21 APRILE 2006

dal Giornale di Vicenza

Torna il Consiglio e scoppia tutto Lega: altolà. Forzisti: contro-stop
S. Pio X, condannati a vivere in 6 metri quadri
Cicero e la guerra del bus «Studenti, alzatevi prima»
Ecco il tazebao anti-Moratti

Torna il Consiglio e scoppia tutto Lega: altolà. Forzisti: contro-stop

di Antonio Trentin

Il centrodestra comunale ha fatto una rentrée in sala Bernarda - dopo le elezioni politiche e la breve pausa nei lavori consiliari - con doppio auto-sgambetto. Un evidente preludio ai nervosismi che si incrementeranno dentro la coalizione a mano a mano che si avvicinerà la resa dei conti sui “sì” o sui “no” ai piani urbanistici Piruea, da tempo motivo di frizione in Comune. Ieri sera la Lega Nord ha stoppato una delibera urgente targata Forza Italia sull’urbanistica e i commerci: niente discussione né voto sulle novità che adeguano il Piano regolatore al Piano annonario, forse con rinvio di parte dei contenuti al futuro maxi-piano Pat che delineerà l’assetto del territorio cittadino. Forza Italia si è immediatamente rifatta mandando (provvisoriamente?) a monte il nuovo regolamento sull’assegnazione delle case popolari dell’assessore leghista Davide Piazza. Con l’occasione evitando uno scontro che si preannunciava aspro a proposito di graduatorie e titoli per avere una casa comunale, di limitazioni nei confronti dei lavoratori stranieri e di valorizzazione o no del concetto di “cittadinanza italiana” (più che di “vicentinità”) come chiesto da Alleanza nazionale in garbata ma palese polemica con la Lega. Insomma: è andato in scena un patatrac della Casa delle libertà in mezz’ora di convulse consultazioni, misurazioni delle presenze e delle defezioni, tentativi di mandare avanti la riunione del consiglio comunale. Ha chiuso tutto lo scatto “politicamente motivato” del sindaco Enrico Hüllweck, che se n’è andato inviperito e offeso per lo squagliamento della squadra, trascinandosi dietro larga parte ma non tutta la sua maggioranza. Dal punto di vista delle decisioni, quella di ieri è stata una seduta consiliare del tutto improduttiva: già all’inizio l’assessore Pietro Magaddino aveva ritirato un suo provvedimento per l’adesione del Comune alla Acque Vicentine SpA, la società che dovrà gestire - a partire dalle strutture operative e dagli impianti di Aim - il servizio idrico integrato della città e di una trentina di Comuni dell’Area Berica e dell’Est Vicentino. «Non c’è più fretta, si può esaminare tutto con più attenzione, c’è tempo fino al 31 maggio» è stata la spiegazione in rapporto alle decisioni da concordare con l’autorità di settore, l’Ambito territoriale Bacchiglione. Ma dal punto di vista politico le scintille finali della breve riunione in sala Bernarda verosimilmente trascineranno un bel po’ di reazioni e decisioni partitiche. Il clou è avvenuto sulla delibera con cui l’assessore forzista Marco Zocca intende adeguare le normative urbanistiche cittadine per poter applicare le novità commerciali derivate dalla legge della Regione del 2004 (tra cui i due grandi “parchi commerciali” di Vicenza Est e Ovest) e dal nuovo regolamento annonario approvato in Comune in febbraio su metrature e traslochi di licenze. «Discutiamone, c’è urgenza» ha chiesto l’assessore a nome dell’Amministrazione. «No, rinviamo tutto, perché non c’è stato il tempo per esaminare il provvedimento» ha replicato il leghista Alessio Sandoli, che aveva avuto un mandato in questo senso dalla capogruppo Manuela Dal Lago, nel frattempo assentatasi per altri impegni. Sul contrasto nella maggioranza si è buttata l’opposizione: «Attenzione, non si deve discutere adesso, perché due Circoscrizioni non hanno ancora dato il parere sulla delibera». Sotto il contrasto procedurale covava il contrasto politico. E una votazione per decidere se dibattere o no - poi motivo di un feroce scontro tra l’assessore Zocca e il presidente consiliare Sante Sarracco sulla conduzione dei lavori - ha colpito a sorpresa sindaco e assessore forzisti. Sul risultato di 14 a 15 che ha mandato in minoranza Hüllweck e i suoi (tutta Forza Italia e gran parte di Alleanza nazionale) hanno pesato tre assenze. Due sono state spiegate come un infortunio al momento dell’appello, ma sono state subito caricate di significato politico: gli aennisti Luca Milani e Giuseppe Tapparello, capogruppo e presidente della commissione Territorio, erano momentaneamente in giro. Una è parsa ben calibrata: poco prima della votazione se n’andata anche la forzista pro-Partito popolare europeo Chiara Garbin, sostenitrice del blocco dei Piruea e del rinvio delle novità urbanistiche alla pianificazione globale del Pat. Fatto sta che la seduta in “Bernarda” è sostanzialmente finita lì, con il sindaco che prendeva su le sue carte e se ne andava guardando in cagnesco i leghisti, per l’occasione alleatisi con il centrosinistra. Per qualche minuto, poi, è andata avanti la mezza farsa di un consiglio ormai svuotato, che ascoltava senza più interesse la presentazione dei nuovi criteri sugli alloggi popolari. Ma in breve è stato stop: non c’era più Casa delle libertà sui banchi, l’Unione ironizzava sulla «maggioranza evaporata», il forzista Ivo Furlan da presidente supplente ha mandato tutti a casa con un «grazie e buonasera».


