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Convegno di Zurigo


Intervento di Vincenzo Gagliardo (Opera, aprile 1999)

Abolizionismo e non-violenza

Dal punto di vista personale, considero il mio libro soltanto come una premessa a uno studio vero e proprio sull'abolizionismo il quale, sul piano teorico, dovrebbe anzitutto essere un approccio capace di sottrarre tutti gli eventi umani oggi sottoposti alla volontà "definitoria" del pensiero giuridico, onde liberarli riconsegnandoli alla problematicità della riflessione umana. Ho notato che i padri dell'abolizionismo hanno, non a caso, un approccio sociologico alle questioni che prendono in esame, e per questa via difendono il "diritto" contro le leggi penali che, ormai, tendono sempre più a negarlo in ogni campo. Invece i giuristi, in genere, nella migliore delle ipotesi sono dei riduzionisti della pena. Inoltre, se vogliamo passare dal diritto penale a un sempre più ampio diritto civile, e magari un giorno verso un mondo che non abbia neppure bisogno di usare la parola diritto, dovremo senz'altro liberarci di quella falsa scienza chiamata criminologia, per sostituirla con la vittimologia, trattandosi di dover riparare danni e non di distribuire sofferenza legale. Ma se questo riguarda gli studi, qual è invece la premessa di una pratica abolizionista?
Così, oggi, vorrei introdurre nel dibattito alcune riflessioni sul rapporto tra abolizionismo e violenza politica. Ciò ha, tra l'altro, molto a che fare con la mia esperienza personale, dato che anni fa ho praticato la violenza rivoluzionaria, mentre oggi, attraverso l'abolizionismo, giungo a delle conclusioni non-violente.
Ricorderete che non pochi dicevano, anni fa in Italia, che bisognava liberarsi della "necessità" del carcere. Questo modo di dire era destinato a spegnersi da solo per cattiva coscienza: la funzione del carcere, dal punto di vista sociale, politico ed economico, già nella società attuale, infatti, non è una necessità bensì un'illusione. In teoria basterebbe essere un moderato ma sincero riformatore per non voler più prigioni, dato che costruiscono criminalità invece di combatterla, e quindi implicano dei costi assolutamente controproduttivi. Ma il carcere resta lo stesso e rischia anzi di aumentare l'importanza del sistema penale in genere, per una ragione più profonda: la punizione resta ancora necessaria da un punto di vista... religioso le cui origini ormai sfuggono alla stessa coscienza dei suoi sostenitori. Ed è così che il carcere diventa puntello ideologico importantissimo e inconscio di uno dei fondamenti della nostra civiltà.
Da poco più di due secoli il sistema penale sostituisce il sistema religioso arcaico su cui è nata la nostra attuale civiltà.
Non scandalizzatevi per un'affermazione così poco ortodossa dal punto di vista rivoluzionario (per esempio, per certa ortodossia marxista). Intanto, è facile riconoscere che oppressione e dominio nascono ben prima della società capitalistica, ma trovano in essa attraverso questo istituto la forma adeguata di una volontà punitiva che ha una genealogia antica e ormai estesissima. Tant'è che anche al di là del capitalismo, ovvero nei tentativi rivoluzionari di superarlo del Novecento, vale a dire pure in URSS, in Cina o in misura minore a Cuba, da subito il ricorso alla reclusione contro gli avversari ebbe un enorme successo, persino superiore che in Occidente... (liquidando anzitutto, magari, proprio le dissidenze rivoluzionarie libertarie - come avvenne in URSS). Il mantenimento della "mente punitiva" è causa delle cause del fallimento dei movimenti rivoluzionari, del loro ineluttabile "auto-tradimento".
Condizionato da una recente lettura (dalla quale pur dissento in vari punti) René Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano, 1983., trovo che la volontà di punire nasce dalla nostra civiltà fin dall'inizio: ricorrendo al rito della vittima espiatoria, essa cercò così di regolare la tendenza "animalesca" dell'essere umano agli eccessi primitivi della logica imitativa che è anche alla base dell'apprendimento umano, dato che dell'imitazione fanno parte anche i comportamenti appropriativi sotto forma di rivalità per l'oggetto. Affinché tutti non si scannassero l'uno contro l'altro (per impossessarsi dei "beni" altrui o delle donne - primi esseri umani a essere stati schiavizzati), nacque la religione come sacralizzazione della violenza, fondata sul rito della vittima espiatoria, che è quell'uno sul quale si addossano tutte le colpe, quell'uno grazie al quale la violenza generale viene limitata a vantaggio della comunità. Si crea perciò una unanimità violenta che fonda la società intorno al principio vittimario. I sistemi di dominio sono conseguenti a questo meccanismo: conseguenti e non alla sua base, come potrebbe credere un'ingenua concezione economicista. E oggi, anzi, studi come quello di Rifkin Jeremy Rifkin, Il secolo biotech, Baldini & Castoldi, Milano, 1998. documentano che la volontà di dominio vuole andare (a partire dagli USA) ben al di là delle forme di classe finora conosciute, fino ad assumere forme genetiche. Lungo questa nuova scia, ecco che anche nella sviluppata Inghilterra laburista come in alcuni arretrati Paesi d'America Latina ecc., la povertà è considerata l'inizio dell'irregolarità e si creano perciò carceri per bambini poveri, bambini tolti, cioè, alle loro famiglie, e carceri speciali per i più riottosi tra questi piccoli. La differenza tra penitenziario e lager è proprio questa: nel primo si dovrebbe finire per quel che s'è fatto, nel secondo si finisce per quel che si è.

