22 SETTEMBRE 2004

dal Giornale di Vicenza

I "prof" precari affilano le armi «Siamo stanchi»
«Nella rissa fummo morsicati alla schiena»
«Uccise, ma è legittima difesa»
THIENE.Una giornata con i senzatetto.
BASSANO.«Il mandante dell’eccidio non è mai stato scoperto»

Domani altra assemblea
I "prof" precari affilano le armi «Siamo stanchi»

di Anna Madron

Vogliono creare un movimento forte a livello locale, perché, dicono, «Roma è lontana e l'unico modo per farci sentire è passare attraverso la Regione». E così dopo l'assemblea di Mestre, dell'8 settembre, ora tocca a Vicenza dove il precariato della scuola si riunirà domani, alle 16 nell'aula magna dell'istituto Lampertico, per un incontro, l'ennesimo, in cui verranno affrontate le questioni ancora aperte. A livello economico le richieste sono precise e più volte discusse: il recupero dello stipendio dall’1 settembre e la retribuzione fino al 31 agosto di ogni anno oltre alla parità di diritti fra docenti a tempo determinato e indeterminato, incluso l'adeguamento dello stipendio agli anni di servizio con relativa ricostruzione della carriera. A livello occupazionale, invece, si chiede con forza l'immissione in ruolo sul 100 per cento dei posti disponibili; l'obbligo di reclutamento dei docenti dalle graduatorie permanenti per tutti quegli istituti paritari che godono, a qualsiasi titolo, di finanziamento pubblico; la sospensione di qualsiasi forma di reclutamento diversa da quella delle graduatorie permanenti e di merito oggi esistente, in contrapposizione alla bozza di decreto attuativo dell'art. 5 della riforma Moratti che prevede di riservare una quota del 25 per cento dei posti ai nuovi laureati specializzati A livello di graduatorie permanenti, invece, si fa presente che è urgente una maggiore stabilità delle graduatorie stesse, ripristinando la triennalità per i trasferimenti da una provincia all'altra. «Ogni anno infatti - spiega Alessandra Pranovi, esponente vicentina del Cip- gli insegnanti precari non conoscono la propria posizione in graduatoria, sia a causa della giostra normativa, che dell'afflusso sempre più numeroso di nuovi iscritti da altre province. Data la situazione di emergenza e l'entità numerica degli iscritti nelle graduatorie permanenti, si chiede il depennamento degli insegnanti già titolari di contratto a tempo indeterminato. Questi godono comunque della possibilità di cambiare classe di concorso utilizzando i passaggi di ruolo e cattedra previsti per i docenti di ruolo nella misura del 20 per cento dei posti annualmente disponibili». Il dito viene inoltre puntato sul governo che «in due mesi - osservano gli insegnanti a tempo determinato - ha modificato ben sette volte la normativa, dimostrando una oggettiva scarsa padronanza della materia. Per questo si chiede un maggior coinvolgimento delle associazioni degli insegnanti precari».
«In particolare - prosegue Pranovi - si richiede una revisione della legge 143-04 e della successiva 186-04, oltre all'eliminazione della super valutazione per le sedi di montagna, piccole isole e istituti penitenziari. Chiediamo anche la riduzione del tetto del punteggio dovuto ai corsi di perfezionamento e ai master che attualmente è pari a 30 punti. Ci rifiutiamo, infatti, di diventare fonte di entrate per le Università, costretti come siamo ad una corsa al perfezionamento nel patetico tentativo di non essere scavalcati dai colleghi».


Il processo per la colluttazione con arresti al call center di via Napoli lo scorso 2 giugno
«Nella rissa fummo morsicati alla schiena»
Terminate le testimonianze di vigili e poliziotti. A dicembre la sentenza

