22 LUGLIO 2006

Terrorismo, ora Vicenza ha paura + altri articoli.
Il bilancio slitta fino a settembre Fuoco incrociato su Tapparello
VALDAGNO.Marzotto, intesa sugli esuberi

Terrorismo, ora Vicenza ha paura
Il blitz ha creato allarme. «E una nuova base Usa può essere pericolosa»

di Diego Neri

«Qui qualcuno di pericoloso ci dev’essere. Negli ultimi anni, in quasi tutte le inchieste per terrorismo islamico Vicenza ci è sempre finita in mezzo. Eppure i musulmani ci sono dappertutto. No, forse è tempo di preoccuparsi». Nelle parole di Giovanni Bonato, che abita in via Boito e che ieri all’alba ha assistito fra l’assonnato e lo stupito al blitz dei carabinieri nel condominio al civico 53, si può riassumere un sentimento generale. Quello che i vicentini sono spaventati per i riflessi che possono avere in città le indagini dei Ros e per quello che le presunte cellule collegate ad Al Qaeda potrebbero arrivare a fare. E in questo un ruolo non secondario ce l’ha il dibattito sull’aeroporto Dal Molin agli americani. «Il call center qui non c’è più, saranno tre mesi - precisa Luisa Farinon, che abita a due passi dal negozio di corso S. Felice e Fortunato 272, dove fervono i lavori per aprire un kebab -. Francamente non posso dire di aver conosciuto i suoi gestori, ma di certo la gente che lo frequentava non era molto rassicurante. Ho visto macchine con targhe di mezzo mondo e brutti ceffi. Da qui a dire che sono terroristi ce ne passa, però...». Dello stesso avviso anche Marco, 23 anni, studente universitario di sociologia. «Mi ricordo di vecchie indagini, a Vicenza e in altre città. Si era fatto un gran clamore parlando di terrorismo, poi non era emerso nulla. Può essere che qui da noi si raccolgano soldi da inviare alle milizie, anche se a livello molto più basso rispetto a Bin Landen, ma non penso che qui abitino terroristi. Non vorrei che fosse tutta una montatura politica, adesso che c’è la guerra in Medioriente». Mohamed, marocchino, ritiene che molti algerini siano fanatici. «Abito da due anni in via Boito, e non mi hanno mai rivolto la parola. Sono un gruppo a sè stante, e sono molto fanatici. Mi fanno paura. Sono stato contento quando ho visto arrivare i carabinieri». Chi ha timore di attentati a Vicenza è invece Angela Dal Monte, 54 anni, che abita sempre in via Boito. «Non mi sono mai occupata di politica ma da qualche mese ho iniziato ad interessarmene. Credo che tanti extracomunitari covino la speranza di “civilizzare”, a modo loro, le nostre città, di cambiarle come vuole la loro cultura. Per questo ha paura di una nuova base americana, che farebbe diventare Vicenza una possibile meta di attentati. Ho l’impressione che non siano in molti a fare questi ragionamenti, e temo che dovremo farci i conti, invece». In via Mentana, in via Marcello e in via De Campesani, dove abitavano o avevano vissuto tre degli arrestati, sono in pochi quelli che riferiscono di averli conosciuti. «Un terrorista al primo sopra al mio? - si chiede intimorito un giovane che risiede in via Mentana 27 - Terrorista, sì, perché se i carabinieri l’hanno arrestato dopo anni di indagini qualcosa di sospetto deve pure avercelo. È pazzesco, chi poteva immaginarlo? Ho presente di vista Alì Touati, mi pareva uno molto tranquillo, casa lavoro e fatti suoi». «No, non posso credere ad una cellula terroristica a due passi dal bar dove vado quasi tutti i giorni - commenta Ivano De Napoli, davanti al bar “Al portegheto” di corso S. Felice -. Per carità, in quel call center entrava di tutto, il gestore era sempre lì e pareva un gran trafficone. Però bisogna andarci piano con le etichette: quello lì è uno spacciatore, quello là è un terrorista. Se non fosse vero, hanno la vita rovinata per sempre. Però fa impressione». È quello che dice anche Anna, 37 anni, impiegata che abita in via De Campesani. «Mi auguro solo che a Vicenza non accada mai nulla. Io non ce l’ho con gli stranieri, anzi, però mi accorgo che la gente comune ha già paura di loro perché sono diversi. Un po’ se la vanno a cercare, la fama di delinquenti che molti di loro hanno».