Ci siamo dunque apparentemente liberati, dicevo, dalla religiosità arcaica; ma, al termine di un cammino di molti secoli, è appunto rimasto il sistema punitivo e penale quale suo ultimo sostituto. E stiamo però scoprendo che esso, non essendo più compreso nella sua funzione sociale originaria, non incontra più i limiti, i freni che stabiliva l'antichissimo sistema religioso, e si estende come "mentalità" in tutti i rapporti sociali, diffondendo la ricerca del capro espiatorio (la "caccia alle streghe", il sospetto, l'odio per il vicino e il presunto diverso, e perciò i nazionalismi, etnicismi, integrismi vari ecc., nonché i futuri genetismi) in una spirale distruttiva dell'intera umanità. In parole povere, siamo ancora capaci di odiare le nostre vittime come un tempo, ma non siamo più capaci di adorarle dopo averle uccise, fondandoci sopra nuove religioni. Ormai i politici, per esempio, sono diventati dei "politicanti": abdicano rispetto alla loro presunta funzione di mediatori di conflitti lasciando sempre di più al sistema penale la loro soluzione (oltre che ai potentati economici), tanto che si parla di ricorrere a un tribunale penale internazionale, ovvero a un giudice al di sopra delle nazioni (e di... Dio!) per risolvere ciò che il politico non sa più, non vuole, o non può più affrontare. E questo colmo del cedimento viene esaltato come il colmo del progresso.
Così, si discute di come incarcerare Pinochet (o Castro, a seconda dei gusti) più di quanto non si discuta di come liberare i detenuti politici ancora esistenti in Cile o a Cuba. In nome dell'antinazismo si mette in galera un ultraottantenne, Priebke, a mezzo secolo di distanza dai fatti. E di conseguenza, si deve processare anche il kurdo Ocalan o cacciarlo via dall'Italia, altro che dargli asilo politico... D'altronde, come poteva un Paese come l'Italia dare asilo a chi era accusato di reati così simili formalmente ai miei, quando quelli come me sono ancora in carcere da decenni? (Ocalan, purtroppo, ignorava questo particolare quando ha deciso di atterrare a Roma...)
In questo indirizzarsi di tutto e di tutti verso un tribunale (penale), persino internazionale, c'è il punto d'arrivo del lungo percorso di una civiltà che ormai minaccia la stessa sopravvivenza umana. C'è un cortocircuito del punto di partenza su cui si è costruita - sulla vittima sacrificale -; e vi si ritorna, dal tutti contro uno al tutti contro tutti, come rischiò di essere e come si evitò di fare tanto tempo fa. Se all'inizio la nascita del sacro sul fondamento della violenza fu misura di contenimento del rischio distruttivo, oggi si deve constatare che il pur necessario cammino di desacralizzazione della violenza è avvenuto in modo incosciente. Non si tratta allora di fondare nuovi riti sacrificali, nuove religioni violente, ma di accettare questo percorso, di desacralizzare la violenza per superarla però, ora, in modo cosciente. O troveremo una strategia non-violenta per affrontare e liberare i conflitti o andremo verso il suicidio.