Il vigile urbano Moreno Fabris e il poliziotto Massimo Baron confermano la linea dell’accusa: «In via Napoli fummo aggrediti quando cercammo di identificare la signora Beatrice, gestrice del call center, e a quel punto scoppiò il parapiglia, con calci, pugni e tentativi di morsicature». Si concluderà il 16 dicembre il processo per la zuffa nel call center di via Napoli del 2 giugno scorso, costato l’arresto a quattro nigeriani. Sul banco per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni gli imputati Beatrice Okenwa, il marito Kenneth Okafor, il cognato Kingsley Okafor e Jerome Okenwa, difesi dall’avvocato Francesca Bargelloni e Masssimo Rizzato. I vigili, invece, si sono costituiti parte civile con l’avvocato Cesare Dal Maso. In aula anche l’avv. Marco Benvenuti di Roma, legale dell’associazione “Acops”, perché il caso ha assunto connotazioni politiche, sebbene il giudice voglia valutare i fatti per come sono avvenuti, lasciando fuori dalla porta per quanto possibile le implicazionio sociali.
«Abbiamo scritto al sindaco di Vicenza - ha spiegato Benvenuti - e la risposta non è stata certo elegante». Sul banco degli imputati c’era Beatrice Okenwa, molto tranquilla e a tratti sorridente, rispetto a come dev’essersi presentata - visti i racconti dei tutori dell’ordine - quel 2 giugno in cui si trasformò in una sorta di "tigre" che mulinava le mani e gridava come un ossessa. «Nella rissa sentii un morso alla schiena e urla inquietanti», ha ricordato un agente che partecipò alla colluttazione. Fabris e Baron hanno risposto alle domande del pm onorario Giuseppe Cracco, ricordando che il controllo si era trasformato in un’aggressione. L’avv. Bargelloni, alle prese con un processo in salita, ha cercato di capire se erano proprio necessarie le modalità di identificazioni della donna, la quale era conosciuta dai vigili e pertanto il trattamento al quale sarebbe stata sottoposta era un po’ troppo zelante. Ma calci e quant’altro all’indirizzo di vigili e agenti ci sono stati. L’udienza conclusiva il 16 dicembre.


«Uccise, ma è legittima difesa»
L’avv. Fragasso, difensore del poliziotto indagato per omicidio colposo Il tragico assalto finito nel sangue ad aprile

di Ivano Tolettini

L’ispettore Marco Borello spara contro il furgone bianco guidato da Adriano Meggiorin che sta cercando l’improbabile fuga. Il veicolo era appena stato circondato dalla polizia che lo braccava da giorni. Tre rapinatori, Achille Pozzi, Massimo Castelli e Andrea Vasti, si sono già arresi mentre il quarto, appunto Meggiorin, perde la testa, accelera e va incontro alla morte perché non si rende conto che la zona è circondata. I poliziotti, temendo di essere travolti, non escludendo che il fuggiasco potesse anche essere armato vista la sua obiettiva pericolosità, sparano dapprima in aria e poi verso il mezzo. Il colpo mortale, quello che raggiungerà il pregiudicato padovano di 47 anni alla schiena, è esploso a distanza ravvicinata, fora la carrozzeria, viene deviato e lo colpisce all’altezza del cuore. «C’è stato l’uso legittimo delle armi e siamo anche in presenza di una legittima difesa», spiega il difensore Emanuele Fragasso junior. Ieri mattina davanti al giudice Eloisa Pesenti è stata discussa la perizia balistica disposta lo scorso maggio per fare chiarezza sulla dinamica della tragica sventata rapina di Torri di Quartesolo. Era la mattina del 19 aprile quando dietro il municipio di Torri, a due passi dalle scuole, in un posteggio scattava l’ultima fase dell’operazione che avrebbe dovuto portare alla cattura della banda composta, tra gli altri, da ex sodali della Mala del Brenta. I malviventi stavano per compiere un assalto. Avevano le armi in un altro furgone. La Squadra mobile di Padova condotta dal vicequestore Giuliano fin dal 28 gennaio era sulle tracce del commando guidato da Achille Pozzi, specializzato in rapine a banche e uffici postali. Assieme agli agenti in trasferta ci sono i colleghi vicentini e di Venezia. Nulla viene lasciato al caso, anche se ancora una volta la realtà operativa si dimostra superiore a qualsiasi pianificazione a tavolino. Anche Bovoli, com’era conosciuto nell’ambiente della mala Meggiorin, era un rapinatore di lungo corso. Al suo passivo una vita segnata dal crimine. Per questo la mattina di lunedì 19 aprile quando sente nitido “alt polizia, siete in trappola" e vede comparire poliziotti in borghese e in divisa decide in un secondo la fuga perché teme una lunga detenzione. Il pm vicentino Alessandro Severi che conduce le indagini come “atto dovuto” l’indomani della sparatoria ha inviato avvisi di garanzia per eccesso colposo di legittima difesa e omicidio colposo ai cinque poliziotti che hanno aperto il fuoco. Essi, difesi dagli avvocati Fragasso Junior, Giorgio Gargiulo e Giovanni Morrone, penalisti del foro di Padova, hanno vestito gli scomodi panni degli indagati sebbene la loro posizione sia abbastanza delineata. La complessa perizia balistica consegnata nei giorni scorsi dai consulenti Montalbano e Benedetti ha verificato la pistola dalla quale è uscito il piombo che ha ucciso. L’arma è quella dell’ispettore Marco Borello, 29 anni, mentre sono scagionati i colleghi Michele Festa, Francesco Corvaglia, Piergiorgio Cimarelli e Fabrizio Giunta. Borello in tutto ha premuto il grilletto sette volte. In aula per la famiglia Meggiorin era presente l’avv. Renato Alberini, la quale ha preannunciato la costituzione di parte civile qualora si aprisse una fase processuale contro Borello. Per i quattro colleghi, infatti, i risultati della perizia balistica sono un atto di proscioglimento. Il fascicolo adesso tornerà al pm Severi che dovrà decidere che cosa fare prima che gli atti tornino al giudice Pesenti con le richieste di archiviazione o, ma è un’eventualità che appare remota, di richiesta di rinvio a giudizio. Perché difficile da credere? C’è un filmato dei momenti topici della tragedia, ripreso dalla Scientifica di Padova, che mostra la resistenza opposta ai poliziotti da Meggiorin. Il furgone sta filando via, con i poliziotti attorno, mentre viene aperto il fuoco.
«Il filmato è breve - spiega il prof. Fragasso -, il furgone fa una curva, si allarga e passa vicino all’ispettore (Borello, ndr). Si può sostenere che il veicolo punta il poliziotto. Il colpo sparato fa parte di una successione ed è esploso da chi vede la propria vita messa in pericolo. C’è un obiettivo uso legittimo delle armi e una difesa legittima. Chiederò l’archiviazione».


