Alberto Maria Rigon sfrutta la laurea ed il master per aiutare i disperati. «I Paesi sviluppati si disinteressano del dramma»
A dieci anni dal genocidio che ha sconvolto il Rwanda c’è qualcuno che dà una mano «Abbiamo avviato il progetto “bambini di strada” e adesso c’è una squadra di calcio»
1 milione di morti 250 mila donne violentate, due milioni di sfollati interni e due milioni di profughi. Oggi in questa terra disseminata di ossari, 120 mila detenuti per crimini legati al genocidio affollano le carceri
«Il paese ha sete di giustizia ma questo sarà possibile dimostrando onestà storica nella lettura dei fatti e riconoscendo la complessità di un evento su cui fino ad ora non vi è stata sufficiente imparzialità»
di Maria Porra
In Rwanda con un “Casco bianco” per cercare di capire la situazione attuale del paese dalle mille colline nella regione dei Grandi Laghi, dove dai giorni degli scontri tra Hutu e Tutsi si è giunti al tempo del silenzio. Sono trascorsi dieci anni dall’immane tragedia che ha colpito il Rwanda tra l’aprile e il luglio 1994. Uccisioni di massa, stupri collettivi, torture. Un milione di morti in tre mesi, mentre il mondo guardava dall’altra parte. I superstiti di quel tremendo genocidio non hanno ancora la garanzia del rispetto dei diritti umani e a tutt’oggi le grandi potenze continuano a tacere.
È tra quella gente, proprio nel cuore ancora malato dell’Africa, che opera da un anno il thienese Alberto Maria Rigon, con alle spalle una laurea in scienze delle tecnologie alimentari ed un master sulla cooperazione internazionale nelle aree rurali. Ha scelto di svolgere il servizio civile internazionale fra i “Caschi Bianchi” appoggiandosi alla Caritas di Padova, per contribuire allo sviluppo del programma di microcredito trasformato in microfinanza, e per accompagnare le numerose persone vulnerabili, come le vedove e gli orfani sopravvissuti al genocidio del '94. Una zona dove vi è lo strascico di un olocausto africano senza precedenti. E dove i bambini, per 10 centesimi di euro al giorno, badano al bestiame e rinunciano alla scuola.
«La bellezza del paesaggio fa da sfondo ad una situazione di estrema povertà e dolore - sostiene Alberto Rigon - non entro nei tristi particolari della sofferenza che queste persone vivono quotidianamente, ma voglio porre l’accento sulla indifferenza che pervade la nostra società. Di fatto i micro-progetti che stiamo seguendo sono vitali per molte persone, ma ho l’impressione che regni il disinteresse da parte dei paesi più sviluppati».
Rigon opera a Gisenyi, una città a nord-ovest del paese, al confine con il Congo. Lì cerca di realizzare interventi di promozione umana, sia di emergenza che di sviluppo. Molto del suo tempo l’ha dedicato al progetto “Microfinanza solidale per lo sviluppo” che inizia con la formazione dei beneficiari, prima dell’esborso del credito. Il programma favorisce la costituzione di associazioni al cui interno il rapporto di reciproca fiducia crea una valida garanzia. Attualmente usufruiscono del prestito 1.479 persone, per lo più piccoli commercianti e liberi professionisti (elettricisti, idraulici, dattilografi…) e in prevalenza donne che, grazie ai piccoli finanziamenti, possono proporsi al mercato, il cuore pulsante della città, dove nessuna categoria di persone resta ai margini.
È un modo concreto per lottare contro la povertà, per migliorare le condizioni sanitarie, sociali ed economiche dei beneficiari, seguendo il modello di Muhammad Yunus che per primo ha avviato il progetto di microfinanza in Bangladesh. In pratica si forniscono piccoli crediti a chi non può dare garanzie materiali, dando così la possibilità di avviare un’attività che altrimenti non potrebbe decollare. Piccole cifre, dai 10 ai 60 euro, che cambiano la vita. Ed è il clima di fiducia che si instaura all’interno delle singole associazioni a creare coesione e ad aumentare il capitale sociale.
«Abbiamo finalmente avviato anche il progetto dei “bambini di strada”, che ci sta molto a cuore - evidenzia Rigon - sono i figli del genocidio, emarginati, abbandonati, carichi di sofferenza, che cercano il modo per sopravvivere. Con loro abbiamo anche costituito una squadra di calcio. Fare progetti sui bambini di strada è come combattere una guerra casa per casa. Molti sono figli di donne violentate, appositamente per essere infettate, da persone malate di Aids». Secondo uno studio di “Avega”, l’associazione delle vedove del genocidio, il 70 per cento delle donne sopravvissute agli stupri, e molti dei loro figli, oggi hanno l’Aids.
Nella regione dei Grandi Laghi permane l’instabilità. Nonostante i tentativi di rinascita, il Rwanda deve quotidianamente fare i conti con il suo passato e attende ancora chiarezza. Il regime militare è in mano ai Tutsi mentre la popolazione è per l’86 per cento Hutu. E la riconciliazione fra le due etnìe appare difficile. Il futuro è minato dai disordini regionali, dalla povertà e dall’arretratezza delle strutture interne.
«L’indifferenza del mondo è stata lampante anche durante la commemorazione ufficiale del genocidio avvenuta il 7 aprile scorso allo stadio Amahoro di Kigali - fanno sapere Alberto Rigon e Michela Cimenti, anche lei volontaria per alcuni mesi a Gisenyi - i vari presidenti parlavano a circa 20 mila rwandesi, raccolti per commemorare quei tragici eventi, esprimendosi in lingua inglese. In realtà si rivolgevano al folto gruppo di telecamere, non certo alla gente che parla francese o kinyarwanda, soltanto l’1 per cento l’inglese».
