26 SETTEMBRE 2004

dal Giornale di Vicenza

A Campo Marzo "retata" anti-bivacco.
Alternativa Sociale e Fn:"Via da qui i campi nomadi".
Un thienese nell'inferno della sofferenza ruandese.

I controlli dei vigili urbani. Identificate ieri mattina 21 persone: due sono clandestini
A Campo Marzo "retata" anti-bivacco
Scatta la multa per tre immigrati sorpresi a dormire nel parco: 50 euro a testa

Da tempo i vicentini, con lettere ai giornali ma soprattutto con segnalazioni al comando, si lamentavano del fatto che Campo Marzo è frequentato da clandestini e che molti di loro non rispettano la nota ordinanza del sindaco contro i bivacchi. I controlli compiuti ieri mattina dai vigili urbani hanno solo parzialmente confermato questa ipotesi. Dalle 9 alle 12, alcune pattuglie della municipale guidate dai colleghi della sezione di polizia giudiziaria col tenente Chemello hanno controllato le persone che giravano per Campo Marzo e i giardini Salvi. Una verifica, di natura preventiva, che verrà ripetuta oggi pomeriggio. Complessivamente, sono stati identificati in 21 fra liberiani, albanesi, ucraini, cingalesi, indiani e italiani. Due indiani, Singh Guruindem, 31 anni, e Kamal Kumar, 35, non avevano i documenti in regola e pertanto, dopo essere stati fotosegnalati al comando di contrà Soccorso Soccorsetto, sono stati accompagnati in questura per l’espulsione dal territorio nazionale. Tutti gli altri erano in regola. I due indiani, insieme ad una terza persona, stavano dormendo con tanto di coperte in un angolo di Campo Marzo. I vigili hanno quindi contestato loro la violazione dell’ordinanza, che impedisce fra l’altro di bivaccare nelle zone verdi, di dormire sulle panchine, di lavarsi alle fontane e di sporcare in giro. Come prevede il documento firmato dal primo cittadino, la sanzione a loro carico è di 50 euro. Pur parziali, perché si riferiscono ad un controllo durato poche ore, i dati emersi dall’attività di ieri mattina confermano quelli della questura nelle verifiche dei mesi scorsi. E cioè che il numero dei clandestini è molto più basso rispetto a quello del 2003: la maggior parte degli utenti dei giardini lungo via Roma è in regola con il permesso di soggiorno, e fa di Campo Marzo un luogo di ritrovo. In merito al rispetto dell’ordinanza anti-bivacchi, è necessario attendere il responso domenicale. «Cara Giunta, non è forse il caso di rimuovere le panchine di Campo Marzo come ha fatto Treviso?». La provocazione viaggia in un’interrogazione che vede primo firmatario il consigliere comunale leghista Alessio Sandoli. Polmone verde e biglietto da visita all’uscita dalla stazione, il parco da tempo soffre di episodi di microcriminalità e di un diffuso degrado - lamenta Sandoli: «Con la bella stagione la situazione si è ulteriormente aggravata: numerosi extracomuntiari hanno fatto picnic, addirittura qualcuno con sedie e tavolini, c’era gente che passava le giornate sdraiata sulle panchine o sul prato e una volta finita la festa restava purtroppo la sporcizia». «Il problema - prosegue Sandoli - in altre città è stato risolto con coraggio e con soluzioni drastiche che hanno portato alla rimozione di panchine, come a Treviso e Varese, o alla chiusura delle aree verdi. Vicenza ha invece optato per un’ordinanza i cui risultati sono stati praticamente nulli». L’interrogante chiede quindi «se tale ordinanza sia ancora in vigore e se sia mai stata applicata, se sono mai state inflitte sanzioni amministrative e se sì quante, perché i vigili non intervengono mai per garantire il rispetto dell’ordinanza, se sia il caso di vietare il consumo di bevande alcoliche nelle zone verdi di Campo Marzo e giardini Salvi, visto che l'alcol è stato molte volte causa di risse e che bottiglie di vino e birra vengono poi abbandonate sul prato o sulle panchine».