S. Pio X, condannati a vivere in 6 metri quadri
Trecento detenuti costretti ad abitare in celle destinate ad ospitarne la metà

di Eugenio Marzotto

Luca è un bambino biondissimo di tre anni, sta all’ingresso con la madre e attende che la guardia dia il via al suo passaggio. È l’ora di pranzo, fuori un altro gruppo di familiari aspetta il proprio turno prima delle procedure. Come ogni giorno devono consegnare telefonini, borse e documenti, passare dal metal detector. Luca ha fretta e guarda dal basso all’alto la madre, ancora pochi minuti e i due potranno entrare nel carcere di San Pio X per incontrare il giovane marito, il giovane padre che sta per scontare un anno di reclusione. Il check in accompagna decine di persone al giorno in un altro mondo, in un’altra comunità. Chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro. Poco più di cento celle per trecento carcerati, tre detenuti per stanza da sei, sette metri quadri l’una. Il percorso è sempre lo stesso come in un girone dantesco. Chi entra qui segue un rito che si ripete da sempre. Prima viene accompagnato in un ufficio dove viene aperto un fascicolo e vengono prese le impronte digitali. Poi si passa al magazzino dove vengono consegnati piatti, stoviglie, lenzuola e oggetti per l’igiene personale. Il detenuto a quel punto attraversa il silenzio agghiacciante tra le mura del carcere, solo il rumore metallico dei cancelli che si aprono e si chiudono interrompe quella triste monotonia che lo porterà al suo “braccio”, alla sua stanza. Qui c’è gente che ha sbagliato e che sta pagando. Venti ore chiusi in cella, quattro “ore d’aria”, due al mattino, due al pomeriggio. I tranquillizzanti sono distributi come caramelle, valium e tavor sono l’antidoto dei più alla disperazione. Nella notte di Pasqua un tentato suicidio di un tossico ha fatto scattare l’allarme nella notte, il ragazzo se la caverà, «ma fino a quando?» si chiedono qui dentro. Il mondo della Casa circondariale è governato da una squadra capace di funzionare come un orologio. Il direttore Irene Iannucci dice di aver scelto lei questo lavoro «per dedicarmi alle persone con devianze e riuscire a farle tornare nella legalità». Poi c’è la polizia penitenziaria diretta dal comandante Giuseppe Lozzito e dall’ispettore capo Antonio Mirigliani. Vivono nel cuore dell’emarginazione, vedono tutti i giorni ad ogni ora facce, smorfie, pianti e sorrisi, sentono odori e imprecazioni. Per dieci ore al giorno il loro di mondo è fatto da quattro “sezioni” ognuna delle quali contiene 25 celle blindate. Dentro a quelle stanze cristiani convivono con musulmani, spacciatori con ladri, camorristi con falsari. Tocca ai poliziotti per 1.300 euro al mese non sconvolgere un equilibrio precario, «evitare che un ospedale pieno di malati particolari non scoppi», spiega il comandante Lozzito. E poi ci sono quelli che tentano disperatamente di tracciare un filo tra il mondo esterno e quello del carcere. L’educatore Claudio Petruzzellis e non solo lui, in vent’anni di lavoro è riuscito in qualche piccolo miracolo: realizzare una biblioteca dove lavora un detenuto, corsi di formazione, di pittura, teatro e giardinaggio. In carcere poi c’è perfino una piccola azienda terzista, gestita da una cooperativa che dà lavoro a dieci persone “assunte” tra i detenuti, e ancora una palestra e una chiesa. Non è tutto, alla Casa circondariale c’è perfino uno sportello informazioni. L’ufficio per gli alloggi popolari, Inps, ufficio immigrati, i servizi dell’Inca. E poi c’è il giovane don Agostino Zenere, il cappellano del carcere, impegnato ad ascoltare e soprattutto a dare una speranza a chi non ce l’ha più. A chi per esempio ha ucciso per 50 milioni di vecchie lire e da lui chiedeva indulgenza “solo” per le troppe imprecazioni dentro in cella. È il paradosso comune che spunta limpido tra i corridoi di un carcere che nel 2005 ha contato 1.800 ingressi con una mobilità altissima. Padre Pio, immagini sacre, santi e madonne tappezzano i muri dei detenuti meridionali, quasi che la religione “appesa” al muro aiuti ad esorcizzare i conti con un passato pesante. Nelle celle degli immigrati invece vince la bellezza italica che ha il volto e qualcosa in più di Monica Bellucci ed Elena Santarelli. Ma c’è anche chi legge un quotidiano, un libro o scrive una lettera per l’avvocato o la moglie. Dentro in cella ogni materiale è fondamentale, il primo obiettivo è far passare quel maledetto tempo. Così pacchetti di sigarette, allineati e incollati, diventano mensole dove appoggiare gli oggetti. Le scatole intagliate di riso o sale, diventano le cassette della posta da esibire all’esterno appese alla porta di sbarre. Dentro in cella un fornello da campeggio può fare miracoli al San Pio X. Chi è dentro da anni ha imparato a cucinarsi frittate, biscotti, dolci e pefino le pizze. Antonio e Franco hanno voglia di parlare, dalla loro stanza allungano il braccio per richiamare attenzione: «Io esco tra dieci giorni - racconta il napoletano Antonio - dopo nove anni passati qui dentro. Mai avuto un permesso, ma mi sono sempre trovato bene. Cosa farò dopo? Tornerò a lavorare con i miei figli nella mia impresa edile». Lui e il suo compagno di cella Franco, a Natale hanno messo in scena la commedia di Eduardo “Natale in casa Cupiello”: «È stato un successo, magari quando saremo fuori faremo il bis».

