Dolcetta, la scommessa Fiamm
«La prima responsabilità è per l’impresa
Fallire sarebbe veramente drammatico»
di Eugenio Marzotto
«Lo stabilimento di Almisano avrà un futuro se si rimette in moto tutto il sistema Paese. La nostra è stata una scommessa». E ancora: «Non esiste responsabilità sociale dell’imprenditore, se prima un imprenditore non pensa allo sviluppo della sua impresa. Per una multinazionale come la nostra i lavoratori vicentini vanno salvaguardati quanto quelli americani, cinesi o cecoslovacchi».
Giulio Dolcetta, presidente Fiamm, parla a ruota libera dopo il faticoso accordo trovato con il sindacato che prevede la riduzione del personale di 130 unità in due anni a partire dal marzo 2006 e la produzione di batterie e trombe auto nello stabilimento unico di Almisano. Adesso la bozza dell’accordo firmata giovedì notte passerà al vaglio dei dipendenti che nell’assemblea di martedì avranno l’ultima parola.
- Presidente come giudica l’ipotesi d’accordo approvato da Fiamm e sindacati?
«Positivo. Come sempre in questi casi è stato il frutto di una disponibilità delle parti per arrivare ad una soluzione accettabile. È stata una trattativa difficile perché le logiche economiche mondiali sono ineluttabili, la competizione internazionale obbliga a delle scelte. Alla fine abbiamo cercato di trovare il minor impatto sociale, che comunque rimane con i 130 esuberi, ma era il prezzo minore da pagare pur di mantenere la produzione nel Vicentino».
- A cosa ha dovuto rinunciare la Fiamm?
«Ad una delocalizzazione importante. Abbiamo invece puntato sui clienti europei, mentre il resto del mondo verrà fornito da altri siti Fiamm. Poi abbiamo rinunciato allo stabilimento di Montecchio, del resto passare da due a un solo sito produttivo significa abbattere i costi enormemente. Per noi si tratta di una scommessa che vinceremo se tutto il sistema paese cambia registro. Oggi l’Italia non è competitiva a livello mondiale e non è solo agendo sulla leva del costo del lavoro o del salario che usciremo dalla crisi. Bisogna guardare al costo per unità di prodotto e investire sulle infrastrutture».
- Qual è stato il momento in cui avete capito che si poteva trattare e tornare indietro dall'ipotesi di delocalizzare tutto e licenziare 420 persone?
«La trattativa è iniziata perché abbiamo avuto l’impressione che si potevano toccare questioni che prima era impossibile affrontare. Dal punto di vista numerico la soluzione iniziale era la più vantaggiosa per l’azienda, ma strada facendo abbiamo ritrovato una consapevolezza del sindacato che ha capito che la situazione era grave ed ha accettato di confrontarsi su questioni che solo due anni fa non avrebbe affrontato. In due anni è cambiato il clima generale, la crisi mondiale, il deficit italiano e credo che anche il sindacato abbia capito che le condizioni fossero diverse. È cambiato il mondo ed è cambiato anche il sindacato».
- Quanto è stata importante la mobilitazione della gente, culminata con l’intervento del vescovo Nosiglia?
«Quando il vescovo è intervenuto avevamo già deciso di trattare. Ho rispetto per l’opinione pubblica, ma il mio dovere è quello di guidare l'azienda e se non si salva l'impresa non ce n’è per nessuno. I contatti con il sindacato, attraverso la Provincia, non sono mai mancati».
- E la responsabilità sociale richiamata dalla Chiesa?
«Non serviva che ce lo dicesse il vescovo, avevamo tutti presente l’impatto sociale di una vertenza come questa. Lo ripeto, la prima responsabilità è verso l’impresa, se fallisce l’imprenditore le conseguenze generali sono drammatiche. Un capo d’impresa come la Fiamm che ha stabilimenti in varie parti del mondo, ha una responsabilità non solo sul territorio vicentino, ma anche su quello americano o cinese. Lì lavorano altri dipendenti che hanno le stesse priorità di quelli vicentini. Viviamo in un mondo globale».
- Ora quali sono le prospettive dello stabilimento unico?
«Ad Almisano dobbiamo dimostrare tutti insieme di avere una gestione intelligente, per fare di quella fabbrica un modello di competitività. Ma l’Italia deve reagire. O diventiamo un paese di immobiliaristi o si trova un modello alternativo che produca ricchezza, puntando su industria o servizi avanzati».
- Cosa si sente di dire a quelle 130 persone che lasceranno la sua azienda?
«Che faremo l'impossibile, con l’aiuto delle parti sociali, per aiutarli sia sotto il profilo economico che nella ricollocazione in altre aziende».
Le tappe
Dai 420
posti
a rischio
ai 130
esuberi
-Il 26 maggio alle 18 la Fiamm annuncia al sindacato di voler trasferire tutte le produzioni di Montecchio e Almisano in Cekia e Cina, licenziando 420 operai. Il giorno dopo inizia il picchetto davanti ai cancelli dell’Fca di Montecchio. I lavoratori non fanno passare camion per settimane.
-Si mettono in moto tutte le istituzioni, dal Comune alla Provincia che da subito interpella anche il Governo, coinvolgendolo nella crisi Fiamm. Nei primi giorni di giugno si susseguono prese di posizioni e interventi pubblici.
-Il 4 giugno il vescovo incontra i lavoratori davanti allo stabilimento di via Gualda a Montecchio. Nosiglia richiama l’azienda alle responsabilità sociali dell’impresa e al diritto al lavoro.
-Tre giorni dopo la notizia che l’azienda vuole riaprire le trattative. È la Provincia ad annunciarlo, dopo una serie di incontri con le parti per riavvicinare Fiamm e sindacato.
-Venerdì 24 alle 3 di notte, arriva la firma dell’accordo. Unico stabilimento ad Almisano e 130 esuberi che inizieranno dal marzo 2006.