali benefici di cui non si devono sottovalutare necessità e positività, si limiterà ad essere una nuova razionalizzazione tecnico-organizzativa, usata come nuovo sistema di controllo degli stessi oggetti. All'interno della medesima logica, "trasformazione", "razionalizzazione" e "controllo" sono tappe di un processo che si perpetua attraverso il continuo mutamento formale delle cose, senza che ne venga mai intaccata la struttura: la trasformazione avviene sempre come risposta tecnica ad una domanda economica - ad ogni livello di sviluppo occorre una diversa forma di controllo - ed è la legge economica a richiedere la nuova razionalizzazione tecnica che funga da controllo alla situazione trasformata.
L'indignazione emotiva contro la violenza delle nostre istituzioni repressive dovrebbe portare all'esigenza di una loro trasformazione che risulti adeguata ai bisogni che malattia e devianza esprimono. Ma finché il nostro sistema economico non troverà funzionale al suo progressivo sviluppo un tipo di controllo istituzionale diverso da quello violento e segregante ancora in vigore, carcere, manicomi e tortura resteranno quello che sono. Stan Cohen sostiene, giustamente, che da quando esiste il carcere si parla di riforma carceraria. Carcere, manicomio, tortura possono cambiare solo se si modifica la struttura di base di cui queste istituzioni sono i pilastri. Ne è una conferma il fatto che se, a livello teorico, si parla sempre della necessità della loro trasformazione, sul piano pratico ogni tentativo di trasformazione è ostacolato e violentemente represso. Ma la risposta repressiva a ogni tentativo di trasformazione pratica di ciò che garantisce il mantenimento dello status quo, qualifica la trasformazione stessa, dimostrando come essa - nel caso in cui si attui - non si limiti ad essere una semplice risposta tecnica a un problema specialistico.
Agire in queste istituzioni della violenza, rifiutando la delega di semplici funzionari dell'ordine pubblico, implicita nel nostro ruolo di tecnici, significa svelarne praticamente la logica, dando - a chi vive al loro interno come oggetti contenuti o soggetti contenenti - la possibilità di una presa di coscienza pratica del meccanismo su cui si fondano. All'analisi teorica e apparentemente asettica del campo sfuggono il fondamento dell'esistenza di queste istituzioni, le finalità e il modo in cui esse funzionano nel contesto sociale di cui rappresentano uno dei punti strategici per il mantenimento dell'ordine costituito. E' in questo senso e partendo da questa ottica che il lavoro del tecnico in queste istituzioni della violenza, si attua e si rivela come lavoro politico, agganciando la specificità particolare in cui è isolata la sua azione, alla struttura sociale di cui l'istituzione fa parte, e svelandone praticamente i nessi e le implicazioni.
Ciò significa che l'azione in queste istituzioni e l'analisi della violenza che vi si esplica, non si limitano alla demistificazione della contraddizione fra custodia e cura, fra custodia e riabilitazione su cui si fondano manicomi e carceri; ma tendono soprattutto a chiarire praticamente le finalità perseguite e le modalità scelte per questa violenza "in rapporto alla struttura sociale in cui essa si attua". Occorre dunque collegarsi ad una analisi della struttura sociale, uscendo dalla separazione specialistica di cui ogni istituzione e ogni tecnico che vi lavora sono prigionieri, pur conservando l'angolatura e il terreno specifici di questa lotta.

Lo stato borghese si fonda su una divisione artificiale (prodotta, storicamente determinata) che viene imposta e assunta come "divisione naturale": la divisione in classi. L'accettazione di questa divisione come fenomeno naturale comporta una serie di regolamenti e di istituzioni che, apparentemente finalizzati a risolvere le contraddizioni naturali, servono di fatto a mantenere l'originaria divisione su cui si regge la struttura economico-sociale. Tanto più è innaturale il regolamento (e la struttura di cui è garante) tanto più esso è violento e repressivo, perché non risponde al bisogno (cioè alla contraddizione naturale) per cui è apparentemente istituito, ma al mantenimento dell'artificio che il regolamento tende a coprire.
