15 MARZO 2006

dal Giornale di Vicenza

Li mette in fila Kader il tunisino
Ater, la protesta degli ex militari
VALDAGNO.«Così si spezza la filiera» I sindacati si oppongono al “piano” della Marzotto

Li mette in fila Kader il tunisino

di Alessandro Mognon

Ammettiamolo: se a fare la fila una notte intera fossero stati solo italiani le cose non sarebbero andate così lisce. Perché oramai gli immigrati sono abituati a farle le code e perché sono più pazienti di noi. Così il “martedì bianco” delle migliaia di extracomunitari che hanno atteso da lunedì davanti agli uffici postali di città e provincia per consegnare la richiesta dei permessi di lavoro si è risolta senza problemi. E nel giro di due ore dopo l’apertura degli sportelli alle 14.30, senza risse né grandi discussioni, quasi tutte le domande erano state presentate e le code sparite. Una buona prova di organizzazione, comunque: da parte delle poste e dei servizi comunali e non, che per tutta la notte hanno dato una mano a chi dormiva al freddo. Portando coperte, tè e cioccolata calda. Una buona prova che non cancella però le critiche a una legge che costringe uno straniero, che magari lavora qui da anni, a passare una notte sul marciapiede. Piccolo riassunto della giornata. Alle 14 alle poste centrali di piazza Garibaldi dietro alle transenne ci sono un centinaio di persone. Tutti hanno un mini-foglietto con il numero in mano, dirige le operazioni un giovane tunisino, Kader: «Faccio il muratore, ma oggi organizzo la fila». Perché lui? «Qualcuno doveva farlo…». Davanti all’entrata ci sono 4-5 agenti di polizia, ma la situazione è tranquilla. Qualche protesta, qualcuno si lamenta perché «ero qui da stanotte, mi sono allontanato perché stavo male e adesso sono in fondo…». Un’ispettrice di polizia avvisa: «Allora, entrate sei alla volta, man mano che finiscono avanti gli altri». Pochi minuti prima dell’ora fatidica dentro alle poste c’è il direttore dell’ufficio Luigi Mazzocco piantato in mezzo alla sala, i sei sportelli pronti e i primi sei stranieri in attesa con la loro busta in mano. Tutti guardano l’orologio sul muro. Mazzocco sorride: «Sembra di essere alla Nasa al lancio di un missile…». Poi via: ognuno può portare fino a 5 domande, ma alla fine non sono molti. Ci vogliono almeno due minuti per documento, anche se nelle simulazioni ne bastava uno. «È vero, ma bisogna contare chi non ha i soldi contati o si presenta con la busta aperta» spiega il direttore. Ad ogni modo erano pronti, dicono, a reggere fino a 1.800 domande. Alle poste centrali hanno perfino recuperato un impiegato che parla serbo, croato e russo. La prima a uscire con la sua ricevuta è una signora filippina vestita di rosso, tutta sorridente: «Sono incinta, la notte l’ha fatta mio fratello - racconta -. E la domanda è per mio nipote che fa il domestico». Le badanti sono la maggioranza: moldave, ucraine, cingalesi. Leo il cinese tenta la furbata: consegna la domanda, esce dalle poste, ne porta dentro un’altra e cerca di darla a una donna che aspetta. «Eh no, fuori…» gli dice l’ispettrice della questura. Sempre fuori c’è Abdul, dal Marocco: si lamenta perché ha il numero ma è fuori dalla fila e lo fermano. Tanto lui è cittadino italiano, fa la domanda per la nipote infermiera. Anche in via IV Novembre fila tutto liscio: circa 150 gli extracomunitari in attesa, i due poliziotti sulla porta sono solidali: «È brava gente, si sono auto-organizzati, dovrebbero prenderli tutti…». Tre gli sportelli aperti, anche qui alle 16 è finito tutto. Idem alle poste del Mercato Nuovo: anche lì circa 250 persone. Difficile fare i conti, ma solo a Vicenza città con i suoi 12 uffici postali potrebbero aver fatto domanda quasi 3 mila persone. A fine giornata ci pensano le Poste a dare le cifre ufficiali: in tre ore i 254 sportelli aperti hanno registrato con una precisione al millesimo di secondo 9.094 domande in provincia di Vicenza. Un dato: alle 16.30 ieri in tutta Italia erano 469 mila le richieste di permesso di lavoro consegnate. Cioè quasi tre volte i 170 mila posti disponibili. Le Poste hanno comunicato che la quota dei 170 mila nazionale è stata raggiunta alle 14.44: chi ieri a Vicenza ha controllato l’ora in cui ha consegnato il suo kit, sa già ora qual è il verdetto.