Alternativa sociale e Fn: «Via da qui i campi nomadi»

(s. m. d.) Chissà se sono loro i deboli sfilacciamenti residuali del pensiero di Corradini, Prezzemolini e D’Annunzio. Chissà se sono loro gli odierni sopravvissuti di un nazionalismo sfibrato e sminuzzato dal prosieguo naturale della storia e che oggi riemerge in frammentate schegge ideologiche, in isolati don Chiscotte che si sforzano ancora di trasformare in protettive inferriate le sabbiose e cedevoli dogane aperte di un’Europa unita, multietnica, multireligiosa e multiproblematica. Certo è che quel banchetto di contrà Cavour organizzato ieri da “Alternativa sociale” in difesa dell’identità nazionale destava l’attenzione dei passanti che si fermavano e si informavano. Al centro dello stand, alfieri arrabbiati contro il mercato immigratorio spiegavano alla cittadinanza rischi e retroscena di un’attualità umana considerata un po’ troppo disordinata. «Difendere la nostra identità significa difendere anche le altre - spiega il portavoce provinciale Alex Cioni - e lo si può fare in vari modi: studiando una politica estera più adeguata o sostenendo maggiormente gli interessi dei lavoratori. Alemanno chiede stranieri stagionali per le nostre campagne: perché non ha pensato, invece, a tutti quei disoccupati italiani?». Ma mentre Cioni difende l’identità nazionale, c’è ancora chi ghigna sulla sua brutta storiaccia di driver-importatore di ragazze dell’est. Un passato paradossale, a quanto pare... «No - spiega Cioni - si trattò solo di calunnie, il procedimento nei miei confronti fu archiviato e fu pure comprovato che io non oltrepassai mai il confine nazionale, essendo in quel periodo sprovvisto di documento d’identità aggiornato». A vicentinizzare la mobilitazione, intanto, dall’altra parte del banchetto, ci pensa il segretario provinciale di Forza nuova Daniele Beschin, impegnato nella battaglia contro i campi nomadi locali: «Chiediamo lo sgombero immediato dei campi - spiega Beschin - non condividiamo il progetto di alcuni politici di legalizzare la presenza rom in città: questo significherebbe automaticamente stimolarne la condizione di illegalità, visto che questa gente per natura è nomade e non ha lavori, né fonti di reddito fisse. Dove prenderebbero i soldi per affitto e spese? Non solo: il disagio che già apportano con la loro presenza è comprovato da tanti cittadini esasperati da furti, schiamazzi e sporcizia» . Fn, in costante contatto con alcuni comitati di protesta, annuncia dunque una serie di iniziative “forti” per sensibilizzare la giunta comunale sull’emergenza.


Un thienese nell’inferno della sofferenza ruandese
Alberto Maria Rigon sfrutta la laurea ed il master per aiutare i disperati. «I Paesi sviluppati si disinteressano del dramma»
A dieci anni dal genocidio che ha sconvolto il Rwanda c’è qualcuno che dà una mano «Abbiamo avviato il progetto “bambini di strada” e adesso c’è una squadra di calcio»
1 milione di morti 250 mila donne violentate, due milioni di sfollati interni e due milioni di profughi. Oggi in questa terra disseminata di ossari, 120 mila detenuti per crimini legati al genocidio affollano le carceri
«Il paese ha sete di giustizia ma questo sarà possibile dimostrando onestà storica nella lettura dei fatti e riconoscendo la complessità di un evento su cui fino ad ora non vi è stata sufficiente imparzialità»