Il processo non è tuttavia né così semplice, né così esplicito. Le articolazioni attraverso cui il nostro sistema sociale - a livello di sviluppo della media dei paesi europei - riesce a mantenere la divisione in classi necessaria alla sua sopravvivenza, sono diverse anche se presentano tutte un denominatore comune: la tendenza a isolare i fenomeni, come se non nascessero e non si presentassero in una rete di relazioni e di rapporti reciproci, per affrontarli divisi, separati dal tessuto di cui sono uno degli elementi, e poter far loro assumere un carattere assoluto, naturale. Teorie scientifiche e istituzioni sembrano esplicitamente finalizzate, le une a individuare e isolare questi fenomeni sotto la mistificazione della risposta specialistica; le altre a confermarne, attraverso una pratica distruttiva, il carattere definitivo e irriducibile. Di fatto, entrambe sono finalizzate a individuare e a confermare la "diversità naturale" dei fenomeni, attraverso lo stesso processo attuato - a priori - nella divisione in classi, matrice per ogni altra successiva divisione.
Limitando l'analisi al solo campo delle ideologie e delle istituzioni destinate al controllo della devianza - carceri e manicomi - (ma il processo è ovviamente analogo per ogni altro istituto del nostro sistema sociale), il fenomeno negativo, cioè il comportamento anomalo in termini di asocialità responsabile o malata, viene isolato in modo che l'individuo che lo esprime "diventi" solo quel fenomeno, come non si trattasse di un momento di un processo in cui sono implicati storia, ambiente, valori, rapporti e processi sociali in cui ogni vita individuale è sempre coinvolta. Il fenomeno negativo è un momento relativo ad un complesso di fattori biologici, psicologici e sociali, ma viene isolato e reso assoluto e naturale per giustificarne il carattere immodificabile. Il delinquente è solo e irriducibilmente delinquente, e il carcere è il luogo che serve al contenimento della delinquenza. Il matto è solo e irriducibilmente matto, e il manicomio è il luogo che serve al contenimento della pazzia. Ma delinquenza e pazzia sono avvenimenti che fanno parte della vita dell'uomo, nel senso che sono espressione di ciò che l'uomo è o può essere e, insieme, di ciò che può diventare attraverso il mondo di relazioni e di rapporti. Il delinquente e il pazzo (e qui non entriamo nel merito dei parametri in base ai quali essi sono definiti, il che significherebbe aprire tutta un'altra serie di discorsi) conservano anche nella delinquenza e nella pazzia le altre facce del loro essere uomini: sofferenza, impotenza, oppressione, vitalità, bisogno di un'esistenza che non sia malata né delinquente.
Ma il delinquente diventa automaticamente di pertinenza della criminologia, scienza che suole avere come oggetto di ricerca la criminalità e non l'uomo nella sua totalità; così come il pazzo, o il deviante malato, diventa automaticamente di pertinenza della psichiatria, scienza che suole avere come oggetto della ricerca le devianze psichiche e non l'uomo nella sua totalità. Le ideologie scientifiche servono dunque a fissare in termini assoluti gli elementi di loro competenza, facendoli diventare accidenti naturali contro cui l'uomo può quel poco che può la scienza. Così come le istituzioni hanno il compito di confermare concretamente l'irreversibilità di questi fenomeni naturali. Se malattia e delinquenza sono "solo" fenomeni naturali (delinquente si nasce, la pazzia è il prodotto di una alterazione biologica) e non "anche" prodotti storico-sociali, il contenimento, l'internamento sono l'unica risposta possibile; l'istituzione repressiva, la segregazione, l'unica alternativa di fronte a un fenomeno da cui la società deve solo garantirsi e tutelarsi. Nessuno è responsabile, nessuno è coinvolto, così come davanti alla violenza di certi fenomeni naturali. L'individuo diventa "tutto malato" o "tutto delinquente" e se anche questa totalità negativa è costruita artificialmente dall'assolutizzazione dell'uno o dell'altro degli elementi in cui l'uomo è stato artificialmente scomposto, sarà poi su questa totalità negativa che si attua e si conferma l'esclusione sociale.
Ci si trova di fronte ad una parcellizzazione dell'uomo in cui vengono isolate le diversità, esasperate e confermate le differenze. Ma in nome di cosa? Dai risultati non si può certo dire che tale processo serva alla riabilitazione, al recupero del deviante e al ristabilimento della salute del malato. Se così fosse, la maggioranza degli internati, sia delle nostre carceri che dei nostri manicomi, dovrebbe risultare riabilitata e guarita, e non è sufficiente riconoscere o ammettere il limite della scienza in questi settori per spiegare il fallimento generale degli istituti destinati alla riabilitazione e alla cura.