In giro per la città a raccogliere le confidenze e gli sfoghi delle centinaia di immigrati che fanno la “guardia” agli ingressi degli uffici postali
La notte alimenta confessioni di speranze e delusioni
Mansur: «Spero che mio cognato resti in Marocco». Un ragazzo serbo: «Qui ho trovato pace»

di Giovanni Zanolo

Una notte per una vita. Che cosa sono 12 ore passate all’adiaccio di fronte alla possibilità di una nuova esistenza? La risposta è racchiusa nelle speranze, nella perseveranza, nell’allegria, nella rabbia, ma soprattutto nell’incredibile dignità con la quale, lunedì notte, centinaia di uomini e donne originari da decine di Paesi del mondo hanno atteso al gelo l’ora “x” in cui le porte degli uffici postali si sarebbero aperte e, con esse, la possibilità di una nuova vita. Ore 1.36. Di fronte all’ufficio postale di via Cattaneo il silenzio della notte è incrinato da un vociare. In un italiano colorato dai più diversi accenti, una quindicina di persone discutono animatamente. Tra poco scatta il prossimo appello: chi c’è, c’è, chi non c’è verrà tolto dalla lista. Per la domanda di assunzione, infatti, sarà determinante l’orario esatto di spedizione dei documenti. Una donna moldava prende in mano la situazione: «Tra mezz’ora si fa l’appello. È deciso». Nessuno parla. A darle sostegno altre sei moldave, in abiti eleganti e in silenzio di fronte all’entrata dell’ufficio. «Siamo arrivate alle 2 del pomeriggio e non ce ne andremo». Simili a soldati in difesa di un avamposto, si ergono a semicerchio di fronte all’entrata. Ma dalla fierezza trapela la fragilità e l’incertezza di fare un sacrificio per nulla: «Io farò la domanda per una mia parente. Chi lo sa: tutto dipende dall’ora esatta del timbro postale. I posti sono pochi» spiega una di loro. Ore 2.24. Poste centrali. Sembra quasi di vedere una trentina di persone raccolte per una festa notturna: l’atmosfera è gioiosa, c’è chi scherza, chi gioca a carte, chi cerca di dormire sotto qualche coperta. Mansur, marocchino, sulla quarantina, parla in italiano perfetto: «Se te me senti in diaeto streto te sembraria de Noventa Vicentina», esordisce ridendo. «Sono vent’anni che vivo a Vicenza. Ho studiato qui, ho preso il diploma al Lampertico. Ora lavoro come elettricista, ho casa e famiglia». Se non fosse per i lineamenti “magrebini”, parrebbe un vicentino doc: «Io le ho veramente viste tutte, le fasi dell’immigrazione. Ora è molto diverso, gli immigrati sono sempre di più e l’Italia, per certi versi, si trova impreparata. Possibile che non esista un altro modo che questo? E, poi, perché sono stati distribuiti 2 milioni di “kit documenti” quando i posti sono solo 170 mila? Ogni kit costa 14 euro, e così allo Stato arrivano netti 28 milioni di euro. Mica male no?». Il discorso fila, la notte fa il resto, si parla di politica, cultura, religione. Mansur è informatissimo di tutto, sembra più “integrato” di un italiano: «Eppure non mi sento a casa, qui. Non ho mai avuto problemi, ho tantissimi amici italiani, eppure non riesco a sentirmi a casa. Spero che i miei figli non sentiranno ciò che sento io ora, altrimenti sarà tutto invano. Sono venuto in Italia per studiare, e ora sono felice. Tuttavia mi piacerebbe convincere mio cognato, per il quale sto facendo la fila adesso, a rimanere in Marocco. All’estero esiste un’immagine stereotipata dell’Italia e, in fondo, in Marocco ora non si sta poi così male. Ma non potrei comunque negare che l’Italia mi ha dato tanto: mi ha fatto capire che se si vuole ottenere qualcosa bisogna darsi da fare e non rimanere tutto il giorno su un marciapiede, aspettando che arrivi qualcosa dal cielo». O dagli uffici postali. Quando si toccano temi religiosi si inserisce un tunisino: «Ammetto che siamo noi immigrati a portare in Italia un pessimo Islam: prima di tutto la colpa è nostra». Perché non ci sono chiese in Arabia Saudita? Semplice: «Il papa lascerebbe costruire una moschea dentro al Vaticano?». «In altri Paesi c’è grande tolleranza - aggiunge Mansur -. Quando arrivo in nave a Tangeri, la prima cosa che vedo della mia terra è il campanile di una chiesa!». Ormai sono le quattro passate, la notte è ancora lunga, e sempre più fredda. Un ragazzo serbo dice che in Italia ha finalmente trovato pace: «Qui c’è molta libertà per noi immigrati. Dicono che uno è espatriato e poi lo si vede tranquillo per strada. Altro che in Svizzera». Ore 5.34. Uffici postali di S. Pio X. In un’atmosfera surreale si vedono decine di macchine parcheggiate e accese: l’unico modo per stare un po’ al caldo. Una ragazza serba fa amicizia con una sua compaesana, appena conosciuta: «Questa notte anche i nemici diventano amici». Tra di loro anche un’italiana in coda per il fratello del suo fidanzato marocchino: «Per me sarà la prima e l’ultima volta!». Ma un’altra donna, di origine serba, è meno ottimista: «L’ultima volta la mia domanda non è passata per un minuto soltanto: è come giocare alla lotteria». Ormai albeggia. Sono le sette, la città lentamente si sveglia. Ma c’è chi non è mai andato a letto. In piazza Garibaldi arriva il mercato e le trenta persone di poche ore prima sono sempre le stesse, come non è cambiata l’ironia di Mansur: «Speriamo almeno che la prossima volta si faccia in luglio!».


