Per i carabinieri il gruppo islamico sapeva usare ordigni chimici
di Ivano Tolettini
Una cellula terroristica in città che flirtava con Al Qaeda pronta a preparare attentati anche di tipo chimico. Il contenuto delle telefonate intercettate per i carabinieri del Ros e per la procura antiterrorismo di Venezia sono eloquenti. E gli inquirenti sono convinti che il covo guidato da Farid Gaad fosse molto pericoloso. Addirittura che potesse preparare ordigni chimici da usare contro obiettivi civili.
Una riprova? La telefonata del 5 ottobre 2005 in cui l’aspirante kamikaze Yamine Bourhama, 33 anni, che sarebbe stato arrestato di lì a pochi giorni dalla magistratura campana, conversando con Khaled As, 32 anni, gli dice che sta aspettando 100 bottiglie di “profumo” da Khaled Serai, altro algerino arrestato di lì a poco dalla magistratura napoletana.
Se per il gip Gallo con la parola “profumo” si potrebbe intendere non già una sostanza venefica, ma dello stupefacente da vendere e con il quale autofinanziare la cellula del fondamentalismo islamico eversivo, gli investigatori del Ros hanno una visione molto più netta. La cellula in sonno di Vicenza, dicono, era pronta a colpire sul finire del 2005, come già stava per accadere nel 2002. Se non avvenne fu per l’incisiva azione dell’apparato di intelligence che sconsigliò il gruppo salafita a proseguire i preparativi.
Sui questa lunghezza d’onda si è sintonizzato il ministro degli Interni Giuliano Amato, il quale ricordando che il gruppo vicentino era pronto a sbarcare in Medio Oriente per allinearsi con i terroristi di Bin Laden, ha ricordato che bisogna mantenere alta la guardia.
«È il chiaro segnale - spiega il dottor sottile - della necessità di mantenere grande attenzione per la presenza anche in Italia di gruppi organici al terrorismo di matrice integralista con mansioni non solo logistiche, ma anche di azione diretta».
Quindi ha aggiunto: «Abbiamo la certezza dell’esistenza di cellule terroristiche nel nostro Paese e questo ci deve indurre a compiere i massimi sforzi per tutelare la certezza dei concittadini».
Al contrario, la moglie di Farid stragiura che il marito non è un terrorista. «Aveva già deciso di vendere il call center di corso San Felice a Vicenza per tornare a lavorare nel Bresciano», spiega ai cronisti. Ma il giudice Gallo nell’ordinanza di custodia contro i quattro algerini accusati di terrorismo internazionale, scrive che Nabil Gaad il 23 gennaio di quest’anno si fece intercettare mentre fece «trapelare l’esistenza di un gruppo costituitosi con discrezione attorno al punto telematico di Vicenza ed aveva lasciato intendere che il phone center dovesse costituire meta di possibili attività illecite». Rispondendo alla domanda del proprio interlocutore Hamid Zougouari che gli chiedeva che cosa facessero nel negozio, Nabil disse: «Siamo rimasti lì e l’altro è rimasto dietro per vedere se veniva qualcuno».
Per il gip Gallo il linguaggio criptico dei due magrebini sta a significare che gli algerini in odore di appartenenza al gruppo salafita stessero controllando anche i propri connazionali temendo che si fosse infiltrata qualche spia.
Oggi e domani i fratelli Gaad, Khaled As e l’ideologo Alì Touati, tutti difesi dall’avv. Paolo Mele senior saranno ascoltati in carcere dallo stesso giudice per l’interrogatorio di garanzia.
«La loro posizione è difficile per il clima che si è alimentato - analizza l’avv. Mele - perchè il quadro delle prove, sotto l’aspetto tecnico, non mi sembra così circostanziato. Se poi entrano altre considerazioni di natura ideologica ci spostiamo su un piano diverso».
Ma i carabinieri del Ros del generale Ganzer già nell’inchiesta napoletana “Full Moon” avevano già raggiunto la certezza «dell’esistenza nella città di Vicenza di un’articolazione di sostegno al gruppo salafita per la predicazione e il combattimento jihadista».