Ciò che è determinante in questo processo è un elemento, per molti anche troppo ovvio, di cui tuttavia gli scienziati della psichiatria e della criminologia non sembrano avere mai tenuto conto. Si tratta della classe di appartenenza degli utenti di queste istituzioni, e non può certo essere casuale che, per la quasi totalità, siano proletari o sottoproletari, così come appartengono alla stessa classe tutti gli utenti di altri istituti rieducativi e assistenziali come brefotrofi, case di correzione e rieducazione, case di pena, nonché gli assistiti del Welfare nei paesi a maggiore sviluppo industriale. Salvo rari casi di borghesi danarosi delinquenti (che comunque riescono sempre a trovare il modo e gli strumenti per evitare o ridurre la pena loro inflitta) sembrerebbe che le forme di delinquenza e di pazzia irrecuperabili, fossero appannaggio di una sola classe.
E pur tuttavia, anche se nuove teorie tendono a dare nuove interpretazioni di tipo sociologico a questi fenomeni, la scienza continua a confermarci "nella pratica" che pazzia e delinquenza sono avvenimenti naturali. Ma questi avvenimenti fanno parte solo della "natura" del proletariato e del sottoproletariato, o non è piuttosto che pazzia e delinquenza degli appartenenti a questa classe sono rese "naturali" e "irriducibili" attraverso il processo di assolutizzazione del diverso?
Se malattia e delinquenza sono avvenimenti, contraddizioni naturali, la quasi totale assenza nelle istituzioni della malattia (mentale) e della delinquenza degli appartenenti alla classe dominante, testimonia che altrove - fuori di queste istituzioni - esiste un concetto di recuperabilità diverso e, ovviamente, un diverso concetto di irrecuperabilità, per cui malattia e delinquenza perdono il carattere naturale e irriducibile che presentano nelle carceri e nei manicomi. La recuperabilità è subordinata agli strumenti di cui si dispone e alla volontà di recuperare. La borghesia dispone per sé di questi strumenti e di questa volontà.
Per quanto riguarda la malattia, psicoterapia e psicoanalisi sono le branche della scienza che si mettono a disposizione del malato che vi può accedere, alla ricerca delle motivazioni inconsce del suo comportamento anomalo. Non lo si accetta come naturale e irriducibile. In alcuni casi può anche rivelarsi tale, ma se ne indaga la storia, l'evoluzione, si approfondiscono i momenti del processo: si tenta quanto è possibile. Ma l'analisi dell'inconscio e le elaborazioni che ne conseguono sui complessi e sui conflitti, si muovono all'interno di una cultura e di un insieme di valori da cui proletariato e sottoproletariato non sono neppure sfiorati. Inoltre occorre la padronanza di un linguaggio cifrato a questi sconosciuto. Da noi, la piccola borghesia e il proletariato piccolo-borghese che tendono ai valori della borghesia, cominciano appena ad esserne intaccati, ma la stessa imposizione o incorporazione di questa cultura, estranea alla loro e estranea ai loro bisogni, non può che agire come ulteriore elemento di dominio, non certo come strumento di liberazione. Il fatto che un sottoproletario, ricoverato in manicomio, possa o meno presentare un complesso di Edipo irrisolto suona ridicolo anche ad un profano. Ma quali altre ricerche sulle motivazioni del comportamento anomalo vengono effettuate sui malati che popolano i nostri manicomi? Perché i sintomi devianti dei borghesi dovrebbero avere giustificazioni e spiegazioni? Perché se ne indagano e chiariscono al paziente le motivazioni inconsce, mentre per gli internati dei manicomi - proletari e sottoproletari - la malattia continua ad essere un fenomeno naturale ed irriducibile e il malato viene automaticamente identificato nel suo sintomo? Come possiamo conoscerne le motivazioni profonde, se tutta la psichiatria manicomiale si fonda sulla destorificazione dell'individuo?
