18 SETTEMBRE 2006

Non è più il tempo degli scontri
Non è più il tempo degli scontri

Non è più il tempo degli scontri
Skinheads e disobbedienti: a destra e sinistra ora è cambiata la strategia

di Eugenio Marzotto

Macché gay, immigrati e comunisti, gli skinheads ce l’hanno con l’alta finanza, i misteri bancari e le vittime dei complotti internazionali. «Un nemico invisibile da combattere ogni giorno». Hanno lasciato catene e manganelli per passare ai volantini e conferenze, dopo gli anni in cui eravano «i capri espiatori di certa politica che andava a caccia di streghe, strumentalizzando ogni azione». Oggi è il tempo della strategia, «perché - spiegano - basta poco perché arrivino decine di denunce». Così le riunioni si fanno al bar e in pizzeria, quasi in incognito se non fosse per quell’immagine che rende chiaro a tutti chi sono le “teste rasate”. E la strategia è quella di esserci senza farsi vedere, duecento anime in tutto il Veneto si organizzano e si muovono in plotoni pronti ad ingrossare le fila, chiamando ragazzi dalla Germania, Austria, Inghilterra e perfino dall’Australia nelle manifestazioni che contano. Come è successo con il quinto “Ritorno a Camelot”, il festival di tre giorni nel Trevigiano, fatto di concerti fiume e dibattiti, conferenze per rispolverare i miti: Mussolini, certo, ma non solo. Nelle librerie di questi ragazzi non mancano testi di Pound o Raspail e nemmeno i vinili de “Il peggior nemico”, gruppo musicale della galassia nera e star indiscussa nei raduni skin e neo fascisti. Se questa è la cornice dei giovani estremisti di destra, l’anima che scorre sotto magliette e bretelle è un’altra cosa. Tutta da decifrare, oggi che il nemico rosso «è lontano e protetto». Avversario che sta nei centri sociali e che raramente oggi si fronteggia su carta o su piazza con le teste rasate vicentine. Giordano Caracino 27 anni, professione corriere, guida il suo furgone dalle 8 alle 18 ogni giorno. È il portavoce del Veneto Fronte Skinheads e racconta come oggi il coraggio vero sia quello di affrontare la vita come gli arditi del Piave, «la vera battaglia - si sfoga - è arrivare a fine mese con i salari bassi e i mutui alti. Siamo noi i rappresentanti della working class, della gente che lavora, suda e fa fatica a pagare gli affitti. Io passo le giornate a girare per fabbriche e luoghi di lavoro, ma di “disobbedienti” non ne ho mai visti». E quasi quasi, come scrisse la stessa “Unità” in un fondo, c’è da chiedersi se oggi Cipputi voti a destra. Non è cambiata la galassia della destra radicale e nemmeno il fervore degli anni ’90, ma questi ragazzi sono più organizzati e meno movimentisti. La fine degli anni ’90 ha segnato eccome per questi cani sciolti che a modo loro hanno trovato l’aggregazione. Le vicende giudiziarie di Puschiavo, l’azione degli inquirenti, l’opinione pubblica più critica, ha reso almeno in Veneto questi “mostri da copertina” dei moderati-estremisti. Certo, tengono le distanze dagli istituzionalizzati Forza Nuova o Azione Sociale, guardando alla Fiamma Tricolore come al partito dell’approdo, ma il Veneto Fronte Skinheads è un’altra cosa: «La stampa può continuare a scrivere che siamo violenti, ignoranti ed ubriaconi, ci siamo abituati, va bene così. Quello che conta è che noi ci sentiamo un movimento capace di passare dalla goliardia all’azione». Agnellini dunque, dopo gli anni delle risse e del corpo a corpo con i “compagni”? «Il problema è a monte - spiega Caracino - lo spauracchio del fascismo non ce lo scrolliamo di dosso, siamo super controllati e osservati, paghiamo fin troppo per il nostro modo di pensare. Non dimentico che altri possono occupare spazi e autogestirli senza che i politici si mettano contro». E poi la politica, quella parlamentare firmata An e la decisione dei vertici di togliere dal simbolo la fiamma. «Era ora che lo facessero, dopo Fiuggi hanno rinnegato certe tradizioni e certa storia. Hanno mantenuto quel simbolo solo a scopi elettorali». Ma i nipotini di Salò, guardano anche in casa loro e a quello che succede ogni anno a Schio in occasione dell’anniversario dell’eccidio: «Scontri? Il rischio c’è, non è chiaro fino in fondo se gli spazi concessi servano a fomentarlo».

