03 DICEMBRE 2006

In 15 mila sfilano pacificamente

Otto chilometri per 15 mila persone. In tanti hanno sfilato ieri per le strade di Vicenza per dire no al progetto di costruire una nuova caserma americana al Dal Molin. La protesta è stata pacifica, nei gesti e nei toni: non ci sono state tensioni, né incidenti. Iniziata in viale della Pace, davanti a villa Tacchi, con puntualità quasi svizzera alle 14 e qualche minuto, la manifestazione si è conclusa alle 17 a Rettorgole con un concerto rock. Imponente il dispiegamento di forze dell’ordine, con centinaia di poliziotti e carabinieri che hanno presidiato la città e l’aeroporto sotto l’attenta regia del questore Dario Rotondi. Le misure. Come da copione, manifestazioni come quella di ieri devono sottoporsi al rituale delle misure. Secondo le stime della questura, calcolate dall’alto grazie all’elicottero che ha sorvegliato dal primo all’ultimo minuto il tragitto scelto dal “popolo delle pentole”, in strada c’erano oltre 12 mila persone. Discordanti i numeri forniti dagli organizzatori: l’assemblea permanente contro il Dal Molin parla di 20 mila manifestanti, la Cgil di 30 mila, mentre i portavoce del coordinamento dei comitati ritengono attendibile che i partecipanti fossero fra i 14 e i 16 mila. Il serpentone si è dipanato su un percorso di 8,7 chilometri. Dalla testa alla coda era lungo circa 3 chilometri: quando il primo manifestante arrivava a ponte Pusterla, l’ultimo muoveva i primi passi in corso Padova. Il tempo impiegato per percorrere ogni punto del tragitto è stato di circa 50 minuti. La composizione. Il corteo è stato molto composito: si calcola che in rappresentanza dei comitati ci fossero oltre 5 mila manifestanti, a cui si sono aggiunti 2 mila esponenti dei centri sociali e altre migliaia di esponenti di gruppi, associazioni, partiti, sindacati. Oltre 300 i gruppi aderenti, tra i quali una decina di Emergency, molti Social Forum del nord e centro Italia, le Donne in nero, l’assemblea permanente No Mose, l’osservatorio contro le servitù militari, il Comitato nazionale per il ritiro dei militari italiani, gli Anarchici di Milano, i No Tav piemontesi. Dal fronte sindacale si sono viste sventolare le bandiere dei sindacati di base e della Cgil, che ha dato vita a un proprio corteo partito dallo stadio Menti. Dal fronte politico, invece, si sono distinti partiti di sinistra, come i Verdi, i Comunisti italiani e Rifondazione comunista. I Democratici di sinistra non erano presenti con le insegne di partito, ma lo erano con molti esponenti a titolo personale. Numerosi i parlamentari dell’Unione, fra cui Paolo Cacciari di Rifondazione comunista, fratello del sindaco di Venezia, e Haidi Giuliani, madre di Carlo Giuliani e oggi senatrice di Rifondazione comunista. E c’era anche Luca Casarini, leader dei centri sociali del Nordest. I messaggi. Sono mancate invece le star che alla vigilia avevano dato la propria adesione: il premio Nobel Dario Fo, Franca Rame, Margherita Hack, Oliviero Diliberto. Quest’ultimo è stato fatto bersaglio di alcuni cori intonati dai centri sociali, come il Gramigna di Padova: «Diliberto servo dei padroni». I disobbedienti hanno contestato anche il Governo Prodi, battezzato «governo di guerra». Hanno manifestato anche pacifisti statunitensi, che hanno portato la loro solidarietà alla cittadinanza vicentina. Sul palco allestito a Rettorgole, al termine della manifestazione, è salito anche un rappresentante del gruppo di Indios Mapuche, in lotta contro Benetton, venuti dalla Patagonia per unirsi alla battaglia anti-Dal Molin. Molti gli striscioni indirizzati al sindaco Enrico Hüllweck e alla sua maggioranza per aver votato un ordine del giorno possibilista sul nuovo insediamento. Ancora più numerosi gli appelli al referendum sul progetto e al ministro della Difesa Arturo Parisi perché prenda una decisione dopo mesi di tiremmolla.

I comitati. Soddisfazione e obiettivi dei promotori
«È stata soltanto una festa E adesso il referendum»