Sgominato un covo di Al Qaeda

di Ivano Tolettini
inviato a Venezia

La dottrina di Al Qaeda. I fanatici algerini del gruppo salafita erano pronti a seminare il terrore. Anche a Vicenza, magari contro un obiettivo militare come nel 2002, quando avrebbero voluto compiere un attentato terroristico suicida alla Ederle per lasciare il segno. Morti e sangue nel segno di Allah. Anche stavolta non sono entrati in azione perché in primavera si sono sentiti controllati (pensavano solo telefonicamente, ma non immaginavano via internet) dai carabinieri del Ros e, allora, hanno cambiato strategia decidendo di “impolverarsi” nel deserto. Avrebbero cioè voluto andare a combattere al fianco dei mujahideen di Bin Laden contro gli occidentali che vogliono diffondere la democrazia. Una “religione” nefasta, dicono nelle intercettazioni, nell’ottica di quello scontro di civiltà che per loro va alimentato col propellente del fondamentalismo. «Era un gruppo pericoloso, su questo non abbiamo dubbi, tanto che l’abbiamo arrestato», assicura il pm antiterrorismo Luca Marini, con a fianco il comandante della divisione antiterrorismo dei Ros Paolo Scriccia, incontrando i giornalisti a palazzo di giustizia a Venezia.
Call Center. Se il commando non è riuscito a partire per lo scacchiere mediorientale e immolarsi nella jihad globale è perché i suoi componenti sono stati arrestati ieri notte nel blitz coordinato dalla procura antiterrorismo di Venezia. Il capo della cellula vicentina Farid Gaad che fino a maggio aveva la sede operativa nel call center “Il mondo al telefono” di corso San Felice 272, era stato esplicito chattando via internet con il fratello Rabah domiciliato a Londra: «Ti hanno detto che c’è la resistenza combattente a Vicenza».
Operazione Numidia. È stata condotta da decine di militari dei Ros di Roma e Padova, con la collaborazione dei reparti operativi di Vicenza e Brescia. Quattro appartenenti al “gruppo salafita per la predicazione e il combattimento” sono stati arrestati su ordine di custodia cautelare firmato dal gip di Venezia Giandomenico Gallo. Le accuse ipotizzate parlano di associazione terroristica internazionale integralista e associazione per delinquere finalizzata al procacciamento e alla falsificazione di documenti. Con il denaro raccolto sarebbe stata organizzata una rete di solidarietà per i fratelli musulmani arrestati in altre indagini e per l’autofinanziamento del gruppo di ispirazione terroristica.
Arresti. A Vicenza le manette sono scattate in via Boito 53, nei confronti di Khaled As e a carico dell’ideologo del gruppo Alì Touati detto Alilù, difesi dall’avvocato Paolo Mele senior. Nel Bresciano, a Nuvolera, 15 chilometri dal capoluogo, sono stati bloccati Farid Gaad che aveva gestito il call center, e il fratello Nabil. C’è anche un quinto algerino ad essere stato catturato, ma a Reggio Emilia su fermo della procura di Napoli, è Alial Maandi, 31. Il comune denominatore è l’appartenenza al movimento salafita. I carabinieri hanno eseguito anche diciannove perquisizioni tra Vicenza e Brescia alla ricerca di materiale utile per disegnare quella mappa, presunta terroristica, che è stata messa in piedi nell’arco di qualche anno e di cui le intercettazioni telefoniche e telematiche sarebbero la riprova.
La rete. I salafiti arrestati ieri erano in contatto con i tre connazionali arrestati in Campania lo scorso autunno e, due di loro, sono indagati anche in questa inchiesta. Si tratta dell’espirante kamikaze Yamine Bouhrama, 33 anni, che per due anni visse nel Vicentino lavorando in una fabbrica di materie plastiche e Khaled Serai, 26 anni, entrambi attualmente detenuti per terrorismo.
Le prove. Erano in possesso di documentazione audiovisiva scaricata da internet con proclami che inneggiavano alla guerra santa e aggressioni alle truppe americane. Una propaganda apologetica per fare proseliti e di aperta esaltazione dell’attività del terrorista Al Zarqawi, di recente ucciso in un raid aereo. Ma anche, scrive il gip, la massima cautela quando parlavano per telefono usando un linguaggio criptico. Per non parlare del compiacimento, quando gli indagati parlavano e chattavano tra di loro o con connazionali, per le azioni terroristiche contro gli occidentali, come a Londra nel luglio di un anno fa. Allarmante, dicono gli inquirenti, sono i contatti con connazionali sottoposti a indagini per terrorismo, il continuo interessamento e la raccolta di denaro (zakat) per sostenerli quando arrestati e l’attività di propaganda nelle moschee. Anche se, con l’imam di Vicenza Touhami, non andavano d’accordo perchè troppo moderato. Infine, la compilazione e la vendita a immigrati di documenti fasulli. Ciascun elemento se preso da solo, scrive il gip Gallo, può avere tutt’altra spiegazione «che quella dell’appartenenza all’associazione terroristica, ma occorre considerare la loro valenza complessiva anche nell’ambito dei collegamenti con gli altri indagati». Per questo, dicono i carabinieri, i quattro algerini sono pericolosi e animati da rivalsa fanatica fino ad auspicare attentati dinamitardi nel nostro Paese.