Lo “zio”: «Questi ragazzi sono in balìa della tv»
Puschiavo: «Pronto a dialogare con tutti»

(e. mar.) Lo “zio” guarda i suoi “nipotini” e confessa un po’ amaramente: «Questi ragazzi sono in balìa del Grande Fratello e di tutte quelle stupidaggini che si dicono alla tv. Mi dispiace dirlo ma non c’è più il sentimento, la passione di un tempo». Lo zio è Piero Puschiavo, imborghesito un po’, ora che ha lasciato il suo Veneto Fronte Skinheads, movimento fondato negli anni ’90, per la politica, quella istituzionale e poco extraparlamentare, dentro la “Fiamma Tricolore” che alle ultime elezioni, quando Puschiavo era il candidato di punta in Veneto, ha preso 18 mila voti. La sua resta una vita a destra, quella estrema come sempre, ma oggi è fatta di convegni e comparizioni alla tv, «sono lontani i tempi - spiega - in cui le botte le davo e qualche volta le prendevo. Ma rifarei tutto e anche di più». Erano gli anni delle manifestazioni, degli scontri con i nemici rossi dei Centri sociali, anni di piazza e in nome del neofascismo da testa rasata. Per lui oggi è un’altra storia, i tatuaggi sulle braccia sono un po’ sbiaditi, si viaggia in Mercedes e ci si presenta con un’immagine compassata, da padre di due figli e artigiano nordestino. Se appena ieri, nel 2004, era il protagonista di processi per istigazione all’odio razziale, oggi Piero Puschiavo nato a Sorio di Gambellara 41 anni fa, spiega che lui è «pronto a dialogare con tutti, confrontarmi sulle idee con ogni esponente politico». Perfino con Luxuria ammette, «anche se non sopporto la sua ostentazione nel dimostrarsi diversa». Ad agosto le dimissioni dal Veneto Fronte Skinheads, tra mugugni e qualche nostalgico che lo vorrebbe ancora a capo delle “teste rasate” vicentine. Invece lui ha deciso di ricominciare da Lonigo. «I ragazzi che incontro mi fermano e mi chiedono di raccontare com’era la situazione anni fa», racconta sapendo che per molti di quei ragazzi, anfibi e Fred Perry, lui è quasi un modello. «È cambiato tutto - confessa - e oggi più di ieri questi ragazzi sono soli, non c’è nessuno che li ascolta e la televisione li manovra come vuole. Manca l’anima insomma». E allora? «Allora tutto può sfociare in violenza, se catalizzata invece diventa energia positiva oppure... Ma i cattivi - ribatte - non siamo noi. Noi a Genova durante il G8 non c’eravamo».


Non è più il tempo degli scontri
Pavin: «Dopo Ya Basta c’è stato un salto di qualità. Non più solo il “Capannone” ma anche azione sul campo sociale e politico»

