Parliamo di lavoro, parliamo di cura

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“Aprile ci ha lasciato co’na giornata bella, ritorna Maggio e la splendente stella. I geli son passati torna la Primavera, si sente cinguettar la Capinera. Spuntando il nuovo sole col suo manto d’oro illumina la festa del Lavoro” - Maggio, Canti del Maggio

Siamo giunti anche all’appuntamento del 1 maggio, che purtroppo non potremo celebrare come merita con canti maggiolini e garofani rossi, ma che omaggiamo continuando a parlare di Lavoro. Irrimediamilmente, di Donne e Lavoro.

La crisi Covid 19 ha rivoluzionato il mondo del lavoro e nel dibattito quotidiano politico e tra le parti sociali si fanno presente anzitutto le modalità, vedi la rivoluzione dello smartworking, i sussidi a chi ha perso, forse perderà il lavoro, le messe in sicurezza per quei settori che si preparano alla riapertura. Tuttavia, emerge timidamente da qualche tempo sui giornali qualcosa che suona come nuovo, ma che in realtà noi femministe urliamo ad alta voce da molto tempo: il lavoro di cura.

C’è anche se non si vede!

Oggi più che mai abbiamo le prove che i più invisibili sono sono i più presenti. Proprio come questo virus: tanto invisibile quanto aggressivo. Ma ciò che è invisibile, non vuol dire che non c’è, o che non debba essere considerato, tutelato, affrontato.

Un lavoro apparentemente invisibile

Seppure fondamentale per il benessere umano e per l’economia l’assistenza e la cura alla persona non retribuita rimane invisibile e non riconosciuta.

Il numero delle ore giornaliere spese in lavori di assistenza e cura non retribuiti è 179 milioni. Corrisponde a 22 milioni di persone che lavorano otto ore al giorno senza remunerazione.

Parliamo di lavoro di cura, un lavoro sociale, educativo, di intervento sanitario e di riabilitazione, generalmente che riguarda bambini, anziani, disabili. È un lavoro pratico che si svolge a faccia a faccia con la persona di cui si occupa, con il suo corpo, con le parti e funzioni più intime del suo corpo. È caratterizzato da dimensioni intangibili: una sorta di riproduzione sociale emozionale, cioè nella produzione di una modalità di relazione di cura legittimata socialmente e che sia non distante, ma non intima; non asettica e non coinvolgente, non estranea e allo stesso tempo non personale. Tali dimensioni intangibili portano spesso a non identifcarlo come lavoro vero e proprio, o comunque di “rango inferiore”.1

Occhio non vede, cuore non duole

Il luogo più invisibile alla politica e all’economia, rimosso dal dibattito è proprio la casa, luogo di lavoro retribuito e non, svolto a casa propria o a casa d’altri. L’isolamento dovuto all’emergenza rompe la separazione artificiosa dello spazio pubblico da quello privato, dove tuttavia le diseguaglianze permangono in quanto il lavoro domestico è attribuito storicamente di mansione femminile. In Italia, le donne svolgono 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno mentre gli uomini un’ora e 48 minuti. Le donne quindi, si fanno carico del 74 per cento del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura.

Il lavoro non retribuito di assistenza e cura alla persona costituisce il principale ostacolo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Una condivisione più equa tra donne e uomini di questi compiti permetterebbe una più alta partecipazione delle donne al mercato del lavoro. In Italia, il 21 per cento delle donne in età lavorativa dichiara di non essere disponibile o di non ricercare lavoro attivamente a causa del lavoro non retribuito di assistenza e cura.2

Il concetto di lavoro domestico è fonte anche di disuguaglianze tra chi eroga e chi riceve le cure, tanto che non viene neanche regolarizzato e quindi svalutato in termini economici.

Covid 19: “Tra moglie e marito, non mettere il dito”

Le misure di isolamento hanno fatto sì che moglie e marito adesso devono litigare su chi stirerà le camicie, perché la colf che di solito se ne prendeva cura, adesso non può più recarsi a casa dei signori. La signora colf tuttavia svolge un vero e proprio lavoro solitamente in questa famiglia, il lavoro domestico di prendersi cura di tutti i bisogni dei signori, che ormai è considerata parte della famiglia, e lavora per loro da così tanti anni ormai che si è quasi dimenticata di chiedere il contratto di assunzione.

Negli ultimi tempi so sono registrate molte assunzioni di colf per legittimare lo spostamento dalla propria abitazione al luogo di lavoro nell’autocertificazione per la crisi Covid 19. Ma chi non svolge un lavoro di cura non retribuito ? Chi non ha un contratto come può chiedere un indennizzo?

