News Chi siamo Cronologia Attività Comunicati Links
 

 

...ABSTRACT.. " Precariopoli "

Introduzione

L'ALTRA FACCIA DELLA PRECARIETÀ:
ATTIVISMO, CONFLITTI, ECCEDENZA SOGGETTIVA

gruppo di ricerca (F. Brancaccio, S. Cominu, A. Curcio,
E. Della Corte, F. Pozzi, G. Roggero, C. Tajani)


LA NON RAPPRESENTABILITÀ

«Il vero problema di queste lotte sta nel fatto che non ci sono interlocutori con cui trattare, i sindacati possono ergersi a rappresentanti del conflitto, ma in realtà non possono né garantire né controllare proprio nulla». Più o meno in questi termini si è espresso nello scorso maggio uno sconfortato Maroni di fronte agli scioperi degli operai di Melfi. In un disorientato eccesso di sincerità, che cronologicamente seguiva le manganellate nel paesino lucano per difendere la sacra famiglia Fiat, il ministro del Welfare si rendeva involontario analista dei conflitti degli ultimi mesi, cogliendone il tratto peculiare: la loro non rappresentabilità. È questo uno dei fili rossi che lega i quattro casi di conflitti sul lavoro su cui abbiamo scelto di fare ricerca, i cui risultati sono raccolti in questo volume: oltre alle citate lotte di Melfi, gli scioperi selvaggi degli autoferrotranvieri, quelli dei lavoratori Alitalia di Fiumicino, le mobilitazioni dei ricercatori precari contro il Ddl Moratti1. A questi andrebbe aggiunta l’insorgenza di Scanzano contro l’insediamento di un sito unico per lo stoccaggio delle scorie radioattive che, pur non essendo presente come caso di inchiesta, attraversa continuamente le analisi qui condotte. Nel suo percorso, il collettivo di ricerca ha infatti dialogato con materiali, punti di vista, frammenti di inchiesta e figure che hanno seguito da vicino, o sono state interne, all’esperienza di rivolta lucana2. Questa, potrà a prima vista obiettare qualcuno, non costituisce certo un esempio classico di lotta sul lavoro, nella tassonomia della contestazione potrebbe essere meglio rubricato sotto la voce «ambiente». Eppure, se si seguono i racconti dei protagonisti, e ci si spoglia degli schemi tradizionali che impongono confini rigidi laddove invece esistono permeabili frontiere, si potrà rintracciare nei blocchi in Basilicata dell’autunno del 2003 il background sociale e politico che conduce, senza soluzione di continuità, alle lotte operaie di Melfi. Il rifiuto dell’imposizione di un modello di sviluppo, la difesa non solo del proprio territorio, ma dell’autonoma possibilità di decidere sul proprio presente e sulle proprie forme di vita, cooperazione e socialità, ne costituiscono i contenuti comuni. È la cifra metaforica, se si vuole, del venir meno dei confini tra tempi di vita e tempi di lavoro.
Queste lotte, insomma, si collocano pienamente dentro quella che da alcuni anni è stata definita la crisi della rappresentanza. Questo processo ha una genealogia e una vita ambivalente, che in questa ricerca sul campo ci siamo proposti di indagare. Da una parte, infatti, la crisi è stata determinata dai processi di ristrutturazione capitalistica, dai mutamenti delle forme del lavoro, dai processi di precarizzazione, dalla proliferazione di contratti (un tempo) definiti atipici che rendono nei fatti difficilmente utilizzabili i tradizionali strumenti della rappresentanza sindacale. È tutto ciò che, con un termine un po’ vago, è stata definita «offensiva neoliberista», etichetta sotto cui sono archiviati gli anni Ottanta e Novanta del secolo che ci lasciamo alle spalle.
Dall’altra parte, però, quella stessa crisi della rappresentanza ha una radice soggettiva, che affonda nelle lotte operaie e proletarie degli anni Sessanta e Settanta, nei conflitti dei giovani e delle donne, nella loro espressione di singolarità indisponibile ad alienare le proprie istanze in una qualche volontà generale, o unificata in una figura universale pronta ad essere rappresentata. Sono le stesse tensioni soggettive che si possono distintamente scorgere nelle pratiche e nei comportamenti delle odierne figure del lavoro vivo contemporaneo. Si dirà: i confini tra singolarità e individualismo, tra desiderio di autonomia e competizione sfrenata, tra irrappresentabilità e depoliticizzazione sono piuttosto labili. Tutto vero. È proprio su questi difficili crinali, dove i rischi della «perdizione» collidono continuamente con le possibilità della «salvezza», che si avventura la presente ricerca. Sia detto con chiarezza: non c’interessa contrapporre i modelli di rappresentanza sindacale alla creatività delle autonome forme di aggregazione, incagliare l’analisi in una sterile e fuorviante dicotomia tra i guasti delle organizzazioni e le meravigliose sorti della spontaneità. Per dirla in breve: la non rappresentabilità dei conflitti e l’insufficienza del sindacato non significano affatto l’automatico dispiegarsi di modelli positivi di autorganizzazione. I tentativi di praticare un oltre rispetto alle codificazioni sindacali e organizzative classiche (di cui le/gli intervistati, dai collettivi di Fiumicino alla Rete nazionale dei ricercatori precari, ci raccontano ricchezze e difficoltà) è interessante nella misura in cui non si limita al rifiuto precostituito e ideologico. In altri termini, l’attenzione va appuntata su come la ricerca di forme organizzative non rappresentative si pone il problema di attraversare l’esausto spazio della rappresentanza. Su queste basi, i rapporti con il sindacato non sempre sono facili, e non manca chi rinnova le abituali accuse di «pompieraggio» o di svendita delle lotte in sede di firma del contratto.
In questo senso il motivo della crisi della rappresentanza è strettamente connesso con quello della democrazia e della partecipazione: è lo svilimento delle forme di democrazia nei luoghi di lavoro, infatti, a precedere (anche cronologicamente) quella che abbiamo chiamato crisi della rappresentanza. Non è casuale che, laddove il terreno della democrazia è stato agito in maniera limpida (ne sono esempi alcuni casi di lotta per i precontratti che hanno fatto seguito all’accordo separato per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici siglato nel 2003), il ruolo dei «rappresentanti» sia stato fondamentale rispetto all’esito delle lotte e riconosciuto anche dai lavoratori non sindacalizzati. Siamo consapevoli, naturalmente, della complessità dei fattori che nei passati decenni, combinandosi tra loro secondo un «effetto domino», sono alla base della perdita di rappresentatività delle organizzazioni tradizionali del lavoro, e non solo. Questi non possono essere tutti ricondotti ad una bancarotta valoriale dei sindacati «maggiormente rappresentativi», né si può affermare che gli esiti, in termini di radicamento e rappresentatività (se si escludono alcuni comparti e specifiche situazioni locali, prevalentemente nel settore pubblico), del sindacalismo di base, che ha fatto di questo tema un tratto distintivo forte rispetto alla «triplice», restituiscano l’idea di un mondo del lavoro pronto a raccogliere la bandiera della democrazia abbandonata dai confederali. Pur considerando tutto questo, le lotte indagate hanno riaffermato in maniera evidente il nesso intimo che paradossalmente connette affermazione della democrazia e crisi della rappresentanza, fornendo anzi su questo punto alcune delle indicazioni più eloquenti.
Sul rapporto tra le organizzazioni sindacali e i lavoratori che hanno partecipato alle lotte, peraltro, il racconto delle mobilitazioni fornisce altre suggestioni. Tra queste, l’emergere di modelli innovativi di organizzazione dei conflitti: si è registrato un ventaglio piuttosto ampio di soluzioni operative, delle quali, indiscutibilmente, le più «interessanti» sono quelle che hanno «sperimentato» combinazioni inedite tra rappresentanze sindacali sul campo, strutture organizzative «agili» prodotte nel vivo della lotta, e spazi di coinvolgimento collettivo. Una combinazione che ha assunto fisionomie diverse – secondo i contesti di lotta – ma che ci pare, nel complesso, alludere ad un sentire che guarda oltre il semplice «assemblearismo», da una parte, e la tradizionale «divisione del lavoro», dall’altra, tra chi fornisce massa fisica e forza d’urto e chi usa queste risorse in sede di negoziato con le controparti. Il tema della democrazia non si esaurisce, in altre parole, nel solo aspetto della consultazione, ancorché vincolante, legata all’approvazione degli accordi, ma chiama in causa l’esercizio di un controllo attivo anche sui mezzi del conflitto, che obbliga le rappresentanze costituite a confrontarsi, e sovente ad accettare il responso, di istituzioni leggere di lotta, create intorno all’obiettivo che ha innescato la mobilitazione.
La nostra analisi tenta di dare spazio alle punte di sperimentazioni innovative tanto all’interno del sindacato, quanto nei rapporti con esso e nella costruzione di proprie relazioni organizzative da parte dei protagonisti delle mobilitazioni che non ne fanno parte. Per questo, a fianco dei «casi di studio» sui conflitti, una parte del volume è dedicata all’analisi di quattro focus group fatti con delegati Fiom di Milano, Torino e della provincia di Reggio Emilia. In particolare, l’attenzione è rivolta alle battaglie sui precontratti, che possono essere una buona angolazione attraverso cui leggere questi tentativi di innovazione, e in particolare l’emersione di nuove generazioni di delegati sindacali. Di queste battaglie, i delegati che se ne sono resi protagonisti riportano come qualificante il tratto della democrazia dei processi e della partecipazione prima della valutazione sui contenuti degli accordi. Ancora una volta la questione della democrazia risulta un tratto costituente delle mobilitazioni, che eccede la sola dimensione del lavoro, ma, nel passaggio dalle vertenze contro l’accordo separato dei metalmeccanici per arrivare fino ai diversi episodi di lotte cosiddette di «comunità» (di cui Scanzano è solo un esempio), si impone come terreno dirimente su cui agire lo scontro con la controparte.


