28 OTTOBRE 2006

Dal Molin agli Usa, il Governo trema
«I clandestini a quota nove mila» La Caritas sfida l’emarginazione
Strada Nicolosi, i nomadi si sono “autosgomberati”

Dal Molin agli Usa, il Governo trema
Hüllweck: «Il ministro Parisi ha urgenza». Fabris: «C’è tempo per ragionare»

di Gian Marco Mancassola

Dopo la lunga notte del consiglio comunale sul caso Dal Molin, la palla passa a Roma. Ieri mattina, mentre in Corso gli operai liberavano palazzo Trissino dalle transenne, il sindaco Enrico Hüllweck ha firmato la lettera accompagnatoria per spedire al ministro della Difesa Arturo Parisi l’ordine del giorno approvato dalla maggioranza con 21 voti favorevoli, 17 contrari e 2 astenuti. Da ieri, dunque, i riflettori hanno abbandonato piazza dei Signori e si sono spostati nella capitale: il problema è di Romano Prodi e del suo ministro Parisi. E a leggere le dichiarazioni del day-after, il Governo trema. La nuova caserma al Dal Molin appare la punta di un iceberg su cui sventola la bandiera a stelle e strisce: se la coalizione di centrosinistra non saprà scansarlo, andandoci a sbattere contro, corre il serio pericolo di affondare. L’affaire vicentino, infatti, è specchio di una maggioranza che al suo interno vive una lotta intestina sui termini dell’alleanza strategica con Washington, sulla politica estera statunitense, sul Medioriente e sullo sviluppo delle servitù militari in Italia. Non a caso, la protesta dei partiti dell’ala sinistra ieri, dopo le notizie arrivate da Vicenza, è riesplosa. Verdi e Comunisti puntano il dito contro il Governo, intimando di «uscire dall’ambiguità». Sì, perché se da un lato il protagonista numero uno, Parisi, finora si è espresso in termini tutt’altro che negativi rispetto all’operazione Usa, parlando di progetto «compatibile, coerente e rispondente», dall’altro ieri per la prima volta un collega di Governo, il ministro alla Solidarietà sociale Paolo Ferrero, di Rifondazione comunista, si è pronunciato assestando una picconata alle certezze di Parisi. Cedendo il Dal Molin agli Usa aumentano sul territorio italiano «spazi di mancata sovranità», ha dichiarato il ministro. La domanda di tutti, all’indomani del voto in consiglio comunale, è cosa accadrà ora. L’Unione è corsa a tirare il freno a mano: più tempo prende, più è possibile attendere l’esito di un eventuale referendum, bocciato però dal consiglio comunale e ritenuto impraticabile dallo stesso sindaco. Il capogruppo alla Camera dell’Udeur, il vicentino Mauro Fabris, che finora ha dimostrato di conoscere bene gli ambienti del ministero della Difesa, si dice sicuro che «il Governo si prenderà tutto il tempo necessario a verificare con l’Amministrazione Usa se, nel confermare gli impegni derivanti dall’alleanza, si possano onorare le tante richieste avanzate dal Comune. Un tempo più che sufficiente per poter effettuare quel referendum invocato da tutta la città». Il sindaco Hüllweck delinea invece una rapida conclusione, forte della chiacchierata con Parisi: «Mi aveva detto che aveva un’urgenza assoluta. Se il Governo, come sembra, dirà Sì, i lavori al Dal Molin potrebbero partire subito, perché hanno già eseguito perizie e carotaggi». Dopo l’eventuale via libera del Governo alla concessione convenzionata del Dal Molin ai militari statunitensi, la normativa prevede che la Regione abbia la possibilità, entro 15 giorni, di chiedere una verifica del progetto, rimettendo in gioco il Comipa, il comitato misto-paritetico sulle servitù militari. Quella - secondo Hüllweck - sarebbe la sede in cui Vicenza potrà tornare a dire la propria. Se la Regione domanderà di correggere il progetto, lo farà per dare al Comune la possibilità di far ascrivere nero su bianco le condizioni dettate nell’ordine del giorno approvato dal consiglio comunale. A quel punto verrà stilato un accordo di programma, in cui si definiranno progetti e costi delle infrastrutture indispensabili per sopportare l’impatto del Dal Molin a stelle e strisce. Qualora, invece, la risposta del Governo dovesse essere negativa, «non se ne parlerà più, il progetto sarà sepolto per sempre», afferma Hüllweck. Salvo dare la stura a due diversi canali. Il primo è internazionale: Italia e Usa dovranno sedersi intorno a un tavolo e ridefinire i termini dell’alleanza e lo spirito di amicizia fin qui sbandierato e sotto cui è stata protetta l’operazione Dal Molin. Il secondo è tutto vicentino: se verrà smantellata anche la Ederle, «dovremo pensare al futuro di 700 famiglie», dice Hüllweck, «e non vogliamo che a Vicenza si ripeta una situazione simile a quella della Maddalena». Tutto lineare, quasi un diagramma, se non ci fosse di mezzo la politica e quella chiacchierata fra gentiluomini, da una parte Parisi dall’altra Hüllweck: «Il ministro è stato molto corretto, spiegando la serietà degli impegni assunti. Se però mi dovessero comunicare un parere negativo del Governo, allora prenderò carta e penna per scrivere una lettera e chiedere: ma cos’è tutta questa messinscena?».