(e. mar) Quasi che i “disobbedienti” abbiano messo la testa a posto. Antagonisti lo sono ancora, certo, ma non è chiaro a cosa, in una fase di transizione dove le certezze non ci sono più. E come se non bastasse quel centro sinistra che quattro mesi fa gli ha chiesto i voti (determinanti vista la vittoria risicata), oggi li ripudia. Non nelle parole, piuttosto nei fatti. I Cpt rimarranno aperti, la Bossi-Fini non è all’ordine del giorno, e poi, cosa ancora più grave, la spedizione in Libano. Un’onta ideologica per chi aveva appoggiato il pacifismo bertinottiano. E allora cosa resta, dopo che il movimento “no global” è morto e l’onda lunga di Genova si è stagliata per sempre sugli scogli della politica di governo, fin troppo corretta per il fu Social Forum? Resta l’attività, magari dentro e fuori un capannone di provincia, spazio autogestito ma che poco ha a che spartire con gli anni dell’occupazione no global. La politica, secondo i ragazzi del Centro sociale autogestito, spaccato del radicalismo made in Vicenza, si può fare lo stesso. Con l’analisi, i dibattiti, il confronto e lo sguardo alle cose che accadono vicino e lontano da casa. «Le banlieu parigine non sono poi così lontane», spiegano i ragazzi del Capannone sociale «certi fenomeni sociali si possono verificare anche qui da noi». E allora il no global pensiero è soppiantato dalla glocal analisi, quella che mette insieme zapatisti messicani e americani al Dal Molin. Uno sguardo al mondo e un’azione a casa nostra. Bando al movimentismo, per ora, e largo alla politica, fuori dagli schemi e dalle imbragature partitiche, non c’è nemmeno da resistere più, visto che gli stessi ragazzi del Centro sociale affittato ammettono: «Il castrismo? Uno sbaglio». Finiti i tempi dello Ya Basta, posate le armi della contestazione contro Hüllweck e Bush, oggi i ragazzi del “Nuovo Capannone sociale” di via dell’Edilizia a Vicenza, fanno i conti con affitti e costi di una struttura che costa 30 mila euro all’anno. E oltre a pensare a come mandarla avanti, c’è da progettare, organizzare, agire. «Siamo una rete che interviene su più temi - spiega Francesco Pavin uno dei responsabili del Centro sociale -. Siamo dentro al Comitato contro le servitù militari che fa parte del fronte del “no” al Dal Molin, alcuni compagni lavorano allo sportello immigrati, altri si occupano di cooperazione sociale». Presenti su più fronti insomma, ma liberi dai lacci della politica. «Dopo Ya Basta c’è stato un salto di qualità, non più solo un luogo dove discutere, ma azione sul campo». E i soldi da dove arrivano? «Dall’autogestione, da collette, da forme cooperative e poi concerti e servizio bar. Ma i soldi - spiega Guido Lanaro - spesso ce li mettiamo noi stessi. No, non c’è nessuno che ci finanzia e chi lo afferma mente». Per i ragazzi del “Capannone”, età media 25 anni, quasi tutti studenti o occupati nelle tante cooperative sociali della provincia, il ricambio generazionale, le adesioni spontanee, non sono mai stati un problema: «I giovani arrivano naturalmente, attratti da un modo di far politica radicale. Qui ci si sente comunità - spiega Pavin - nelle assemblee si discute e si parla di tutto, riusciamo ad affascinare perché siamo liberi». E se qualche anno fa la disobbedienza era una virtù, di quei tempi rimane un più “diplomatico” dissenso, perfino nei confronti degli ex compagni di lotta come Francesco Caruso, ora parlamentare. «Non ci ha mai rappresentato, quella di candidarsi è stata una scelta personale. Purtroppo nel recente passato Rifondazione ha tentato di ingabbiare il movimento, la strategia di Bertinotti era chiara: creare una base sociale, ma non c’è riuscito, perché i movimenti sono autonomi e vanno oltre». E ora che la sinistra, anche quella radicale è al governo, i rapporti sono pure peggiorati. «Avevamo chiesto ironicamente di diventare zapateristi se non zapatisti, ma quello che invece abbiamo è un governo che rifinanzia le missioni in Afghanistan e manda le sue truppe in Libano». Un caos insomma, dove i riferimenti ideologici e politici sono spariti come i ciclici convegni sulla morte di Carlo Giuliani. E neppure la piazza sembra più un luogo da conquistare. Sull’intervento in Libano nessuno che grida il dissenso “stop global war”. «Il fatto è che il movimento è spaccato in due, alla marcia della pace di Assisi - commenta Guido Lanaro - c’era un manifesto che appoggiava l’intervento Onu. Non c’è piaciuto per niente, ma è sintomatico di cosa stia capitando finita l’onda lunga di Genova e dei Social forum». Eppure i ragazzi del Capannone ci sono a tal punto che quasi si schierano a fianco di Hüllweck sul ping pong con il governo centrale, relativo al futuro del Dal Molin: «Stiamo in basso a sinistra ma ci siamo - scherza Pavin - è inconcepibile che un governo di centrosinistra non dica no alla base Usa, quando a Vicenza tutto il centrosinistra è contrario all’insediamento. Faremo di tutto per bloccare l’Ederle 2».