In tre mesi 327 ingressi e 280 scarcerazioni
Il 50% sono italiani Il primato è albanese

(e. mar.) Era stato costruito per un avere un rapporto uno a uno. Un detenuto, una cella. La realtà è molto diversa, oggi alla Casa circondariale di San Pio X vivono tre persone per cella, con una popolazione totale di 296 carcerati. Di questi 145 sono stranieri. Sul totale 152 sono stati condannati in via definitiva, il resto è in attesa di giudizio. Tra i 145 detenuti stranieri 42 sono albanesi, 22 marocchini e 19 tunisini, mentre per quanto riguarda i primi mesi del 2006 si segnalano 327 nuovi ingressi contro 280 carcerati che non lo sono più. In diciannove godono della condizione di semilibertà, 54 vivono nella sezione di massima sicurezza per aver compiuto reati gravi ed è in costruzione un’area che potrà ospitare una decina di collaboratori di giustizia. Il “popolo” dell’istituto penitenziario è questo, ma in realtà è molto altro. Oltre 140 poliziotti, una trentina di personale amministrativo e poi un via vai continuo di avvocati, personale medico, assistenti sociali e psicologi. «Il problema più grande - spiega la direttrice Irene Iannucci - è quello di lavorare in estrema emergenza e con il poco personale di cui disponiamo, per fortuna tra noi esiste la massima collaborazione, ma non è facile mandare avanti un istituto così complesse dove il problema del sovraffollamento rimane all’ordine del giorno»

All’interno anche un’azienda meccanica
Palestra, libri e calcio Così si sopravvive

