Libro bianco

testimonianze dei lucchesi sui fatti di Genova


 Genova dalla strada

Genova, 21 luglio, la manifestazione grande.

Dovevamo partire con i pullman delle associazioni cittadine, ma non ho sentito la sveglia. Il piazzale del ritrovo era vuoto: due ore di ritardo. Così io e il mio compagno siamo andati lo stesso, in macchina. In poco tempo siamo arrivati, e subito abbiamo incontrato i primi gruppi di manifestanti. Molto colorati, stravaganti, qualcuno improvvisava con trombe e tamburi. Volevamo raggiungere i nostri. Abbiamo risalito il lunghissimo corteo di manifestanti. Strano… tra i gruppi colorati, i cordoni dei centri sociali, le bandiere delle associazioni, c'erano file di ragazzi in nero, col viso coperto. Alcuni con spranghe, mazze da baseball, manganelli. E avevano un capo che camminava a distanza da loro. Erano in mezzo al corteo, imboscati, nascostati tra la folla. Niente foto: il capo ci è venuto contro mostrando la spranga. Siamo risaliti ancora. Poi, entrati nel piazzale del punto di ristoro [sono riuscita a ricostruire che si tratta del piazzale retrostante Piazzale Kennedy], ci siamo messi a chiacchierare con i ragazzi dell'organizzazione. Il piazzale era quasi vuoto. Al massimo una ventina di ragazzi che bivaccavano. Improvvisamente è successo qualcosa al di là della recinzione. Istintivamente siamo corsi in quattro o cinque verso il cancello in fondo alla piazza. C'era la polizia, al di là, schierata davanti al corteo che svoltava verso corso Torino [stando alla cartina]. Quando sono partiti i lacrimogeni per terra non cerano pietre. Siamo stati investiti dal lacrimogeno e siamo corsi indietro. Qualcuno - dopo - ha detto che era un strategia della polizia per tirare fuori dal gruppo i più facinorosi. Noi che eravamo nel piazzale non facevamo altro che riposarci quando hanno cominciato a piovere lacrimogeni. Stupore, più che paura. Ho respirato il fumo. Mi bruciava la gola e la pelle, lacrimavo, tossivo, faticavo a tirare il fiato. Qualcuno mi ha fatto lavare. Non so come, sono riuscita a restare razionale. Ho bagnato il foulard bianco e me lo sono arrotolato intorno alla faccia. Dubbio: sarei mia stata scambiata per una facinorosa? Il dolore era forte, dovevo proteggermi in qualche modo. Il mio compagno è rimasto al di là dei cancelli, riparato da un container. Scattava foto. Di là c'era anche un gruppetto di giornalisti. Un ragazzo voleva chiudere i cancelli. Il mio compagno sarebbe rimasto dalla parte di là, preso tra la polizia e i manifestanti. Abbiamo urlato di non chiudere: si tagliava una via di fuga, anche ai giornalisti. Quelli con le macchine fotografiche facevano avanti e indietro dai cancelli. Insieme a una ragazza delle cucine facevo la spola tra i cancelli e la cucina portando bottiglie d'acqua. Era tutto paradossale. Lei con un grembiulino a quadretti, in mezzo ai lacrimogeni. Surreale. I lacrimogeni piovevano da tutte le parti. Nel corridoio davanti al cancello siamo rimaste solo lei e io, due ragazze senza armi, né casco. Due qualunque. Ci davamo una mano a vicenda. Distribuivamo acqua, in maggioranza a giornalisti. Non c'erano tute nere tra quelli che abbiamo aiutato. Comunque non li avremmo aiutati. Forse ci hanno viste correre ed è arrivata una terza, una quarta serie di lacrimogeni, davanti, dietro, nel mezzo, a pochissima distanza. Eravamo completamente circondate dal fumo. Lei mi ha aiutata a uscirne. Un lacrimogeno è stato sparato nelle cucine. Il fumo era così intenso che non riuscivo più a vedere il mio compagno. Gli sono corsa ancora incontro, verso i cancelli. Paura che il mio gesto venisse interpretato come un'aggressione. L'ho trovato che perdeva saliva e muco dal naso, aveva conati di vomito, non ci vedeva più. L'ho preso per la maglietta l'ho trascinato all'aria e l'ho fatto lavare. Al cancello in fondo la polizia tentava di entrare. Una ragazza ha proposto di alzare tutti le mani e di sedersi. Un sit-in pacifico. Al massimo ci avrebbero