«E adesso ci facciano fare il referendum». Giancarlo Albera, uno dei portavoce dei comitati dei cittadini che si battono contro l’operazione del Dal Molin americanizzato, ha appena finito di completare gli 8 chilometri e 700 metri del percorso. Intorno al collo ha annodata la bandiera arcobaleno della pace; in mano stringe la bandiera bianca con la scritta “No al Dal Molin”. «Ne abbiamo vendute centinaia», dice prima di salire sul palco nel parco di Rettorgole, da dove lancia la proposta: «Tutti i vicentini che si dicono contrari al progetto di costruire un nuovo insediamento militare a Vicenza espongano questa bandiera bianca alle finestre di casa: non ha simboli di partito, non ha connotazioni ideologiche, è soltanto un segno di contrarietà al progetto». «Credo che 15 mila partecipanti sia un numero attendibile - prosegue Albera -. È stata una festa pacifica, con moltissimi giovani e tante donne: una manifestazione così al femminile forse è il dato più sorprendente. La gente ha risposto, siamo riusciti ad allargare il consenso a questa battaglia per far capire che la vocazione di Vicenza non è militare. Da domani ci aspettiamo che anche le istituzioni comprendano». «È stata una grande festa», esulta Eugenio Vivian, l’ingegnere che passa le notti a calcolare l’impatto della nuova caserma e che ora racconta la fatica di queste settimane, impiegate a organizzare e a governare le tante anime del corteo, comprese quelle dei centri sociali. Raggianti appaiono Patrizia Balbo e Cinzia Bottene, del coordinamento dei comitati e dell’assemblea permanente, in prima fila con le altre madri, impegnate a sostenere il manifesto ufficiale dei comitati, quello che recitava: «No al Dal Molin: difendere la terra contro le basi di guerra». «È stata una grande festa - commentano -. In testa al corteo c’erano soltanto bandiere bianche. Lungo il percorso ci sono stati momenti commoventi, con anziani che ci applaudivano con le lacrime agli occhi. Tutti si sono comportati in maniera civile, smentendo le cassandre della vigilia. La buona riuscita della manifestazione è il frutto del lavoro dei cittadini, che avevano indicato un obiettivo più importante di qualsiasi altro: dire no a questo progetto. E dobbiamo ringraziare l’equilibrio del questore, il cui atteggiamento è stato ben diverso da quello del sindaco e del vicesindaco che hanno cercato di boicottare questa iniziativa». «È stato meraviglioso: oggi ha perso chi non è sceso in strada e ha vinto la città», dichiara un altro dei promotori, Olol Jackson, che calcola in 20 mila il numero dei manifestanti. Al di là degli slogan gridati dalla pancia e dalla coda del corteo, dove erano stati collocati i centri sociali, i sindacati e i partiti, la maggior parte dei vicentini scesi in strada senza insegne invoca l’indizione del referendum sul Dal Molin, per il quale è stato depositato un nuovo quesito in municipio. Sullo sfondo restano le contraddizioni e le ambiguità del Governo Prodi, che non è ancora riuscito a dire una parola chiara per sbrogliare la matassa. «Adesso la palla passa al Governo e alle autorità locali - avverte Luca Casarini, portavoce dei centri sociali del Nordest, anch’egli fra gli organizzatori -. Di certo, dopo una manifestazione del genere bisogna che chi si trova nella stanza dei bottoni ne tenga conto».

Il serpentone. La composizione del “convoglio” pacifista
In testa mamme e bambini In fondo partiti e sindacati
I ragazzi dei centri sociali sono stati collocati nella “pancia”

Uno dei segreti della buona riuscita della marcia anti-Dal Molin probabilmente è custodito nella composizione del convoglio che ha portato i circa 15 mila manifestanti da viale della Pace a strada S. Antonino. Colpiti ma non travolti dalle polemiche agitate da quanti prospettavano il rischio di incidenti per l’alto numero di partecipanti in arrivo da fuori città e per l’adesione di centri sociali e disobbedienti, i comitati dei cittadini hanno saputo prendere per i capelli l’organizzazione dell’evento e di indirizzarlo verso lo spirito pacifico che alla fine lo ha caratterizzato. Le riunioni si sono ripetute con cadenza quotidiana, quasi un dopo-lavoro. A centinaia i messaggi indirizzati a tutti i gruppi, associazioni e organismi di varia natura che nelle ultime settimane aveva dato l’adesione. In quei messaggi c’erano le “regole d’ingaggio”, come le chiamerebbero i militari: vale a dire il decalogo per partecipare a una manifestazione che si voleva colorata, rumorosa, ma soprattutto non violenta. Niente provocazioni, dunque, niente cori offensivi, niente roghi di pupazzi e bandiere. Strategica, poi, la scelta di strutturare il serpentone per comparti stagni, separati l’uno dall’altro da qualche vistoso vuoto. In prima fila c’erano i bambini, le mamme, le famiglie. Dietro, almeno 4 mila vicentini che ritengono un errore la costruzione della nuova caserma. Nella testa del corteo non sono entrati simboli di partito, slogan anti-americanisti, messaggi politici o sindacali. È questo il settore occupato dal “popolo delle pentole”, vale a dire dai comitati dei cittadini, armati soltanto di strumenti per produrre rumore e della bandiera bianca con il simbolo del No al Dal Molin americanizzato. In fondo al corteo si sono piazzati i partiti aderenti, fra cui i Verdi, i Comunisti italiani e Rifondazione comunista, oltre a una galassia di mini-sigle comuniste. Con loro anche i sindacati di base e la Cgil. Fra la testa e la coda, gli anarchici e i ragazzi dei centri sociali, che si sono limitati a esporre manifesti di contestazione contro il “Governo Prodi, governo di guerra” e ad alzare cori contro i carabinieri e i poliziotti per i fatti del G8 ogni volta che passavano di fronte a reparti schierati in assetto anti-sommossa. Bloccati nella pancia del corteo, i temuti disobbedienti sono stati “disinnescati”, se mai ce ne fosse stato bisogno. Tensioni non ce ne sono state. Sul campo, ripulito dai mezzi di Aim quasi in tempo reale, sono rimasti soltanto un paio di fumogeni, qualche lattina abbandonata e alcune scritte sull’asfalto e sul muro di cinta della caserma Chinotto.

