Siciliano rivelò agli inquirenti di aver rubato l’esplosivo nella cava di Chiampo
di Marino Smiderle
Allora è tutto inventato? Sono solo fantasie le testimonianze che parlano di Arzignano come lontano punto di partenza per l’infame attentato di piazza Fontana? Balle partorite dalla mente malata di due pentiti un tempo ritenuti attendibili come Carlo Digilio e Martino Siciliano? Evidentemente, sì. La Corte di Cassazione, che non giudica sul merito, ha confermato l’assoluzione di Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni e Delfo Zorzi. Dopo la condanna all’ergastolo, in primo grado, l’assoluzione della Corte d’Appello, ecco che arriva la parola fine in calce ad un mistero all’italiana, più che italiano: dopo 36 anni non c’è straccio di colpevole, la giustizia alza definitivamente bandiera bianca.
Per carità, meglio ammettere di aver sbagliato che mandare in galera qualcuno solo per rispondere alla domanda di giustizia popolare. Però, dopo il lavoro svolto dal pm Laura Bertolè Viale, dopo la messe di dati archiviati e codificati dal giudice Guido Salvini, dopo un lavoro immane, sia pure tardivo, il castello è crollato. Non si saprà mai chi ha messo quella bomba, contenente sette chili di tritolo, nella sede milanese della Banca nazionale dell’Agricoltura il 12 dicembre 1969.
Rileggere il dispositivo predisposto da Salvini col senno di poi è istruttivo. La storia non si scrive con i se, figurarsi la giustizia. Eppure il capitolo vicentino, quello iniziale, datato metà anni Sessanta, almeno 4 anni prima dell’attentato, era considerato centrale nell’attribuzione della responsabilità della strategia stragista alla matrice nera di Ordine Nuovo. «Tale episodio - argomentava Salvini - costituisce, secondo il racconto di Martino Siciliano, il momento iniziale, avvenuto nel 1965 o più probabilmente nel 1966, della formazione della dotazione militare della struttura occulta di Ordine Nuovo per quanto concerne la cellula mestrino/veneziana e si colloca altresì contestualmente alla nascita, soprattutto in Veneto, dei nuclei di difesa dello stato costituiti da militari e da civili prevalentemente ordinovisti».
L’episodio è l’ormai famoso furto di 50 chili di esplosivo dalle cave di Arzignano. Sia Siciliano che Digilio, ricordano che Delfo Zorzi, nativo proprio di Arzignano, conosceva molto bene queste zone. E sarebbe stato lui a progettare il furto. «....Ci recammo sul posto con la Fiat 500 del dott. Carlo Maria Maggi, accompagnati ovviamente da Zorzi che conosceva i luoghi - riferiva Siciliano in un interrogatorio -. Ricordo che io avevo da poco preso la patente e guidavo la macchina. Eravamo io, Montagner e Zorzi. Maggi era al corrente che noi dovevamo prendere la macchina per questa missione. Rubammo da un casotto, sfondando la porta, l'esplosivo, erano 30 o 40 chilogrammi di ammonal diviso in sacchetti di plastica trasparente, nonché detonatori e miccia sia detonante sia a lenta combustione. Poiché si trattava di un grosso quantitativo ne nascondemmo una parte in un luogo non distante e portammo il resto a Venezia con la 500. Dopo qualche giorno tornammo a Vicenza in treno, sempre noi tre, prendemmo l'autobus per Arzignano e recuperammo l'altro esplosivo e la miccia nascondendoceli addosso e rientrando così a Venezia. Zorzi si occupò personalmente di custodire tutto l'esplosivo».