IL MOVIMENTO COME SPAZIO DI POLITICIZZAZIONE


Il fragoroso silenzio dei conflitti sul lavoro degli anni Ottanta e Novanta è stato rotto. Forse bisognerebbe interrogarsi se quell’assenza non celasse in realtà qualcosa di più dell’innegabile offensiva neoliberista, archiviata dai teorici di Le Monde Diplomatique con l’etichetta, d’indubbio successo quanto unilateralmente claustrofobica, di trionfo del «pensiero unico». Detta in modo più diretto: queste mobilitazioni non nascono in un vacuum sociale. Molti intervistati evidenziano come esse covino da anni sotto le ceneri, esprimendosi in conflitti temporanei e circoscritti, o comunque nel sempre più elevato livello di non accettazione delle proprie condizioni di lavoro e di vita. «Quello che è successo con scioperi, blocchi e picchettaggi viene da lontano», sostiene con efficacia un lavoratore di Fiumicino. Quegli stessi anni così bui per le lotte sociali, sono anche stati incubatrice per la diffusione molecolare di esperienze, comportamenti, pratiche e tensioni che – nelle cooperative sociali o nel consumo critico, nei centri sociali o in piccole forme di autorganizzazione, nell’impegno a difesa dell’ambiente o in diverse esperienze di volontariato, nei luoghi di lavoro o nei tentativi di innovare l’azione sindacale – sarebbero poi precipitati in quello che oggi chiamiamo movimento globale.
In maniera esplicita o implicita, la maggior parte degli intervistati sottolinea come «il clima di Genova» (per utilizzare l’espressione di un autoferrotranviere) sia uno dei contesti riconosciuti dentro cui analizzare le singole mobilitazioni. Quando, nell’autunno del 2003, gli abitanti di un piccolo paese della Basilicata, e poi un’intera regione bloccarono strade e binari per protestare contro un decreto che installava a Scanzano il sito unico per lo stoccaggio delle scorie nucleari, le immagini diffuse dai media ci rimandavano immediatamente a quelle ragazze e ragazzi che alcuni mesi prima si erano seduti sui binari di mezza Italia per impedire che treni carichi di morte portassero a destinazione le armi che sarebbero servite per la guerra in Iraq. Ma c’è di più che la «sola» diffusione di pratiche e immaginari di lotta, su cui torneremo più avanti. Spesso si è detto che siamo in presenza di un movimento capace di essere numericamente deflagrante nei grandi eventi, ma che fatica o addirittura scompare nella quotidianità dei rapporti di produzione e riproduzione. Ciò è in parte vero, non vi è infatti dubbio che l’incisione sui rapporti di forza reali sia il nodo problematico. Tuttavia, le interviste ci presentano un quadro differente, permettendoci di seguire le tracce di sedimentazione del movimento non più nelle classiche forme del radicamento territoriale attraverso collettivi di quartiere, sul posto di lavoro o nelle scuole, ma in uno spazio di soggettivazione, al cui interno si trovano non solo gli attivisti e i militanti tradizionali, ma anche (si è tentati di dire soprattutto) nuove figure che del movimento hanno respirato l’aria, magari solo in forma indiretta.
Si prendano ad esempio le mobilitazioni dell’università contro il Ddl Moratti. Molti ricercatori precari sottolineano come nelle assemblee si siano ritrovati, conosciuti e riconosciuti, non solo i «veterani delle lotte», ma soprattutto soggetti che avevano partecipato alle manifestazioni contro la guerra o avevano preso parte alle esperienze dei social forum. Così che, sostiene un co.co.co. dell’università di Roma, anche i più riluttanti a riconoscersi come parte del «popolo no-global» (per dirla con un termine brutto), ne devono accettare i legami.
È proprio l’internità a uno spazio comune di riconoscimento e conflitto che ha impedito, o quantomeno reso difficili, forme di chiusura settoriale e corporativa. In tempi non lontani, lotte come quelle dei ricercatori universitari o dei lavoratori dell’Alitalia (da buona parte della sinistra prima ancora che dal Maroni di turno) sarebbero probabilmente state definite come battaglie per la difesa di privilegi. Così del resto vengono talvolta bollate da alcuni organi di informazione, come denunciano i precari di Fiumicino, che portano le loro condizioni di vita a lampante dimostrazione di quanto siano inesistenti i supposti privilegi: a meno che tali non si vogliano considerare le stock option, al posto dei «soldi freschi», che hanno loro consentito di acquisire azioni dell’Alitalia vincolate per diversi anni e vendibili solo quando il loro valore era notevolmente sceso. Con questo non si vuole affermare che ci troviamo in un panorama di sostanziale indistinzione, in cui le condizioni di chi lavora all’università sono in tutto e per tutto uguali all’operaio di Melfi. Ciò sarebbe falso e ideologico. E tuttavia, è anche vero che la precarietà che ci viene raccontata dai ricercatori (con le incertezze di reddito, tutele, diritti) è più simile ai lavoratori della Fiat che non alla gavetta che negli anni Settanta e Ottanta apriva le porte alla docenza accademica.
Sia chiaro, queste mobilitazioni non mancano di contenuti «di settore»: sono chiaramente questi a fornire il detonatore ai conflitti, le parole d’ordine e gli obiettivi delle lotte, e che talvolta hanno esposto le mobilitazioni all’accusa, velata o esplicita, di agire pratiche corporative. E tuttavia, anche sul termine corporativo bisognerà intendersi: altro è se connota un aspetto negativo là dove diventa forma di separatezza, esclusione e incomunicabilità rispetto a ciò che sta al di fuori, altro è se designa la rivendicazione di specifici miglioramenti, come più soldi o migliori condizioni contrattuali. Insomma, dobbiamo fare molta attenzione a sapere distinguere la chiusura corporativa dal linguaggio della parzialità.
Più difficile è stato il rapporto con il movimento inteso come realtà organizzate che conclamatamente vi appartengono. Coloro che sono andati ai depositi degli autobus nei giorni dello sciopero, ad esempio, non sempre hanno allacciato un immediato terreno di confronto con gli autoferrotranvieri, come alcuni di questi raccontano nelle interviste; gli stessi problemi si possono evincere dalle parole di diversi lavoratori di Fiumicino. A Scanzano, poi, era palpabile la diffidenza verso persone riconosciute come figure note del movimento. Quella stessa diffidenza, tuttavia, se da un lato ha il discutibile sapore della chiusura territoriale, per altri versi ha permesso alla mobilitazione di non essere riassorbibile dal sistema politico: anche qui, dunque, corporativismo e irriducibilità alla rappresentanza egemonica convivono in una simbiosi in cui non sempre è facile districarsi. Tuttavia, proprio questi rapporti difficili con le organizzazioni di movimento, ci permettono di inquadrare la questione nella miglior prospettiva: quello di cui stiamo discutendo non è una sommatoria di pezzi, ma un allargamento dei perimetri in cui abbiamo tradizionalmente recintato la categoria di movimento.
Occorre soffermarsi su un aspetto peculiare di quello che (non a caso) si è definito movimento dei movimenti. In esso, infatti, non si ritrovano quei tratti costitutivi dell’idea ricevuta di «movimento», pratica sociale che agisce in una prospettiva temporale limitata, accelerando la frequenza e l’intensità delle mobilitazioni; e che si esprime attraverso strutture organizzative create ex novo, distinte e (quasi sempre) in opposizione rispetto alle istituzioni politiche e sociali consolidate. In quest’ottica, si potrebbe affermare che il movimento di questi anni ha «lavorato con lentezza», sottraendosi alla tentazione di bruciare le energie in un frenetico attivismo «a breve», e puntando a divenire una presenza durevole nell’opinione pubblica e nella società. Ciò naturalmente non è l’esito di una strategia elaborata «a tavolino», né potrebbe esserlo poiché quest’ipotesi presupporrebbe l’esistenza di stati maggiori (che non ci sono) o perlomeno di leadership capaci di dettare i passaggi operativi in modo riconosciuto da tutte le parti, organizzate e non, che hanno composto il mosaico della mobilitazione di questi anni, circostanza anch’essa non rinvenibile nella realtà dei fatti. Ci pare, piuttosto, che il profilo tenuto dal movimento sia coerente con i mutamenti intervenuti nelle forme della partecipazione sociale e politica, il cui senso ultimo è restituibile dall’idea di un’eccedenza di queste anche rispetto alle sintesi operate dalle «avanguardie di movimento», che costituivano le figure centrali nei cicli di lotta di altre stagioni. Di fatto, i movimenti che sono confluiti, in forma discontinua e secondo una combinazione variabile delle componenti, nello spazio aggregato che definiamo movimento, sono apparentemente separati poiché agiscono all’interno di prospettive parziali: ma ciò, lungi dal rappresentarne un limite, costituisce il loro vero punto di forza. In altri termini, la parzialità allude alla rivendicazione della pienezza, generalizzabilità e riproducibilità delle proprie forme di vita e di conflitto, non alla limitatezza di un frammento bisognoso di essere ricomposto nel linguaggio di un soggetto universale per poter guadagnare il proprio marchio anticapitalista e la propria posizione nella gerarchia della lotta di classe.