In Laguna uno “scambio di cortesie” fra Galan e Variati A Roma, invece, “cannonate” tra alleati di centrosinistra

(g. m. m.) Il primo ad accendere le polveri, il giorno dopo lo storico voto in consiglio comunale, è l’on. Mauro Fabris, dell’Udeur, che critica le mosse del sindaco Enrico Hüllweck e della sua maggioranza: «Personalmente - afferma - ritengo sbagliato acconsentire alla realizzazione della nuova base all’interno dell’aeroporto, per l’impatto devastante sulla città. Il voto del Consiglio costituisce la risposta ufficiale e positiva dell’amministrazione locale. Nel documento approvato, però, ci sono tante e tali clausole dissolventi, che fanno apparire quel Sì quasi un No». A stretto giro di posta arriva lo scambio di bordate in Laguna fra il governatore Giancarlo Galan e il vicepresidente del consiglio veneto, l’ex sindaco Achille Variati. «Noi stiamo dalla parte degli americani - sostiene Galan - ed è sull’America che cade l’asino dell’eterna sinistra che odia la democrazia statunitense, cade l’asino della folta schiera degli ignoranti che non conoscono la storia politica dell’Occidente libero, democratico e nemico di ogni dittatura. E cade l’asino anche di un Governo sempre allo sbando quando si tratta di relazioni internazionali o di rispetto dei patti a proposito di alleanze militari». «Spero che il Governo Prodi - replica Variati - dia la possibilità di fare un referendum. All’indomani del risicato Sì, non vedo una città gioiosa, ma una città ferita. I consiglieri comunale, sindaco in testa, non hanno alcun diritto di decidere sulla città perché su questa questione non hanno avuto alcun mandato popolare. Tanto meno può esprimersi il presidente Galan, che su questa questione, come purtroppo su tante altre, ha fatto semplicemente lo struzzo». A Roma, nel frattempo, le acque sono sempre più agitate. Basta leggere le dichiarazioni del ministro della solidarietà sociale, Paolo Ferrero di Rifondazione comunista, che ha osservato come in questo modo aumentino sul territorio italiano «spazi di mancata sovranità». Per Ferrero, la vicenda si inserisce in un quadro generale (dalle intercettazioni telefoniche a quelle fiscali, al rapimento di Abu Omar) che definisce «inquietante» e che gli fa dire: «Sembra di vivere in un doppio Stato». A Ferrero risponde il senatore vicentino della Lega Nord Paolo Franco, che sostiene: «Chieda lumi al ministro del suo stesso Governo, Parisi, il quale aveva dato il placet all’insediamento al Dal Molin degli americani, come ha confermato ieri il consiglio comunale. A questo punto l’unica sovranità che è venuta a mancare è quella di un governo che si contraddice per l’ennesima volta». «Il voto del Consiglio - chiosa l’on. Giorgio Conte di Alleanza nazionale - dà inizio a una sinfonia le cui partiture sono già scritte». Più che da destra, però, è da sinistra che si devono guardare l’ala moderata del Governo Prodi e il ministro Parisi. «Questa vicenda è il tipico esempio di una politica negativa, per niente trasparente, lontana dai cittadini e ancorata alle vecchie logiche del passato», sostiene il senatore diessino Felice Casson, che avverte: «Nel momento in cui i militari statunitensi vengono allontanati dalla Germania, è paradossale che sia una città italiana a doverli accogliere». «È evidente che il ministro Parisi non potrà nascondersi dietro il verdetto del consiglio comunale, bensì dovrà assumersi l’intera responsabilità della questione - ammoniscono i Comunisti italiani con Marco Palma e Nicola Atalmi - ed è evidente che un sì al progetto significherebbe non dare seguito al programma con cui l’Unione ha vinto le elezioni».