L’avvocato vicentino in passato ha assistito anche altri nordafricani legati a gruppi islamici e accusati di attività terroristica
«Ipotesi gravissime, ma aspettiamo le prove»
La protesta del difensore Paolo Mele: «Non sono riuscito a parlare con gli arrestati»

di Alessandro Mognon

«In questo momento ne sapete più voi giornalisti, su questa storia, di me. Curioso no? Hanno già fatto una conferenza stampa e io non sono ancora riuscito a parlare con il mio assistito...». Subito la mette sull’ironico l’avvocato Paolo Mele senior, difensore di As Khaled, Gaad Fard e Gaad Nabil. Ma non si nasconde di avere a che fare con ipotesi di reato gravissime. Perché un’indagine per terrorismo potrebbe significare, tanto per capire, fino a 18 mesi di carcere preventivo «solo per motivi di sicurezza». «Non ho ancora in mano niente - continua Mele, già difensore in altre inchieste su presunti terroristi islamici -. Posso solo intuire che si tratti di un seguito della vicenda di Napoli (sempre arresti per terrorismo di matrice islamica nel 2001 e nel novembre scorso: ndr). Comunque confido nella serietà della Procura di Venezia, sono certo che ci sono elementi che giustificano questo comportamento. Visto che non solo, come dicevo, non sono riuscito a parlare con Kaled, ma non so nemmeno dove sia. Nel carcere di Venezia non lo hanno visto...». La preoccupazione di Paolo Mele è soprattutto una: «Se questa storia è legata al caso Napoli, bisogna andare cauti. È vero che c’è allarme, ma deve esserci fondamento nelle accuse. Senza contare che ci sono anche coinvolgimenti più ampi, vedi le operazioni militari dell’Italia all’estero. Comunque dovremo vedere caso per caso, e se la gravità delle imputazioni riguarda tutti gli indagati o solo alcuni. Ricordo solo che a Napoli l’80 per cento delle persone coinvolte era finita nell’inchiesta per questioni di opinione. Che non significa atti di terrorismo». Intanto nelle intercettazioni telefoniche As Kaled e Alì Touati se la prendono con l’imam di Vicenza Ouelhazi Touhami accusandolo di essere troppo morbido nei suoi insegnamenti e troppo critico nei confronti dei fondamentalisti islamici... «Cerchiamo di capire: troppo morbido per la causa religiosa o per motivi militari? Sono due cose diverse, una differenza importante. A parte questo, conosco bene l’imam, è una persona che stimo molto». Tutto da costruire, insomma, per Paolo Mele. «Non so ancora cosa abbiano fatto di preciso i miei assistiti - dice -. So solo che i reati sono molto gravi. Quello che conta è che i loro diritti vengano rispettati. Perché quello è il mio compito. Cosa farò se verranno accertate responsabilità gravi? Cercheremo di collaborare. Nel senso che loro dovranno decidere cosa fare, io posso solo consigliare al meglio e tutelare la loro posizione. E collaborare a volte è la cosa migliore». Troppo presto comunque per stabilire strategie: «Primo passo intanto è parlare con Kaled e gli altri. E poi subito dopo con il pm Luca Marini. Però una cosa proprio non capisco: perché fare una conferenza stampa subito dopo gli arresti? Per un caso così delicato, per me, era meglio il silenzio».