I parlamentari di maggioranza manifestano contro il governo
Fincato, Trupia, Cacciari, Zanella: «Parisi non deve dare il Dal Molin agli Usa»

Non c’è nessuno degli illustri ospiti annunciati. Non c’è Dario Fo, non c’è Margherita Hack, non c’è Oliviero Diliberto. Ma chissenefrega, pensano e dicono gli organizzatori, che si possono vantare, giustamente, di aver portato a Vicenza almeno dodicimila persone senza il benché minimo incidente. Riassume per tutti Luca Casarini: «Dopo una manifestazione del genere - dice il leader dei Disobbedienti - chi sta al governo deve prendere atto che questa gente non vuole vedere armi americane al Dal Molin. Questa gente non tornerà a casa se decideranno di fare la base». Lo pensano anche tutti gli esponenti locali e veneti dell’Unione, e ce ne sono tanti, che auspicano una decisione definitiva del governo. Con un piccolo particolare: quelli che parlano fanno parte a pieno titolo del governo. Però vanno in piazza comunque, manifestando un po’ contro se stessi. «Se rompessero un po’ più le scatole a Roma - sibila un anziano manifestante con falce e martello stampata sul petto - magari il ministro avrebbe già detto no». Achille Variati, della Margherita, mantiene la parola e si fa vedere alla testa del corteo, poco prima di partire da Villa Tacchi. «L’hanno capito tutti che i vicentini non vogliono questa base - dice il consigliere regionale - ed è ora che lo capisca anche il governo. Mi pare che si vada verso il referendum e, quindi, verso il no alla base». Ma si è già pronunciato il Consiglio comunale... «Oggi si capisce bene che la volontà popolare è un’altra». «Quando si è trattato di decidere la manifestazione - aggiunge Luana Zanella, deputata veneta dei Verdi - c’è stata una paura irrazionale dei possibili disordini e del fatto che avrebbero potuto intervenire frange come quelle definite dei black bloc. Questo dimostra la distanza che esiste tra certi dirigenti politici e la realtà del Paese». Anche i Verdi fanno parte del governo, vale la pena di ricordare, ma qui tutti fanno parte del governo, non c’è più un Berlusconi da combattere. Eppure si scende sempre in piazza a manifestare, di lotta e di governo, insomma. Anche Laura Fincato (Margherita) e Lalla Trupia (sinistra Ds), due vicentine che non sempre hanno idee conciliabili, si sono trovate così d’accordo da diffondere un comunicato congiunto: «Abbiamo sfilato assieme a migliaia di cittadini, famiglie e giovani in un pacifico, partecipato e colorato corteo che Vicenza mai aveva visto prima. Oggi la città ha lanciato un chiaro messaggio all’amministrazione Hüllweck: la manifestazione ha detto che il no al referendum, tuttora osteggiato dal sindaco, ha già vinto. A questo punto il Governo, il nostro Governo, non può che dire no, dichiarando chiusa l’ipotesi del raddoppio della base Usa». Il messaggio, veramente, è diretto al governo amico. Amico al punto da dover manifestare per le strade di Vicenza per ricordare al ministro Parisi, ovviamente amico, che gli conviene dire di no agli Usa. E se invece dicesse di sì? «Saremmo fritti - si lascia sfuggire la Fincato - ma dopo quel che si è visto oggi non può certo arrivare un sì». «Questa manifestazione - ha rincarato la dose Paolo Cacciari, deputato di Rifondazione comunista - chiede al governo una presa di orgoglio e di dignità nazionale, non si può svendere una città come Vicenza». Mentre a Roma i nemici del governo, quelli della Cdl, sfilano oceanicamente per chiedere la testa del premier, a Vicenza gli amici, quelli dell’Unione, sfilano per chiedere ciò che potrebbero pretendere battendo i pugni in parlamento. Le senatrici del Prc Tiziana Valpiana e Lidia Menapace incalzano Parisi: «Non deve concedere la base». Ma se tutti questi parlamentari del centrosinistra sono contro la base, che problema c’è a far saltare il progetto?

Dal Messico la solidarietà degli zapatisti: «Vicenza, siamo con te»
«Nel Chiapas sappiamo cosa vuol dire subire occupazioni militari. Adelante, amici italiani, difendete le vostre terre»

Ai «fratelli e sorelle di Vicenza», è arrivato anche il saluto e il sostegno degli zapatisti messicani. Per essere più precisi, dell’Ejército Zapatista de Liberación Nacional México» «Oggi più che mai dobbiamo globalizzare il grido ¡Ya Basta! - si legge nella lettera tradotta da Radio Shock - Global Project - e per questo dobbiamo globalizzare una organizzazione veramente anticapitalista e antineoliberista. Dobbiamo lottare veramente per unire le nostre forze contro tutti i mali di cui soffrono i nostri popoli nel mondo, causati dal capitalismo e dal neoliberismo». L’idea di un popolo che geme in catene oppresso dagli orrori del capitalismo è un pochino esagerata, ma nella lotta governativa contro il governo e contro le basi americane, tutto fa brodo. «Noi siamo venuti a sapere di ciò che accade, e le intenzioni dell’esercito statunitense di ampliare la base militare che ha in Italia - proseguono gli zapatisti -. In Messico e nel Chiapas sappiamo di cosa si tratta. Le occupazioni militari hanno cercato di distruggere le culture e di appropriarsi della terra. Sono state maligne nel vero senso della parola, gli eserciti hanno violentato le donne con la loro presenza nella zona. Quello che vi diciamo, sorelle e fratelli italiani è: Adelante!, difendete le vostre terre, che sono vostre e non dell’esercito invasore. Fuori l’esercito nordamericano dall’Italia». Parisi ha preso nota.