prelevati, che potevano farci se eravamo disarmati? Non c'è stato neanche il tempo di riflettere che sono cominciati gli scontri. Da non so dove sono spuntate fuori le tute nere. E' stata una cosa improvvisa: prima non c'erano, un attimo dopo erano lì. Il tempo di riprenderci e abbiamo capito che la situazione stava precipitando. Qualcuno ha urlato "via, via: stanno entrando". Lo scontro era già in atto prima che facessero irruzione. Si stavano spostando verso il centro del piazzale, verso di noi. Siamo corsi fuori. Gli organizzatori ci orientavano verso il viale in cui proseguiva il corteo. Ai lati i cordoni ci proteggevano. Lungo il viale la scena era completamente diversa. C'era solo gente normale. Due anziani, un uomo e una donna portavamo uno striscione, un'enorme assegno. Lei aveva i capelli candidi e si reggeva su un bastone. Un uomo dalla barba grigia si muoveva al ritmo di congas e tamburi. Coloratissimo. I ragazzi che ballavano. C'erano cani al guinzaglio e anche un bambino. In uno spiazzetto è stato improvvisato un concerto su dei bidoni vuoti. Abbiamo partecipato con i fischietti. Un ragazzo faceva della giocoleria con le clavette. Il mio compagno e io siamo andati ancora avanti. Lui ha preso un viale secondario per fotografare la Genova "violentata". Io sono rimasta a guardare il corteo. Dall'altra parte della strada, dove faceva incrocio con Corso Italia, c'è stato di nuovo del fumo. Il corteo ha fatto un'ampia curva. Non ho visto nessun segnale di scontro. Forse anche lì cercavano di far uscire allo scoperto i facinorosi? Si vede che in quel troncone non ce n'erano. Tutto è continuato normalmente e i fumogeni sono finalmente cessati. Ancora avanti, fino alla testa del corteo, fino al palco per ascoltare Raul Pont, Agnoletto, Bovè. Di tanto in tanto davano notizie: dietro di noi c'erano altre cariche. Quando Agnoletto ha letto la lettera del padre di Carlo Giuliani c'è stato un lungo applauso. Non ha diviso tra buoni e cattivi. Le vittime erano due, di uno stesso carnefice. A qualcuno sono scivolate le lacrime. La situazione alla nostre spalle stava volgendo al brutto. Hanno chiuso gli interventi lasciandoci un'impressione di preoccupazione e di fretta. Non si poteva tornare indietro. Viale Europa era in fiamme e c'erano le cariche della polizia. Proprio sulla scia del corteo pacifico si era scatenata la violenza, la distruzione. C'erano gli scontri a Brignole, da dove dovevano partire i gruppi delle associazioni arrivate col treno. Bisognava fare il giro lungo, non passare assolutamente da piazzale Kennedy. Siamo sciamati un po' confusi. La maggioranza di noi non conosceva Genova. Ma non c'è stata solo la manifestazione e le testimonianze. Ci sono stati i genovesi. Si è sempre detto che i genovesi avevano paura. Sicuramente. Ma non di noi. Mi aspettavo gente intimidita, come se avessi scritto in fronte "born to kill". Invece c'era tanta gente ai balconi. Salutavano i manifestanti, applaudivano e dal corteo rispondevano con lunghi applausi. Dai tetti spruzzavano acqua per rinfrescarci. Sotto l'acqua ci divertivamo come ragazzini al mare. Forse per smorzare col gioco la paura delle cariche. Ai portoni ci aspettavano con le bottiglia d'acqua e i biscotti. Dov'era quella Genova spaventata a morte che mi aspettavo? Una donna ci ha mostrato la sua bimba. E' paura questa? Agli angoli degli incroci i genovesi stazionavano. Senza altra organizzazione che non venisse dalla solidarietà spontanea, ci davano informazioni su dove passare per evitare gli scontri. Ci siamo fermati spesso a parlare con loro, a cercare di capire. A chi non c'era sembrerà strano : la Genova che abbiamo conosciuto noi è stata "materna". Nessuno a cui facessimo paura, nessuno che si tirasse indietro. Di quella giornata mi rimarrà il ricordo di una consapevolezza tanto profonda da vincere la paura. Genova è una città che mi resterà nel cuore. Lì mi sono sentita libera e partecipe. Ho gridato quel NO che da troppo tempo tenevo in gola.