(e. mar.) «Abbiamo bisogno di qualcuno che ci sistemi il campo da calcio, mancano le righe bianche, le panchine, una piccola tribuna, non ci resta che sperare in un’azienda privata o un’associazione che restauri il nostro campo da calcio». L’invito parte da Claudio Petruzzellis, l’educatore del carcere, uno che passa la giornata a studiare il modo per rendere “normale” un posto che non lo è. Così è nata la biblioteca dove ci si può andare per prendere un libro al massimo 20 minuti la settimana). La palestra, dove si può accedere a gruppi di 15 persone all’ora, due volte la settimana. La scuola, con corsi di alfabetizzazione (per stranieri), di inglese e corsi per il conseguimento del diploma di terza media. Al mattino e al pomeriggio. Chi va a scuola non va all'aria. E ancora, corsi di giardinaggio, di orticoltura in serra, di saldatura e meccanica, pittura, musica e teatro, di educazione sanitaria, di atletica e arbitraggio. A gruppi di massimo 15. Poi ci sono i gruppi di aiuto del Sert per persone tossicodipendenti e alcooldipendenti, la cooperativa interna “Saldo & mec” che impegna 6-8 persone come operai. Il lavoro in carcere è il gran desiderio di tutti: ma non ce né per tutti. Quattro persone lavorano in cucina, tre alla Mof, due lavoranti esterni, quattro nelle sezioni per un totale di 13 persone. Poi c’è lo spazio religioso dove partecipano indistintamente cattolici e musulmani: la catechesi con due incontri la settimana di un'ora ciascuno e la messa una volta la settimana. I colloqui con i famigliari si svolgono sei volte al mese di un'ora ciascuna, le telefonate di 10 minuti una volta la settimana, se i detenuti hanno il permesso. E poi ci sono i fondamentali colloqui con gli educatori, la psicologa, l'assistente volontario, il cappellano, il Sert, il comandante e la direttrice e le visite mediche. I corsi sono attivati una volta l'anno: accedono massimo 15 persone (la popolazione detenuta a Vicenza è di 300 persone); un detenuto se gli va bene accede al massimo a due corsi l'anno che durano alcuni mesi. Così per almeno sei-otto mesi non ha nulla da fare se non passeggiare dentro il cubo di cemento (l'aria). I corsi si tengono normalmente durante il tempo dedicato all'aria: pertanto le 20 ore quotidiane in cella di solito se le fa tutte spesso disteso sul letto perché non c'è lo spazio per stare in piedi in tre o fare qualcosa che non siano degli elementari esercizi fisici come le flessioni. I colloqui con gli operatori poi sono rari, per l'alto numero delle persone rispetto alla disponibilità degli operatori e delle ore a loro disposizione. Ma a San Pio X esiste anche uno sportello informazioni dove i detenuti possono chiedere notizie su alloggi popolari, contributi Inps, informazioni sul permesso di soggiorno.

Il Cappellano del carcere: «C’è una responsabilità personale del carcerato ma non dimentichiamo la società»
«Sognano di poter ricominciare»
Don Agostino Zenere: «Soffrono per la condanna morale»