Per quanto riguarda la delinquenza vale lo stesso discorso. Un delinquente borghese danaroso non ha problemi di reinserimento e di recupero. Il crimine commesso è accettato come un prodotto storico-sociale e non come un dato naturale: c'è una giustificazione alla sua azione criminosa. Si tratta di un avvenimento che non è in grado di determinare l'evoluzione della storia futura di chi delinque; né la storia precedente è letta "tutta" alla luce del delitto che, a un momento dato, egli ha commesso. Nella vita, nell'ambiente di queste persone c'è spazio per il recupero ed è lo spazio che la classe di appartenenza riconosce e conserva per loro. Il problema del recupero non esiste perché, in questo caso, il delinquente ha una storia che chiarisce agli occhi dei suoi pari il suo delitto, e dispone di strumenti economici e culturali per non aver bisogno di delinquere più. Per non parlare poi dei delitti su vasta scala, delle corruzioni, dei reati commessi dalle classi politiche al potere, per le quali non esistono che condanne marginali, condoni, immunità, che lasciano intatta l'onorabilità degli autori. In questo caso riaffiora il concetto della "naturalità della corruzione", ma si tratta di una naturalità implicita nel gioco politico (la politica è sempre una faccenda «sporca» ed è difficile restare con le mani pulite quando si è inseriti nel gioco), ed è così connaturata in questo gioco astratto, da lasciare immuni coloro che attuano concretamente il crimine traendone dei benefici. La corruzione e il delitto individuali, in questo caso, si ripropongono come fatto storico-sociale, giustificato dal numero di contingenze sociali da cui l'individuo è condizionato ed a cui non può sottrarsi.
Esattamente quello che non succede mai per la classe oppressa che delinque. Questo tipo di delinquente non ha storia, o meglio la sua storia è solo la storia dei suoi reati: i precedenti penali. E' delinquente per natura, così come il disoccupato è pigro e fannullone per natura. Non ci sono cause, motivazioni psicologiche, sociali, economiche che giustificano o spiegano il suo gesto, se non appunto la delinquenza stessa che diventa allora biologica, connaturata nell'indole, nella razza, nel carattere somatico. Ogni tentativo di storificare il delinquente proletario o sottoproletario fallisce, perché la sua sarebbe una storia di violenze, di privazioni, di soprusi di cui non deve esistere traccia. Se lo stesso Lombroso, cui tuttora si rifà il senso comune scientifico, ha avuto il merito di storicizzare il delinquente, riconoscendo le implicazioni sociali presenti nel suo comportamento anomalo, le conclusioni pratiche sono state la sua totale destorificazione nel momento in cui egli ne ha sancito, in altro modo, la diversità originaria naturale e quindi la conseguente necessità di emarginarlo.
Chi indaga sul perché si delinque? La vedova di un bracciante, ucciso dalla polizia vent'anni fa durante l'occupazione di un latifondo incolto, in Puglia, ha fatto in una nostra recente trasmissione televisiva questa dichiarazione: «Se la gente avesse lavoro, non avrebbe bisogno di occupare le terre per vivere». E' elementare. Eppure si punisce o si uccide chi occupa terre che nessuno coltiva, senza preoccuparsi del fatto che non è per capriccio o per delinquenza innata che braccianti senza lavoro decidono di occupare terre incolte. Ma l'ovvia conseguenza è che il bracciante è punito perché delinquente e le terre restano incolte se il padrone le lascia incolte.
Per "questi delinquenti" e per "questi pazzi" il nostro sistema sociale non può organizzare il recupero, altrimenti sarebbe un altro sistema sociale, non fondato sulla divisione innaturale. Quando si progettano trasformazioni e riforme all'interno della medesima logica, il risultato è identico. Si parla del nascere di una nuova criminalità di cui non si indagano cause ed implicazioni sociali nella caduta di valori, nelle attese sempre frustrate, nelle promesse mai mantenute, nello scontento per una vita che si fa sempre più critica, impossibile, sempre più priva di significato, sempre più violenta e repressiva, dove la lotta per la sopravvivenza si fa sempre più difficile. Se non si tiene conto di questa premessa fondamentale, ogni volta ci si limita a formulare nuove catalogazioni, nuove divisioni tra criminalità più o meno grave, arrivando a creare nuovi regolamenti e nuove istituzioni identici ai precedenti. Così come, davanti all'insorgere di nuove forme di devianze e di comportamenti anomali, che possono essere il sintomo del rifiuto di una vita invivibile, si trovano nuove codificazioni nosografiche, nuovi termini tecnici secondo cui catalogarle, aggiornati magari da qualche vago riferimento ad un ipotetico «sociale» che garantisca di affrontare le problematiche in termini attuali, moderni. Tanto, carcere e manicomio continuano a conservare la loro natura emarginante, di classe.