Stando nel limite del nostro attuale contesto culturale d'Occidente, bisogna notare che un pensiero dissacrante e non punitivo venne espresso 2 mila anni fa da Gesù Cristo. L'essenziale di quel messaggio si può riassumere nelle parole "non giudicare, non punire" (se non vuoi essere giudicato). In un famoso passaggio del Vangelo di Matteo, il Cristo invita a smettere di guardare la pagliuzza nell'occhio altrui, comodo vizio per non riconoscere la trave presente nel proprio occhio. In realtà, oggi, nel regno della violenza dissacrata ed estesa (portata dal cristianesimo storico) la situazione è spesso quella opposta. Priebke o Pinochet sono indubbiamente portatori di travi rispetto a coloro che li accusano; Castro fece fucilare Ochoa e ora propone di estendere i casi di condanna a morte e pene non inferiori a 20 anni per la rapina semplice. Ma che cosa fanno tante pagliuzze? Non finiscono forse per costituire, in un unico fascio, una grandissima trave? La più grande, che tutti accomuna in qualche modo, anche quelli avversari fra loro?
È questo meccanismo che impedisce a ognuno di mettersi in discussione, che lo porta a farsi giudice, e a riproporre l'apparentemente eterno circolo vizioso che ha finora trasformato ogni rivoluzione in una nuova oppressione.
La trappola in cui è caduta storicamente anche la parte migliore della sinistra, è consistita nel notare che in galera finivano solo i piccoli criminali - vittime dell'ignoranza e spinti dalla miseria - invece che i grandi criminali, i quali agivano (e agiscono) nella legalità come potenti: è così che si nota sì una realtà, ma si rimane all'interno della salvaguardia di un sistema che si rinnova sempre in nuove forme. Le tante pagliuzze fanno la grande trave che diventa l'occhio della collettività, rinnovando il paradigma di una civiltà ormai da abbandonare.

Una strada alternativa a quella dei tribunali internazionali ci viene dal Sudafrica, un Paese considerato da molti sull'orlo del precipizio.
Di fronte a una situazione ritenuta tanto tragica, la Commissione per la verità e la riconciliazione denuncia i fatti accaduti nel passato non per punire ma per porli all'interno di una prospettiva non-violenta; in un processo non più penale ma amnistiale; in una ricostruzione di memoria storica capace di non guardare in faccia nessuno, giacché non dovendo punire, non è vincolata alla necessità di dire solo parole piacevoli all'orecchio dei vincitori.
Troppo scarse sono nel mondo le riflessioni su un tale immenso sforzo, ricco di indicazioni per l'umanità, supposto che riesca ad andare avanti...: in Sudafrica si sta infatti cercando di fare il contrario di quello che si sta cercando di far succedere in tutto il mondo.

L'abolizionismo non potrà che essere una pratica paradossale nelle condizioni attuali, almeno rispetto al pensiero comune. È una proposta di "rivoluzione nella rivoluzione". Dal punto di vista politico si presenta come riformista, e in un certo senso lo è, dato che si propone d'agire non in un secondo tempo, ma già oggi e nell'attuale società. Ma dal punto di vista culturale è rivoluzionario poiché contesta quel che hanno fatto e fanno tanti veri e presunti rivoluzionari, poiché propone di cambiare se stessi già oggi e non in un modo violento. Ma lo fa proprio perché vede in tante violenze l'incapacità di uscire dalla dialettica della vittima sacrificale su cui si ricostruisce ogni nuovo-vecchio potere. E, d'altra parte, così facendo, l'abolizionismo denuncia anche tutte le false non-violenze che abbiamo finora conosciuto in Occidente, individuando il principio di fondo al quale collaboriamo tutti da qualche millennio, e sviluppando perciò la servitù volontaria come principale caratteristica del comportamento umano attuale.
Mettendo in discussione l'ipocrita principio di fondo di un'intera civiltà (anche nelle sue versioni rivoluzionarie), l'abolizionismo deve segnare l'inizio della non-collaborazione ai meccanismi fondanti di una civiltà nata religiosamente sulla violenza. Per questo, al di là delle piattaforme specifiche che può individuare e favorire, dovrebbe diventare un principio informatore di tutti i movimenti che si dicono per la liberazione sociale, oppure... la pietra dello scandalo per ciascuno di loro.

Credo che questo compito - la non-collaborazione allo spirito punitivo, la conseguente critica della servitù volontaria - prima ancora che con delle rivendicazioni per altri si realizzi con degli auto-coinvolgimenti. Tante battaglie per l'innocenza altrui sono l'altra faccia della vittimazione dei capri espiatori. Bisogna farsi garanti, ostaggi in cambio della libertà degli altri: dei colpevoli, di chi pensa diversamente...
La contraddizione difficilmente risolvibile nel ricorso alla violenza politica, infatti - anche quella rivoluzionaria -, è la seguente: si rimanda a domani la non-collaborazione alle leggi di questo mondo e al principio vittimario che le regge. Così, la necessità della violenza diventa l'alibi di una falsa coscienza che rimanda al "mondo nuovo" quel che si dovrebbe fare oggi e collabora attivamente anzi alla regola di fondo del presente. Dicendo questo, non vorrei essere frainteso, non sono ancora un santo mistico. So che la violenza degli oppressi corrisponde a un'autodifesa nelle condizioni storiche della coscienza e che perciò è storicamente servita a garantire la sopravvivenza del mondo: i dominatori, senza incontrare resistenza, a quest'ora lo avrebbero distrutto già da tempo nella loro follia. Ma qui ora si sta parlando di salvare il mondo cambiandolo in meglio, a partire da noi, perché si è giunti a un punto critico. E perciò bisogna superare la stessa violenza autodifensiva, che è servita sì a difendere l'esistente, ma non a cambiarlo.
(Un rivoluzionario non-violento sarà tale perché insisterà sulla non-collaborazione più di quello violento. Una non-violenza assoluta non esiste; viviamo in un mondo fondato sulla violenza, mondo il cui unico valore, anzi il centro, è la penalità: che non serve a reprimere chi devia ma a costruire capri espiatori, vittime sacrificali per gratificare religiosamente la comunità... dei linciatori nascosti. E perciò per non-violenza si dovrà intendere l'uso della propria vita come unica e ultima arma, come la più radicale alternativa alla viltà personale del linciaggio mascherato collettivo. Come vedete, si tratta a mio parere di salvaguardare lo spirito estremista che mosse la violenza rivoluzionaria...)