Il giorno della soddisfazione Usa «Ma non è la pista l’obbiettivo»
Il generale Helmick: «È stato un momento di grande discussione democratica»

di Marino Smiderle

La prudenza c’è sempre, l’attenzione nel misurare le parole pure. Ma stavolta alla Setaf c’è anche molta soddisfazione e il generale Frank Helmick non fa nulla per nasconderlo. «Sì, siamo soddisfatti - dice il comandante della Setaf -. Ci aspettavamo che le assicurazioni che abbiamo fornito circa la bontà del nostro progetto venissero recepite dal Consiglio comunale e questo è successo».
- Generale Helmick, per caso ha passato la serata davanti alla tv per assistere alla "partita" che si giocava a palazzo Trissino?
«No, sinceramente non l’ho fatto. Ho appreso al termine della riunione che il voto dell’assemblea era a favore della realizzazione della nostra base al Dal Molin».
- La sua prima reazione?
«Penso che, dopo 51 anni di presenza americana a Vicenza, ci sia stata una bella conferma di ciò che peraltro mi aspettavo: il fatto che il Consiglio comunale abbia dato parere positivo a un’ulteriore allargamento della nostra comunità sta a indicare che il rapporto tra vicentini e statunitensi gode di ottima salute».
- Non è stato un via libera agevole, ci sono state molte discussioni, qualcuno ha invocato il referendum, in molti sono scesi in piazza...
«Mi pare che sia stato un momento di grande discussione democratica, ma non spetta a noi giudicare. Noi rispettiamo le decisioni delle autorità del Paese che ci ospita».
- Generale, adesso possono partire i lavori. Quanto ci vorrà per concludere il tutto?
«Noi confidiamo che possano partire al più presto ma dobbiamo attendere le istruzioni e le autorizzazioni necessarie. Quanto alla conclusione dei lavori, si tratta di un’opera importante, che richiederà molto impegno da parte di tutti. Ci vorrà qualche anno per portare a termine il tutto».
- Considerata la rilevanza della nuova base, resta forte la preoccupazione dei cittadini circa l’effettivo impatto sulla città, durante la fase di costruzione e dopo. Lei cosa può dire al riguardo?
«Noi siamo consapevoli del disagio che potrebbe essere arrecato alla cittadinanza vicentina ma siamo anche determinati nel prendere tutte le precauzioni possibili, in accordo con le disposizioni che riceveremo dalle autorità locali, per mitigare l’impatto dei lavori. E, una volta ultimati, per cercare di studiare la soluzione migliore nei confronti delle conseguenze che si avranno sul traffico».
- Tra le condizioni che accompagnano il parere positivo del Consiglio comunale di Vicenza, ce n’è una relativa all’utilizzo dell’aeroporto per fini militari. Non tutti credono al vostro scarso interesse per la pista. Lei cosa risponde?
«Non posso fare altro che ribadire il nostro assoluto disinteresse operativo per la pista del dal Molin. La nostra scelta è caduta sull’area dell’aeroporto solo perché era un’area demaniale su cui non era necessario attivare un procedimento amministrativo lungo e difficile. Ripeto: da qui non decollerà alcun aereo militare americano».
- Tranne il piccolo Cessna C-12 che lei utilizza per i piccoli spostamenti...
«Ecco, per questo piccolo velivolo (ride, ndr) ci sarà una piccola eccezione. Così come potrà atterrare qualche elicottero VIP, sempre per piccoli spostamenti di ufficiali e personalità. Piccole dimensioni, comunque, di impatto ininfluente, da tutti i punti di vista, con la comunità della zona».
- Tra le condizioni c’è anche l’assicurazione chiesta per il campo di rugby...
«Il nostro intento è quello di non causare alcun disagio alle realtà che hanno a che fare con l’area del Dal Molin. Vedremo di agire in questo modo anche per quel che riguarda quell’impianto sportivo».
- Lei è stato per un po’ a Vicenza negli anni 80 e adesso ci è tornato col ruolo di comandante di una base destinata ad allargarsi. Che differenze ha trovato?
«Rispetto alla mia prima esperienza, a Vicenza ho trovato molto più traffico, ma credo che sia una caratteristica di tutte le città sviluppate. Quanto al rapporto con la cittadinanza, è sempre ottimo, anche se, dopo l’11 settembre, la nostra base è diventata più chiusa. Ma se Vicenza è tra le destinazioni più ambite dei soldati destinati alle basi fuori dagli Usa, un motivo ci sarà».