Ragazzi e signore sessantenni assieme. E il portavoce “aiuta” la polizia
Stazione Fs, alle 12 scatta l’ora x ma i no global sembrano turisti
Sono un migliaio e arrivano dai centri sociali di Milano, Bologna e Venezia

I primi ad arrivare, mistero, sono quattro teste rasate con le croci celtiche sul giubbetto; i più tosti invece vengono da Milano, cantano a squarciagola e si presentano già con lo striscione aperto; gli ultimi chissà perché arrivano alle 14 passate dalla vicina Schio. Tutti o quasi ragazzi dei centri sociali, si spostano con il treno. E ieri lo schieramento degli agenti di polizia davanti alla stazione di Vicenza era tutto per loro. Ci sono una cinquantina di poliziotti, otto squadre e almeno sette fra jeep e furgoni. Ma non dovranno muovere un dito. Funziona così: arriva il treno, i gruppi si riuniscono davanti alla stazione poi tutti schiacciati dentro l’autobus delle Aim. A gestire arrivi e partenze, sorpresa, è il portavoce del centro sociale Pedro Max Gallob assieme al capo di gabinetto della questura David De Leo: «Allora, questi dove li mettiamo?». Sbarcano in un centinaio da Padova ma in mezzo ce ne sono da Trieste e Bologna. Gallob: «E i veneziani? Arrivano? Sempre lenti, vengono da una città lenta...». Ci sono ragazzi, quarantenni e anche oltre. Un gruppo di signore con bandiere della pace viene da Modena, Reggio Emilia e Bologna: «Chi siamo? L’ex Forum donne. Ma qui siamo tutti indipendenti». Alla fine, poco prima delle 14, sono partiti otto autobus. Fatti i conti circa un migliaio di persone. Corse speciali? Il direttore di Aim trasporti Nicolò Franzoia sorride: «No, sono quelli di linea. Oggi gli studenti sono usciti prima, così ce ne sono un sacco di liberi. Ma fanno orario e fermate normali». Biglietti a parte. Alle 13.45 scendono i milanesi con altoparlante e slogan che rimbombano nel sottopasso. Sullo striscione è scritto “Stop this fucking war” e “Son contro il Dal Molin areoporto”. Scritto così: areoporto. Urlo finale: «Ragazzi, l’ultimo treno è alle 18 e 42, ci riaccompagnano con le corriere». Gallob sospira: «Altri in arrivo? No, se no mi faccio assumere alle Aim». In viale della Pace i no-global, antagonisti, disobbedienti, anarchici e centri sociali fra cui il temuto Gramigna di Padova (ma sono una trentina) vengono intruppati nella parte centrale del corteo, dietro di loro a chiudere la Cgil. Anzi, gli ultimi che lasciano il cavalcavia di viale della Pace inseguiti un po’ minacciosamente da 6 camionette e 40 carabinieri in tuta antisommossa sono una coppietta in bicicletta con il cartello “Usa - Usurpano Suolo Altrui”. In mezzo passano gli Amici di Beppe Grillo, gli ex lighisti Franco Rocchetta e Fabrizio Comencini, le bandiere “Veneti d’Europa” con il Leone di San Marco. Qualcuno giura di aver visto le bandiere della Cisl, nonostante le polemiche per il quasi sì agli americani della segretaria Franca Porto. In piazza XX Settembre compaiono due americani: testa rasata alla marine, guardano divertiti. Ma negano: Ederle? «No, siamo della scuola di Firenze». C’è sì a Vicenza una scuola orafa fiorentina, ma non obbliga a rasarsi la testa. E cosa pensano del corteo? «It’s democracy». Poi uno dei due si fa fotografare mentre sventola una bandiera della pace. Sarà punito? Comunque non succede nulla: qualche scritta sul muro della caserma Chinotto, tanti slogan. Fila tutto liscio, anche davanti al Dal Molin. Compaiono le bandiere dell’Italia dei Valori di Di Pietro e della Banca Etica. Tutti riuniti nel parco di Lobbia, musica, poi l’altoparlante: «Ragazzi, chi torna in stazione verso la rotatoria, gli altri di qua». L’ultimo bus arriva in stazione alle 18.35. Il commissario Cecchetto delle volanti sospira: «Basta, non ce ne sono altri». Il tenente dei carabinieri Blasutig chiude il telefonino: «Liberi...». Era un corteo civile: «It’s democracy...».

Sotto le bandiere della Cgil sfilano mille “arcobaleni”
Oscar Mancini: «Tra noi e gli altri manifestanti nessuna differenza»

Una selva di bandiere rosse, tanti vessilli arcobaleno, striscioni delle rappresentanze venute da tutto il Veneto per manifestare contro la nuova base al Dal Molin. E ad accogliere i manifestanti un pulmino che diffonde le note di Bella Ciao. Questa la scena che si presentava ieri alle 13 al quartier generale della Cgil nel piazzale dello stadio. Il sindacato, infatti, ha deciso di avere un suo punto di ritrovo per, spiega il segretario regionale Emilio Diafora, «sottolineare la nostra presenza e ribadire le nostre parole d’ordine, che in parte coincidevano e in parte no con quelle degli organizzatori. Ovvero, mentre chi ha promosso la manifestazione pensa che il Governo non voglia ridiscutere il progetto, noi crediamo che ci siano i margini per farlo riconsiderare. Non c’è stata comunque una contrapposizione, anzi abbiamo marciato insieme e ho visto con piacere che c’erano anche bandiere della Cisl e della Uil». Una versione che si discosta da quella del segretario proviciale Oscar Mancini, per il quale «la partenza differenziata era dettata solo da questioni logistiche, perché dovevamo far arrivare i pullman. Del resto la distanza era minima e ci siamo congiunti subito». Una versione che, però, convince meno, proprio per la brevissima distanza tra i due punti di partenza. Nella composita folla cigiellina ci sono donne, uomini, anche non più giovanissimi, famiglie, attivisti. Un manifestante si è fatto cucire giacca e berrettino con la bandiera della pace e un papà mostra con orgoglio la divisa del figlio «lui è del rugby» fa notare. E ci sono anche le onorevoli Laura Fincato e Lalla Trupia, oltre ad un gruppo di Ds, guidato da Giovanni Rolando e Mattia Pilan, con uno striscione che recita «Per il bene di Vicenza, no base Usa, sì referendum popolare subito». Alle 13.50 si parte. Davanti a tutti un grande «chi ama Vicenza dice no alla militarizzazione della città» e il serpentone scorre lungo via Schio, viale Trissino e via Spalato, congiungendosi al corteo principale. A dare il ritmo è sempre il camioncino che ora ha in scaletta i brani di Luca Bassanese. A sfilare sono in più di un migliaio e altri si aggiungeranno strada facendo. Alla fine saranno circa 2 mila i manifestanti del sindacato. Al termine della manifestazione la soddisfazione è grande per un corteo «che ha smentito i profeti di sventura che parlavano di violenze e vandalismi - come sottolinea Mancini -. È stata una manifestazione colorata, pacifica e gioiosa, la più grande a Vicenza dal 1982, quando si sfilò contro i missili a Comiso. Parisi ha detto che terrà conto dell’espressione dei vicentini, che oggi si sono già pronunciati». E sui disordini mancati lancia una provocazione. «Se fossi in Confcommercio e Confesercenti chiederei i danni al sindaco per provocato allarme, siccome molti hanno perso una giornata di lavoro per nulla». Nel corteo, però, non mancavano, anzi, slogan contro il Governo e i rappresentanti della sinistra, come Bertinotti e Diliberto. «Erano solo una piccola parte dei manifestanti - taglia corto Diafora - la maggior parte, invece, chiedeva il referendum».