I quattro arrestati, osserva il gip Gallo, «costituiscono una propaggine in Italia del gruppo salafita e l’appartenenza e l’inserimento in tale organizzazione integra la commissione del reato di associazione terroristica di stampo internazionale di matrice islamica». Alla difesa il non facile compito di smontare l’impalcatura delle prove che per il pm antiterrorismo Luca Marini è granitica. «A Vicenza c’era una cellula di Al Qaeda pronta a colpire», ha ripetuto venerdì a Venezia.
Layachi (Consiglio islamico): «Ma non siamo poliziotti»
«Se sono colpevoli
è un fatto grave»
«La comunità dovrà riflettere e raddoppiare i controlli»
di Giovanni Zanolo
«Nel caso in cui la magistratura dovesse dichiarare colpevoli i quattro algerini, allora i rappresentanti della comunità islamica del Vicentino dovranno fare anzitutto un esame di coscienza e, in seguito, come minimo raddoppiare l’impegno nel controllo interno».
Esordisce così, con una sincera quanto amareggiata ammissione di responsabilità, il presidente del Consiglio islamico della provincia di Vicenza Kamel Layachi, dopo la burrasca abbattutasi venerdì sulla comunità islamica vicentina in seguito alla notizia della possibile infiltrazione di quattro presunti terroristi arrestati venerdì. Ma subito dopo aggiunge: «Tuttavia sia ben chiaro: siamo una comunità religiosa, non un’agenzia investigativa».
Dichiarazione, questa, che potrebbe suonare come un colpo alla botte dopo uno al cerchio ma che, invece, prosegue l’algerino Layachi, avrebbe il solo scopo di «mettere ben in chiaro quali sono le finalità prettamente educative della comunità: formare una buona dirigenza islamica come unico e vero antidoto ad ogni terrorismo e fondamentalismo. Ovvero imam perfettamente integrati, che conoscano la lingua e i valori italiani, e che sposino la linea di dialogo e moderazione che il nostro Consiglio islamico porta avanti da anni».
Può veramente tale risposta rassicurare gli animi dei vicentini, ancora scossi dopo la doccia fredda che due giorni fa ha proiettato sulla “tranquilla” Vicenza l’ombra del terrorismo internazionale? «Noi facciamo il nostro dovere di educatori - ribadisce Layachi - non siamo poliziotti. Da sempre abbiamo cercato in tutti i modi di portare avanti, anche silenziosamente, moltissime iniziative di dialogo e informazione sull’Islam come religione di pace e apertura verso le altre religioni. Tutto ciò, purtroppo, non potrà mai assicurarci al cento per cento che qualche pazzo non riesca ad intrufolarsi. Noi facciamo il possibile. Se poi dovessimo avere anche il minimo sospetto su qualcuno, è evidente che è nostro obbligo riferirlo immediatamente alle autorità. Ma questo è un dovere che ha ogni cittadino in quanto cittadino e che non rientra nelle finalità della nostra comunità, che è e rimane una comunità religiosa».
Insomma, come dire che tra migliaia di persone, qualche “esagitato” potrà statisticamente sempre esserci. Se a ciò aggiungiamo inoltre che i centri di preghiera islamici hanno poco o nulla in comune con le parrocchie cattoliche (nell’Islam non esiste clero e, a detta dello stesso imam di Vicenza città Touhami, passano «migliaia di persone»), la sottesa accusa di negligenza nei controlli rivolta ai responsabili della comunità vicentina dovrebbe farsi meno pesante.
Eppure, in caso di colpevolezza dei quattro algerini, sarà ancora più difficile estirpare del tutto la domanda: come è stato possibile che nessuno abbia sentito o presagito nulla? Layachi, pur ribadendo ancora una volta l’impossibilità di un controllo totale (per lui personalmente impossibile, svolgendo la funzione di imam in molte località della provincia) ammette serenamente: «In caso di colpevolezza degli algerini, vorrà dire che si erano veramente ben nascosti. Sarebbe tuttavia un fatto davvero grave, che dovrebbe farci riflettere seriamente».