Credo che per avere meno ladri bisogna lasciare di più le porte aperte. Vedo invece persone che si dicono contro gli eccessi punitivi dedicandosi a sminuire la responsabilità dei rei, a fare i decolpevolizzanti, i presunti generosi, cioè i vittimismi... Vedo invece pochi auto-implicati, non-collaboranti, auto-denunciati, garanti, ostaggi di sorti altrui. Siamo stati abituati a lottare ciascuno per la propria libertà, per quella dei nostri simili, dei nostri amici...: per l'innocenza. Così si rinuncia a difendere la dignità umana già da oggi. Essa consiste nel non dare o chiedere nulla per la propria libertà, e perciò, all'opposto, nel dare o chiedere tutto per la libertà degli altri. E la sfera delle leggi ruota ormai tutta intorno al sistema penale: ognuno dovrebbe perciò considerarsi un colpevole potenziale, e vedere la propria libertà come un caso fortuito.
Uno degli esempi più chiari di collaborazione al sistema penale da parte della violenza rivoluzionaria si ha nel caso dei detenuti politici italiani degli "anni Settanta": la maggior parte di noi è uscita, parzialmente o del tutto, dal carcere, con "realismo", in attesa di leggi più giuste, accettando le soluzioni premiali individuali previste dalle leggi attuali, e così rinnovando il labirinto delle reclusioni. Non poteva che essere così: il rivoluzionario violento afferma di non essere colpevole, non sa dire che bisogna trovare una via diversa dalla punizione verso i colpevoli, e perciò accetta il sistema provando a sottrarsi a esso. Ma proprio qui si rivela la più potente caratteristica del sistema penale: quanto più si è sue vittime, tanto più ci si trasforma in suoi complici sotto il peso del ricatto sulle nostre vite e sulla nostra libertà. L'abolizionismo non nascerà dai carcerati, ma dall'autoimplicazione di chi carcerato non è, a parte pochi. Ed è per questo che un esempio opposto, non a caso, ci viene da una giovane negoziante milanese che non ha voluto la galera per il suo rapinatore, ma ha voluto che quest'ultimo andasse con lei in negozio per vedere cosa si prova a vivere nella paura per guadagnarsi il pane. Costei ha cercato di essere diversa già oggi, ha rotto il "dualismo cartesiano": di fronte alle proprie emozioni, ha cominciato a ragionare sui propri sentimenti facendone fonte di nuova intelligenza invece che motivo di scissione mentale, riunendo ragione e sentimento. Il sistema penale tende invece a definire le persone a partire dai momenti in cui vanno "fuori di sé"; i rivoluzionari hanno teso a ritenere ineluttabile l'essere fuori di sé oggi, in attesa del diverso domani. Ma intanto, non è forse assurdo trattare le persone ignorandole quando sono in sé?
In conclusione, trovo la battaglia abolizionista tanto preziosa quanto difficile da percorrere. Per ora conosciamo anime democratiche o rivoluzionarie che provano a essere indulgenti o decolpevolizzanti verso Tizio o Caio, così rinnovando il sistema punitivo. Ci sarà un movimento (e non solo una teoria) abolizionista solo quando vedremo un movimento di persone libere che si "autoincatenano" in qualche modo per far implodere il sistema penale. Tali persone non metteranno in discussione solo le carceri, ma costituiranno una pietra dello scandalo molto più in generale... rispetto a un'intera civiltà. E allora costoro daranno coraggio e dignità anche a quei detenuti che finora sono stati l'inevitabile falso movimento al quale democratici e rivoluzionari hanno sempre finto o creduto di rivolgersi.

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