«Erano disposti a fare attentati»
Il pm Luca Marini ha coordinato l’inchiesta dei carabinieri

Venezia. (i. t.) «Perchè la cellula salafita a Vicenza? Perchè nel Vicentino c’è una delle più alte presenze di immigrati e perchè la comunità algerina è una delle più numerose. E poi ancora perchè a Vicenza c’è lavoro ed pertanto è agevole avere una copertura. Per tutti questi motivi c’era una rete di sostegno logistico costituita da uomini animati dalla jihad globale antioccidentale, pronta per realizzare azioni terroristiche. Su singoli attentati è difficile pronunciarsi, anche se a nostro avviso la cellula era a disposizione di Al Qaeda per compiere azioni marchiate dal terrore». Il sostituto procuratore Luca Marini è visibilmente soddisfatto. Glissa di fronte alle domande più insidiose. Ma è convinto che l’ordinanza del gip Gallo, che accoglie la sua ponderosa richiesta, resisterà al vaglio del tribunale del Riesame quando le difese vi faranno ricorso. «Quando pensiamo a una rete terroristica con cellule attive - aggiunge - non dobbiamo pensare a un’organizzazione con tanto di programma, bensì a gruppi di persone molto flessibili, coese sotto il profilo ideologico e della motivazione, attrezzate per eseguire attentati in tempi brevi, secondo gli input che ricevono dall’esterno». Il collegamento viaggia nella grande rete, su internet, tramite la quale si possono analizzare le stragie, ma anche grazie ad essa possono essere distrutte le cellule sul piano investigativo. Com’è avvenuto in questa occasione, visto che sono state migliaia le comunicazioni decrittate dai carabinieri. «Al call center di corso San Felice gestito da Farid Gaad - spiega il pm che si occupa anche di Unabomber - siamo arrivati lavorando sul fallito attentato del 2002 a Vicenza. Siamo risaliti al gruppo attuale perchè esso aveva contatti con individui che erano finiti sotto inchiesta a Napoli quattro anni fa. Pertanto i carabinieri dei Ros, ai quali va il mio apprezzamento per l’alto lavoro professionale che hanno svolto, hanno proseguito una serie di riscontri che hanno dato esito positivo. È stata un’indagine lunga e non semplice, anche perchè i soggetti coinvolti parlavano in arabo ed erano attenti a non esporsi». La cellula avrebbe assicurato il sostegno ai connazionali in difficoltà che condividevano il progetto della jihad con documenti fasulli e falsi contratti di lavoro forniti da una ditta di Brescia per favorire la regolarizzazione. «Gli indagati erano sicuramente collegati alla rete internazionale, come dimostra l’attività svolta tramite internet - conclude il dott. Marini -, ed erano partecipi di un’associazione sovversiva che operava nel Veneto ed era collegata a strutture attive in Campania e Lombardia. Si consultavano con i siti islamici che predicano l’intransigenza dei fondamentalisti e agivano sul piano della propaganda per fare proseliti».

I commenti
«Erano in Italia pronti ad agire»
Amato: «Operazione di grande rilevanza che ha sgominato una cellula eversiva»

«Erano pronti ad agire». Il ministro dell’Interno Guliano Amato non nasconde il rischio incombente, parlando dell’operazione “Numidia” «di grande rilevanza, con la quale è stata individuata e sgominata una cellula eversiva i cui componenti erano pronti a raggiungere l’Algeria e l’Iraq con compiti direttamente operativi». «È un segnale in più - sottolinea infatti - della necessità di mantenere la massima attenzione sulla presenza anche in Italia di gruppi legati al terrorismo con mansioni non soltanto logistiche ma anche di azione diretta». Dovere sul quale pone con decisione l’accento anche segretario provinciale della Lega nord Roberto Ciambetti. «Lottare contro le centrali che teorizzano lo jihadismo globale - spiega - è un’esigenza vitale. Non vogliamo criminalizzare nessuno, ma è certo che nel sottobosco della clandestinità e dell’immigrazione incontrollata si radicano e trovano il proprio humus forme di devianza, di malavita ordinaria come di delinquenza che s’ammanta di ideali politici o religiosi quando è solo banditismo: fare il vuoto attorno a questi banditi dovrebbe essere una priorità innanzitutto per le comunità di stranieri regolari che vengano da noi per lavorare onestamente». «Le forze politiche italiane - continua Ciambetti - non possono far finta di nulla, né essere complici indirette magari di chi attenta alla nostra libertà. Bisogna prendere provvedimenti drastici ed è quanto noi della Lega stiamo facendo, iniziando a regolamentare alcuni settori e attività dietro le quali, con eccessiva ricorrenza, si scoprono basi terroristiche o centri di copertura di attività illecite. Insomma, per i call center d’ora in poi bisogna usare un’attenzione particolare. Il medico pietoso non cura l’ammalato. Capire le ragioni di chi viene qui onestamente è un dovere; ma è un dovere anche difendere la cittadinanza da chi vuole fare della nostra terra l’obiettivo della jihad islamica. La cellula arrestata Vicenza potrebbe essere solo la punta di un iceberg mortale e le forze politiche non devono in alcun modo sottovalutare il caso»