I consiglieri del centrosinistra denunciano «il restringimento del dibattito e l’azzeramento dei diritti»
«Democrazia sospesa mezz’ora»
«Un piano del presidente Sarracco e del segretario Macchia»

Postumi di dibattito consiliare sul "sì" al Dal Molin come base americana. E si tratta non di una questione politica - perché questa è stata chiusa dal voto a favore dato dal centrodestra - ma di una questione procedurale che ad un dato momento dello scontro notturno ha visto la sollevazione del centrosinistra contro il presidente consiliare Sante Sarracco (An) e il segretario generale del Comune, Angelo Macchia. Di mezzo c’è l’interpretazione e la perimetrazione degli spazi di autonomia e di discussione a Palazzo, nel rispetto dei ruoli e dei pesi numerici di maggioranza e opposizione. Macchia, interpellato dall’Amministrazione e dai capigruppo di maggioranza, aveva redatto per il sindaco Enrico Hüllweck e per il presidente consiliare una lettera tecnico-giuridica che bocciava la possibilità di discutere i documenti dell’opposizione a proposito di caserma statunitense e richiesta di referendum. Motivo: esiste una sentenza del Tribunale amministrativo regionale riguardante il Comune di Verona e le pratiche ostruzionistiche in consiglio comunale tramite documenti-fotocopia su temi già votati. Sarracco, con l’autorità che lo rende "potere" semi-assoluto nella conduzione dei lavori in sala Bernarda, aveva attuato la strategia messa a punto dalla dirigenza comunale e dall’Amministrazione, negando la possibilità di affrontare, dibattere e votare il pacchetto-proposte dell’Unione e della consigliera Franca Equizi (gruppo misto). «Cose mai viste. Un attentato alla democrazia. Una prevaricazione...»: con una protesta raramente vista in consiglio, e con la minaccia di denunciare alla magistratura i protagonisti di quello che definivano «un sopruso», i consiglieri di opposizione sono riusciti a strappare a Sarracco una doppia "conta" sulla correttezza o meno dello stop. E per due volte hanno avuto dalla loro perfino alcuni determinanti colleghi del centrodestra, poi pubblicamente ringraziati dal verde Ciro Asproso «per aver rispettato le regole della democrazia che stavano per essere calpestate». Risultato: dopo che Sarracco per due volte si era rimesso al parere del consiglio, per due volte il centrosinistra ha potuto far discutere i suoi documenti. Sapeva di venire poi battuto, ma gli è riuscito l’obiettivo politico di far fissare da un voto esplicito - e adesso ben usabile nella polemica in città - la contrarietà di Hüllweck e del centrodestra al referendum popolare sul caso-aeroporto. Ieri è arrivato su tutto questo un commento del capogruppo diessino Luigi Poletto, che era stato uno dei più accesi contestatori del tandem Sarracco-Macchia, e del suo collega di partito Gianni Cristofari, presidente dalla commissione Affari istituzionali, quella che in Comune si occupa di regolarità delle procedure. «Il fatto è di una gravità inaudita. Si è trattato - sostengono - di una vera e propria “sospensione della democrazia”. Non era mai successo nella storia democratica del Comune che ordini del giorno dei consiglieri di opposizione non fossero ammessi al dibattito. «Per mezz’ora i diritti costituzionali sono stati conculcati, le prerogative dei consiglieri soppresse. Un vero e proprio golpe nella migliore tradizione eversiva della destra fascista. Noi siamo uomini delle istituzioni - commenta Cristofari - e mai indulgiamo ad atteggiamenti estremisti e rissosi, né diamo spazio ad esacerbazioni ed esagerazioni. Ma quello che è successo ci inquieta profondamente: qualcuno ha scientemente pianificato il restringimento del dibattito democratico, l’azzeramento dei diritti dei consiglieri e con ciò la fuoriuscita dall’alveo delle regole fondamentali che presiedono la democrazia repubblicana». «Usiamo parole forti consapevolmente - conclude Poletto chiamando in causa Sarracco, Macchia e chi con loro ha orchestrato l’iniziativa - per denunciare un evento estraneo ai valori, ai principi che regolano l’ordinamento democratico. C’è stata una vera e propria rottura della legalità. Mai mi sarei aspettato che si sarebbe arrivati a tanto».

