«Gli attributi del sindaco? Meritano il tapiro d’oro»
Il diessino Poletto ha richiesto la videoregistrazione del Consiglio: «È roba da Striscia la notizia»
(g. m. m.) Se fossimo nei favolosi Settanta, gli anni di perle come “Giovannona Coscialunga” o “Quel gran pezzo dell’Ubalda”, ci avrebbero già ricamato sopra un film, qualcosa come “Gli attributi dell’incredibile Hüll(we)ck”. E invece siamo nell’epoca della politica spettacolo e così non resta che teorizzare, assecondando le scuole di pensiero più benevole, a un improvviso attacco di celodurismo, in memoria dei fugaci trascorsi leghisti. L’attacco è quello che ha colto l’altra sera il sindaco Enrico Hüllweck, che dopo cinque ore di spietati attacchi sul caso “Dal Molin”, di fronte a una sala Bernarda gremita di politici, comitati e cittadini, ha portato le mani alla cinta dei pantaloni esibendo con vigore l’artiglieria, la cui esistenza qualche consigliera aveva maliziosamente messo in dubbio. Una risposta fin troppo eloquente all’estenuante invito da curva sud: “Sindaco, fuori le ...”, trasfigurazione ben poco letteraria per dire: “Abbia il coraggio di prendere posizione”.
L’episodio non è sfuggito a nessuno dei circa sessanta spettatori in quel momento presenti, che un giorno potranno dire con orgoglio “quella volta dei gioielli c’ero anch’io”. Né la gustosa scenetta è sfuggita a Gigi Poletto, capogruppo diessino, che ieri ha inoltrato la richiesta formale di prendere visione della videoregistrazione della storica seduta.
«Non sono un moralista, rigetto l'eccesso di seriosità e ho il senso dell'umorismo - premette Poletto - in venticinque anni di esperienza nelle istituzioni locali ne ho viste, lo garantisco, di tutti i colori, di tutto e di più, ma mai un sindaco che si alza dal suo alto scranno e palesemente e quasi con regalità “mostra gli attributi”».
«Potrei parlare di volgarità esibita - prosegue Poletto -, di sfregio della sacralità delle istituzioni, di caduta di stile, di impazzimento momentaneo, di esemplarità negativa. Ma non lo faccio perché sarebbe l'attribuire un eccessivo rilievo a un episodio su cui ironizzare ma anche da dimenticare. Piuttosto bisogna capire se la registrazione video riporta il clamoroso evento. In tal caso il sindaco sia coerente nelle sue raffinate modalità di esercitare i suoi alti doveri istituzionali. Consegni la registrazione a “Striscia la notizia”: meriterà la consegna del “Tapiro d'oro” e ne meneremo tutti vanto. Tutti, finalmente, parleranno di noi e la città potrà così emanciparsi dal suo atavico provincialismo. Evviva».
James Brown incontra i soldati Usa reduci dall’Iraq: «Non credo alla guerra»
di Eugenio Marzotto
Balla, scherza, canta e tira pure frecciate in casa di quelli che la morte l’hanno vista in faccia. Canta I feel good, e alla fine dirà: «Vi voglio bene ma non posso darvi un supporto morale, io alla guerra non ci credo, credo piuttosto che ogni popolo abbia diritto alla propria indipendenza e all’audeterminazione».
Mettete un uomo di 73 anni con i capelli tinti e cotonati come quelli di una bambola, vestito da capo a piedi di marrone davanti a dei soldati reduci da Afghanistan e Iraq. Avrete James Brown in formato pacifista. Un nero del sud, franco fino in fondo che spiega con la voce calma: «L’appoggio lo deve dare Bush è il suo mestiere».
Il mito James Brown, “il padrino del soul” come si autodefinisce è giunto ieri pomeriggio alla caserma Ederle in visita al comando Setaf per salutare i soldati, i connazionali, i ragazzi che se ne sono andati in missione nelle zone calde del mondo e a loro dice, dopo aver ballato per qualche attimo con l’agilità di un ventenne: «Sono contento che siate tornati, è bello essere qui, ma diamo alla pace la possibilità di crescere».
Loro, i soldati non fanno una piega, anzi. Chissenefrega della guerra e delle parole antimilitariste del mito in braghe a zampa.
«Mr James - gli urla un ragazzotto - ho qui una bottiglia per te».
«Grazie - risponde lui - ma temo che il dottore non me la farà bere».
Quella bottiglia di vino rosso, alla fine la sequestrerà uno della sicurezza, un uomo basso e grasso che ammirerà l’etichetta intitolata alla missione afghana “Enduring freedom”.
È stata una festa, con almeno trecento persone a salutare l’uomo del soul, il dannato Brown che sul palco parla come un predicatore: «Dobbiamo amarci tutti - dice con le pause giuste al momento giusto - voi fate il vostro lavoro con coscienza, sappiate che Dio è con voi e anche James Brown è con voi».
E giù applausi, mamme che impazziscono dalla felicità, bambini che sparano flash e uomini sorridenti per avere il loro idolo a pochi metri. È l’America che fa festa.
E c’è tempo anche per le targhe ricordo e per le strette di mano. La mano è quella del generale della Setaf, Frank G. Helmick, da un mese al comando delle truppe Usa a Vicenza che ha ringraziato per la visita “il padrino del soul”.
Texano dalla battuta facile, il generale la butta sul ridere: «Ma gente come questa non invecchia mai, sembrano tutti giovani - scherza dal palco, guardando la platea - James, hai 42 anni?». «No - risponde l’altro - solo 73». E giù risate, braccia alzate e voglia di autografi. Che arrivano come di rito. Lui, il nero nato tra le campagne della Georgia da una famiglia poverissima, è sul palco a godersi tutto l’affetto dei connazionali che ricambiano. Ed uno per uno in ordine, come fossero a scuola, si mettono in fila indiana ad aspettare il loro turno. Foto ricordo, autografi, baci e abbracci.
«Muoviamoci», urla il manager che deve tenere in piedi un carrozzone da una ventina di persone che hanno la responsabilità di far rivivere ogni sera, ad ogi concerto, il mito James Brown.
Piazza dei Signori lo aspetta per le prove prima del concerto, ha la moglie in ospedale, ma sembra non essere preoccupato: I feel good. Lui si sente bene.