In questo contesto sociale, il problema della criminalità o della malattia non può essere neppure sfiorato. Non si sa cosa sia o meglio si sa che cos'è a priori, e si applica la definizione più adatta a richiedere l'intervento repressivo per fenomeni di cui viene colto e messo a fuoco un solo aspetto: quello di comportare un disturbo sociale. Ma malattia e devianza esistono, non solo per la società che se ne difende, ma anche per i soggetti che le vivono e vogliono difendersene, o che le vivono come espressione del rifiuto di un'esistenza invivibile. Che cosa sappiamo di questi uomini, che cosa sappiamo della loro sofferenza se i parametri di conoscenza, cura, riabilitazione sono quelli che abbiamo inventato noi, tecnici borghesi, in risposta ai nostri bisogni e per tutelare la nostra sopravvivenza? Le nostre risposte tecniche sono sempre risposte ai bisogni della nostra classe, per questo si traducono nell'emarginazione dell'altra. Le istituzioni della violenza non sono che una delle nostre risposte, nate in nome della nostra tutela. Malattia e devianza non sono allora che occasioni per mettere in atto questa emarginazione con il nostro imprimatur, con l'imprimatur della scienza che le rende fenomeni naturali, offrendo la giustificazione tecnica a un atto di esclusione sociale.
Se si vuole affrontare il problema della marginalità e della devianza dobbiamo affrontarlo in rapporto alla struttura sociale, alla divisione innaturale sulla quale tale struttura si fonda e non come fenomeni isolati che si pretende di far passare quali semplici anomalie individuali, cui una certa percentuale della popolazione ha la sfortuna di essere soggetta.
Rianalizziamo dunque che cosa sono le istituzioni che dovrebbero rispondere a questi problemi. Si tratta di istituzioni che partono da una presunzione formale espressamente programmata: la cura, la rieducazione e la riabilitazione in vista del recupero dell'internato.
Tuttavia, se la finalità terapeutica e riabilitativa di questi istituti non fosse solo formale ma praticamente realizzata, il problema sarebbe già di per sé risolto. Ma una cosa è la funzione formale ed altra cosa è la sua pratica reale. E la verità sta nella pratica, che ci dimostra come gli internati dei nostri manicomi e delle nostre carceri escano raramente riabilitati: perché la finalità effettiva di queste istituzioni continua ad essere la distruzione e l'eliminazione di ciò che contengono. In effetti, paesi con un'enorme percentuale di disoccupati e di sottoccupati, che interesse possono avere al recupero e alla riabilitazione degli scarti umani? E' in questa ottica che l'intervento del tecnico può essere determinante nel chiarire la contraddizione tra pratica e ideologia, nonché la finalità, nel contesto sociale, di questa pratica-ideologia.
Per i tecnici della cura e della riabilitazione, lavorare in queste istituzioni significa rendere esplicita la reale utilizzazione pratica dell'intervento specialistico; quali ne siano i limiti e di che natura siano questi limiti, quali siano i processi, sempre nuovi sempre diversi e sempre identici, che servono a questa utilizzazione. Se si parla di riabilitazione e di recupero il discorso non può essere né tecnico né organizzativo: è un problema politico che si riallaccia alla premessa relativa alla prima divisione innaturale, su cui si fonda il nostro sistema sociale.
Che cosa si vuol fare degli uomini - e non dimentichiamo che si tratta sempre di proletari e sottoproletari - riabilitati? C'è posto per loro nella nostra società? Cioè, una volta riabilitati, troveranno un lavoro con cui soddisfare i propri bisogni e i bisogni delle loro famiglie? O non piuttosto i regolamenti su cui si fondano gli istituti dell'emarginazione sono strutturati in modo che la riabilitazione non sia possibile perché, comunque, questi individui - una volta riabilitati - resterebbero ai margini, esposti continuamente al pericolo di cadere in nuove infrazioni di una norma che per loro non ha mai avuto una funzione protettiva ma solo repressiva? La possibilità di una loro riabilitazione è strettamente proporzionale alla disponibilità o meno di manodopera, al lavoro che trovano fuori, nella comunità cosiddetta libera, a seconda delle fasi di concentrazione o di diffusione economica. Le oscillazioni del numero di ricoveri e di dimissioni nei nostri manicomi, sono direttamente legate alle fasi alterne dell'andamento economico generale, nel senso che a seconda dei diversi momenti di sviluppo o di recessione e di crisi, si assiste al contemporaneo allargamento o restringimento dei limiti di norma e, quindi, al dilatarsi o al restringersi della tolleranza nei confronti dei comportamenti anomali. Andamento che sarà presumibilmente analogo anche per quanto riguarda le incarcerazioni, dato che si tratta dell'uso dello stesso processo di emarginazione e di controllo in una specificità diversa.