Il membro del direttivo Fiom aveva firmato un documento criticando il segretario
Cgil, lo “strappo” è ricucito in piazza Il dissidente Galvanin con Mancini
«La nostra presa di posizione fa parte della dialettica democratica del sindacato»

(m. sc.) Lo strappo nella Cgil si ricuce in piazza. Quella piazza dei Signori variopinta, chiassosa e instancabile nell’urlare per sette ore il proprio “no” alla nuova base americana al Dal Molin è stata anche il teatro della riappacificazione all’interno del sindacato di via Vaccari. Dopo aver “bisticciato a distanza”, Roberto Galvanin, membro del direttivo provinciale della Fiom Cgil, e il segetario vicentino Oscar Mancini si sono ritrovati fianco a fianco a manifestare. «Essere qui insieme dimostra che la Cgil è di nuovo unita», si rallegra Mancini, cui non era andata giù l’uscita di Galvanin, il quale, co-firmando un documento con altri “compagni” della sinistra Cgil, aveva criticato l’enfasi data dallo stesso segretario provinciale all’ipotesi referendum. «Oggi - osserva Galvanin - sono più vicino a Mancini. Quando si scende in piazza insieme non si può che essere più vicini. Peraltro, la nostra presa di posizione fa parte della dialettica democratica interna al sindacato - minimizza, respingendo l’etichetta di “dissidente” -. Quel documento l’ho firmato a titolo personale, non intendevo impegnare la Fiom anche se sono membro del direttivo. Ciò che mi premeva dire è che puntare tutte le carte sul referendum è rischioso, perché le scelte, alla fine, si faranno a Roma». La richiesta, in fondo, era di una forte mobilitazione popolare a tutto campo. E non è un caso che la Cgil si sia ritrovata coesa proprio nel momento della manifestazione di piazza, invero mai snobbata nemmeno da Mancini, che però la considera complementare all’azione pro-referendum. «L’unità non è solo locale - chiosa il segretario Mancini -. Proprio l’altro giorno, dopo la presa di posizione della Cgil veneta, anche la direzione nazionale ha approvato un ordine del giorno che sostiene la nostra linea che, oltre alla mobilitazione promuove l’azione a sostegno della consultazione popolare».