«A metà maggio a Gisenyi c’è stata una grossa sparatoria tra soldati e ribelli - racconta Michela - il giorno dopo tutto era tranquillo, le donne passavano cantando “è la volontà di Dio” e la spiegazione ufficiale del fatto è stata “alcuni medicinali hanno preso fuoco”».
Gente fatalista in Rwanda, gente che ha fatto l’abitudine alla guerra.
Piccoli prestiti, piccole storie, grande speranza
(m. p.) Due significative storie di vita resa dignitosa da prestiti di “Microfinanza Solidale per lo Sviluppo”.
Jean Marie proviene da una famiglia di braccianti agricoli di Gisenyi, dove molte persone si dedicano ai piccoli traffici. Sposato giovane, Jean Marie comprava fagioli e tessuti a Goma in Congo per rivenderli a Gisenyi, ma non riusciva a pagare regolarmente l’affitto e spesso la sua famiglia era costretta a saltare i pasti. Dei suoi otto figli solo tre potevano andare a scuola. Dopo essere entrato nell’associazione Ubumwe (in kinyarwanda significa “insieme”) aderente al progetto di “Microfinanza Solidale"” ottiene il primo credito con cui riesce ad aumentare e reinvestire il capitale in piccoli traffici con Goma. Con il secondo credito, apre una piccola bottega di generi alimentari e più avanti, con i proventi della bottega e successivi crediti, affitta un chiosco dove vende bibite. In un anno ha ottenuto 6 crediti e rimborsato il 100% della somma. Attualmente manda cinque figli a scuola, paga l’affitto regolarmente e assicura il cibo all’intera famiglia. «Ora posso accogliere parenti ed amici perché ho qualcosa da offrire loro - dichiara soddisfatto - la mia vita sociale è decisamente migliorata».
Anastasie proviene invece da una famiglia di Gisenyi abbastanza agiata. Si sposa giovane ma durante la guerra è costretta a scappare in Congo.
Al suo ritorno trova la casa saccheggiata e la povertà. Decide allora di comprare un po’ di carbone e di venderlo al mercato di Nyacabungo. Dei suoi quattro figli uno muore a 21 anni perché mancano i soldi per curarlo. Entra nell’associazione Amahoro (in kinyarwanda significa “pace”), riceve il primo credito con cui amplia la propria attività. Al terzo credito riesce a pagare la quota associativa di una cooperativa di venditori di carbone all’ingrosso. Ora fornisce piccoli ristoranti e famiglie. Anastasie ha così migliorato le condizioni di vita della sua famiglia, paga regolarmente le tasse scolastiche dei figli, inoltre ha accolto due orfani in casa. È entusiasta del programma e ad ogni credito riesce ad acquistare, e quindi a vendere, più carbone.
LA STORIA
(m. p.) La tragedia rwandese è conseguenza della lotta tra due etnìe, gli Hutu e i Tutsi. Il Rwanda, che faceva parte del protettorato tedesco del Burundi, ottiene l’indipendenza nel luglio del 1962. Negli anni '63 e '64 sanguinosi scontri etnici provocano un vero massacro fra i Tutsi, molti dei quali si salvano fuggendo in Uganda. Nel '90 altra strage finché, nel '91, i Tutsi fuggiti in Uganda si organizzano militarmente e muovono guerra al Rwanda. Nel '93 si firmano i protocolli di pace, ad Arusha in Tanzania, che prevedono la divisione dei poteri tra le due etnie.
Ma il 16 aprile del '94 l’aereo del presidente rwandese Habyarimana, di ritorno dalla Tanzania, viene abbattuto da un missile. Il Rwanda precipita in un vortice di violenza e di follia ed inizia il massacro di Tutzi e Hutu moderati a cui la popolazione viene costretta a partecipare. L’Onu sottovaluta la gravità della situazione e prende tempo, gli Stati Uniti la ignorano e l’Operation Turquoise dei francesi arriva tardi. Il 16 luglio la fine della guerra è ufficiale.
Il bilancio? Un milione di morti, almeno 250 mila donne violentate, due milioni di sfollati interni e due milioni di profughi, su una popolazione complessiva di otto milioni. Oggi in Rwanda, terra disseminata di ossari, 120 mila detenuti per crimini legati al genocidio affollano le carceri. L’attuale presidente del governo di Unità nazionale della repubblica del Rwanda è Paul Kagame, rieletto con maggioranza assoluta.
Alberto Maria Rigon, intervenuto ad alcune manifestazioni di commemorazione del genocidio del '94 che si sono tenute nell’aprile scorso, ci scrive: «Sono passati dieci anni da quel 6 aprile, quando l’aereo, dove viaggiava l’allora presidente del Rwanda Juvenal Habyarimana, venne abbattuto in circostanze ancora poco chiare. Nei giorni seguenti il paese precipitò in una spirale di violenza che costò la vita a un milione di persone. Le cifre da capogiro non riguardano solo i morti durante il genocidio, ma anche le conseguenze che questo ha portato in un minuscolo paese di 27 mila chilometri quadrati. Milioni di profughi sia interni che esterni al paese, le epidemie di colera che lasciavano sulle strade centinaia di morti ogni giorno, le migliaia di prigionieri tenuti in condizioni disumane, molti dei quali aspettano ancora un giudizio, le vittime dell’Aids (malattia usata come arma dai genocidari), gli orfani, i bambini di strada... Ora il paese ha sete di giustizia e di pace, e questo sarà possibile solo dimostrando onestà storica nell’interpretazione dei fatti e riconoscendo la complessità di un evento su cui, fino ad ora, non vi è stata sufficiente imparzialità, né da parte dell’attuale classe dirigente ruandese né da parte della stampa internazionale, troppe volte generica e superficiale».