Oltre a questo fatto determinante e ad esso strettamente connesso, esiste un altro fenomeno di cui non si tiene mai conto. Si tratta del senso di appartenenza alla società, che si rivela totalmente assente sia negli internati dei manicomi che delle carceri. Ed è ovvio. Se manicomi e carceri sono organismi istituiti per rispondere ai bisogni della società «libera», gli internati non possono riconoscersi in questa società che li punisce, li segrega, li distrugge senza offrir loro un'alternativa possibile. Né possono accettare di identificarsi in regole che non rispondono ai loro bisogni. Non possono vivere l'internamento come esperienza che li aiuti nel loro processo di riabilitazione: la riabilitazione esige anche un elemento soggettivo e la partecipazione di colui che deve essere riabilitato. Ma per partecipare a questo processo, bisogna che i riabilitandi riconoscano le istituzioni che li segregano come terapeutiche e riabilitative. L'emenda stessa ha senso solo se il deviante si riconosce tale nei confronti di una società di cui si sente membro partecipe e alle cui leggi crede in quanto ha contribuito a istituirle, anche se, di fatto, ne devia.
Ma questi uomini - che hanno alle spalle la storia di un'emarginazione che si perpetua in ogni momento come emarginazione di classe - non possono sentirsi membri partecipi di questa società, né delle leggi e delle norme che essa stabilisce, perché nessuna legge del nostro sistema sociale - che pure si dichiara uguale per tutti - risponde "praticamente" ai loro bisogni e ai loro diritti. E' solo attraverso la "lotta" che questa classe riesce a imporre i propri diritti, ma non tutti riescono a incanalare la lotta in senso positivo, organizzato. E allora si reagisce con atti sporadici, isolati, delinquenziali; o con comportamenti anomali che automaticamente vengono puniti.
Non è privo di significato il fatto che nei paesi dove si lotta per la trasformazione dell'assetto sociale e dove tutti si sentono i soggetti di questa trasformazione, delinquenza e certe forme di comportamento deviante subiscono un regresso impressionante. Nei pochi anni del regime di Allende, il fenomeno dell'alcolismo, che in Cile toccava i livelli più alti del Sudamerica, è stato ridotto del 50 per cento, e così pure il fenomeno della droga. Perché c'era un progetto che unificava la classe oppressa, coinvolta nella ricerca di un'organizzazione sociale che rispondesse finalmente ai propri bisogni. Mentre si sa quale sia stata la posizione dei medici (per non parlare degli avvocati e del la magistratura, responsabili, come braccio secolare, della caduta del governo di Unità Popolare) nei confronti di questa lotta, dalla cui vittoria avrebbero perso ogni privilegio e ogni potere di discriminazione e di dominio.
Questo non significa - e lo ripetiamo - che non esiste la malattia mentale e non esiste la devianza: cioè che non esiste il "diverso" come fenomeno umano e che la trasformazione dell'assetto sociale sia sufficiente a cancellarlo. Il problema sta proprio nell'incorporazione di questo concetto: la necessità di cancellare il "diverso" come se la vita non lo contenesse e quindi la necessità di eliminare tutto ciò che può incrinare la falsa acontraddittorietà di questa facciata tersa e pulita, dove tutto andrebbe bene se non ci fossero le pecore nere.