Il movimento dei movimenti, almeno nelle sue fasi alte, ha saputo fornire un comune spazio di rappresentazione alle parzialità irriducibili, in quanto sono queste che definiscono il vero campo dell’attivismo diffuso e decentrato. L’ipotesi, in altre parole, è che i mutamenti intervenuti nei processi di socializzazione della politica e negli stili di partecipazione, abbiano sottratto definitivamente quest’ultima allo spazio della militanza universale, per rilanciarla all’interno di «militanze a progetto», finalmente gelose della propria parzialità e al contempo capaci di parlare il linguaggio della generalità. Alcuni (si veda a titolo esemplificativo l’elaborazione più recente di Marco Revelli) hanno interpretato questo processo parlando di passaggio dalla militanza al volontariato, ma riteniamo che questa dicotomia sia fuorviante, poiché finisce per ascrivere le molteplici forme dell’attivismo di oggi ad un universo di pratiche (nei fatti quelle del volontariato organizzato) riduttive rispetto alla ricchezza e al pluralismo delle forme di partecipazione attiva.
L’attivista «a progetto» che popola le piazze, produce eventi, riviste, nuovi media, apre vertenze locali, e via di seguito, ha in comune col militante delle generazioni che lo hanno preceduto una forte carica politica, che lo porta ad inscrivere il tema oggetto del proprio impegno all’interno di una visione complessiva, laddove parti importanti (e probabilmente maggioritarie) del volontariato tendono ad agire al di fuori di tale prospettiva, privilegiando un approccio situato e impolitico (sebbene non de-politicizzato) sovente funzionale al riconoscimento e sostegno istituzionale.
L’attivista «a progetto» ha certamente in comune col volontario l’orientamento alla «risoluzione dei problemi» di cui si occupa, non demandabile ad un futuro in cui far «quadrare il cerchio» attraverso la trasformazione complessiva dei rapporti sociali di produzione; riprendendo la celebre formula di Bloch, si potrebbe affermare che è un utopista concreto. L’attenzione per gli aspetti pratici, inclusi quelli tecnici e organizzativi, dell’impegno militante, e verso gli obiettivi «decentrati», ha favorito il trasferimento dell’attivismo dalle organizzazioni politiche generaliste a quelle strutture formali e informali, quasi sempre costruite attraverso network, che si «occupano» di temi mirati, sui quali radicalizzare capacità d’analisi e d’azione. Anche in questo traslare di significati e pratiche dell’impegno politico e sociale, riemerge il valore cruciale della democrazia, ovvero dell’esercizio attivo di un controllo sui mezzi e sui contenuti del proprio attivismo.
Gli stessi protagonisti delle lotte sul lavoro indagate appaiono pienamente calati in una dimensione di attivismo tematico e a progetto. È venuta meno, in altri termini, la percezione di una centralità culturale del lavoro all’interno della stessa comunità politica di riferimento che s’accompagna all’affievolirsi di quella catena di significati che connetteva il conflitto sulla produzione alla lotta anticapitalistica sans phrase. Ciò pone la riflessione sul rapporto tra lotte dei lavoratori e movimento su un piano del tutto inedito, ben evidenziato dal senso di estraneità soggettivamente percepita, ad esempio, dei delegati Fiom nei confronti delle stesse mobilitazioni cui hanno preso parte (Genova, contro la guerra preventiva, ecc.). È sintomatico il fatto che essi si riferiscano al movimento come a qualcosa di altro, sganciato dalla propria esperienza. C’è forse un equivoco, consistente nell’identificare appunto il movimento con le sue espressioni più rappresentate nel sistema della comunicazione mediatica, o ciò segnala davvero qualcosa di più profondo?
Il rapido ritrarsi delle strutture organizzative che dopo Genova si erano proposte come luogo della socializzazione (e forse, secondo alcuni, anche della sintesi) di percorsi plurali e differenti, primi tra tutti i social forum, ha accelerato la connessione degli attivismi nelle sfere progettuali e tematiche che costituiscono la vera ossatura del movimento, che però ha saputo ripresentarsi in chiave unica (sebbene non unitaria) nei passaggi in cui ciò era possibile e necessario. Ha definito, in altre parole, uno spazio simbolico e materiale capace di connettere percorsi di soggettivazione e di partecipazione in sé non riducibili a sintesi.
Questo spazio di soggettivazione e politicizzazione, peraltro, non è composto esclusivamente da soggetti organizzati, né d’altro canto è popolato solo dallo spontaneo germogliare di nuove figure del conflitto e della partecipazione. I rapporti tra chi ha alle proprie spalle un consolidato background politico e chi non ce l’ha, non sempre sono facili. Un carrellista di Milano, ad esempio, riconosce l’eccedenza di partecipazione alle lotte rispetto alle interpretazioni delle «avanguardie» che solitamente le avevano condotte, ma paradossalmente vede in ciò un limite, perché «non essendo stati noi (autoferrotranvieri politicizzati) a preparare una situazione del genere, come [questa partecipazione] l’ha fatta nascere [così] l’ha fatta sgonfiare». E tuttavia, sindacalisti e precari, militanti di partito e dell’autorganizzazione, mediattivisti e soggetti che si affacciano per la prima volta alla «vita pubblica», si incontrano, si scontrano e si riconoscono in uno spazio aperto e complesso, talvolta attraversato da problemi e linee di frattura, ma tuttavia comune.
Infine, lo spazio in cui le lotte si muovono è ora davvero transnazionale. Gli autoferrotranvieri della metropoli milanese scrivono sui propri cartelli «fare come Scanzano»; nel piccolo paese lucano si trovano pratiche, problemi e situazioni che possono dialogare direttamente, e non più solo idealmente, con i blocchi dei piqueteros e con le «pratiche di vicinalità» che ci sono raccontate dal cuore dell’insurrezione argentina (Colectivo Situaciones 2002). In questo spazio segnato dal venir meno dei confini tra centro e periferia, reso aperto dalla circolazione delle persone e dei conflitti, e non solo delle merci e dei capitali, non si sono ancora trovate adeguate forme organizzative transnazionali, né per i sindacati né al di fuori di essi. Tuttavia, tentativi e frammenti di sperimentazioni in questo senso esistono. Emblematico è un episodio riferito da un delegato Fiom che un tempo si sarebbe detto di «solidarietà internazionale». Nella fase più difficile di una vertenza che contrappone i lavoratori all’azienda multinazionale che tenta di procedere ad un piano di delocalizzazione, la cui esistenza viene negata anche nelle sedi predisposte all’informazione dei sindacati (il Cae della multinazionale in oggetto), il punto di svolta precipita grazie all’invio anonimo, da parte dei lavoratori finlandesi della «casa madre» ai delegati italiani, dell’intero piano aziendale di delocalizzazione. Il tentativo di agire la vertenza su un terreno transnazionale provocherà, da una parte, la reazione dura dell’azienda (fino al licenziamento antisindacale del delegato «colpevole» di aver diffuso agli altri lavoratori il piano di delocalizzazione), da parte dei lavoratori, invece, una spinta ulteriore alla mobilitazione e la solidarietà, fino al ritiro del licenziamento, intorno al compagno licenziato.
Il tentativo di agire il conflitto in uno spazio più ampio ha avuto il suo momento più innovativo nel percorso di costruzione – ancora giovane ma politicamente qualificante e in forte espansione – dalla MayDay, la parata del precariato sociale nata nel 2001 da alcuni centri sociali milanesi e da realtà di precari autorganizzate. Nell’edizione del 2004 ha assunto carattere europeo, diventando quindi EuroMayDay e coinvolgendo una pluralità di soggetti, organizzati e non, che ben restituiscono l’immagine dello spazio di politicizzazione con cui abbiamo definito il movimento globale.