Chiara Garbin, consigliera di Forza Italia ma dirigente Ppe, delusa dal niet sulla nuova base Usa in via Aldo Moro
«Complimenti al sindaco per il teatrino»
«Ha esasperato gli animi in città. Non sono chiare le garanzie che ha avuto da Parisi»

Alla fine del consiglio comunale sul "via libera" al Dal Molin futura base americana, l’altra notte, il centrodestra si complimentava con se stesso («è andata bene, benissimo» gongolava l’assessore Claudio Cicero, uscito vincente dall’occhio del ciclone polemico; «Abbiamo chiuso secondo previsione» diceva il forzista Andrea Pellizzari, già due mesi fa il primo a chiedere e prevedere che finisse), il centrosinistra si leccava le ferite della preventivata sconfitta proiettandosi sull’ipotesi-referendum e a fare la parte della più arrabbiata di tutti era rimasta Chiara Garbin, forzista come appartenenza di gruppo, ma col cuore e la tessera del Movimento Ppe. Si era decisa, due ore prima, per un’astensione sul Sì alla base voluto dal sindaco e dal centrodestra, anziché per il No che pareva dovesse scappargli. Contava sulla possibilità di essere ricambiata con l’apertura di uno spiraglio sulla soluzione alla quale lei tiene di più: indicare come migliore ubicazione della grande caserma progettata dagli Usa lungo la zona di via Aldo Moro, presso la Ederle, come suggerito a palazzo Nievo dalla Provincia e dalla presidente Manuela Dal Lago. E invece "niet", del tema non si è trattato. Il giorno dopo, anziché esserle passata, la rabbia è diventata più forte. E l’esternazione è conseguente: «Mi scuso quale consigliere comunale di maggioranza per quanto accaduto. Trovo legittimo porre regole, se vengono presentate miriadi di documenti per paralizzare i lavori in aula o se sono contraddittori rispetto ad un giudizio già espresso. Non è ammissibile presentare ed applicare d’imperio questa regola, solo per evitare il confronto. Non condivido la strategia del sindaco che ha tentato di blindare con un provvedimento mai discusso con i capigruppo la decisione sul Dal Molin». E naturalmente le spiace che la sua proposta sia finita preventivamente nel cestino: dell’eventualità resta traccia, ma in via subordinata rispetto alla scelta sul Dal Molin, nel documento della maggioranza, come richiesto da Dal Lago e Lega Nord. «Penso che la nostra funzione sia anche quella di mediare tra la richiesta degli americani di riunificare la 173° Brigata e quella della città di avere il minor impatto ambientale possibile. Spiace - dichiara la consigliera - che il sindaco non abbia voluto tentare tutte le carte con il governo, rimarcando ulteriormente il forte impatto che l’insediamento avrebbe nella zona del Dal Molin, visto che da Roma non abbiamo nessuna concreta garanzia. Siamo sicuri che l’aeroporto rimarrà civile? Siamo sicuri che verrà risolta la viabilità? Secondo me era bene tenere aperto il discorso e chiedere ai comandi Usa di valutare zone meno impattanti. Sorge il legittimo dubbio che la scelta sul Dal Molin fosse già stata presa anche dal sindaco». Dopodiché, dichiarazione di guerra, con le argomentazioni che in parte diventano le stesse dell’opposizione: «Quali concrete certezze ha avuto il sindaco dopo aver incontrato Parisi? Non lo sappiamo ancora e la città chiede garanzie e non parole. Perché non indicare l’opportunità eventuale di via Moro? Io ci avevo provato ma il sindaco non ha dato la possibilità all’aula di esprimersi. Mi chiedo perché tutto questo teatrino durato ben cinque mesi: a questo punto si poteva votare prima. Complimenti, sindaco, per aver esasperato gli animi in città. E ai cittadini dico: mi dispiace».


Don Sandonà: «L’immigrazione è un fiume in piena, avere meno precari crea stabilità sociale»
«I clandestini a quota nove mila» La Caritas sfida l’emarginazione