di Maria Porra

In Rwanda con un “Casco bianco” per cercare di capire la situazione attuale del paese dalle mille colline nella regione dei Grandi Laghi, dove dai giorni degli scontri tra Hutu e Tutsi si è giunti al tempo del silenzio. Sono trascorsi dieci anni dall’immane tragedia che ha colpito il Rwanda tra l’aprile e il luglio 1994. Uccisioni di massa, stupri collettivi, torture. Un milione di morti in tre mesi, mentre il mondo guardava dall’altra parte. I superstiti di quel tremendo genocidio non hanno ancora la garanzia del rispetto dei diritti umani e a tutt’oggi le grandi potenze continuano a tacere. È tra quella gente, proprio nel cuore ancora malato dell’Africa, che opera da un anno il thienese Alberto Maria Rigon, con alle spalle una laurea in scienze delle tecnologie alimentari ed un master sulla cooperazione internazionale nelle aree rurali. Ha scelto di svolgere il servizio civile internazionale fra i “Caschi Bianchi” appoggiandosi alla Caritas di Padova, per contribuire allo sviluppo del programma di microcredito trasformato in microfinanza, e per accompagnare le numerose persone vulnerabili, come le vedove e gli orfani sopravvissuti al genocidio del '94. Una zona dove vi è lo strascico di un olocausto africano senza precedenti. E dove i bambini, per 10 centesimi di euro al giorno, badano al bestiame e rinunciano alla scuola.
«La bellezza del paesaggio fa da sfondo ad una situazione di estrema povertà e dolore - sostiene Alberto Rigon - non entro nei tristi particolari della sofferenza che queste persone vivono quotidianamente, ma voglio porre l’accento sulla indifferenza che pervade la nostra società. Di fatto i micro-progetti che stiamo seguendo sono vitali per molte persone, ma ho l’impressione che regni il disinteresse da parte dei paesi più sviluppati». Rigon opera a Gisenyi, una città a nord-ovest del paese, al confine con il Congo. Lì cerca di realizzare interventi di promozione umana, sia di emergenza che di sviluppo. Molto del suo tempo l’ha dedicato al progetto “Microfinanza solidale per lo sviluppo” che inizia con la formazione dei beneficiari, prima dell’esborso del credito. Il programma favorisce la costituzione di associazioni al cui interno il rapporto di reciproca fiducia crea una valida garanzia. Attualmente usufruiscono del prestito 1.479 persone, per lo più piccoli commercianti e liberi professionisti (elettricisti, idraulici, dattilografi…) e in prevalenza donne che, grazie ai piccoli finanziamenti, possono proporsi al mercato, il cuore pulsante della città, dove nessuna categoria di persone resta ai margini. È un modo concreto per lottare contro la povertà, per migliorare le condizioni sanitarie, sociali ed economiche dei beneficiari, seguendo il modello di Muhammad Yunus che per primo ha avviato il progetto di microfinanza in Bangladesh. In pratica si forniscono piccoli crediti a chi non può dare garanzie materiali, dando così la possibilità di avviare un’attività che altrimenti non potrebbe decollare. Piccole cifre, dai 10 ai 60 euro, che cambiano la vita. Ed è il clima di fiducia che si instaura all’interno delle singole associazioni a creare coesione e ad aumentare il capitale sociale.
«Abbiamo finalmente avviato anche il progetto dei “bambini di strada”, che ci sta molto a cuore - evidenzia Rigon - sono i figli del genocidio, emarginati, abbandonati, carichi di sofferenza, che cercano il modo per sopravvivere. Con loro abbiamo anche costituito una squadra di calcio. Fare progetti sui bambini di strada è come combattere una guerra casa per casa. Molti sono figli di donne violentate, appositamente per essere infettate, da persone malate di Aids». Secondo uno studio di “Avega”, l’associazione delle vedove del genocidio, il 70 per cento delle donne sopravvissute agli stupri, e molti dei loro figli, oggi hanno l’Aids. Nella regione dei Grandi Laghi permane l’instabilità. Nonostante i tentativi di rinascita, il Rwanda deve quotidianamente fare i conti con il suo passato e attende ancora chiarezza. Il regime militare è in mano ai Tutsi mentre la popolazione è per l’86 per cento Hutu. E la riconciliazione fra le due etnìe appare difficile. Il futuro è minato dai disordini regionali, dalla povertà e dall’arretratezza delle strutture interne.
«L’indifferenza del mondo è stata lampante anche durante la commemorazione ufficiale del genocidio avvenuta il 7 aprile scorso allo stadio Amahoro di Kigali - fanno sapere Alberto Rigon e Michela Cimenti, anche lei volontaria per alcuni mesi a Gisenyi - i vari presidenti parlavano a circa 20 mila rwandesi, raccolti per commemorare quei tragici eventi, esprimendosi in lingua inglese. In realtà si rivolgevano al folto gruppo di telecamere, non certo alla gente che parla francese o kinyarwanda, soltanto l’1 per cento l’inglese».
«A metà maggio a Gisenyi c’è stata una grossa sparatoria tra soldati e ribelli - racconta Michela - il giorno dopo tutto era tranquillo, le donne passavano cantando “è la volontà di Dio” e la spiegazione ufficiale del fatto è stata “alcuni medicinali hanno preso fuoco”». Gente fatalista in Rwanda, gente che ha fatto l’abitudine alla guerra.