Hüllweck: «Contento per la città»
«Nessun incidente ma l’allarme è stato corretto...»

- Sindaco, non è successo niente...
«Sia gli organizzatori della manifestazione sia le forze di polizia hanno operato perché tutto andasse bene. Si è svolta correttamente. Sono contento per la città».
Enrico Hüllweck, interpellato nell’immediato dopo-corteo, constata che allarmi e allarmismi andati avanti per settimane - con molti echi rilanciati dentro e fuori la sua amministrazione - non hanno avuto materia per concretizzarsi. Ma non rinnega l’opportunità di aver tenuto alta la tensione.
- C’è chi ha fatto una battuta: e adesso i commercianti, convinti a chiudere le serrande in centro dal tanto parlare dell’assessore alla sicurezza Sorrentino, con i cittadini andati a far spese nei centri commerciali anziché in centro storico, denuncino il Comune... per procurato allarme.
«Rispondo che chi fa una battuta del genere è un idiota - risponde il sindaco -. Chiedere un diverso percorso della manifestazione e la presenza di adeguate forze di polizia è stato un dovere dell’Amministrazione comunale. In una manifestazione possono sempre infiltrarsi elementi che la rovinano. E faccio osservare che proprio su un ragionamento del genere si è spaccato il centrosinistra».
- Veniamo agli effetti dei diecimila che hanno sfilato: che cosa succederà sul caso-Dal Molin?
«Deve succedere solo che finisce il tormentone, al più presto. Il governo deve pronunciarsi: dopo otto mesi la materia la conosce. Se dice no, è tutto finito. Se dice sì, a Roma c’è il documento che ho portato, nel quale si parla di condizioni per la costruzione della base, di eventualità di un sito alternativo e di condizioni che anche in questo caso la città pretende siano rispettate».
- Insieme al “no”, la parola più gridata da viale della Pace a Rettorgole è stata “referendum”...
«Che secondo me anche nel nuovo testo del quesito presentato resta un’ipotesi confusa. Non ha senso dire “no la base lì al Dal Molin”, e spenderci centinaia di migliaia di euro per una consultazione, quando già nel documento del consiglio comunale si prospetta la possibilità di un sito alternativo. Il referendum ha avuto un senso all’inizio della vicenda: io stesso ne avevo parlato e sono stato massacrato da chi voleva subito un proninciamento, compreso il governo. Oggi un refererendum non ha senso, non sarebbe né sereno né lucido. Oggi provocherebbe solo divisioni, diventerebbe materia per scontri e per campagne elettorali».
- Restando sul tema: in Comune sarà più spedita, stavolta, la procedura di esame dell’ammissibilità del referendum, per quanto di sua competenza? Nel primo tentativo ci sono volute settimane per far passare il quesito da una scrivania all’altra...
«Ho già dato disposizione che le carte siano trasmesse al Comitato degli Esperti».

Rimbalzi politici
Arriva l’ora delle ipotesi di dimissioni
«Sorrentino subito a casa...» E lui: «Allora se ne vadano pure i capi del centrosinistra»

Il tempo di arrivare a casa e togliersi il cappotto ed ecco che Antonio Dalla Pozza, diessino in sfilata favorevole alla non sfilata dei Ds - e chi non la capisce perdoni questa frase, che riassume le contorsioni di casa Quercia - batte al computer e spedisce un’interrogazione per il prossimo consiglio comunale. Dentro ci scrive la richiesta di dimissioni del sindaco e dell’«assessore all’in-sicurezza»: Hüllweck e Sorrentino si scusino con i commercianti «ai quali hanno provocato un danno economico con affermazioni allarmistiche» e con l’intera città «alla quale hanno fatto credere che sarebbe stata invasa da vandali e devastatori». Firme promesse, oltre alla sua, quelle del compagno di corrente Poletto, del verde Asproso, del rifondatore Franzina e della Zuin di Vicenza Capoluogo. C’è già una risposta a tamburo battente del vicesindaco aennista, che sull’allarme anti-vandalismi resta in trincea e ad andarsene dall’incarico non pensa proprio: «È ben triste - dice Sorrentino - che faccia notizia il fatto che i no-global si sono comportati correttamente. Il rispetto delle città dovrebbe essere la normalità e non l’eccezione. Quanto alle dimissioni, se le chiedono a me, le chiedano anche ai dirigenti dei Ds che sull’argomento si sono divisi». Detto e fatto: senza sapere di interrogazioni del collega e di risposte vicesindacali, il consigliere diessino Giovanni Rolando, capofila della più piccola corrente sotto la Quercia, prende spunto dalla riuscita della manifestazione, dall’occasione di esserci persa dal suo partito e dall’assoluta tranquillità dei marciatori lungo gli otto chilometri di sfilata per chiedere un regolamento dei conti in casa Ds: «Si riconsideri il ruolo e la responsabilità del vertice provinciale». Spiegato in chiaro: processiamo Daniela Sbrollini e chi la pensava come lei.