PRATICHE DI LOTTA E ROVESCIAMENTO DELLE PAROLE D’ORDINE DEL POSTFORDISMO

Per lungo tempo ci si è chiesti quali potessero essere, per la nuova composizione del lavoro vivo contemporaneo, i corrispettivi di ciò che erano stati lo sciopero e il sabotaggio operaio delle grandi fabbriche taylorizzate. Gli eventi conflittuali qui analizzati non ci danno una risposta semplicistica, ma forniscono delle tracce concrete attraverso cui riconcettualizzare i problemi.
I materiali della ricerca descrivono, spesso con dovizia di particolari, le genealogie delle lotte e le forme adottate. Da un lato, come già evidenziato, sono rintracciabili pratiche che richiamano immediatamente l’immaginario del movimento degli ultimi anni. Dall’altra, anche arnesi non certo nuovi nella cassetta delle lotte (come il blocco della circolazione), nel contesto della «produzione diffusa» si caricano di nuove valenze e caratteristiche. I protagonisti dei blocchi di Scanzano e Melfi sembrano aver compreso appieno la logica del just in time, per rovesciarla contro i suoi teorici e custodi. Gli autoferrotranvieri hanno preso sul serio l’esigenza di creatività proclamata a ogni piè sospinto nella metropoli milanese, capitale della net economy, dandone libero sfoggio nei propri scioperi selvaggi: i cortei con gli autobus per intasare le arterie cittadine, ad esempio, sono innovative forme di conflitto collettivamente inventate di giorno in giorno, capaci non solo di dare visibilità alla mobilitazione, ma di investire il contesto sociale circostante. Lo stesso potrebbe dirsi delle lezioni in piazza tenute dai ricercatori precari: se la formazione deve essere permanente, che lo sia davvero, ma al di fuori della gestione dello Stato e del mercato. Nelle mobilitazioni, dunque, alcune parole d’ordine della costellazione concettuale del capitalismo «postfordista» – flessibilità, innovazione, imprevedibilità, non serialità, mobilità, femminilizzazione del lavoro come vedremo più avanti – cominciano a descrivere non solo la griglia dello sfruttamento contemporaneo, ma anche i comportamenti sociali e conflittuali in grado di metterla in crisi. Hanno insomma contribuito a far emergere la radice soggettiva impressa sugli ambivalenti processi dell’ultimo quarto di secolo, spesso occultata – anche dal punto di vista analitico – dalla faccia del dominio delle politiche «neoliberiste».
Le interviste raccontano una compresenza di forme di lotte, nessuna delle quali assume un valore centrale o universale. Sarebbe infatti sciocco decretare l’obsolescenza dello sciopero come strumento di lotta. Gli autoferrotranvieri e i lavoratori dell’Alitalia ne hanno anzi, in precise congiunture spazio-temporali, saputo radicalizzare le capacità di «far male» al padrone. Ma anche laddove non è selvaggio e viene condotto nelle forme classiche, come nella battaglia per i precontratti di cui ci parlano i delegati Fiom, non se ne può sottovalutare la rilevanza, derubricando lo sciopero a inservibile ferro vecchio. E tuttavia, questo sì, lo sciopero non è sufficiente: ne sono convinti gli stessi delegati Fiom. Insomma, le pratiche di lotta sono contingenti e riproducibili: quello che viene fatto da un’altra parte dell’Italia o del mondo, in certi momenti può essere efficacemente ripetuto, rimodellato e ritrasmesso. Le lotte comunicano attraverso le radio (quelle del circuito mainstream oppure quelle alternative), o attraverso le immagini che rimbalzano dalla televisione, o ancora in modo artigianale coi telefoni fissi e cellulari usati per organizzare i blocchi in Basilicata, e ovviamente vitale è la rete telematica (un’esperienza come quella della Rete nazionale dei ricercatori precari non sarebbe esistita senza Internet e la mailing-list). Dunque, non è casuale l’attenzione che tutti riservano ai mezzi di comunicazione, all’impatto diffusivo di ciò che si fa: o nelle forme classiche, nel rapporto con i media ufficiali attraverso dichiarazioni e comunicati, o nell’autoproduzione di comunicazione.
Allo stesso modo, le interviste ci restituiscono frammenti relativi alle radici sociali delle lotte. La presa di consapevolezza non necessariamente passa per i canali abituali, attraverso i volantini e i comizi che denunciano le condizioni di lavoro; spesso viaggia, come nel caso di Melfi, sui pullman e le automobili dei pendolari che vanno avanti e indietro dai propri paesi al mostro Fiat, tagliando trasversalmente appartenenze politiche e sindacali. E così, il conflitto diventa espressione di forme di vita, relazione e cooperazione minacciate da un modello di sviluppo, pronte a resistere in modo radicale e ad affermare l’irriducibilità delle proprie esistenze al lavoro e al profitto. La variabile territorio assume quindi un’importanza considerevole nell’analisi, ma come contesto di relazioni, piuttosto che come chiusura nel locale. Non che quest’ultima in alcuni casi non ci sia, e la ricorrente insistenza sull’«identità lucana» abbondantemente circolata nel terzo cavone, quartier generale (o media center) delle mobilitazioni di Scanzano, è innegabile. Tuttavia, se questa è una faccia della medaglia (che sarebbe sciocco trascurare, perché il rischio di una rivendicazione «everywhere, but not in my backyard» è sempre in agguato), l’altra ci parla principalmente della risoluta affermazione di poter decidere sul proprio presente, senza imposizioni da un «alto», che si chiami Fiat o Stato.
Parallelamente, i conflitti sono un buon angolo prospettico attraverso cui leggere il tramonto di un modello politico ossessionato dalla ricerca di un soggetto centrale nella produzione capitalistica, capace al contempo di diventare soggetto centrale della trasformazione: un centro forte attorno a cui precipitano i conflitti delle periferie. Oggi ogni figura e nodo sembrano al contempo potenzialmente in grado di parlare il linguaggio della parzialità e della generalizzazione, senza che nessuno dei due termini debba essere sacrificato all’altro. Come già detto, è la mobilitazione della piccola Scanzano a indicare la strada agli operai della Fiat di Melfi e agli autoferrotranvieri milanesi. Questi ultimi, a loro volta, tracciano un legame di continuità – cronologico, simbolico e materiale – con i cassaintegrati dell’Alfa che poco tempo prima avevano bloccato l’aeroporto di Linate, e poco dopo scoppia Fiumicino, con le cariche della polizia verso i lavoratori che avevano occupato l’autostrada. E in quante assemblee dell’università si sono sentiti attempati docenti e ricercatori certo poco avvezzi alla piazza dire con forza «dobbiamo fare come gli autoferrotranvieri»?