Una giornata con i senzatetto
La vita e la solidarietà dei "clienti" della mensa dei Cappuccini La cronista si trasforma in una barbona e passa alcune ore a fianco di chi fatica a rimediare due pasti al giorno. C’è l’anziano dalla pensione misera e il disoccupato che dorme dove capita: «Se non ci aiutiamo tra noi, è finita» Storie autentiche di disagio quotidiano Ma da esistenze ai margini della società emerge la vera sensibilità

di Alessandra Dall’Igna

Trasformata in una ragazza di strada per conoscere più da vicino i frequentatori della mensa dei Cappuccini. Il trucco e gli abiti vecchi mi aiutano, ma non so se sarò credibile, non so che cosa mi sarà chiesto per entrare. Scopro però che alla mensa nessuno chiede nulla: si entra e si ottiene un pasto caldo senza dover esibire “credenziali”. Gli altri ospiti mi fanno subito spazio in tavola e gentilmente mi offrono di dividere il cibo con loro. Minestra, insalata, carne e formaggio, caffè. Sicuramente non si tratta di nouvelle cuisine e qualcuno potrebbe avere da ridire. Ma loro no. Mangiano con gusto e rallegrano l’atmosfera con chiacchiere, risate, ironia e sarcasmo. Sembra proprio un pranzo di famiglia, e forse un po’ lo è. Qualcuno parla, tanto, qualcun altro tace. Io mi apro un po’ alla volta e al mio racconto, quello di una giovane finita su una strada per colpa di un uomo drogato, le persone si fanno tristi e poi arrabbiate, mi consolano dicendo che «il mondo è pieno di bastardi». Di fronte a me sta seduto un signore, nel vero senso della parola, in giacca e camicia nonostante il gran caldo. Ha ottant’anni ma non si direbbe, soprattutto quando con fervore mi spiega come chiedere il sussidio e farmi assegnare una casa popolare dal mio comune. Lo fa elencandomi leggi, norme, nomi di politici che a suo tempo si sono battuti per i più bisognosi. Alla fine si dispiace di non avere più gli “agganci” giusti, altrimenti avrebbe messo una buona parola per me e mi avrebbe sistemata nel giro di pochi giorni. La sua generosità mi commuove, soprattutto quando a fine pranzo mi tira in disparte e si offre di trovarmi un paio di pantaloni più decenti di quelli che indosso e mi dà dieci euro per comprarmi le sigarette. Chiaramente non accetto, ma continuo a chiedermi quante persone nelle sue condizioni avrebbero fatto altrettanto. Al mio fianco è seduto un ragazzo giovane, disoccupato e senza fissa dimora, segnato in volto da tutte le disavventure passate. Vive alla giornata e dorme dove capita, ma questo non gli ha tolto il buon umore e la speranza. Mi confida che ha voglia di partire, magari di andare all’estero dove poter ricominciare tutto da capo e rifarsi una vita. Qui non può, ormai non ha più legami con la famiglia e troppi sono gli errori che la società non gli perdona. Mi spiega che adesso abita da un suo amico, anche lui presente al pranzo. A dir la verità non è una casa vera e propria ma un edificio abbandonato, un po’ traballante e senza elettricità. Al mio sguardo scioccato i due ragazzi si mettono a ridere e mi tranquillizzano dicendomi che è sempre meglio della strada. Anche loro si offrono di aiutarmi e subito tirano fuori nome e numero di telefono di una loro amica che può ospitarmi almeno per un po’. Anche lei frequenta la mensa ogni tanto e sebbene non abbia un appartamento molto grande sono certi che mi accoglierà volentieri finché non troverò qualcosa di meglio. Non so che dire.