di Eugenio Marzotto

Dall’indagine Caritas emerge una nuova immigrazione da est a ovest, piuttosto che da sud a nord. Cosa cambia sotto il profilo dell'integrazione? Sono cambiati gli equilibri dei flussi, ma l'immigrazione è come un fiume in piena, domani le proporzioni potrebbero cambiare di nuovo. L’integrazione poi non è uno "stato di natura" o una categoria dello spirito. Forse è più utile rappresentarla come un cammino, visto che si parte da posizioni diverse, nel quale l'appartenenza nazionale può contare, ma fino ad un certo punto. È indubbio che in molti casi con le persone di origine europea i punti di partenza sono più simili. Questo facilita molto le cose. Va anche detto però che le scelte individuali, gli atteggiamenti dei compagni di cammino, gli stessi italiani in questo caso, gli strumenti che sono a disposizione, penso alla scuola, contano molto, nel bene e nel male, e permettono che gli esiti non siano scontati. Istituzioni, enti locali e associazioni sono alla prese con diversi problemi, che decisioni strutturali servono per evitare un impatto violento tra due culture. Ma le culture non sono due. Non abbiamo gli italiani da una parte e dall'altra coloro che provengono da 50 e oltre nazionalità, come un corpo unico, magari pronto allo scontro violento. Abbiamo provenienze diverse, famiglie miste, non comunitari che sono diventati comunitari o lo diventeranno presto, come i rumeni, la prima comunità di stranieri del Veneto. Credo servano condizioni stabili di soggiorno in modo tale che uno non si senta precario. Poi vale la pena di rendere le persone immigrate protagoniste del destino della comunità più ampia in cui si sono inserite. Questa è una scelta che si fa dal basso, a livello locale. È lì che parte la sfida dell'integrazione. È lì che può affermarsi un modo non violento di esprimere i conflitti. Esiste una crisi di appartenenza dei cattolici rispetto alla coesione dei fedeli islamici? Non sarei così sicuro che gli islamici siano coesi. Ci sono riscontri di modi di vita molto secolarizzati e di scarsa frequenza ai riti, oltre alla storica pluralità di modi di vivere l'islam. Credo sia opportuno essere realistici nel valutare le dimensioni dei fenomeni e distinguere tra i timori, anche legittimi, e i dati di fatto. Certo è che il clima di confronto e conflitto, continuamente alimentato da modi integralisti di vivere la fede e amplificato non poco dai media contribuisce a dare molta identità e peso al fattore religioso delle persone. Credo, però, che per i cattolici, per i cristiani, non sia prima di tutto una questione di appartenenza, ma di fede e di annuncio, che per altro è annuncio a tutti gli uomini, non solo ai "nostri". E siccome l'annuncio si fa soprattutto con testimonianze di vita, spero davvero che il confronto con altre fedi contribuisca a mettere in crisi le coscienze dei cristiani. Quasi 90 mila immigrati regolari in provincia di Vicenza, ma esistono stime su quanti siano gli irregolari, senza permesso di soggiorno? Posso provare a dire che siano i 9 mila per i quali sono state avanzate domande di ingresso dall'estero, tenuto conto che va detratto un certo numero di persone che sono davvero all'estero e aggiunto un certo numero di persone per la quali nessuno ha presentato domanda. Sono calcoli approssimativi, ma credo di non essere distante dal vero. La proposta Amato prevede cinque anni di permanenza regolare per poter far domanda di cittadinanza. Sono pochi o giusti? Ma la cittadinanza è solo un problema di numero di anni? Abbreviare il periodo significa rendere più vicino l'obiettivo e può essere senz’altro una buona cosa. D’altra parte 5 anni era il requisito in vigore in Italia dal 1912 al 1992, non è mica una novità, ed è pure il requisito previsto in altri Paesi dell’Ue. A dire il vero, per l'iter burocratico attualmente previsto, a quegli anni va aggiunto il numero di anni necessari allo svolgimento della pratica, che oramai è quasi di altri tre. A noi pare, tuttavia, che non sia tanto un diritto da legare in modo automatico ad una misura cronologica (4,5 o 10 anni di permanenza in Italia) quanto piuttosto un diritto da riconoscere a fronte di una precisa volontà, oggettivamente verificabile, nel soggetto richiedente. Non si tratta di "colonizzare" ma di esigere almeno il rispetto di quella misura minima di coscienza civica. In altre parole ci pare che la cittadinanza italiana potrebbe essere riconosciuta dopo che la persona immigrata e regolare abbia, oggettivamente, la conoscenza dell'assetto costituzionale e culturale dell'Italia e la volontà di rispettarlo e di parteciparvi.