Ma mentre il "diverso" della classe dominante è accettato e vissuto come tale, cioè come un fenomeno umano che ha bisogno di risposte particolari, appunto «diverse», il "diverso" della classe oppressa non è mai accettato come tale e le risposte che si forniscono servono solo a cancellarlo e a eliminarlo, confermandolo come «disuguale». In una società divisa in classi, malattia e delinquenza della classe subalterna (quelle che incontriamo e conosciamo nelle istituzioni della violenza) diventano altra cosa da ciò che sono e l'unica risposta non può che essere la repressione, sotto mistificazioni più o meno mascherate, perché ciò che determina la natura della risposta non è la natura del bisogno, ma la classe di appartenenza di chi lo esprime. Se un sistema sociale è fondato sul mantenimento di una logica economica che non soddisfa i bisogni di tutti; se l'uomo astratto in nome del quale si invocano e si reclamano le trasformazioni e le riforme non corrisponde a "tutti gli uomini", l'inefficiente, l'handicappato, il fragile e anche il fragile morale, cioè il "diverso" (è inutile ripetere che si tratta sempre del diverso appartenente alla classe subalterna) vengono eliminati, cancellati, perché per loro sono impossibili recupero e riabilitazione.
Le risposte a questi problemi non possono dunque essere che repressive, a una sola direzione, mai dialettica. L'aumento del personale addetto alla repressione e al controllo, la preparazione più specializzata dei tecnici della repressione, l'incrudimento dell'organizzazione poliziesca sono le uniche misure preventive che un sistema sociale come il nostro può progettare. All'aumento della criminalità e della devianza non si può che rispondere con l'aumento dei poliziotti e degli psichiatri, perché queste sono le uniche misure che consentono di non mettere in discussione le proprie istituzioni e i propri valori, come risposta alla messa in discussione implicita (anche se più o meno consapevole) in ogni comportamento deviante.

Si potrà obiettare che in questa analisi è stata presa in esame solo la violenza che la classe dominante perpetua da sempre e con strumenti sempre nuovi ai danni della classe dominata; mentre non è stata analizzata la natura della violenza implicita nella devianza, se non riconoscendola come la violenza del dominato. Ma non si intende qui capovolgere adialetticamente la situazione, proponendo malattia e devianza come unica risposta sana a un mondo malato; cioè proponendo devianza e comportamenti anomali come valori positivi, contrapposti ai valori negativi rappresentati e perseguiti dal nostro sistema sociale.
Si sono voluti mettere a fuoco soltanto i processi attraverso i quali viene attuata scientificamente la "criminalizzazione della malattia e della devianza": i processi attraverso i quali il bisogno da queste espresso si traduce in crimine da punire, per giustificare la criminalità della punizione. Lo stesso dissenso politico tende, ovunque, a subire questo processo di criminalizzazione, e qui il gioco è ancora più esplicito, perché la scienza non ha ancora trovato una patologia adatta secondo cui codificare questi comportamenti. La risposta, in questo caso, è più diretta e non ha bisogno di mediazioni: può essere l'uccisione e la tortura.
Questa analisi ci consente di capire come tutte le istituzioni del nostro sistema sociale abbiano la funzione di rispondere al bisogno una volta che esso sia stato "criminalizzato", ridotto ciò che non è o ciò di cui non è sintomo o espressione. "La criminalizzazione del bisogno" ne è in realtà la natura artificiosamente costruita, così che si trovano a fronteggiarsi due forme di violenza e di criminalità, l'una in risposta all'altra, senza che si sappia più riconoscere cosa sia il bisogno reale. La devianza, il comportamento anomalo sono crimini perché "potrebbero" essere pericolosi; l'istituzione delegata alla cura e alla riabilitazione della devianza e del comportamento anomalo è crimine, in nome della prevenzione di questa pericolosità. Non esistono bisogni né risposte ai bisogni.
In questa situazione è difficile o addirittura impossibile riconoscere cosa sono fenomeni umani come malattia e devianza. Ed è anche difficile riuscire a dare un'interpretazione reale dei fenomeni sociali.
In Italia, ad esempio, si vive da anni in un clima di "minaccia" di violenza. Nel momento in cui scriviamo non si sa più, o non si sa ancora se il clima paranoide in cui viviamo sia reale o creato artificialmente come un nuovo sistema di controllo in cui ogni cittadino diffida dell'altro, e quindi siamo noi stessi i soggetti e gli oggetti del controllo che le istituzioni violente non riescono più a gestire.