Zero scontri, zero incidenti Vince la linea del questore
Rotondi: «Una manifestazione pacifica. Grazie agli operatori»

Nessuno scontro, nessun atto di violenza, zero feriti. Tre fumogeni in tutto, nessuna bandiera incendiata, due o tre scritte sui muri della città, una soltanto, vergata da un anarchico, sulla grande parete sul retro della Gendarmeria europea, che anche i più ottimisti, alla vigilia, avevano definito una lavagna. Raramente in Italia una grande manifestazione popolare - 15 mila presenze - con una massiccia presenza dei giovani dei centri sociali era stata tanto tranquilla. Se la si guarda dal punto di vista dell’ordine pubblico e della sicurezza, la lunga marcia di ieri è stata la vittoria del questore Dario Rotondi. Il capo della polizia vicentina contro il quale il sindaco aveva battuto i pugni in prefettura, ma che fin dall’inizio aveva assicurato di essere «moderatamente ottimista». Il tema dei possibili scontri per la presenza di tanti appartenenti alla sinistra disobbediente e antagonista era stato fra i più caldi alla vigilia. Casarini con quelli del Nordest, il Gramigna di Padova, e ancora l’Officina 26 settembre di Napoli, e Firenze, Bologna, Livorno, Gorizia: i nomi dei presenti, dati alla vigilia accanto a quelli di fantomatici black block, avevano spaventato non poco i commercianti che temevano per le loro vetrine. In tanti avevano prospettato una città messa a ferro e fuoco come Milano l’11 marzo scorso. L’amministrazione aveva chiesto in tutte le lingue di non far passare il corteo in centro, lungo gli 800 metri fra ponte degli Angeli e il cinema S. Marco. Rotondi aveva risposto con la costituzione e il codice in mano. L’itinerario va modificato in caso di comprovati motivi di ordine pubblico, che per ieri non c’erano. Ha autorizzato la manifestazione, ha chiesto rinforzi adeguati e - soprattutto - si è consumato in tante riunioni con i vari gruppi di manifestanti oltre che con tutti gli enti interessati per fare in modo che quello appena trascorso fosse un sabato di democrazia. Una giornata di protesta popolare, da ricordare per la partecipazione e non per le violenze. Ci aveva messo la faccia ed ha avuto ragione. «Una manifestazione pacifica e riuscita - si è limitato a dire Rotondi, che ha passato tutto il pomeriggio in sala operativa a controllare il servizio d’ordine -. È la prima puntata di una vicenda che potrebbe essere anche lunga. Aspettiamo ulteriori sviluppi». Rotondi, alle 18.50, quando è stato dato lo sciogliete le righe per le forze dell’ordine, ha preso in mano la radio ed ha ringraziato personalmente tutto il personale. «Posso solo dire grazie a tutte le forze di polizia e agli autisti Aim che sono stati disponibili. Ognuno ha svolto il suo compito a partire dai manifestanti che non hanno creato alcun tipo di problema». D’altronde, che quella di ieri fosse una manifestazione pacifica - il dato ufficiale della questura è di circa 12 mila persone, al quale va aggiunto qualche altro migliaio che si è aggiunto dopo - lo si poteva immaginare dal fatto che nessuno aveva interesse a invelenire il clima, semmai quello di convincere il ministro Parisi della bontà del loro No. Non certo i comitati vicentini, né le rappresentanze dei partiti o dei sindacati, e nemmeno i centri sociali, che da anni combattono una battaglia ideologica contro le basi americane in Italia e che erano arrivati senza un casco. «Siamo qui per la pace - ragiona un ragazzo con i capelli rasta arrivato da Padova -. Le forze dell’ordine non ci hanno provocato in alcun modo. La provocazione è solo quella di chi vuole costruire una nuova base a pochi passi dal centro città». I più temuti, la trentina del Gramigna di Padova, intonano slogan dalle 14 fino alle 17. Una volta qualcuno si lascia scappare, in corso Padova, un vergognoso “Dieci, cento, mille Nassiriya”, ma poi gli altri puntano sulla Palestina e sull’intifada. Altri gruppi cantano canzoni dei Modena City Ramblers, dei 99 Posse e dei Cccp inframmezzate ai ritornelli contro le guerre, l’imperialismo, i militari in genere. Nulla in confronto a quanto si temeva alla vigilia, nonostante in molti, soprattutto fra i più giovani, abbiano bevuto più di qualche birra. Ad ogni modo, gli oltre 700 fra poliziotti, carabinieri e finanzieri - dislocati nei punti chiave - uniti alla sessantina di vigili urbani per la viabilità sarebbero stati pronti ad intervenire. Non erano concesse intemperanze di alcun genere, né occupazioni. Doveva essere un corteo pacifico per dare prova che una larga fetta di vicentini, spalleggiati da tanti foresti, di dare il Dal Molin agli Usa non ne vuole sapere. Il questore era stato chiaro: «Non permetteremo violenze». Non ci sono state.