«Dopo Londra ci sarà una festa più grande»
Dalle intercettazioni telefoniche e via internet il quadro inquietante dei rapporti tra complici

di Ivano Tolettini

Pagine di intercettazioni telefoniche e ambientali che fanno intravedere scenari inquietanti. Khaled As conversando con il presunto terrorista Yhamine Bohurama, che visse per due anni a Vicenza e ora è in carcere a Napoli da novembre, dopo l’attentato di Londra il 7 luglio 2005 gli disse: «Spero che in futuro ci sarà una festa più grande». Si parla anche di “ricorrenze” a proposito degli ordigni che colpirono la capitale britannica. Ma c’è anche il commerciante Farid Gaad, 37 anni, ritenuto l’elemento di maggior spessore della cellula scoperta a Vicenza, che il 18 novembre 2005 conversando col fratello Rabah di 24 anni a Londra che voleva prendere contatto con Khaled Searai, nel frattempo arrestato in Italia, gli disse: «Hai sempre corso con la bocca, come camminare e come parlare. Mi capisci? Avresti dovuto sapere chi era stato arrestato e chi invece rilasciato e pazientare per conoscere e capire l’intera vicenda». Una ramanzina vera e propria. Dunque, Farid manifesta apprensione per l’offensiva delle forze dell’ordine italiane. «Pensi che prendere in mano il telefono e chiedere in merito ai nostri fratelli sia una stupidaggine? Per quale motivo dovrei cambiare atteggiamento? Dobbiamo cambiare quando il vento cambia». Farid se formalmente cerca di prendere le distanze da Serai, adottando grande prudenza, qualcosa finisce per ammettere col fratello al quale spiega che si stanno prendendo iniziative per aiutare gli arrestati e viene captato dalle microspie: «Tu pensi che noi qui (a Vicenza, ndr) non ci siamo pure preoccupati di loro?» Il castello delle prove si fonda sulle intercettazioni ambientali, telefoniche e via internet. C’è il rischio che posizioni ideologiche, magari espresse con troppa enfasi, vengano equivocate dagli inquirenti e considerate per indizi terroristici? È una domanda che sia il pm Marini che il gip Gallo si sono posti, risolvendolo però nel senso accusatorio per la mole del materiale raccolto. Tuttavia, gli indagati passavano una parte importante del loro tempo a scandagliare le pagine del web con file dal titolo “Il terrorismo è un dovere” oppure “Come diventare un ordigno mobile”. Letture innocenti? A metà dicembre 2005 Khaled As da Vicenza mentre parla con Rabah Gaad a Londra dice: «Tutti i telefoni qui sono controllati. Te lo dirò chiaramente! Ci stanno intercettando i telefoni. Potresti dire “cuore di mandorle” e loro lo tradurranno in qualcosa di diverso. Se usi il computer, possiamo parlare su internet». Con gli accessi, come monitorano i carabinieri del generale Ganzer, ai proclami di Bin Laden e ad Al Zarqawi. E le chat saranno fatali a Farid conversando con il fratello. Questi, in terza persona, scrive al primo: «Riad gli ha chiesto se c’è qualche gruppo della resistenza a Vicenza». Farid risponde: «Ti hanno detto che c’è la resistenza combattente a Vicenza». Rabah lo incalza: «Come vanno i mujahideen lì?» Più avanti afferma: «Mi hanno detto che Al Zarqawi è arrivato lì». Ancora, riferendosi a un precedente arresto di connazionali a Vicenza: «Ti ha detto che hanno liberato gli ostaggi di Vicenza». La circostanza che si parli esplicitamente di mujahideen per gli inquirenti è un fatto preoccupante e grave. Nelle 148 pagine di ordinanza di custodia quelle dedicate alle intercettazioni telefoniche e via internet sono molte. Il quadro che ne esce per la “causa di Allah” è frastagliato. Per il giudice Gallo l’inchiesta che chiama in causa Vicenza è collegata agli altri gruppi eversivi di matrice confessionale islamica delle province di Napoli, Salerno e Brescia. Il gruppo salafita, alla quale appartengono tutte le cellule, ha una interpretazione molto rigida della Sharia, la legge divina contenuta nel Corano e nella Sunna. A tal punto da disegnare una rete con sostegno logistica di natura terroristica?