Da questo filo nero, srotolato prima nel Veneto e poi in tutta Italia (attentati ai treni), fino ad arrivare a piazza Fontana, i magistrati inquirenti partivano per dimostrare tutta la sequenza stragista. Ritenendo responsabili, appunto, Zorzi, Maggi e Rognoni. E c’era anche un altro vicentino del giro, Marco Pozzan, nativo di Santorso. «Pozzan era di piccola statura e aveva i capelli neri - ricordò Digilio a proposito del casolare di Paese dove si sarebbero costruiti gli ordigni per gli attentati ai treni -. All'epoca era piuttosto magro ed emaciato e con i lineamenti del viso spigolosi. Sul tavolo di questa stanzetta egli stava eseguendo l'assemblaggio di scatolette di legno, parte delle quali erano già terminate e parte erano ancora in costruzione. Sul tavolo c'era un seghetto, listelle di legno già tagliate, un cacciavite, viti, delle piccole cerniere e vari tubetti di colla il cui odore impregnava la stanza. Diverse scatolette erano già pronte, appoggiate una sull'altra. Le scatolette non erano molto grandi, non più di 15/20 centimetri per lato. Con Pozzan, che stava lavorando, scambiai solo pochi convenevoli. Ricordo che ad un certo punto, Zorzi andò nella stanzetta dove era Pozzan incitandolo a darsi da fare.... Quando sui giornali vidi pubblicate le fotografie di uno degli ordigni non esplosi, rinvenuto su uno dei convogli ferroviari, riconobbi immediatamente una delle scatolette di legno viste sul tavolo di Pozzan, così come riconobbi immediatamente il meccanismo di innesco contenuto nella scatola, che era quello che veniva preparato nell’altra stanza».
E si potrebbe continuare per decine di pagine, con testimonianze, riscontri, documenti, intercettazioni. Ma non serve. La sentenza della Cassazione ha cancellato tutto. Tanto che questi atti giudiziari, il filo nero che porta da Arzignano a piazza Fontana, i vicentini di Ordine Nuovo paiono adesso come dei fantasmi, frutto dell’immaginazione di un tempo ormai sbiadito, lontano.
Si comincia con la falsa pista anarchica
La lunga sequenza nelle aule giudiziarie
Tutte le condanne sono state poi ribaltate
È arrivata alla conclusione, dopo ben 11 processi e quattro procedimenti approdati in Cassazione, la vicenda giudiziaria legata alla strage di piazza Fontana. Queste alcune delle principali tappe dell’inchiesta e dei processi che si sono susseguiti sulla strage, in oltre 35 anni.
- 12 dicembre 1969: un ordigno esplode nella Banca Nazionale dell’ Agricoltura in piazza Fontana a Milano, 17 morti e 84 feriti.
- 15 dicembre 1969: a Milano l’ anarchico Giuseppe Pinelli muore precipitando da una finestra della Questura mentre viene interrogato. Lo stesso giorno è arrestato Pietro Valpreda.
- 23 febbraio 1972: si apre a Roma il primo processo. Dopo 4 giorni la Corte si dichiara incompetente e rinvia gli atti a Milano.
- 13 ottobre 1972: la Cassazione assegna la competenza a Catanzaro, perché a Milano possono esserci problemi di ordine pubblico.
- 23 febbraio 1979: a Catanzaro ergastolo per Freda, Ventura e Giannettini. Quattro anni e mezzo per Valpreda e Merlino per associazione sovversiva.
- 12 agosto 1979: a Buenos Aires viene arrestato Giovanni Ventura.
- 23 agosto 1979: Franco Freda viene catturato in Costa Rica.
- 20 marzo 1981: a Catanzaro si conclude il processo di secondo grado.
La sentenza assolve per insufficienza di prove dall’ accusa di strage Franco Freda e Giovanni Ventura ma li condanna a 15 anni per attentati a Padova e Milano. Confermate le condanne di Valpreda e Merlino per associazione sovversiva. Assolto Giannettini.
- 10 giugno 1982: la Corte di Cassazione annulla la sentenza d’ appello di Catanzaro e rinvia il processo a Bari. Confermata solo l’ assoluzione di Guido Giannettini.
- 1 agosto 1985: a Bari la Corte d’ Assise d’ Appello assolve per insufficienza di prove Freda, Ventura, Merlino e Valpreda.
- 8 giugno 1999: sono rinviati a giudizio per strage Zorzi, Maggi e Giancarlo Rognoni; per favoreggiamento Stefano Tringali. In seguito viene rinviato a giudizio anche Carlo Digilio.
- 30 giugno 2001: i giudici della seconda Corte d’ Assise accolgono le conclusioni dell’ accusa e condannano Zorzi, Maggi e Rognoni all’ ergastolo. Tre anni a Tringali, prescritto Digilio.