«Se non ci si aiuta tra di noi è finita - mi anticipa un signore di mezza età, con il fisico da ciclista e la parlantina sciolta - la vita è dura, basta sbagliare una volta e rimani segnato per sempre. Non capisco come le famiglie possano voltare le spalle ai propri figli, soprattutto quando sono giovani. Tra di noi si è formato un legame molto forte e quando qualcuno ha un problema tutti si danno da fare per trovare una soluzione». Sono sorpresa nel vedere con quanta disponibilità e comprensione queste persone si sono offerte di aiutarmi. In fin dei conti non mi conoscono, non mi devono dimostrare niente e soprattutto non ne hanno un guadagno. E mi accorgo che forse il punto è proprio questo. Nelle loro intenzioni non c’è nessun calcolo, nessun tornaconto. Lo fanno perché sanno cosa vuol dire trovarsi in mezzo ad una strada, senza soldi e senza legami. Sanno cosa significa avere gli occhi della gente addosso, sguardi carichi di timore e di giudizi. Non so quale sia il passato di queste persone e non so a che punto di esasperazione siano arrivati i loro cari per tagliare ogni rapporto con loro. Posso solo dire che a loro modo sono una famiglia. Di certo strana e non convenzionale, ma sicuramente molto più compatta, disponibile e comprensiva di tante altre.

Storie autentiche di disagio quotidiano
Ma da esistenze ai margini della società emerge la vera sensibilità

di Dennis Dellai

Belle storie, verrebbe da dire. Di bello, nel senso autentico della parola, forse c’è ben poco: storie di povertà, vite vissute in maniera impetuosa, una pensione che non basta per mangiare, come tanti cristiani, due volte al giorno. Eppure, se ci sforziamo di guardare oltre i lustrini e le vetrine messe a festa, al di là dei confini tracciati dall’era dei consumi, riusciremo a comprendere quanto di bello ci sia nell’ascoltare storie di vita raccontate da anime vere e non dai tristissimi figuranti da strapazzo dei reality show. Sono le storie raccolte alla mensa dei frati Cappuccini, dove ogni giorno viene servito un pasto caldo a chi il pasto non ce l’ha. Ogni giorno, puntuali, volti più o meno consumati dall’età, si ritrovano attorno ad un tavolo. C’è il pensionato alle prese con il caro-euro, il giovane che ha provato sulla sua pelle i disagi di un’infanzia difficile, l’uomo che non ha più la famiglia, e l’immigrato che per vivere dignitosamente si ricava un pasto gratis al giorno. Belle storie che abbiamo voluto ascoltare senza mediazione, evitando di far diventare chi le racconta personaggi da fiction. Abbiamo trasformato una nostra cronista, grazie al trucco e ad abiti adatti, in una ragazza finita sulla strada, dopo essere stata cacciata dal convivente drogato, e alla ricerca di un luogo capace di distribuire, oltre che un pasto, anche calore. Alessandra è entrata talmente bene nella parte da essere accolta come una del "gruppo". A dimostrazione che queste anime un po’ inquiete ma indiscutibilmente vere, sono altrettanto sensibili. C’è stato chi le voleva dare dei soldi per comprarsi da magiare, chi le voleva offrire una sistemazione per la notte presso un’amica, chi ancora le ha chiesto chi fosse l’uomo che l’ha trattata male per cercare di farlo tornare in sé. Belle storie, dunque, raccolte in una normalissima mattinata thienese, mentre in centro ci si preparava alla domenica, fra vetrine luminose, aperitivi di rito, messaggini e cotillons.


