Ater, la protesta degli ex militari
Sfratti per poliziotti, carabinieri e secondini arrivati al congedo
di Eugenio Marzotto
La botta: «Ci sbattono sulla strada dopo una vita passata al servizio della gente». La risposta: «Dovrebbero ringraziare per aver ottenuto una casa insieme al trasferimento».
Lo scontro è totale tra l’Ater e gli ex dipendenti delle forze dell’ordine, ora in pensione, che secondo la legge e un accordo con le forze dell’ordine, avrebbero il dovere una volta chiuso il rapporto di lavoro, di lasciare gli appartamenti dell’Ater che li affitta ad altri dipendenti delle forze dell’ordine in servizio a Vicenza.
In questi giorni l’azienda territoriale di edilizia residenziale, sta spedendo le normali comunicazioni al Comune di Vicenza che poi dovrà avviare il provvedimento di sfratto.
Ma anche sui numeri le parti non si trovano d’accordo: «In centinaia rischiamo di perdere la casa» fanno sapere gli ex militari, «ci sono solo quattro casi di ipotetico sfratto» ribatte il direttore dell’Ater.
Comunque sia il problema tocca e toccherà il futuro di famiglie abituate a vivere nella loro casa ignari forse, di un contratto che parla chiaro. Al momento della stipula infatti si specifica che una volta andati in congedo gli ex poliziotti, carabinieri, finanzieri o guardie carcerarie, devono lasciare l’abitazione. E la regola vale anche per le mogli separate o divorziate che vivono nella casa affidata a suo tempo al marito. Inoltre per chi soffre di malattie professionali esiste la possibilità di posticipare il trasloco di tre anni.
«Una vergogna tuona - Antonino Trimarchi, ex vice sovrintendente della questura che attende la lettera di sfratto - dopo una vita passata a rischiare la vita per proteggere la comunità ci sbattono in mezzo ad una strada. Ma chi ha sessant’anni e oltre come può accedere ad un mutuo? È questa la riconoscenza che riceviamo dopo anni di sacrificio e servizio».
Dall’Ater Ruggero Panozzo, direttore dell’ente spiega che si tratta di un «normale tur over». Stupito della reazione commenta: «Lo sanno tutti che alla fine del periodo lavorativo bisogna consegnare le chiavi e finora non c’è stato nessun atteggiamento coercittivo da parte nostra. Due ex militari hanno già goduto della proroga di tre anni, per altri due casi invece non abbiamo ricevuto spontaneamente la comunicazione del congedo. Non siamo noi ad essere intransigenti è la legge che ci impone questa procedura».
Le case una volta liberate saranno nuovamente riaffittate ad altri dipendenti delle forze dell’ordine. In tutto 40 appartamenti più altri 26 nuove abitazioni i cui bandi saranno pronti entro l’anno.
«Francamente questa categoria di lavoratori è già abbastanza agevolata. - si sfoga Panozzo -. Quando arrivano da province lontane hanno già una casa sicura, altri lavoratori invece si devono arrangiare».
«Ma una casa dove la troviamo in 30 giorni?». Ribadisce Trimarchi a nome di tutti i colleghi che dovranno lasciare l’abitazione. «Una vergogna, è una vergogna».
«Così si spezza la filiera» I sindacati si oppongono al “piano” della Marzotto
di Marco Scorzato
«Guardate le tapparelle della palazzina uffici, sono rotte e mezze cadenti. Mentre il presidente Favrin dichiara sulla stampa che il gruppo Marzotto macina utili operativi in tutti i settori, qui non si fanno nemmeno gli interventi di manutenzione e alcuni stabili sembrano lasciati andare». È un’immagine forte quella usata da Maurizio Ferron, delgato della Cgil, dai gradini della portineria Marzotto in largo S. Margherita. Lì ieri, Cgil, Cisl e Uil, insieme alle Rsu, hanno allestito una conferenza stampa per fare il punto sul piano industriale presentato dall’azienda. «Il piano del 6 marzo scorso non è accettabile - spiega Antonio Visonà, della Uil -. Non è sostenibile per l’impatto occupazionale e non condividiamo la strategia industriale che ne sta alla base».
Nel vertice della scorsa settimana, l’azienda ha prospettato l’intenzione di delocalizzare alcuni reparti, trasferendoli nello stabilimento di Nova Mosilana, in Repubblica Ceca: si tratta dei reparti di filatura, tintoria e mistificio. Un’operazione che permetterebbe di risparmiare sui costi della manodopera. Sarebbero 97 le persone coinvolte, ma l’azienda ha prefigurato anche l’uscita di 49 lavoratori “pensionabili”: in tutto fanno 146 esuberi. E per il 2007 vengono annunciati altri interventi di riorganizzazione per il reparto tessitura.
«Il vero problema - sottolinea Mario Siviero, della Cisl - è che questo piano, per la prima volta nella storia della Marzotto, spezzerebbe la filiera produttiva a Valdagno. Le nostre controproposte? Tenere qui le lavorazioni perché solo così si rafforza uno stabilimento che è stato definito “centrale”». Poi aggiunge: «Se la logica dell’azienda è solo quella di remunerare il capitale degli azionisti, allora non c’è futuro per Valdagno. Noi non diciamo che l’azienda debba andare in perdita, ma c’è anche una via di mezzo: dal ’99 ad oggi, il gruppo Marzotto ha licenziato in Italia circa 1200 lavoratori».
«L’accordo firmato al ministero - spiegano Siviero, Ferron e Visonà - dice che sono da ricercare soluzioni diverse dalla mobilità: cassa integrazione speciale e contratto di solidarietà sono fra queste. Il problema è “come” si usano questi strumenti: se sono l’anticamera del licenziamento è la fine».
Rispetto alla crisi della Lanerossi dove era scattata la cassa integrazione perché non c’era lavoro, «la produzione non manca», fanno notare i sindacati. E sottolienano che, salvo l’interruzione per la vertenza del contratto nazionale, i dipendenti hanno fatto anche gli straordinari.
Ieri, in largo S. Margherita è transitato anche Massimo Lolli, responsabile delle risorse umane, che si è intrattenuto per un breve confronto verbale con le Rsu. Ma il confronto vero tra le parti è in programma venerdì. E, fino al 6 aprile, ci sarà spazio per ulteriori puntate. Nell’accordo di Roma si afferma infatti che per un mese intero dalla presentazione di un piano di ristruttrazione, le parti rinunciano ad azioni unilaterali.
Ieri sera, la Triplice ha incontrato il sindaco Alberto Neri. «L’azienda ha una responsabilità sociale verso il territorio - hanno concluso -. Una riduzione di posti di lavoro a Valdagno sarebbe preoccupante: qui le alternative occupazionali mancano».