Come un autoferrotranviere milanese, molti intervistati affermano che le lotte non sono partite dai sindacati – che anzi, dice qualcuno, sono stati alla finestra –, ma dai lavoratori. Anche chi è delegato, tiene a marcare i confini tra l’iniziativa del sindacato e una mobilitazione che resta comunque dei lavoratori, evidenziando opportunamente le differenze tra il livello centrale e il livello locale dell’organizzazione. Pure laddove si è prodotta una vertenza con la controparte, come nel caso di alcuni atenei mobilitati contro il Ddl Moratti, i sindacati sono stati più un soggetto tra altri, che non i rappresentanti della lotta.
I rapporti con l’azienda variano chiaramente a seconda dei casi. L’atteggiamento prevalente, comunque, sembra quello espresso da una lavoratrice del check-in Alitalia, che in buona sostanza dice: per salvare il nostro reddito, tocca difendere la sopravvivenza dell’azienda. Questo motivo centrale si ritrova, in parte, nelle vertenze sui precontratti del settore metalmeccanico, particolarmente in quelle aziende «mature» che impiegano personale specializzato e la cui composizione professionale è di livello medio-alto. La trappola della professionalità, sovente anticamera dei processi d’identificazione con l’azienda, appare assai meno insidiosa nelle imprese che impiegano professionalità generiche. In sostanza, se non manca certo chi si identifica col proprio lavoro e con l’azienda da cui dipende, i più sembrano porsi soprattutto il problema di come colpire l’azienda, anche dal punto di vista simbolico, magari come gli autisti di Como che a tal scopo hanno deciso per un giorno di non indossare la divisa.
Su questo terreno, le lotte hanno mostrato come l’impresa non sia invulnerabile, ma anche come debbano (in alcuni casi) misurarsi con strutture produttive più flessibili e in grado di contrastare l’iniziativa operaia. È quanto emerso, ad esempio, alla Lear Corporation di Torino, multinazionale specializzata nelle forniture di sedili per il comparto automotive, con stabilimenti localizzati in prossimità di tutte le unità produttive di Fiat Auto (Torino, Cassino, Melfi, Pomigliano, Termini Imerese). Il blocco della produzione alla Lear di Torino, nel giro di poche ore, si trasmette a Mirafiori: anche nei sistemi organizzativi della fabbrica «modulare» e della produzione decentrata, in sostanza, è possibile «boicottare» l’azienda, anche partendo dalla sub-fornitura. Gli operai della Lear, però, hanno dovuto fare i conti con la «solidarietà padronale» e con il polmone garantito (all’azienda) dalla localizzazione multipla. Infatti, Fiat Auto anziché avvalersi (secondo le clausole previste dal contratto di fornitura) della possibilità di far pagare al proprio fornitore le penali per la mancata consegna – che avrebbe costretto la Lear ad un accordo in tempi rapidi – ha collaborato per fare giungere (anche a prezzo di rilevanti costi logistici – i sedili non viaggiano sul web) dallo stabilimento di Melfi le forniture necessarie, concedendo alla direzione Lear un bonus temporale per vincere il primo round con i lavoratori in sciopero. Le strategie di downsizing e di outsourcing, questa la piccola lezione proveniente dalla lotta degli operai Lear, se non eliminano la possibilità di un sabotaggio del ciclo, certamente obbligano a misurarsi con un lay out degli impianti meno vulnerabile, in quanto de-territorializzato, che presuppone la capacità di coordinare le lotte «a distanza», secondo modalità inter-territorio ed inter-stabilimento. Circostanza che nel caso in questione non è avvenuta, per la mancata risposta dei dipendenti Lear di Melfi.
Un secondo elemento problematico insiste sul carattere apparentemente circoscritto, nello spazio e nel tempo, dei conflitti esaminati. Soprattutto le lotte operaie dell’industria metalmeccanica, Melfi inclusa, sembrano autorizzare l’emergere di un modello di «lotte a progetto», che si risolvono spesso nello spazio comunitario del luogo di lavoro (la fabbrica, il call-center, il polo industriale), e che faticano a comunicare con i lavoratori dello stesso gruppo, ma di stabilimenti diversi. Questa fisionomia delle mobilitazioni, estremamente concreta e legata a obiettivi decentrati e locali, se inquadrata secondo un’altra prospettiva, è quella che ha consentito elevati livelli di coinvolgimento anche intorno a pratiche di lotta radicali.
Una linea di riflessione proposta da alcuni intervistati (e segnatamente dal segretario Fiom di Torino), è quella di una possibile declinazione/deriva «americana» dei conflitti del lavoro, laddove con tale termine s’intende una capacità di esprimere pratiche anche radicali, ma che non s’inscrivono all’interno di dispositivi politico-culturali che potrebbero estenderne la portata e tradurne la forza d’impatto in risultati favorevoli, anche sotto il profilo degli esiti contrattuali e politici. Il rischio di questa deriva, nelle loro parole, è che tali lotte esauriscano la propria carica su obiettivi a valenza locale, non sedimentino forza organizzativa e di conseguenza si rivelino incapaci di fornire continuità alle mobilitazioni quando «l’onda si esaurisce», e generalizzare così gli obiettivi.
In questa lettura appare evidente la delusione per il mancato innesco di un circuito che, partendo da Melfi, avrebbe potuto ri-aprire una vertenza nazionale sul futuro industriale del Gruppo Fiat, e sulle politiche industriali del paese (vero baricentro dell’iniziativa Fiom di questi anni); ma c’è anche, per riprendere la riflessione abbozzata nel paragrafo precedente, l’evidenza delle difficoltà sindacali ad abitare conflitti che hanno cicli di radicalizzazione molto brevi, e riflussi altrettanto repentini, che lasciano inoltre tracce piuttosto deboli nella composizione delle rappresentanze sindacali in azienda (è il caso di Melfi, naturalmente).
Se tale lettura appare d’indubbio interesse, non è però detto che vada acquisita solo in termini negativi, decurtata dalle ambivalenze di cui anche queste modalità di lotta, legate all’obiettivo e capaci di costruire in breve le condizioni per una partecipazione generale dei lavoratori, sono cariche.
La riflessione sulle lotte nel postfordismo non può non assumere l’obiettivo d’indagare anche le capacità di espressione conflittuale nei luoghi in cui il lavoro non ha la possibilità di aggregarsi fisicamente, né di godere di un terreno di negoziazione riconosciuto. Le lotte qui analizzate (ci pare un dato non prescindibile) sembrano assumere visibilità maggiore laddove il lavoro può ancora ricomporsi in grandi unità, ossia dove può dare forma aggregata e collettiva ai disagi individuali, e più in generale dove esiste un sistema di relazioni industriali che, seppure pagando il costo di sacrifici e rischi personali non irrilevanti, può essere forzato.
Quanto affermato apparentemente non costituisce una novità: anche negli anni d’oro della lotta operaia, si dirà, il conflitto muoveva dai luoghi forti (Fiat, Petrolchimico, Pirelli, ecc.). Realtà produttive con quelle caratteristiche, però, nel nostro paese oggi non ci sono più; la stessa Fiat è divenuta un’altra azienda, e le interviste realizzate a Mirafiori testimoniano il clima di rassegnazione che si respira tra quegli impianti, nonostante l’impegno profuso dai delegati Fiom contro il declino industriale e per la difesa delle produzioni e del lavoro. Non siamo tra coloro che leggono la transizione al postfordismo solo attraverso la deprimente grammatica della frammentazione: sono state le stesse lotte e comportamenti proletari ad attaccare per primi la dimensione concentrazionaria delle grandi unità produttive, determinando quell’evasione di massa che costituisce il presupposto dell’ambigua giungla del lavoro autonomo e del precariato contemporaneo. È questo il nuovo terreno su cui confrontarsi, nella dissolvenza dei confini tra permanenze e discontinuità: anche ciò che sembra uguale al passato, si riconfigura in realtà in termini inediti.
Le lotte per i precontratti, avvenute quasi tutte in realtà industriali di dimensioni «intermedie», forniscono senza dubbio indicazioni valide, sia in ordine alle loro possibilità di successo, sia in relazione alle soggettività che le hanno alimentate e rese possibili. Come però si dettaglierà nel capitolo dedicato a queste mobilitazioni, esse hanno tracciato una geografia territorialmente discontinua e cronologicamente sfasata di lotte a valenza locale, il cui peso aggregato è numericamente importante, ma inevitabilmente depotenziato sul piano politico.
Rispetto al passato, infine, incomparabilmente più rilevante è il numero dei lavoratori che operano con contratti precari e intermittenti; il tema è sufficientemente noto e dibattuto da non necessitare di essere ripreso in questa sede. Non sono mancate, negli ultimi anni, sperimentazioni e anche veri e propri conflitti in alcuni luoghi ad elevata incidenza di lavoro precario (tra gli altri ricordiamo Mc Donald’s, Virgilio, alcuni call-center e cooperative sociali, ecc.), ma con maggiori difficoltà ad assumere forme radicali o trasferibili, vista l’alta ricattabilità cui questi lavoratori sono esposti. Forzare il quadro di una legalità definita su basi restrittive dalle leggi anti-sciopero, ma che comunque «ammette» il conflitto, è diverso dal costruire ex novo le condizioni per una cittadinanza anche solo formale delle lotte. Tuttavia, le esperienze di conflitto degli intermittenti francesi, così come di diversi collettivi di precari che stanno iniziando a fare rete a livello europeo – soprattutto intorno alla costruzione dell’EuroMayDay –, cominciano a parlarci di qualcosa di più e di diverso.
L’impressione, infatti, è che il semplice instaurarsi delle condizioni di cittadinanza del conflitto, ancorché sia da considerare una conquista di grande valore, non esaurirebbe il quadro delle strategie soggettive dei singoli che compongono il quadro del lavoro vivo contemporaneo. In altri termini, ci troviamo di fronte un sistema di bisogni che rinvia ad una dimensione antropologica inedita del lavoro, e i cui segnali sono rinvenibili non solo nelle attività terziarie diffuse, ma anche nelle agglomerazioni operaie tradizionali e nuove, come Melfi.
Strategico sarebbe partire dai comportamenti micro che si esprimono nelle dimensioni, anche depoliticizzate, di resistenza e di adattamento all’organizzazione produttiva postfordista (pensiamo al lavoro in rete, a certe esperienze di mutualità, ecc.), e che faticosamente alludono ad una grammatica del conflitto ancora in buona parte da scrivere. L’inchiesta sul lavoro potrebbe ripartire da lì, dai conflitti minori e dalle tante resistenze che fioriscono negli scantinati del postfordismo.