Africa addio, il nuovo immigrato ora arriva da est
Nel rapporto veneto “Migrantes” è la comunità serba la più numerosa della provincia

Novantamila immigrati, nuovi arrivi dall’est europeo, un calo sensibile della presenza di donne straniere e asili pieni di bambini extracomunitari. È la sintesi vicentina del rapporto sull’immigrazione della Caritas che mercoledì scorso ha presentato i dati relativi al 2005, sulla presenza immigrata in Italia, nel Veneto e nelle singole province. Dati che non si scostano di molto da quelli della questura di Vicenza e che mettono la nostra provincia al sesto posto in Italia per presenza di immigrati residenti. Se si scava dentro numeri e statistiche però, ci si imbatte in una realtà complessa e che impatta sulla società vicentina sotto tanti punti di vista. Dall’occupazione, alla scuola, dalla religione, all’ordine pubblico. L’obiettivo è unico ed è sempre lo stesso, quello dell’integrazione di fronte a masse di genti che si spostano da sud a nord e da est a ovest, sradicando equilibri e storiche convivenze. È toccato anche a Vicenza. E per analizzare una presenza diventata strutturale già da dieci anni, abbiamo chiesto al direttore della Caritas diocesana, don Giovanni Sandonà, quanto e cosa manca per giungere ad un punto di equilibrio.


Allo scadere dell’ordinanza comunale, spariti camper e roulotte
Strada Nicolosi, i nomadi si sono “autosgomberati”
Dopo cinque anni, il primo risultato contro il campo abusivo

(g. m. m.) C’era un velo di nebbia, ieri mattina, a nascondere i campi di strada Nicolosi. Ma dentro la foschia, non c’erano più né camper, né roulotte, né donne, uomini e bambini rom. Dopo cinque anni, il campo abusivo occupato da un clan di nomadi è stato sgomberato. Anzi, per la verità, si sono autosgomberati. Degli Halilovic da un paio di giorni non c’è più traccia: l’accampamento oltre la cancellata è svanito. Sul prato pochi resti: tappeti, i segni dei pneumatici, l’erba gialla che stava sotto le baracche di legno e latta. Sembra persino ordinato, ora che non ci sono più la sporcizia, gli escrementi, la spazzatura che hanno guastato per anni la vita di chi abita in quel lembo di capoluogo, fra Anconetta e Monticello Conte Otto. Il vicesindaco e assessore alla Sicurezza, dopo aver trangugiato l’amaro calice delle polemiche, degli smacchi al Tar e delle interrogazioni in consiglio comunale, canta vittoria: «L’ordinanza ha avuto effetto. Se ne sono andati di loro spontanea volontà. Questo dimostra che con fermezza costanza si possono ottenere risultati». L’ordinanza a cui fa riferimento Sorrentino era stata firmata quindici giorni fa dal sindaco Enrico Hüllweck. Dopo lunghe insistenze, Sorrentino era riuscito a ottenere che a monte del provvedimento urgente ci fossero motivi di igiene e sanità. La scadenza dell’ultimatum comunale era fissata per mercoledì: se non fosse stata rispettata la disposizione del Comune a sgomberare l’area regolarmente acquistata dai rom, ma abusivamente occupata a fini abitativi, sarebbe scattato lo sgombero coercitivo. «Lo avremmo fatto di sicuro, non se ne poteva più», afferma Sorrentino. Andandosene di spontanea volontà, gli Halilovic hanno però tolto dal fuoco una patata bollente: la gestione dei minori, che in caso di sgombero coatto sarebbe ricaduta sulle spalle dei servizi sociali comunali, con evidenti problemi. D’altra parte, proprio le condizioni in cui erano costretti a vivere i bambini è stata la molla che ha fatto partire l’operazione: «Non è accettabile - aveva detto il vicesindaco, che aveva presenziato al sopralluogo a sorpresa della polizia locale con il comandante Cristiano Rosini - che nel 2006 dei bambini siano costretti a vivere senza bagno, riscaldamento e un tetto». «Avevo promesso ai cittadini che entro l’anno il campo sarebbe stato liberato e così è stato - conclude -. Ora vigileremo perché il problema non si ripeta».