«Il mandante dell’eccidio non è mai stato scoperto»
Mario Dalla Palma fu testimone delle impiccagioni

di Roberto Cristiano Baggio

Quando s’avvicina il 26 settembre il cuore di Mario Dalla Palma s’incupisce. Il ricordo di 60 anni fa, un ricordo tragico e doloroso, si fa largo nei meandri della memoria e allora la commozione e la voglia di gridare prendono il sopravvento sul quel delicato filo dell’ironia che da sempre tesse le sue giornate. L’avvocato scrittore si chiude, diventa ombroso, caustico. A tratti intollerante. Quasi disperato. Aveva tredici anni, compiuti due settimane prima, una grande passione per il pattinaggio condivisa con l’amico Sabbadin, futuro primario del laboratorio di analisi dell’ospedale, e una simpatia per tre bellissime sorelle che abitavano all’imbocco della Valsugana. Con i pattini (le ruote le torniva il non dimenticato Molino nel suo sgabuzzino in piazza Terraglio) si lanciava in lunghe rincorse lungo viale XX Settembre. Le auto che transitavano per la larga via liberata dalle mura in una giornata si potevano contare su una mano. Solo bici e pedoni. La strada un’immensa pista, dove dar sfogo all’esuberanza ed alle pulsioni dell’adolescenza. Era il 26 settembre del 1944, il giorno più tragico per Bassano, il giorno in cui si consumava la barbarie nazifascista. Mario Dalla Palma vide giungere il camion con i «tosi» catturati sul Grappa. Padre Oddone Nicolini, in piedi, li benediceva ad uno ad uno. Pallido, tirato ma sorretto da una forza sovrumana dava l’ultimo conforto. Una parola, un abbraccio, un tremante segno di croce... Staccati i pattini, Mario Dalla Palma s’addossò alla chiesetta delle Grazie. Si fece più piccolo di quanto in realtà non fosse. E vide. A tredici anni divenne involontario testimone della tragedia. Pregò come non aveva mai fatto. Stordito dalla barbarie, incapace di comprendere quello che stava accadendo O meglio, non voleva comprendere. A tredici anni si pensa che il mondo sia bello, puro, incontaminato. Che la cattiveria e la ferocia non esistano. Quel giorno la sua vita fu segnata per sempre. Non c’è libro, fra quelli che ha scritto, che non riporti quella sanguinosa pagina. Il racconto biblico si ripete: Caino uccide il fratello. Sono passati sessant’anni. Mario Dalla Palma è forse l’ultimo testimone di quel 26 settembre tinto d’autunno e di dolore e quando l’anniversario s’avvicina piange.
«Ho visto impiccare i tosi» ripete in una sorta di litania che sa di rabbia, amarezza, sconforto. E poi s’interroga, senza trovare risposta. «Chi fu il mandante di quell’orrore?». Kesserling o qualche altro graduato tedesco, il temuto Perillo o un repubblichino vassallo dell’invasore teutonico? Lacerante la ricerca della verità. Una verità mai venuta a galla. Forse mai cercata sino in fondo. E la pagina della nostra storia è ancora da completare. Ci sarà mai qualcuno che riuscirà a scoprire e a scrivere ciò che veramente successe in quei giorni a Bassano, nella caserma dove erano stati ammassati i partigiani catturati in montagna, dove venne emessa la terribile sentenza di morte tramite impiccagione? Per cappio usarono il filo del telefono. Più resistente e sottile della corda. Trentuno giovani finirono sospesi dai rami dei lecci e dei lampioni lungo i viali più belli della città. Esalarono l’ultimo respiro, traformato in un rantolo di morte, fissando la montagna dove avevano cercato riparo, invocando il nome della mamma. Solo padre Oddone Nicolini a rincuorarli, a dar loro il coraggio di affrontare il sacrificio estremo con dignità, quella dignità che altri essere umani avevano calpestato e deriso. Passato l’orrore, finita la guerra, la liberazione portò un soffio nuovo. Un alito di speranza che si fece vento e che poi, anno dopo anno, si placò. Il tempo però rischia di tramutare il ricordo in oblio. Ma finché c’è Mario Dalla Palma a testimoniare quel 26 settembre del ’44, l’assassinio di quei 31 partigiani che anelavano a un mondo libero e solidale, a una giustizia giusta, al ripristino della democrazia calpestata dal fascismo, non sarà dimenticato né sminuito. Il vento, in settembre, riprende a soffiare.