I GIOVANI E LE DONNE


In tutti i casi di studio, emerge con forza il dato della grossa partecipazione dei giovani: ne parlano diffusamente gli autoferrotranvieri così come gli operai Fiat, mentre all’università c’è chi lega marcatamente la battaglia contro la precarizzazione a una questione soprattutto generazionale. Anche in ambito sindacale è questo un fenomeno di grossa rilevanza, emerso nel congresso straordinario della Fiom di giugno a Livorno. Come sottolinea Cremaschi, la nuova identità della Fiom nasce dalla contaminazione con il movimento contro la globalizzazione capitalistica e la guerra, dall’ibridazione (non sempre facile) con altre esperienze e culture di lotta, innanzitutto quelle dei migranti (Cremaschi, 2004). Senza di ciò, sarebbe incomprensibile il protagonismo di una nuova generazione, la partecipazione radicale e le battaglie per la democrazia sui luoghi di lavoro e nello stesso sindacato. È interessante a questo proposito notare l’atteggiamento dei giovani delegati della Fiom, sicuramente combattivi e attivamente impegnati contro la legge 30, che paiono talvolta vivere una sorta di incipiente scissione della soggettività: se da una parte hanno comportamenti e forme di vita più assimilabili ai coetanei del «movimento dei movimenti» che non alla cultura operaia classica (come mettono in evidenza anche i materiali su Melfi), dall’altra nella loro esposizione tentano di dimostrare l’appartenenza a quest’ultima, marcando una differenza rispetto ai «ragazzi che pensano solo al telefonino e alla macchina». Tuttavia, non si spiega come mai i giovani così «distratti» siano quelli che riempiono le piazze contro la guerra e trainano la nuova stagione conflittuale nelle fabbriche.
Anche nelle città industriali del Nord i giovani, sebbene poco socializzati ad una cultura della partecipazione sindacale, «riempiono» le lotte per i precontratti che, a ben vedere, assumono veste radicale solo quando partecipate da componenti significative di giovani e di donne.
Più in generale, si può sostenere che i giovani, se appaiono poco coinvolti – parliamo ovviamente delle componenti che in qualche misura sono state toccate dalle mobilitazioni – e interessati dagli aspetti più rituali della pratica sindacale, si mostrano assai più reattivi quando in gioco sono obiettivi visibili e rapporti di forza a portata di mano, legati all’esperienza quotidiana. Allora «non vanno più alle Gru e all’Ipercoop», ma «sono presenti tutti al blocco, magari giocano a pallone, fanno le loro cose […] però lì davanti, assolutamente». Ciò ovviamente solleva interrogativi non banali, e non liquidabili attraverso scorciatoie ideologiche, sulle possibilità di decentramento, generalizzazione, circolazione delle lotte e (possibilmente) delle loro conquiste. A ben vedere quest’eccesso di concretezza, di materialità, vincola le stesse lotte alla dimensione dello stabilimento, rendendo «astratto» o «separato» ciò che accade oltre la sfera del percepito e della prossimità dei corpi.
Un altro dato di grande importanza (sia detto fuori da ogni dovuta attenzione politically correct alla questione di genere) è la partecipazione delle donne. Da diversi anni la femminilizzazione del lavoro è diventato un refrain che accompagna la letteratura sul postfordismo: senza cadere in una sua rappresentazione unilateralmente positiva, che lega in un connubio mortale emancipazione e lavoro, è indubbio che in tale processo viva la crisi di centralità del soggetto maschile generata dai movimenti delle donne dei decenni trascorsi (cfr. Vantaggiato 1996). I racconti dalle università mobilitate contro il Ddl Moratti ci costringono a non ignorare che femminilizzazione fa spesso rima con precarizzazione, e le statistiche a riguardo parlano chiaro. Il «soffitto di cristallo» – che relega la presenza delle donne nei ruoli bassi della docenza, e ancora più nella continua e affannosa rincorsa di impieghi temporanei – è ben lungi dall’essere mandato in mille pezzi. A ciò si aggiungono i fardelli che la mancanza di tutele fa gravare sui corpi femminili più ancora che su quelli maschili (per citare un solo esempio che ritorna in tutte le interviste, si pensi ai ricatti sulla maternità). Però, in quegli stessi atenei le voci delle donne ci parlano non solo di mancanza di diritti, ma anche di un nuovo protagonismo, che sta – seppur faticosamente – tentando di infrangere il «soffitto di cristallo» del monopolio maschile della politica. Non stiamo alludendo solo ad un’accresciuta presenza femminile nelle mobilitazioni, ma a un loro essere soggetti trainanti. Ma processi non dissimili sono riscontrabili anche in contesti diversi, a Fiumicino o Scanzano per esempio.
Dunque, se parlare di una femminilizzazione delle mobilitazioni come rovesciamento della femminilizzazione del lavoro può apparire eccessivamente sloganistico, si tratta comunque di fertili tracce da approfondire. Inoltre, se questa femminilizzazione fatica a trovare adeguata rappresentazione (e non rappresentanza, che è altra cosa!) nelle forme organizzative dei conflitti, ancora meno pare tradursi in apertura delle maglie all’interno del sindacato, la cui presenza rimane prevalentemente maschile. Ma anche in questo caso, esistono valide eccezioni: a Guastalla le delegate hanno raccontato le dure battaglie sui precontratti, mettendo in evidenza non solo la determinazione e il ruolo trainante delle donne, ma anche raccontando l’inventività e la creatività delle loro forme di conflitto. Anche le lotte per i precontratti avvenute a Torino hanno coinvolto un alto numero di operaie, nell’ambito di stabilimenti che vedono una sempre più alta incidenza del lavoro femminile.