La direzione: «Si tratta di un normale iter». Le “vittime”: «È una vergogna trattarci così»
Ater, la protesta degli ex militari
Sfratti per poliziotti, carabinieri e secondini arrivati al congedo

di Eugenio Marzotto

La botta: «Ci sbattono sulla strada dopo una vita passata al servizio della gente». La risposta: «Dovrebbero ringraziare per aver ottenuto una casa insieme al trasferimento». Lo scontro è totale tra l’Ater e gli ex dipendenti delle forze dell’ordine, ora in pensione, che secondo la legge e un accordo con le forze dell’ordine, avrebbero il dovere una volta chiuso il rapporto di lavoro, di lasciare gli appartamenti dell’Ater che li affitta ad altri dipendenti delle forze dell’ordine in servizio a Vicenza. In questi giorni l’azienda territoriale di edilizia residenziale, sta spedendo le normali comunicazioni al Comune di Vicenza che poi dovrà avviare il provvedimento di sfratto. Ma anche sui numeri le parti non si trovano d’accordo: «In centinaia rischiamo di perdere la casa» fanno sapere gli ex militari, «ci sono solo quattro casi di ipotetico sfratto» ribatte il direttore dell’Ater. Comunque sia il problema tocca e toccherà il futuro di famiglie abituate a vivere nella loro casa ignari forse, di un contratto che parla chiaro. Al momento della stipula infatti si specifica che una volta andati in congedo gli ex poliziotti, carabinieri, finanzieri o guardie carcerarie, devono lasciare l’abitazione. E la regola vale anche per le mogli separate o divorziate che vivono nella casa affidata a suo tempo al marito. Inoltre per chi soffre di malattie professionali esiste la possibilità di posticipare il trasloco di tre anni. «Una vergogna tuona - Antonino Trimarchi, ex vice sovrintendente della questura che attende la lettera di sfratto - dopo una vita passata a rischiare la vita per proteggere la comunità ci sbattono in mezzo ad una strada. Ma chi ha sessant’anni e oltre come può accedere ad un mutuo? È questa la riconoscenza che riceviamo dopo anni di sacrificio e servizio». Dall’Ater Ruggero Panozzo, direttore dell’ente spiega che si tratta di un «normale tur over». Stupito della reazione commenta: «Lo sanno tutti che alla fine del periodo lavorativo bisogna consegnare le chiavi e finora non c’è stato nessun atteggiamento coercittivo da parte nostra. Due ex militari hanno già goduto della proroga di tre anni, per altri due casi invece non abbiamo ricevuto spontaneamente la comunicazione del congedo. Non siamo noi ad essere intransigenti è la legge che ci impone questa procedura». Le case una volta liberate saranno nuovamente riaffittate ad altri dipendenti delle forze dell’ordine. In tutto 40 appartamenti più altri 26 nuove abitazioni i cui bandi saranno pronti entro l’anno. «Francamente questa categoria di lavoratori è già abbastanza agevolata. - si sfoga Panozzo -. Quando arrivano da province lontane hanno già una casa sicura, altri lavoratori invece si devono arrangiare». «Ma una casa dove la troviamo in 30 giorni?». Ribadisce Trimarchi a nome di tutti i colleghi che dovranno lasciare l’abitazione. «Una vergogna, è una vergogna».