Gli squilibri e le contraddizioni sociali sono, in Italia, più forti che in altri paesi europei retti a democrazia borghese (esclusi ovviamente i paesi dichiaratamente fascisti), così come è più forte l'opposizione. In Italia - a causa della profondità degli squilibri e, insieme, della coscienza di questi squilibri - la tendenza alla costituzione di una classe media unica, identificata nei valori proposti da un centro ridottissimo di potere che la controlla, trova difficoltà e resistenze, anche se l'allargarsi dell'area dei ceti medi su cui ha buon gioco questo processo di identificazione nei valori dominanti, ne è un preannuncio. Esiste una classe operaia ancora numericamente forte per garantire il controllo di manovre di tipo golpista. Ma l'atmosfera paranoide (reale o artificiosamente creata) tende comunque a indebolire le forze di opposizione che vivono in uno stato continuo di minaccia di violenza. I processi attraverso cui si attua questo indebolimento passano anche attraverso le articolazioni che si sono qui esaminate: cioè le istituzioni e le ideologie sulla cui effettiva funzione e sul cui significato non c'è una presa di coscienza chiara.
L'incorporazione delle ideologie e dei valori che il nostro sistema sociale continua a creare come false risposte ai bisogni, non è sempre riconosciuta come momento di accettazione passiva del dominio. Se la classe oppressa non prende coscienza di tutti i processi attraverso cui si attua il dominio (dominio che va oltre lo sfruttamento, la nocività del luogo di lavoro e i temi rivendicativi di tipo salariale) ci si potrebbe trovare facilmente in un manicomio universale, in cui tutti ci troveremmo identificati nel sintomo con il quale saremmo definiti, e che riconosceremmo come reale.
Siamo a un bivio molto pericoloso. La minaccia di violenza come forma di controllo, può tradursi facilmente - anche in Italia - in una violenza esplicita se la classe dirigente e le potenze che stanno alle sue spalle si renderanno conto che le istituzioni tradizionali non bastano più e che le nuove ideologie di controllo che cominciano già ad essere importate dai paesi a sviluppo industriale più avanzato, richiedono tempo per essere applicate, attecchire e acquisire la credibilità scientifica necessaria al rafforzamento del dominio. E' in questo momento che la vigilanza e la forza della classe che si oppone a questo gioco, può essere determinante nel prevenirlo e smascherarlo. Perché l'alternativa fra la minaccia di violenza in cui si vive e la violenza senza maschere e coperture, è il massacro, la tortura, dove le ideologie scientifiche possono servire solo a garantire l'assistenza al torturato.
Ci sono già, nel mondo, i sentori del nascere di questa nuova utilizzazione della scienza e della tecnica.
Il generale Massu, nel suo libro "La vraie bataille d'Alger", fa capire che, se le circostanze lo esigono, si può esercitare una tortura «sana», affidando questo compito a personale qualificato e espressamente preparato nelle tecniche necessarie alla buona riuscita degli interrogatori. Da un giornale clandestino brasiliano, si sa che uno psicoanalista - in attesa di essere riconosciuto membro della società di psicoanalisi - è addetto all'assistenza psicologica del torturato. In Uruguai i terapisti di pazienti che risultano sospetti, sono prosciolti dal segreto professionale e si impone loro di dire ciò che sanno sul paziente, pena la tortura. Se la scienza e le sue istituzioni non bastano a rispondere o a controllare i bisogni, è la tortura a proporsi dunque come un'istituzione, con i suoi professionisti, le sue regole, il suo codice e la sua morale, aprendo nuovi terreni d'azione per i tecnici delle scienze umane.

Davanti a questa realtà, si può ancora presumere che accettare la delega implicita nel nostro ruolo non significhi prestare un'assistenza tecnica a delle uccisioni di massa? Ciò che si può tentare di fare è, dunque, riuscire a tradurre la nostra azione nella prestazione di un servizio che serva - proprio in quanto tale - all'utente e, insieme, alla sua presa di coscienza dell'utilizzazione, ai suoi danni, che viene abitualmente attuata di questo servizio. Il che significa rifiutare la delega di «funzionario del consenso», per trasformarsi in tecnici del sapere pratico che, al di là dei privilegi di cui inevitabilmente godiamo in quanto borghesi e soggetti del dominio implicito nel nostro ruolo di potere, tentino di individuare nella pratica reale i bisogni della classe oppressa smascherando praticamente i processi che li fanno diventare - anche agli occhi di chi li esprime - altro da ciò che sono.


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