Un giovane del Gramigna subito stoppato Lancio di fumogeni bloccato dai comitati

Sono le 16.20 e a metà del lungo serpentone si nota qualche movimento sospetto. Dal suo zainetto, un giovane del gruppo del centro popolare occupato “Gramigna”, un nome storico nel mondo della sinistra antagonista che durante il corteo ha intonato cori contro il Governo e Diliberto, tira fuori un fumogeno da stadio. Lo accende, aspetta un attimo, poi lo lancia dentro la recinzione del Dal Molin, davanti alle camionette dei carabinieri. Subito dopo un secondo, poi un terzo. Si ferma qui, viene subito stoppato. Un giovane vicentino, con sulle spalle la bandiera bianca del “No al Dal Molin agli Usa”, gli si avvicina e gli dice di smetterla. Vola qualche parola pesante, si avvicinano anche altre persone. Poi i due restano a lungo a parlare, a chiarirsi. Il padovano, qualche decina di metri dopo, prende da terra una bottiglia di birra e la getta di là dalla rete. Si ferma qui. È stato grazie anche al servizio d’ordine predisposto dagli organizzatori se ieri, dal punto di vista della sicurezza, non è successo nulla. Lungo alcuni tratti della recinzione, i ragazzi con la bandiera bianca hanno composto una sorta di cordone. Efficace.

In centro niente shopping «Danno da un milione»
I commercianti: «In questo modo si penalizza la nostra categoria»

I commercianti del centro storico prendono la parola nel primo pomeriggio mentre, man mano che passano le ore, lontano da lì sfila il corteo anti-Dal Molin, e prende forma un sabato da flop commerciale. Sono le 16 di sabato, ma sembrano più le otto di sera: poca gente in giro. E poca resterà fino all’ora dell’aperitivo. Alla fine per tanti vicentini hanno prevalso i timori legati agli ingorghi di traffico e alle eventuali incursioni nel cuore della città di (non pervenuti) black block. Eppure, malgrado il comune rammarico per le tante visibili defezioni dei vicentini che ieri hanno cambiato programma (o quantomeno zona), i negozianti non hanno espresso giudizi monolitici sulla giornata di ieri. È infatti un rammarico impastato di opinioni differenziate. Ad esempio c’è chi se la prende con i cortei che attraversano il centro storico (o, come ieri, parte di esso). Maurizio Ballarin, responsabile del negozio d’abbigliamento Fuso d’Oro, si sfoga: «Non abbiamo risentito di un calo drastico dei clienti, però in giro c’è poca gente, basta guardare. Trovo che non sia giusto penalizzare la nostra categoria, che mantiene vivo il centro e già sconta problemi di parcheggi e zone a traffico limitato. I cortei andrebbero fatti altrove, e devo dire che dalla mia associazione di categoria, l’Ascom, mi attendevo una presa di posizione più netta. Al sabato si fa il 50% dell’incasso settimanale, andavamo più tutelati». Ma c’è anche chi è di parere diametralmente opposto. Come Piero Montagnino, gestore del Caffè Teatro in piazza Matteotti: «Perché non si vietano mai le partite di calcio con annesse calate di squadroni di ultras, mentre si semina allarmismo su manifestazioni come queste che, lo si è visto in questi mesi, sono composte da cittadini di ogni età e colore politico? Il centro non serve solo per lo shopping, ma anche per aggregare e consentire di manifestare opinioni. Io non ho avuto il minimo timore a tenere aperto il bar. Forse ad avere paura è stato il sindaco, tanto da polemizzare con il questore. Ho visto negozi con i cartoni sulle vetrine, e la cosa mi ha fatto un po’ sorridere. Tutto questo allarmismo è servito solo a creare un danno economico a molti miei colleghi commercianti. Che ringrazino chi ha creato un clima di timore e non se la prendano con un corteo che era composto da tanti nostri pacifici concittadini». Anche Erika Zorzan, della profumeria Palladio, non ha avuto alcuna paura di alzare la saracinesca oggi. Però si lamenta del drastico calo di afflussi in centro, e del corteo : «non perché non sia giusto manifestare, ma perché è inutile. Credo che sia già tutto deciso, e allora a che serve questo polverone?». Una chiave di lettura ancora diversa la dà il noto fioraio Federico Feriani. Sono le 16 e il suo negozio di corso Palladio è insolitamente deserto: «Il corteo era giusto autorizzarlo, ma non si doveva arrivare a questo punto, cioè al punto di farlo. Il Comune avrebbe dovuto già da tempo dire no alla nuova base. Invece il ping pong ci ha regalato questo sabato di mancati incassi. Ma soprattutto ce lo ha regalato l’allarmismo creato dai mezzi di informazione. E i centri commerciali intanto ringraziano». Altra sfumatura d’opinione la si rintraccia nella tagliente analisi fatta da Paolo Zanellato, contitolare di tre negozi di moda in centro: «Oggi abbiamo subìto, tutti quanti, un danno economico che a occhio si aggira sul milione di euro. Mille negozi della città per mille euro d’incasso ed il flop è servito. Io il corteo l’avrei autorizzato, ma non di sabato. Capisco i vicentini che hanno girato al largo dal centro: i timori hanno prevalso. Anche se io non mi aspettavo, sinceramente, nessuna invasione di facinorosi ed ho aperto tranquillamente». A non condividere i timori della vigilia c’era e c’è anche Valerio Prandin che dalla sua edicola di Porta Castello commenta: «Le manifestazioni, se pacifiche, vanno autorizzate e non caricate di paure. Pareva che dovessero arrivare gli Ufo, e invece...». E invece è arrivato solo un flop commerciale. Come inizio della maratona dello shopping natalizio, tutti si auguravano qualcosa di meglio.