I LUOGHI COMUNI DEL LAVORO VIVO CONTEMPORANEO


A scanso di equivoci, l’abbiamo premesso all’inizio: la crisi della rappresentanza non vuole automaticamente dire positiva esplosione di libere forme di autorganizzazione. La ricerca tenta piuttosto di evidenziare le zone di frontiera in cui soggetti differenti, dentro e non oltre quella crisi, hanno determinato una rottura della stagione concertativa e praticato nuovi terreni di conflitto sociale. Se negli anni Novanta l’idea del sindacato come agenzia di servizi significava soprattutto – al di là delle sue responsabilità specifiche – una depoliticizzazione e frammentazione del mondo del lavoro, oggi è anche il segno, magari sottotraccia, di un’espressione singolare che non è disponibile a farsi rappresentare. Per dirla con le parole di molti intervistati, c’è un problema di fiducia, che si crea tra i lavoratori nei conflitti, ma non viene data volentieri a nessun rappresentante, fosse anche temporaneo.
Se, come sostengono alcuni delegati Fiom (ma, si badi, cose analoghe potrebbero dire molti altri soggetti organizzati e autorganizzati che fanno tradizionalmente parte del movimento), il cambiamento di clima è dovuto esclusivamente dalla paura di perdere il posto e i diritti, quindi da una connotazione in negativo, come mai subito dopo si stupiscono del fatto che i giovani scendono in piazza sui temi del movimento «no global» e sono estranei alle pratiche sindacali? Insomma, quando la realtà appare sfocata e indecifrabile, la prima cosa da fare è provare a cambiare gli occhiali interpretativi.
Le lotte hanno dunque mutato il contesto e sedimentato nuove pratiche; bisognerà vedere a che livello, ammoniscono giustamente alcuni degli intervistati. Dunque, non va dato spazio a nessun trionfalismo fuori luogo: multe, sanzioni e inasprimento delle condizioni di lavoro descritte nelle chiacchierate sono in questo senso una chiara avvertenza. D’altra parte, però, è necessario saper guardare ai nuovi spazi che i conflitti hanno aperto, in immaginari segnati dal pesante «silenzio» delle lotte degli anni Ottanta e Novanta. «Comunque vada, abbiamo già vinto», sostiene un operaio di Melfi riferendosi ai danni inferti al colosso d’argilla Fiat. Lettura certo ottimistica, che non collima granché con chi ritiene che si sia ottenuto ben poco di ciò per cui si era lottato. Eppure, anche nella materialità dei rapporti di forza non tutto è come prima, soprattutto se addestriamo le nostre lenti interpretative a guardare al di sotto di ciò che appare.
Proprio a Melfi, ad esempio, la ricerca ci parla di una molecolare pratica di diserzione della fabbrica, concretizzatasi in circa 1.200 persone che negli ultimi anni hanno volontariamente rassegnato le dimissioni. Sarebbe certo incauto tradurre tali forme di exit in immediata configurazione di un esodo costituente, a meno di non scambiare la giungla di lavori e lavoretti fuori dalla fabbrica per una nuova Canaan: più che il latte e il miele, tuttavia, sembra sgorgare anche lì sudore e fatica. Piuttosto, ci interessa leggere tali pratiche come sottrazione al ricatto occupazione-disoccupazione, «o lavori o non mangi», l’indicazione di un potenziale tertium datur tra l’ergastolo della fabbrica e la mancanza di reddito (cfr. Virno 2002). In questa luce, le lotte di Melfi diventano uno dei casi in cui l’exit rafforza la voice (cfr. Hirschman 1997).
Dunque, se non manca chi rimpiange i vecchi diritti smantellati e le passate condizioni di lavoro, i più non sembrano voler tornare alle rigidità «fordiste». Non si tratta (per citare due grandi sociologi contemporanei) né di appiattirsi sulla visione liberal di Ulrich Beck, nell’accettazione progressista delle sfide della società del rischio (Beck 2000), né di dare voce alle venature nostalgiche di Zygmunt Bauman, disperato analista della modernità in liquefazione (Bauman 2002). Piuttosto, il punto di vista si deve incardinare nell’ambivalenza della flessibilità, laddove la precarizzazione diventa la risposta al suo autonomo esercizio. È forse avventato celebrare la morte dell’etica del lavoro, però senza eccessive forzature si può registrare uno scollamento tra le contemporanee forme di vita, attività e cooperazione e le gabbie del salario e del lavoro. Ce ne parla un autista bresciano, dichiarando la propria lotta all’invasività del lavoro; un suo collega individua un piccolo vantaggio di tale occupazione nell’avere un relativo tempo libero, che però – si affretta a precisare – sta sempre più diminuendo per rincorrere le rivendicazioni salariali. Su un’analoga lunghezza d’onda si sintonizzano le parole di un funzionario della Fiom, quando fa notare che, al di là delle battaglie per far assumere gli interinali, molte volte sono proprio costoro a volersene andare, a rifuggire dalla prospettiva della fabbrica a tempo indeterminato. Per i ricercatori precari, poi, l’università non era certo l’unico sbocco: c’è chi ad esempio ha vinto concorsi in enti pubblici o ha un posto «sicuro» nella scuola. Eppure, quello che raccontano è l’elemento della scelta, della possibilità di gestire più liberamente i propri tempi di vita e di lavoro, la voglia di seguire i propri interessi. Studio e ricerca non sono fatti nel nome della produttività dell’azienda universitaria o del bene del Paese, ma per esprimere la propria singolarità. Raccontano insomma la passione, elemento in cui c’è eccesso, che può portare all’autosfruttamento del lavoro così come all’autonomia della propria attività. È questo il cuore della categoria marxiana di lavoro vivo, che indica un eccesso della vita umana rispetto alla logica capitalistica, di cui questa «necessita sempre, ma che non può mai totalmente controllare o addomesticare» (Chakrabarty 2004, p. 89). Allora, queste interviste, nella diversità delle condizioni, hanno forse come tratto comune la capacità di narrare l’insopportabilità della costrizione nelle gabbie dell’asservimento e del profitto, laddove queste sempre più confliggono con le possibilità di una libera cooperazione sociale.
Si badi bene: individuare lo spazio comune e i fili che legano le diverse figure del lavoro vivo contemporaneo, non significa affatto – lo ripetiamo – sostenere che le condizioni di lavoro, di reddito e di vita siano uguali alla Fiat di Melfi o negli atenei. Le differenze sono evidenti, sia nel presente, sia per la composizione sociale dei singoli soggetti. D’altro canto, non vogliamo qui riproporre l’ennesima occasione di una polarizzante discussione che vede contrapposti «materialisti» (fedeli alla centralità del lavoro materiale) e «immaterialisti» (sostenitori dell’egemonia del lavoro immateriale). Tentando di fare opera di displacement rispetto a tale dicotomia, ci interessa piuttosto ragionare sulla composizione complessiva del lavoro vivo contemporaneo, al cui interno è indubbio che i tratti di similitudine tendono ad aumentare: nei contenuti dei differenti lavori (non necessariamente hanno letto la decennale letteratura sulle trasformazioni produttive gli autisti che nelle loro interviste parlano del contenuto relazionale come caratteristica precipua del proprio lavoro; altrettanto dicasi per le facoltà cognitive richieste agli operai del «prato verde» di Melfi, certo ripetitive e alienanti, ma più simili ai ruoli di basso rango dei net-lavoratori che non alle catene di montaggio della Mirafiori taylorista); per le condizioni di precarizzazione (dal suo osservatorio situato al check-in dell’aeroporto, una lavoratrice dell’Alitalia ha potuto osservare le differenze di atteggiamento da parte degli «utenti»: «Mi ha stupito il fatto che in situazioni di grossa mobilitazione ho notato che i passeggeri non erano più arrabbiati o avvelenati come anni fa, come se ormai si fosse diffusa in Italia una sorta di paura per tutti di perdere il posto. Ognuno che ti racconta la sua vicenda lavorativa, magari si arrabbiano ma non è come una volta che ti gridavano in faccia “guadagnate venti milioni al mese, che cosa volete?!”, invece adesso si rendono conto che non è così»); infine e soprattutto, per i nuovi comportamenti conflittuali. Il precario non è il soggetto centrale della postmodernità, il corrispettivo della classe operaia novecentesca, né una categoria onnicomprensiva in cui accumulare nuove identità ricomponibili in unità – e dunque in semplice attesa di nuove forme di rappresentanza. Piuttosto, se la precarizzazione è il contesto comune in negativo in cui i differenti soggetti si muovono, i conflitti ci parlano in positivo dell’emersione di nuove figure soggettive portatrici di singolarità, di quello che in breve abbiamo definito spazio di politicizzazione.