Il religioso che guida gli islamici vicentini veniva considerato dai quattro arrestati «troppo moderato»
Le ore difficili dell’imam Touhami «Paghi chi sbaglia, non la comunità»

(al. mo.) In qualche modo un premio, o meglio una conferma, per l’imam di Vicenza Touhami Ouelhazi. La conferma della sua posizione di esponente religioso moderato e anti-fondamentalista. Visto che nei colloqui intercettati fra due degli arrestati, As Khaled e Alì Toutati, la sua nomina è considerata negativa e l’imam viene criticato per la sua linea di rifiuto del terrorismo e dell’integralismo. «Un moderato? Sì, questa è la mia strada - dice Touhami -. E non guardo in faccia a nessuno». Khaled, Touati, Farid Gaad e Nabil Gaad: li conosceva? «No, al centro islamico circolano tante persone, forse duecento. Chi viene qui è gente semplice, lavoratori, che vogliono solo vivere in pace. Certo se loro parlavano di me e del centro, vuol dire che lo frequentavano. Ma io alla fine vedo migliaia di persone...». E il call center “Il mondo al telefono” di Farid Gaad? «Ci sono stato una volta, per telefonare. Che posso dire, mi sembrava un brav’uomo». Anche se l’imam per la religione islamica non riveste alcuna carica ufficiale, resta un punto di riferimento. Insomma non è un parroco ma rappresenta una figura autorevole. Parlerà con le famiglie degli arrestati? «Sì, penso di sentirle, ancora non si sa nulla di questa storia». Difende deciso la sua fama di moderato, Touhami: «Dobbiamo accettare tutti ed essere aperti a tutti, e il centro islamico va diretto come si deve, non come vorrebbe qualcuno. Senza scordare che siamo in un paese democratico, che lascia grande libertà religiosa, grazie a Dio». Ora però, dopo il blitz dei Ros, le cose potrebbero cambiare. Perché, insiste «si punta sempre agli islamici, ma non tutti i musulmani sono degli integralisti». Ma non aveva alcun sentore, l’imam di Vicenza? Nessun sospetto, nessuno gli ha mai parlato di gente che faceva strani discorsi o aveva idee troppo pericolose? «No, non potrei dire questo è un estemista e questo no, nessuno mi ha mai detto niente». E adesso, dopo questo ciclone giudiziario, cosa dirà alla comunità islamica? «Che se qualcuno ha sbagliato non bisogna far lo stesso, che ognuno pensa a modo suo e che bisogna restare uniti. E che chi fa del male deve pagare e anche caro». Ma Touhami Ouelhazi ricorda altre operazioni di polizia, altri arresti. E non è per niente convinto: «Non mettiamo dentro gli innocenti, questa non è democrazia. Il terrorismo è una cosa, l’islam un’altra. Finora nessuna delle persone arrestate negli anni scorsi è stata condannata. Io non posso dire nulla per gli altri, è chiaro. Ma bisogna aspettare le indagini». Cosa succederà adesso nella comunità musulmana vicentina? L’imam Touhami ha una paura: ritrovarsi circondati da un’atmosfera di diffidenza, essere guardati tutti con sospetto: «Lo so, il clima per noi peggiorerà. Pensare che siamo scappati da Paesi dove c’erano dittature e ora ci troviamo in questa situazione. Vogli dire, magari uno mi chiama al telefono, mi dice che deve consegnarmi qualcosa, mi registrano di nascosto e si scopre che quello è un terrorista. Cosa diranno, che ero d’accordo con lui?». Non nasconde la sua sofferenza, Touhami Ouelhazi. Per quello che sta succedendo, per quello che succederà: «Voglio dire alla mia gente di restare calma. E che c’è una giustizia».


Nuova impasse in Comune. L’opposizione è pronta a segnalare al prefetto il mancato rispetto dei tempi
Il bilancio slitta fino a settembre Fuoco incrociato su Tapparello