Al Fusinieri e al Piovene a casa in cinquecento e i presidi firmano permessi d’uscita per tutta la mattina
Nelle scuole è il caos presenze
La prefettura non dà disposizioni, centinaia le assenze

Hanno aspettato fino all’ultimo, contando su qualche indicazione inviata dalla prefettura o dalle aziende dei trasporti. Invece alle scuole vicentine di scritto non è arrivato proprio nulla che potesse aiutare i presidi a decidere il da farsi. E così ieri mattina ogni istituto ha agito a modo suo, facendo leva sul buon senso, sul calcolo del numero di alunni che risiedono fuori città e su quello dei rischi legati a mezzi di trasporto sui quali dalle 13 in poi incombeva un grosso punto interrogativo. Morale, la mattinata è trascorsa all’insegna della confusione in gran parte delle scuole che si sono ritrovate a contare centinaia di assenti, a firmare una montagna di permessi di uscita anticipata, a rispondere alle telefonate dei genitori in ansia per il ritorno a casa dei figli. Anche se in molti hanno preferito tagliare la testa al toro, saltando direttamente le lezioni. Al tecnico Fusinieri, riferisce Roberto De Franceschi, su 800 ragazzi ne erano presenti solo 300, con una media di dieci alunni per classe e l’impossibilità da parte dei professori di svolgere regolarmente il proprio lavoro. Ma anche al vicino Piovene le cose non andavano diversamente. Su 927 alunni i presenti erano poco più di 500 e anche lì sono piovute richieste di uscite in anticipo, «tutte verificate con le famiglie - precisa la preside Samaritana Bresolin - perché in questi casi è sempre meglio peccare di prudenza». E aggiunge: «Nei giorni scorsi abbiamo chiamato prefettura, questura, Aim, Ftv, senza però riuscire ad avere indicazioni precise, nel senso che ci è stato risposto in modo piuttosto vago che avrebbero potuto verificarsi disagi. Mi rendo conto che non è facile, ma forse qualche risposta più puntuale non sarebbe guastata». La pensa così anche Zeila Biondi, preside del Rossi dove la campanella è suonata alle 12,40 invece che alle 13,30, al termine di una giornata trafelata, tra firme di permessi, mezzi alunni rimasti fuori, genitori che hanno “ritirato” i figli a metà mattina per paura di rimanere bloccati nel traffico. «Il punto è che nessuno si è preoccupato dell’organizzazione scolastica - fa notare Biondi - con il risultato che ogni dirigente ha agito come meglio credeva». Senza modificare di un minuto gli orari, ad esempio, come al Canova, istituto della cittadella degli studi, dove i ragazzi sono usciti regolarmente alle 13,15 dopo una mattinata trascorsa senza registrare troppe assenze. Oppure anticipando la campanella finale di un’ora, com’è stato al Quadri e al Lampertico, scuola quest’ultima che registra il 70% di alunni da fuori città e dove, spiega il collaboratore del preside Domenico Spalluto, proprio per questo si è optato per l’uscita anticipata alle 12,25. Tutto normale, invece, al liceo Pigafetta, anche se all’appello mancavano poco più di 200 studenti. «In realtà - spiega il preside Giorgio Corà - c’è stato forse un allarmismo eccessivo che ha modificato il comportamento dei ragazzi e delle famiglie. Certo se le informazioni sui limiti dei mezzi di trasporto fossero state più chiare tutto questo si sarebbe potuto evitare».

Trovato un compromesso dopo le polemiche sui trasferimenti dei manifestanti
E alla fine Aim “collabora” Schierati quattordici autobus

Quando lo hanno intravisto nelle tenebre che stavano avvolgendo i campi di Rettorgole, molti hanno esultato: se contro il Dal Molin sfila anche il presidente di Aim Giuseppe Rossi, uomo di Alleanza nazionale, a capo dell’azienda che negli americani troverebbe un cliente d’oro, il “popolo delle pentole” è a cavallo. Naturalmente, Rossi è stato ben attento a conservare il suo profilo istituzionale e a Rettorgole c’era soltanto per vegliare sui 14 autobus messi a disposizione per il trasferimento delle centinaia di manifestanti dall’aeroporto alla stazione dei treni. Con lui, oltre agli autisti, anche il direttore generale Dario Vianello e il responsabile del settore trasporti Nicolò Franzoia. Gli autobus, però, non sono di linea. Sul display c’è scritto “fuori servizio”. Tutto intorno ci sono vigili e poliziotti, che fanno affluire decine di ragazzi che hanno appena finito di marciare. Pagheranno il biglietto? «Diciamo che noi ci siamo limitati a mettere a disposizione i mezzi», risponde Rossi. Ma come, per giorni il sindaco Enrico Hüllweck, vale a dire l’azionista di maggioranza di Aim, e il vicesindaco Valerio Sorrentino, segretario cittadino del partito di Rossi, hanno ribadito che il Comune non avrebbe mai fornito i mezzi di trasporto per la manifestazione e ora ci sono 14 autobus capaci di trasportare oltre mille passeggeri? La “collaborazione” di Aim, a quanto pare, ha rappresentato una sorta di compromesso per evitare ulteriori disagi alla città. Il presidente Rossi ha verificato di persona che non ci fossero rischi per uomini e cose e ha deciso di aiutare la questura a ridurre i disagi della città. Il questore Dario Rotondi aveva fatto capire che ne aveva bisogno: a S. Biagio hanno compreso ed è stato evitato il precedente di un provvedimento di requisizione. Per la cronaca, non sono stati segnalati danni ai veicoli.