Femminismi

Nel seminario del 29 aprile “Parliamo di cura” organizzato da Femminismi3, ciclo di incontri ideato da un gruppo di docenti, dottorande, ricercatrici, studentesse, tecniche amministrative dell’Università di Pisa in collaborazione con il Comitato Unico di Garanzia dell’Unipi, presentato da Sandra Burchi con l’intervento delle relatrici Sabrina Marchetti (professoressa associata in sociologia dei processi culturali allìuniversità Ca’ Foscari di Venezia) e Giorgia Serughetti (ricercatrice in Filosofia pollitica presso il dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano-Bicocca) aiutano a far luce su cosa è il lavoro di cura e le varie implicazioni che il mancato riconoscimento del lavoro di cura comporta.

Le parole chiave sono: cura, corpi a lavoro, casa, bisogni, regolarizzazione, essenziale, famiglia, regolarizzazione, diritti, tutela.

Giorgia Serughetti ci spiega cosa è la cura in senso lato: è prendersi carico dei bisogni per mantenere la pienezza della vita. In questo momento di emergenza sanitaria, il concetto di cura viene enfatizzato nella sua forma di assistenza, fondamentale per la sopravvivenza. Se il lavoro di cura si dedica specialmente a quei soggetti definiti più vulnerabili, quali anziani, bambini, individui con disabilità, la vulnerabilità diventa condizione universale nel contesto della pandemia.

Dobbiamo fare della cura un concetto politico in un contesto democratico, che faccia parte del dibattito politico, non solo femminista, per dare delle risposte e tutele concrete. Giorgia Serughetti ribadisce l’attuale focus su corpi a lavoro: ci sono corpi che curano e corpi da curare, e di conseguenza diritti da tutelare. Non si guarisce se non ci sono corpi che si recano in ospedale per curare, non si mangia se l’agricoltore non coltiva e non ci porta da mangiare. Dobbiamo far sì che i bisogni umani prevalgano sui bisogni di mercato.

Falso dilemma

La politica è di fronte a un “falso dilemma”: tutelare i bisogni umani, della vita o mantenere i bisogni di mercato per preservare (per quanto possibile) una vita degna.

Sabrina Marchetti infatti evidenzia la presenza di “caring deficit” in quei luoghi caratterizzati da “democracy deficit” e la necessità appunto di una “caring democracy”, uno Stato che si prende cura. Un forte segnale positivo arriva dalla recente definizione da parte del legislatore dei “lavori essenziali”: pulire le strade, i negozi consegnare la posta, tutti quei lavori identificati come 3D “Dirty Dangerous Demanding” (rispettivamente sporchi, pericolosi, faticosi) diventano appunto essenziali.

Ma anche il lavoro di cura è essenziale e anche il lavoro di cura deve essere riconosciuto nella sua interezza ed essere retribuito.

In che società vuoi vivere da grande?

Parliamo di cura, parliamo anche di “riproduzione sociale”, ossia alla produzione delle persone sia dipendenti che indipendenti, alle varie forme di lavoro e di risorse economiche, sociali e istituzionali, necessarie a mantenere i singoli e le famiglie. Ad esempio la scuola svolge un lavoro di cura dei bambini ed insegna loro a relazionarsi armonicamente, a rispettare l’altro, svolgendo quindi un compito di socializzazione che definisce la società in termini di generazioni future.

Alla domanda “quanto è vicino il reddito di cura?” rispondiamo che anzitutto è indispensabile un reddito di base, protetto e sganciato dalla produttività proprio perché la nostra società ha bisogno di riprodursi e guardare al futuro. E proprio per questo dobbiamo sganciare il concetto di cura da una definizione propriamente femminista, ma come un compito collettivo che riguarda tutt*.

“In una “caring society”, la cura non solo va debitamente valorizzata e riconosciuta come centrale, ma soprattutto va organizzata democraticamente.” - Joan Tronto4

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L’autrice

Linnea Nelli, studentessa magistrale al primo anno di Economics. Femminista convinta anche perché se no sua madre svedese la disereda. Non si capacita di vivere in una società con discriminazione di genere, infatti ancora deve capire come viene calcolato questo diavolo di gender gap. Non si astiene da dire quello che pensa e non si vergogna di urlarlo se deve.


  1. http://www.universitadelledonne.it/colombo%20g.htm ↩︎

  2. Organizzazione Internazionale del Lavoro↩︎

  3. https://www.cug.unipi.it/item/233-femminismi-laboratorio-sulla-storia-di-idee-pratiche-movimenti.html ↩︎

  4. http://unacitta.it/newsite/intervista.asp?anno=2007&numero=149&id=1603 ↩︎

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