don Agostino Zenere
cappellano del carcere

Il detenuto è una persona che soffre per la privazione della libertà. I carceri sono chiamati Istituti di Pena e la condanna è una pena da scontare. Nell'immaginario collettivo trovo sempre la convinzione che i detenuti oggi «fanno un carcere facile» che non sortisce alcun effetto. Invece la privazione della libertà è una gran pena. Chi studia da un punto di vista psicologico l'esperienza detentiva la paragona alla perdita di un genitore che come prova morale e affettiva sta al vertice. Va detto che la pena è appunto la privazione della libertà (d'altronde funziona così: «Tu hai fatto cattivo uso della libertà recando danno ad un'altra persona, ora io ti punisco e ti tolgo la libertà affinché tu riconosca il valore della libertà e impari le regole che la garantiscono, le regole che questa determinata società si è data»). Mi dicono: «Lei Padre viene dentro tutti i giorni, ma poi sa che può uscire. Lei non si è mai fatto chiudere dentro una cella, anche per poche ore. Tutto quello che normalmente si fa non si può più fare. La sola cosa che si può fare liberamente è pensare. Ma non si può pensare tutto il giorno: si diventa matti». Il detenuto è una persona che soffre per la condanna morale che il carcere porta con sé. Uno rimane per tutta la vita un ex-carcerato, uno che ha sbagliato, uno che non è degno di fiducia, uno che ha fatto del male agli altri. È una persona senza più diritti: in cella come compagni può arrivare chiunque, un nero, un albanese, un italiano… chi capita. Può essere tossicodipendente, malato, sporco, ubriaco o ferito: con chiunque arrivi bisogna andare d'accordo, dividere il poco spazio a disposizione, prestarsi le cose, pulire la cella, condividere i servizi igienici. Dalla cella tutto si deve chiedere: una pastiglia per il mal di testa, una penna per scrivere, una busta per inviare una lettera. E' necessario chiedere con la domandina (un apposito modulo): ci vogliono giorni per avere la risposta. Tutto è rallentato, sottoposto a restrizioni e a innumerevoli regole. Il carcere è generalmente sovraffollato e un solo agente penitenziario deve sorvegliare da solo una sezione con 65 detenuti. Il carcerato è una persona con forti sensi di colpa che cerca di mascherare con un mare di bugie. Le bugie sono dette al giudice, a volte si concordano con l'avvocato. Lo prevede il sistema giudiziario italiano che riconosce la durezza della privazione della libertà e che permette al reo di non pagare "troppo". A quanti pianti si assiste! Certo non sono tutti pianti sinceri secondo i nostri criteri di pentimento e redenzione ma esprimono dolore vero. Sì il dolore e la sofferenza, la rabbia e la disperazione sono vere. Per questo insieme di situazioni, nella calma di un colloquio, la persona detenuta cerca di "salvare la faccia" magari per ottenere un sorriso o qualcosa che li aiuti a passare il tempo, oppure solamente per sentire che qualcuno ha ancora cura di loro. Sono uomini come noi con desideri sani di contare qualcosa, di non aver distrutto tutto, di aver ancora la possibilità di cominciare. Il detenuto è una persona che non lo dice ma che dubita di poter cambiare perché ha già sbagliato innumerevoli volte; perché non sa riconoscere la causa di quanto è successo; perché porta con se una storia che non sa leggere in modo critico. La persona ristretta tende veramente ad attribuire agli altri la sua sventura e a non riconoscere le proprie colpe. (Si dice che in carcere sono tutti innocenti). Possiamo affermare che il problema di queste persone non è tanto la detenzione ma la storia, la vita e l'ambiente che stanno all'origine del comportamento che li ha portati in carcere. Infine il ruolo della società. Per la persona detenuta il problema non è la carcerazione (anche se a lui può sembrare così). Il problema è la sua storia, è l'ambiente da cui proviene e a cui solitamente torna alla fine della pena.


Ancora polemiche sul problema dei tram sovraffollati alla mattina
Cicero e la guerra del bus «Studenti, alzatevi prima»
La replica dell’assessore alle critiche sui viaggi gratis la domenica

(an. ma.) «Prima di parlare dovrebbero almeno andarsi a leggere le delibere». Ha la pressione a mille l'assessore alla mobilità Claudio Cicero e attacca duramente gli studenti dell'Uds, critici nei confronti della delibera che stabilisce che dal 2 maggio al 31 marzo nei giorni festivi si potrà viaggiare gratis sugli autobus, grazie ad un contributo regionale di 370 mila euro. «Viaggiamo stretti come sardine durante la settimana, figuriamoci se abbiamo voglia di salire sui tram anche la domenica», hanno osservato i giovani dell'Uds, puntando il dito piutttosto contro «autobus vecchi, sovraffollati, sempre in ritardo e per giunta a costi altissimi». «Quella delibera è frutto di un fondo regionale finalizzato all'abbattimento delle polveri e all'incentivazione dei mezzi pubblici, sono soldi che non è possibile spendere in altro modo» replica Cicero che suggerisce agli studenti di «informarsi prima di sparare a zero». «Il servizio trasporti viene a costare 7500 euro all'anno di contributi pubblici e il prezzo del petrolio dal 2001 è triplicato - prosegue l'assessore - nonostante questo il costo del biglietto dei bus è stato abbassato da 1,05 a 1 euro. Non solo. Da tre anni a questa parte abbiamo cercato in tutti i modi di risolvere il problema dei mezzi sovraffollati la mattina, creando la doppia fascia. Il punto è che da parte delle scuole non c'è volontà di collaborare e di conseguenza la situazione si è arenata». Al punto che anche l'ultimo incontro tra Comune, presidi, insegnanti, genitori e allievi si è risolto con un nulla di fatto in vista di un ultimo aggiornamento per i primi di maggio. Dopodichè se non si arriverà ad un accordo il prossimo anno scolastico inizierà con i soliti disagi. «Questa volta però - continua Cicero - non voglio più sentire lamentele. Se manca la volontà di accordarsi, allora tutto resti com'è. Nessuno venga però più a protestare in Comune perché in autobus sta stretto come una sardina. Perché a quel punto ricorreremo all'ordinanza e faremo iniziare tutte le scuole alle 7,30». Fuoco e fiamme, insomma, dalle parti dell'assessorato alla mobilità, dove trasporti e scuole sono diventati un tormentone ricorrente che alimenta puntuale le proteste da parte dei ragazzi. I quali sostengono che «è il Comune ad avere pochi soldi e scarsi mezzi e di conseguenza è il Comune che deve andare incontro alle esigenze delle scuole, non viceversa». «La quantità di bus da mettere in campo è quella - sbotta Cicero - non si possono aumentare né i mezzi né gli uomini. Se tutti gli istituti iniziassero prima e alla stessa ora andrebbe meglio: alle sette del mattino le strade sono poco trafficate, i mezzi circolano più velocemente e negli autobus, dove ci sarebbero solo studenti, non si starebbe più come sardine».