- 12 marzo 2004: la Corte d’assise d’Appello di Milano assolve Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni, i tre imputati principali della strage, per non aver commesso il fatto.
- 3 maggio 2005: la Cassazione chiude definitivamente la vicenda giudiziaria confermando definitivamente le assoluzioni di Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni.
Addio al posto fisso. Tutti in “prova”
In tre anni 500 contratti in meno La mobilità tocca settanta aziende
di Silvia Vincis
Forte flessione dei contratti stipulati per i lavoratori dipendenti, pochissimi contratti a tempo indeterminato, 69 tra piccole e grandi aziende della vallata costrette alla mobilità dei lavoratori, produttività inferiore al 20% rispetto a Francia e Germania, forte inoccupazione femminile, laureati costretti a spostarsi per trovare lavoro. Secondo Daniele Dal Fiume, presidente di Assoartigiani Valdagno, «bisogna “fare squadra” contro la crisi economica e occupazionale della vallata, perché la situazione è grave».
L’invito è stato rivolto l’altra sera, in sala consiliare a Valdagno, ai rappresentanti delle categorie economiche, sindacati e sindaci di vallata. Ad aprire l’incontro è stato Dal Fiume, organizzatore della riunione e sostenitore di un progetto d’azione congiunta che metta la Valle dell’Agno in condizione di superare la crisi occupazionale.
«L’idea - dice Dal Fiume - è creare un tavolo tecnico che si occupi dell’attuazione di progetti in grado di offrire uno sbocco positivo dopo il periodo di recessione che stiamo vivendo».
L’assessore provinciale Alessandro Testolin, responsabile del Centro per l’impiego di Valdagno ha spiegato che «le cifre in nostro possesso riguardano solo i lavoratori dipendenti, cioè contratto a progetto, tempo determinato ed indeterminato e lavoro interinale. Tra il 2000 e il 2003 si è vista una flessione fortissima nel numero di stipule: dai 4.700 ai 4.262, per calare ancora nel primo quadrimestre del 2005, con una diminuzione del 14% rispetto all’anno precedente. Ciò che allarma di più è però il numero delle persone che si rivolgono a noi in cerca di lavoro: su 1.110 persone, 1.000 si dichiaravano disponibili nel 2004 a qualsiasi tipo di occupazione. Questo testimonia come la condizione di vita sia peggiorata con estrema rapidità: molte famiglie sono diventate mono-reddito, di solito a causa della perdita del lavoro del padre di famiglia. Ecco quindi che molte donne vengono a chiedere un impiego». Guido Scomparin, presidente del raggruppamento di Valdagno dell’Associazione industriali della provincia di Vicenza ha analizzato, invece, il problema della delocalizzazione delle imprese: «A mio parere, un forte freno al superamento della crisi è stato l’introduzione della legge sulla privacy. Deve essere meglio regolamentata, altrimenti finisce per sfavorire il lavoratore. In passato infatti chi entrava in mobilità veniva subito richiamato da altre aziende, ora questo non è più possibile, visti i continui consensi nel trattamento di dati che bisogna richiedere ai dipendenti».
Il sindaco di Valdagno, Alberto Neri, ha messo in evidenza tre punti importanti su cui fare insieme rete: «I singoli comuni della vallata da soli non possono fare niente, solo insieme possiamo cambiare le cose. È necessario migliorare le infrastrutture, risolvere la situazione del traforo Valdagno-Schio per l’integrazione delle città, riaprire la scuola infermieri per dare uno sbocco lavorativo alla difficile situazione del lavoro femminile, puntare sullo sviluppo delle imprese gravate dalla forte crisi provinciale del settore tessile». Anche Giancarlo Pederzoli e Danilo Andriolo, esponenti di Cisl e Cgil, hanno «grave ed allarmante» la situazione. «Il problema - afferma Andriolo - non è da individuare nel solo aumento del costo del lavoro o nella mancata produttività, ma in una componente più complessa di fattori. Uno tra questi è la dimensione d’impresa, deve essere sostenuta per crescere, e per questo occorre fare sistema tra istituzioni locali ed aziende, puntare molto sulla formazione, sullo sviluppo, sulla ricerca».