 

30 luglio 2001

Per me è venuto finalmente il tempo delle lacrime. Quelle lacrime che covano da quel sabato di violenza. Per me funziona così. Le lacrime sono la mia via di fuga, la mia valvola di sicurezza per non impazzire incalzata da pensieri più grandi di me. Sono stata male ma so che la supererò, e sono pronta a ripartire. Ora che sta passando non mi pento di aver scelto la presenza. Sapevo che avrei dovuto pagarne le conseguenze: l'ho semplicemente accettato. Ho solo bisogno di lasciare uscire quell'amaro che mi avvelena. Che avvelena una delle esperienze che daranno senso alla mia vita. Avevo bisogno di sentirvi vicini. E quando si hanno delle ferite nell'anima non c'è miglior cura che dell'affetto degli amici. In confronto alla sofferenza interiore (io, fortunata, che non mi sono presa le botte) le ustioni che ho sulle spalle, gli zigomi gonfi, sono una sciocchezza. A volte mi vergogno a raccontare questo, perché sembra di calcare troppo la mano. Ma è così: non si è trattato di semplici lacrimogeni. A volte queste cose non si dicono, perché sai che aumenteresti la sofferenza di chi ti sta ascoltando. A volte si tace per dignità. Sto pensando a cosa farò alla prossima occasione. Dipende tutto da come mi gioco questo rigurgito di nausea e paura dopo le assurde violenze della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto. Per adesso sto cercando di ritrovare la pace. Ma la sirena della fabbrica qui vicino mi fa sussultare. L'ululato delle ambulanze mi fa ripiombare nel buio, come se tutta la luce del giorno venisse inghiottita da quell'urlo. I poliziotti in divisa mi fanno irrigidire sulla schiena. Eppure lo so che la maggior parte é brava gente. Ho tanti amici in polizia e nei carabinieri. Non so con quali occhi riusciremo a guardarci ancora. Si ride e si scherza, con gli amici di qui. Si sdrammatizza. E' l'esorcismo che mi regalano loro, e mi presto volentieri. Ieri sera abbiamo fatto un fumogeno con un barattolo di patatine, soffiandoci dentro le nostre sigarette... Abbiamo riso della foto di me imbacuccata come un beduino in mezzo ai lanci. Eppure c'è sempre un momento in cui manca la battuta e si fa silenzio. Mancano le parole perfino per l'ironia. Poi qualcuno cambia discorso e si riprendere a ridere, ma non passa mai del tutto quel silenzio aleggiante, carico di cose non dette. Certe parole sono diventate tabù. Non le pronuncio più da una settimana. Preferisco strani eufemismi o allusioni o assurdi giri di parole. Non riesco più neanche a toccare fisicamente certi fogli di giornale. Ho paura di sporcarmi si sangue. Cumuli e cumuli di pagine stampate giacciono lì, sulla mia scrivania. Quando ritroverò la forza di dargli un ordine? Ma il peggio è la notte. La prima notte, quella del 21 luglio 2001, mi sono addormentata sul divano. Ho sognato una donna. C'era della violenza e io ripetevo "No! No!". Il mio compagno mi ha svegliata: stavo parlando nel sonno. Quando sono andata a letto ho rivisto la stessa donna. Cercavo di difenderla ancora dicendo "No! No!". Non sapevo ancora niente di quello che sarebbe successo, o che stava succedendo, o che era già successo, nella scuola Diaz, nella caserma di Bolzaneto, a Genova. Dopo è stata l'angoscia. E il senso di colpa per essermela cavata con un niente. Ci volevo dormire alla scuola. Mi aspettavo tanta politica, chitarre e qualche risata. Invece no. Sono tornata a casa. E mi sento come se li avessi lasciati soli. Non posso rallegrarmi di averla scampata. Non ho condiviso con loro tutto, fino in fondo. Lo so che non è razionale. Ma le vie della mente non sono fatte solo razionalità. Ora non serve a niente parlare, piangere o indignarsi, perché io non c'ero. E non posso dire che ho visto con i miei occhi la gratuità della violenza, anche se ne sono certa. Delle persone che girano disarmate e indifese nella manifestazione, con un solo cartellino di riconoscimento a protezione, non possono essere violente. Io lo so, io l'ho visto, io sono stata protetta da loro. Ma questo non basta. Non basta per difenderli, non basta per essere creduti. E poi ho paura. Paura per me, per il fatto che sto lottando ancora. Anche se con le sole armi della parola. I forum di discussione, i giornali, le mailing list: tutti gli strumenti che conosco li ho usati. Ma in quel momento, quando il foglio passa dal fax, quando la posta elettronica parte, in quel momento io ho paura. Era questo il punto a cui si doveva arrivare? Era questo il gioco che si stava preparando? Ma il peggio è la notte. Ho paura del buio, io che mi ci sono sempre sentita tranquilla. Non riesco ad addormentarmi a luce spenta. Ma la luce mi impedisce di dormire. Così aspetto di essere sul limite del sonno per spegnere la luce. Il minimo rumore mi fa svegliare. Non dormo mai veramente. Mi sveglio di colpo, subito lucida, con i sensi allertati. Poi non riesco a riprendere sonno. Nel buio inseguo le mie angosce. Tutto si ingigantisce, tutto si amplifica nel buio. Potessi dormire di giorno, quando gli altri vegliano, mi sentirei più sicura. La notte aspetto che faccia giorno, che gli altri di casa si sveglino. Così il sole dissiperà i miei incubi e non sarò più sola mentre tutti dormono.

Ilaria Sabbatini

 

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