Striscione all’istituto Montagna per protestare contro i guasti della riforma che penalizza le scuole statali
Ecco il tazebao anti-Moratti
Lungo 40 metri, lo hanno preparato novanta insegnanti

di Anna Madron

È lungo quaranta metri e alto uno e mezzo lo striscione record che novanta insegnanti dell'istituto Montagna, oltre a quindici amministrativi, hanno prima pazientemente confezionato, poi agganciato a fatica, date le dimensioni, alla recinzione esterna della scuola. Motivo? Dare un segnale forte, e soprattutto visibile, del malcontento e della preoccupazione dei docenti di fronte alla riforma Moratti, ritenuta penalizzante nei confronti della scuola. In particolare a pagare sarebbero gli indirizzi professionali che così «vanno a finire nel cestino», osserva Angelo Azzalini, docente del Montagna, promotore insieme ai colleghi di questa iniziativa “extra size” che intende richiamare l'attenzione sulle conseguenze della “53”. Legge controversa che non ha tenuto conto, ricordano i prof, dei pareri e dei suggerimenti di chi in cattedra ci sale ogni mattina. Non tutti gli insegnanti, sulle prime, erano concordi a protestare in modo così vistoso, esponendo uno striscione per il quale è stato impiegato uno scampolo gigante: quaranta metri di tela bianca sulla quale le bombolette spray hanno ribadito “No alla riforma Moratti, sì all'istruzione professionale pubblica”. Uno slogan semplice che punta il dito contro una legge «che divide la società, creando scuole di serie A e B». Considerazioni di natura etica e morale più che politica, fatte proprie da questo gruppo di intraprendenti della scuola, stanchi di subire e desiderosi di farsi sentire. A dire il vero la loro voce si era alzata già lo scorso anno quando il collegio docenti del Montagna aveva votato un documento, condiviso anche dal consiglio d'istituto, dal comitato genitori e dagli studenti, in cui si denunciavano i talloni d'Achille della riforma. «Lettere analoghe sono state inviate al ministro e alla stampa da altri istituti della città, della provincia e da tutta Italia - aggiunge Donatella Cavion, insegnante dell'Ipss Montagna - nonostante ciò non sono stati ascoltati né i genitori, né gli studenti, né gli insegnanti e non si è ritenuto di fare un solo passo indietro, rivedendo l'impostazione fortemente sbagliata della legge». «Morale, ora stanno per partire sperimentazioni della riforma nelle superiori senza che vi siano però precise garanzie nei confronti degli alunni e delle loro famiglie rispetto agli sbocchi professionali e alla validità degli stessi titoli di studio». Questo denunciano i «lavoratori del Montagna», così si firmano prof e personale Ata in un altro documento sottoscritto giusto ieri, 20 aprile, in concomitanza con l'esposizione di questo striscione da Guinness con il quale si invoca «un sistema di istruzione professionale di Stato di qualità, che sappia coniugare l'elevamento del livello culturale dei nostri giovani con la vocazione professionale». «Riteniamo che l'istruzione professionale debba rimanere una scuola di Stato, a garanzia di pari dignità con il sistema dei licei - recita il testo - inoltre il percorso di studio non può essere ridotto dagli attuali cinque anni a tre anni più uno, per garantire l'acquisizione di tutte le conoscenze, competenze ed abilità richieste in una società sempre più complessa. Il titolo di studio finale che viene rilasciato deve permettere, come nell'attuale sistema, non solo l'ingresso nel mondo del lavoro, ma anche l'accesso ai corsi universitari e infine l'orario settimanale di 34 ore va salvaguardato». La speranza, insomma, è che la riforma non parta mai