di G. M. Mancassola

Non si sono lasciati con l’augurio di buone vacanze, l’altra sera, i quaranta consiglieri comunali del capoluogo. L’ultima seduta prima della pausa è finita fra le urla, con Alleanza nazionale arrabbiata con Forza Italia e più ancora con sé stessa. Sullo sfondo, un bilancio consuntivo 2005 che viene rinviato a settembre, ben oltre il termine del 30 giugno stabilito dal Testo unico per gli enti locali; e una maggioranza in affanno, che non riesce a garantire il numero per rendere legali le sedute e che quando ci riesce si perde in sgambetti e ripicche. Proprio come accaduto l’altra sera, con l’aennista Giuseppe Tapparello che non ha accettato gli accordi sotto banco che una parte di Forza Italia stava cercando invano di concludere con Equizi (Gruppo Misto). Infuriato per un atteggiamento che a suo dire faceva venir meno «la dignità politica», Tapparello si è assunto la responsabilità di far mancare la sua presenza e quindi il quorum, con l’intento di denunciare quanto stava avvenendo in aula. Molti, però, non gli hanno creduto, a partire dal collega di partito e presidente del consiglio comunale Sante Sarracco, che lo ha aggredito, intimandogli un aut aut: «O te ne vai tu, o me ne vado io». «Non accetto - replica Tapparello - di sentirmi dire che sto tramando per far cadere l’amministrazione comunale, dopo che da anni mi faccio il mazzo per condurre la commissione Territorio». Gli osservatori più maliziosi, tuttavia, vedono proprio nella gestione della commissione l’origine del gesto di giovedì sera. Non sono un mistero le tensioni fra Tapparello e l’assessore all’Urbanistica Marco Zocca, successore di Maurizio Franzina, con cui Tapparello aveva ben altro feeling. Il fatto è che Zocca è anche assessore al Bilancio, così l’episodio dell’altra sera è stato interpretato come un’ulteriore prova dello scarso amore fra i due. Più o meno questa è anche la lettura data da alcuni esponenti di An, dove i vertici hanno preso le distanze dal comportamento di Tapparello, pur stigmatizzando anche le scelte di quella parte di FI caduta in tentazione. Non a caso, da giorni il presidente della “Territorio” era stato messo sull’avviso, in particolare da quando aveva ingaggiato uno scontro istituzionale senza precedenti con Zocca sulle responsabilità per il flop urbanistico di fine giugno sui Piruea. La conseguenza a breve termine sarà con tutta probabilità un richiamo formale da parte della segreteria cittadina: una sorta di ammonizione per cercare di ricomporre le fratture ed evitare alla maggioranza di perdere altri pezzi per strada. Nel frattempo, l’opposizione si è messa al lavoro per aprire una breccia amministrativa sull’impasse scaturita intorno all’approvazione del rendiconto, una delibera che dovrebbe essere una mera formalità. «Il testo unico - analizza il diessino Ubaldo Alifuoco - parla chiaro: il termine perentorio per approvare il rendiconto è il 30 giugno dell’anno successivo all’esercizio. Non sono previste sanzioni, ma il termine deve essere rispettato. Una delle conseguenze, ad esempio, è l’impossibilità di applicare l’avanzo di bilancio. Per queste ragioni sono intenzionato a raccogliere adesioni per inviare una lettera di segnalazione al prefetto. Contemporaneamente, si sta valutando l’ipotesi di un ricorso al difensore civico regionale, che ha il potere di fissare un nuovo termine entro il quale il documento deve essere approvato. La realtà è che ci troviamo di fronte a una stasi totale, per colpe politiche di questa maggioranza». La data più probabile per la conclusione della sofferta maratonina del consuntivo è il 12 settembre, prima seduta utile al ritorno dalle vacanze. «L’assessore Zocca replica ostentando serenità: «Abbiamo già contattato il difensore civico regionale. Non ci sono problemi, anche Padova andrà a settembre. Il bilancio è già stato discusso, basta votarlo. Quando il consuntivo è regolare e corretto, nessuna amministrazione è andata a casa».

Scontro in aula sull’Ici: la consigliera Equizi attacca Piazza. La videoregistrazione in Procura
«L’assessore è un evasore». Ed è bagarre Annunciate denunce «per diffamazione»

La consigliera dà dell’evasore all’assessore e scatta una bagarre a base di denunce e segnalazioni in Procura. Accade nel consiglio comunale di Vicenza, dove ormai si è creato un clima tale per cui non passa seduta che da qualche microfono non parta l’annuncio di passare le carte alla magistratura. L’ultimo episodio in ordine di tempo si è verificato giovedì sera, quando sulla tavola era stato imbandito il bilancio consuntivo. Nel suo intervento, la consigliera del Gruppo misto Equizi ha attaccato le politiche dell’Ici, finendo per citare la lista di accertamenti avviati dagli uffici che si è fatta consegnare dall’assessorato alle Finanze. In questa lista c’è anche il nome dell’assessore agli Interventi sociali Davide Piazza, a cui a un certo punto la consigliera ha dato dell’evasore. Dura la reazione del diretto interessato, che minaccia denunce. E dura la reazione anche della collega Linda Favretto, assessore alle Finanze, che ieri ha indirizzato una lettera al sindaco Enrico Hüllweck e al presidente del consiglio comunale Sante Sarracco, per inquadrare il problema: «La richiesta della consigliera riguardava la lista di tutti gli accertamenti fatti fra il 2003 e il 2006. Per quanto riguarda la posizione del collega, è un adeguamento di parametri: non è vero che non pagava, semplicemente pagava erroneamente cifre diverse rispetto ai parametri decisi dal Comune e per questo ha liquidato la differenza». «In ogni caso - prosegue la Favretto - i dati consegnati non sono stati utilizzati per espletare il mandato di consigliere comunale, ma sono stati usati per denigrare e diffamare. Per questa ragione ho chiesto di verificare se vi siano gli estremi per dare corso ad azioni amministrative e penali». Da parte sua, il presidente Sarracco ha chiesto copia della videoregistrazione della seduta, che verrà inviata alla Procura della Repubblica.