Venerdì riprende il confronto con l’azienda
«Così si spezza la filiera» I sindacati si oppongono al “piano” della Marzotto

di Marco Scorzato

«Guardate le tapparelle della palazzina uffici, sono rotte e mezze cadenti. Mentre il presidente Favrin dichiara sulla stampa che il gruppo Marzotto macina utili operativi in tutti i settori, qui non si fanno nemmeno gli interventi di manutenzione e alcuni stabili sembrano lasciati andare». È un’immagine forte quella usata da Maurizio Ferron, delgato della Cgil, dai gradini della portineria Marzotto in largo S. Margherita. Lì ieri, Cgil, Cisl e Uil, insieme alle Rsu, hanno allestito una conferenza stampa per fare il punto sul piano industriale presentato dall’azienda. «Il piano del 6 marzo scorso non è accettabile - spiega Antonio Visonà, della Uil -. Non è sostenibile per l’impatto occupazionale e non condividiamo la strategia industriale che ne sta alla base». Nel vertice della scorsa settimana, l’azienda ha prospettato l’intenzione di delocalizzare alcuni reparti, trasferendoli nello stabilimento di Nova Mosilana, in Repubblica Ceca: si tratta dei reparti di filatura, tintoria e mistificio. Un’operazione che permetterebbe di risparmiare sui costi della manodopera. Sarebbero 97 le persone coinvolte, ma l’azienda ha prefigurato anche l’uscita di 49 lavoratori “pensionabili”: in tutto fanno 146 esuberi. E per il 2007 vengono annunciati altri interventi di riorganizzazione per il reparto tessitura. «Il vero problema - sottolinea Mario Siviero, della Cisl - è che questo piano, per la prima volta nella storia della Marzotto, spezzerebbe la filiera produttiva a Valdagno. Le nostre controproposte? Tenere qui le lavorazioni perché solo così si rafforza uno stabilimento che è stato definito “centrale”». Poi aggiunge: «Se la logica dell’azienda è solo quella di remunerare il capitale degli azionisti, allora non c’è futuro per Valdagno. Noi non diciamo che l’azienda debba andare in perdita, ma c’è anche una via di mezzo: dal ’99 ad oggi, il gruppo Marzotto ha licenziato in Italia circa 1200 lavoratori». «L’accordo firmato al ministero - spiegano Siviero, Ferron e Visonà - dice che sono da ricercare soluzioni diverse dalla mobilità: cassa integrazione speciale e contratto di solidarietà sono fra queste. Il problema è “come” si usano questi strumenti: se sono l’anticamera del licenziamento è la fine». Rispetto alla crisi della Lanerossi dove era scattata la cassa integrazione perché non c’era lavoro, «la produzione non manca», fanno notare i sindacati. E sottolienano che, salvo l’interruzione per la vertenza del contratto nazionale, i dipendenti hanno fatto anche gli straordinari. Ieri, in largo S. Margherita è transitato anche Massimo Lolli, responsabile delle risorse umane, che si è intrattenuto per un breve confronto verbale con le Rsu. Ma il confronto vero tra le parti è in programma venerdì. E, fino al 6 aprile, ci sarà spazio per ulteriori puntate. Nell’accordo di Roma si afferma infatti che per un mese intero dalla presentazione di un piano di ristruttrazione, le parti rinunciano ad azioni unilaterali. Ieri sera, la Triplice ha incontrato il sindaco Alberto Neri. «L’azienda ha una responsabilità sociale verso il territorio - hanno concluso -. Una riduzione di posti di lavoro a Valdagno sarebbe preoccupante: qui le alternative occupazionali mancano».