Si tratta, certo, anche di lotte di resistenza, rispetto alle proprie condizioni salariali, a un provvedimento legislativo o a un esplicito attacco alla vita di un territorio. Ma non sono solo questo. Sono anche articolazione di altre forme di cooperazione (come nei seminari di autoformazione nelle università), costruzione di forme di vita diverse (come nella Scanzano in rivolta), creazione di relazioni e rapporti altri dalla merce e dall’atomizzazione. «La lotta ha prodotto poco» si dice dalle parti di Fiumicino riguardo agli esiti contrattuali; e subito dopo si aggiunge, con parole che potrebbero assumere valore paradigmatico per tutti gli episodi conflittuali di questi ultimi mesi: «La ricchezza è stata la partecipazione. Quando la gente si mobilita sembra scontato, sembra banale, ma quando partecipa il 90% dei lavoratori, compatti, che rimangono al picchetto oltre le otto ore di lavoro, girano, si organizzano, creano altre forme di partecipazione, anche quello di andare a comprare da mangiare, [si crea] una forma di solidarietà, di partecipazione che non è riscontrabile nella vita di tutti i giorni, la ricchezza è quella. Riesci a comunicare con la gente in maniera diversa, senza i filtri dell’azienda, che non c’era più. C’eravamo solo noi lavoratori, come persone». La mobilitazione è «una grande liberazione collettiva» (per usare parole espresse da persone che non si conoscono tra loro), è innanzitutto la pratica di cooperazione, socialità e democrazia diretta negli improvvisati luoghi delle assemblee.
Naturalmente l’analisi di questi percorsi di soggettivazione non può essere sganciata dagli esiti delle lotte medesime; il quadro emergente in questo senso è in chiaro-scuro, poiché le stesse conquiste ottenute dove «si è vinto» appaiono non commisurate alla capacità di lotta mobilitata. Né questo terreno può considerarsi d’importanza secondaria, poiché dall’esito delle lotte dipende anche la loro capacità di comunicare e diffondersi, e la possibilità stessa di riprodurre le condizioni soggettive per tenere aperto lo spazio del conflitto a livello di singola realtà produttiva. Se la lotta non paga, perde credibilità e legittimità. Per queste ragioni, è d’estrema importanza fornire evidenza e visibilità ai conflitti (anche a quelli meno conosciuti) che hanno ottenuto dei risultati concreti.
Partendo e a sua volta determinando la crisi del nesso tra cittadinanza e lavoro, i migranti rappresentano il paradigma del lavoro vivo contemporaneo. La loro mobilità, capace di mettere continuamente in discussione i confini nazionali e quelli della divisione internazionale del lavoro, è irriducibile alla dicotomia inclusione-esclusione, non è pacificabile con il semplice riconoscimento della cittadinanza o la «garanzia» dell’occupazione. Al contrario, l’eccedenza soggettiva delle loro pratiche ridefinisce incessantemente i perimetri in cui la cittadinanza si inscrive; qualsiasi organizzazione che si ergesse a rappresentante di una volontà generale dei migranti, verrebbe forse utilizzata ma puntualmente spiazzata dalla molteplice e inalienabile parzialità delle loro istanze. Da questo punto di vista, il movimento sociale dei migranti può essere assunto come la concreta metafora del movimento globale nel suo complesso, dei conflitti sul lavoro che nel suo orizzonte si inscrivono, della completa ridefinizione dei classici confini che in passato distinguevano le istanze sociali e le istanze politiche (cfr. Mezzadra 2002).
Da questo punto di vista, va sottolineato il contraddittorio rapporto delle organizzazioni sindacali nei confronti dei migranti. Da una parte, se ne sottolinea la determinazione e coerenza nelle lotte, dall’altra si faticano a comprendere, o apertamente si disapprovano, le particolari richieste che portano avanti (sulle preghiere o sul ramadan nel caso dei musulmani, ad esempio). Insomma, si stigmatizza ciò che non appartiene al lessico universale dei diritti, bollandolo come qualcosa di arcaico, che necessita di essere portato al superiore stadio della coscienza dei «propri» bisogni. I quali, inutile dirlo, sono quelli approntati dalla superiore classe operaia occidentale.
Allora, è proprio nella relazione tra il contesto comune fin qui analizzato e l’espressione di singolarità, irriducibile alla figura dell’universale e quindi della sovranità, che la categoria di moltitudine può essere produttivamente interrogata. Non come sbiadita fotografia della frammentazione di classe dettata dall’offensiva «neoliberista», né come soggetto collettivo costitutivamente rivoluzionario, successore dell’ormai sfiatata classe operaia, ma come spazio di soggettivazione e relazione, genealogicamente e intrinsecamente ambivalente.
Se alcune delle ipotesi e delle chiavi interpretative adottate in questo percorso guidato tra le insorgenze del lavoro nel postfordismo risultassero empiricamente fondate (il modello delle «lotte a progetto», la centralità delle appartenenze tematiche e locali, la non rappresentabilità, il valore radicale della democrazia, e via di seguito), di ben scarsa efficacia, in una prospettiva di generalizzazione e di capovolgimento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, risulterebbero le ipotesi oggi maggiormente dibattute dalla sinistra politica e sindacale. La composizione materiale e soggettiva che si è espressa in queste lotte, a ben vedere, appare refrattaria (nel senso di difficilmente conquistabile) sia alle ipotesi neoidentitarie (quelle per cui al lavoro vivo manca un’ideologia, che gli stessi conflitti hanno felicemente decostruito nella propria rivendicazione di parzialità, e che peraltro non si ricompatterà quotando l’ideologia stessa alla borsa della comunicazione politica), sia a quelle neokeynesiane per cui la ricomposizione delle single issues sarebbe da ricercare sul terreno della regolazione economica. Le soggettività espressesi nelle lotte degli ultimi anni si mobilitano intorno a obiettivi sui quali ottenere il massimo dell’ottenibile, e non si spendono certo per stimolare un capitalismo responsabile, che avrebbe nei piani industriali espansivi e nella responsabilità sociale le stimmate della classe dirigente. Questa «sfiducia proletaria», per inciso, ci appare oggi assai più realistica del tentativo diffuso a sinistra di esortare e obbligare le classi dirigenti, i manager delle grandi imprese e quel che resta della politica, a recitare un ruolo di élite in senso responsabile e civile.
Il quadro qui descritto, dunque, non è a tinte fosche: a noi sembra che i terreni comuni siano in fase d’elaborazione, lungo il crinale che corre tra i linguaggi tematici delle mobilitazioni e la generalizzazione delle condizioni di esistenza materiale; per farli emergere occorrerà scavare ancora, privilegiando le reti d’interconnessione tra le lotte, diffondendone messaggi, valori e comportamenti.
Se questo è il contesto in cui ci muoviamo, il problema, all’oggi insoluto, è trovare le forme organizzative adeguate. È fin troppo comodo, al limite del banale, dire che non esistono soluzioni preconfezionate. Se le lotte che qui raccontiamo hanno rovesciato la flessibilità del lavoro in flessibilità del conflitto, allora flessibili devono essere anche le forme organizzative da sperimentare. Il punto d’onore delle mobilitazioni è la capacità di creare luoghi comuni che sappiano tradurre in reti di cooperazione, vertenzialità e conflitto i tratti comuni che le lotte evidenziano, sia riguardo alle condizione di precarietà, sia per i comportamenti soggettivi. Solo belle e vuote parole? Forse. Purtuttavia, non è qualcosa di questo tipo l’EuroMayDay del 2004, capace di connettere uno spettro di soggetti che va dai centri sociali, ai collettivi autorganizzati, ai sindacati di base, fino alla Fiom, ma soprattutto di intercettare il protagonismo di migliaia di precari in carne e ossa? Nel loro piccolo, poi, questa e altre ricerche – se riescono davvero a diventare conricerca – possono embrionalmente essere un altro di questi luoghi comuni.