L’accordo al ministero del Lavoro conferma la chiusura di tre reparti e la riduzione d’organico
Marzotto, intesa sugli esuberi
Due anni di cassa integrazione e piano di ricollocamento

di Marco Scorzato

Accordo raggiunto. Ieri nella sede del ministero del Lavoro a Roma la firma dei rappresentanti dei sindacati, dell’azienda e del governo ha messo la parola fine alla delicata vertenza in casa Marzotto, che si era aperta nel marzo scorso con la presentazione del piano di ristrutturazione aziendale. Un piano che prevede, per lo storico stabilimento valdagnese, la chiusura definitiva dei reparti di filatura, mistificio e tintoria (una parte), oltre a depurazione acque e pulizie. A casa 146 lavoratori, per la cui uscita “morbida” si è ora trovata l’intesa. Due anni di Cassa integrazione. Ieri a Roma, ad una settimana dal precedente incontro “tecnico” si sono ritrovati attorno al tavolo i rappresentanti nazionali e territoriali dei sindacati - Sergio Spiller e Mario Siviero della Cisl, Giampaolo Mati e Maurizio Ferron della Cgil, Pasquale Rossetti e Antonio Visonà della Uil - Massimo Lolli, direttore risorse umane della Marzotto, il dottor Salomon per Assindustria e il dottor Mastropietro, funzionario del ministero. Sciolte le ultime incertezze, hanno posto la firma in calce ad un accordo che garantisce la cassa integrazione straordinaria per 96 lavoratori a partire dal primo di agosto, oltre alla mobilità per una cinquantina di dipendenti: tra questi, i volontari e coloro che andranno in pensione nei prossimi mesi. «Per quanto riguarda la cassa integrazione - spiegano i sindacati - è stato importante strappare il sì sul prolungamento fino ai 24 mesi. Se i primi 12 sono previsti per legge, non è così per quelli successivi. Eravamo preoccupati perché il ministero ci aveva informati che non c’erano risorse. Ma ora abbiamo ottenuto l’impegno del governo ad emanare un decreto per il rifinanziamento». I soldi non ci sono, ma ci saranno dunque. Il secondo anno di cassa integrazione scatterà a condizione che, nei primi 12 mesi, almeno il 25% dei lavoratori sia ricollocato. Cinque mesi di trattative sofferte. Subito dopo la presentazione del piano di ristrutturazione, nel marzo scorso, fu netta l’opposizione sindacale. Cgil, Cisl e Uil definirono il piano «una minaccia alla natura strategica dello stabilimento valdagnese». Tuttavia, di fronte alla ferma posizione dell’azienda che non ha mai ritrattato la chiusura dei tre reparti, i sindacati non hanno potuto far altro che limitare i danni. Il che significava, persi i reparti, cercare le soluzioni più indolori per i 146 esuberi. Così, l’11 maggio scorso si è arrivati all’apertura della mobilità per 175 lavoratori ed oggi alla firma dell’accordo. Massimo Lolli, direttore risorse umane Marzotto, si dice «soddisfatto dell’intesa. È vero - aggiunge - che l’impianto del piano industriale non è stato modificato. A cosa sono serviti i mesi di trattativa? A far capire al sindacato che la cessazione di alcuni reparti era compensata dalla rivalutazione della competitività dell’intera azienda. Peraltro viene ribadito il ruolo importante di Valdagno: occorre lavorare affiché questo sito sia all’altezza delle aspettative di performance industriale». Ora, chiusa una fase delicata, «se ne apre una altrettanto impegnativa - concludono i sindacati -: l’attuazione del piano di ricollocazione in parte all’interno del gruppo, in parte all’esterno».