Piccoli prestiti, piccole storie, grande speranza

(m. p.) Due significative storie di vita resa dignitosa da prestiti di “Microfinanza Solidale per lo Sviluppo”. Jean Marie proviene da una famiglia di braccianti agricoli di Gisenyi, dove molte persone si dedicano ai piccoli traffici. Sposato giovane, Jean Marie comprava fagioli e tessuti a Goma in Congo per rivenderli a Gisenyi, ma non riusciva a pagare regolarmente l’affitto e spesso la sua famiglia era costretta a saltare i pasti. Dei suoi otto figli solo tre potevano andare a scuola. Dopo essere entrato nell’associazione Ubumwe (in kinyarwanda significa “insieme”) aderente al progetto di “Microfinanza Solidale"” ottiene il primo credito con cui riesce ad aumentare e reinvestire il capitale in piccoli traffici con Goma. Con il secondo credito, apre una piccola bottega di generi alimentari e più avanti, con i proventi della bottega e successivi crediti, affitta un chiosco dove vende bibite. In un anno ha ottenuto 6 crediti e rimborsato il 100% della somma. Attualmente manda cinque figli a scuola, paga l’affitto regolarmente e assicura il cibo all’intera famiglia. «Ora posso accogliere parenti ed amici perché ho qualcosa da offrire loro - dichiara soddisfatto - la mia vita sociale è decisamente migliorata». Anastasie proviene invece da una famiglia di Gisenyi abbastanza agiata. Si sposa giovane ma durante la guerra è costretta a scappare in Congo. Al suo ritorno trova la casa saccheggiata e la povertà. Decide allora di comprare un po’ di carbone e di venderlo al mercato di Nyacabungo. Dei suoi quattro figli uno muore a 21 anni perché mancano i soldi per curarlo. Entra nell’associazione Amahoro (in kinyarwanda significa “pace”), riceve il primo credito con cui amplia la propria attività. Al terzo credito riesce a pagare la quota associativa di una cooperativa di venditori di carbone all’ingrosso. Ora fornisce piccoli ristoranti e famiglie. Anastasie ha così migliorato le condizioni di vita della sua famiglia, paga regolarmente le tasse scolastiche dei figli, inoltre ha accolto due orfani in casa. È entusiasta del programma e ad ogni credito riesce ad acquistare, e quindi a vendere, più carbone.

LA STORIA

(m. p.) La tragedia rwandese è conseguenza della lotta tra due etnìe, gli Hutu e i Tutsi. Il Rwanda, che faceva parte del protettorato tedesco del Burundi, ottiene l’indipendenza nel luglio del 1962. Negli anni '63 e '64 sanguinosi scontri etnici provocano un vero massacro fra i Tutsi, molti dei quali si salvano fuggendo in Uganda. Nel '90 altra strage finché, nel '91, i Tutsi fuggiti in Uganda si organizzano militarmente e muovono guerra al Rwanda. Nel '93 si firmano i protocolli di pace, ad Arusha in Tanzania, che prevedono la divisione dei poteri tra le due etnie. Ma il 16 aprile del '94 l’aereo del presidente rwandese Habyarimana, di ritorno dalla Tanzania, viene abbattuto da un missile. Il Rwanda precipita in un vortice di violenza e di follia ed inizia il massacro di Tutzi e Hutu moderati a cui la popolazione viene costretta a partecipare. L’Onu sottovaluta la gravità della situazione e prende tempo, gli Stati Uniti la ignorano e l’Operation Turquoise dei francesi arriva tardi. Il 16 luglio la fine della guerra è ufficiale. Il bilancio? Un milione di morti, almeno 250 mila donne violentate, due milioni di sfollati interni e due milioni di profughi, su una popolazione complessiva di otto milioni. Oggi in Rwanda, terra disseminata di ossari, 120 mila detenuti per crimini legati al genocidio affollano le carceri. L’attuale presidente del governo di Unità nazionale della repubblica del Rwanda è Paul Kagame, rieletto con maggioranza assoluta. Alberto Maria Rigon, intervenuto ad alcune manifestazioni di commemorazione del genocidio del '94 che si sono tenute nell’aprile scorso, ci scrive: «Sono passati dieci anni da quel 6 aprile, quando l’aereo, dove viaggiava l’allora presidente del Rwanda Juvenal Habyarimana, venne abbattuto in circostanze ancora poco chiare. Nei giorni seguenti il paese precipitò in una spirale di violenza che costò la vita a un milione di persone. Le cifre da capogiro non riguardano solo i morti durante il genocidio, ma anche le conseguenze che questo ha portato in un minuscolo paese di 27 mila chilometri quadrati. Milioni di profughi sia interni che esterni al paese, le epidemie di colera che lasciavano sulle strade centinaia di morti ogni giorno, le migliaia di prigionieri tenuti in condizioni disumane, molti dei quali aspettano ancora un giudizio, le vittime dell’Aids (malattia usata come arma dai genocidari), gli orfani, i bambini di strada... Ora il paese ha sete di giustizia e di pace, e questo sarà possibile solo dimostrando onestà storica nell’interpretazione dei fatti e riconoscendo la complessità di un evento su cui, fino ad ora, non vi è stata sufficiente imparzialità, né da parte dell’attuale classe dirigente ruandese né da parte della stampa internazionale, troppe volte generica e superficiale».