18 AGOSTO 2006

Noi non siamo terroristi» Ma i giudici: «Gravi indizi»
E la Ederle svezzò la generalessa Usa

L’algerino Rabah Gaad scrive da Londra, dove vive, per perorare la causa dei fratelli
«Noi non siamo terroristi» Ma i giudici: «Gravi indizi»

(i. t.). «Io rispetto il lavoro dei carabinieri e lo capisco, perchè hanno il compito e il dovere di proteggere il vostro paese dai terroristi, però accusare gente che non ha niente a che fare con tutto questo, è una cosa difficile da ammettere e accettare». A scriverlo è Rabah Gaad, detto Riadh, 31 anni, domiciliato a Londra nel quartiere di Wembley, in una lettera pervenuta ieri mattina tramite internet. Il cittadino algerino è indagato a piede libero con i fratelli per avere partecipato «all’associazione terroristica internazionale di matrice fondamentalità islamica denominata gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, funzionalmente collegata alla rete di Al Qaeda», scrive la procura antiterrorismo di Venezia. «Sono scioccato per l’arresto dei miei due fratelli - aggiunge Rabah - perchè noi non siamo terroristi e gente pericolosa. Noi non saremo mai terroristi e come mentalità siamo lontani da questa accusa. Non facciamo parte di nessuna organizzazione criminale o terroristica. Mio fratello Farid vive in Italia da 13 anni e non ha mai dato problemi ad alcuno». A conclusioni per ora opposte sono giunti i giudici del Riesame di Venezia, che respingendo il ricorso presentato dall’avv. Paolo Mele senior, hanno sottolineato: «Gli indagati non solo condividono un’unica ideologia di matrice fondamentalista e di ispirazione “jihadista”, ma sono componenti attivamente inseriti in un “gruppo”, del quale a volte parlano esplicitamente, ben definito che ha manifestato condivisione per attentati terroristici». Rabah Gaad replica che i suoi fratelli sono innocenti. Che il rapporto con Farid, considerato il capo della cellula che avrebbe avuto sede a Vicenza fino al maggio di quest’anno quando venne chiuso il call center di corso San Felice, più volte tirato in ballo dai magistrati, «è di rispetto e di amore, perchè lui è come un padre per me. Mi ha aiutato soprattutto quando sono stato ammalato ai polmoni ed è lui la mia guida e mi ha sempre spiegato di non creare problemi alla gente. Quando vedo la sua foto e a fianco la definizione di terrorista piango perché è ingiusto quello che succedendo». Il tribunale di Venezia, invece, ha spiegato che la riprova che i quattro algerini arrestati sono pericolosi lo si desume dall’avere anche «manifestato l’intenzione di unirsi ai combattenti in Iraq condividendone l’ideologia fondamentalista», oltre a una serie di elementi delineati dalla procura: si sono interessati a connazionali arrestati o espulsi per terrorismo; hanno raccolto denaro per scopi che non sono risultati dalle conversazioni telefoniche intercettate; hanno favorito le conferenze di predicatori oltranzisti; si sono dati da fare per procacciare documenti fasulli e permessi falsi acquisiti in maniera fraudolenta e, infine, sono in stretto contatto con personaggi compromessi come Yamine Bouhrama, in carcere per terrorismo da quasi un anno. Rabah Gaad, per contro, spiega che «siamo musulmani, parliamo con il Corano, però non siamo integralisti. Parlo con il Corano e spesso recito il versetto “O credenti, perchè dite quel che non fate? Presso Allah è grandemente odioso che diciate quel che non fate”. Noi non siamo terroristi e non siamo integralisti. Aiutatetici a uscire da questo incubo». I giudici, però, hanno scritto che gli indizi raccolti dai carabinieri a carico dei quattro «depongono per un’adesione al programma criminoso con finalità terroristiche e per una effettiva partecipazione al progetto terroristico». Per loro si annuncia una lunga detenzione.


Rebecca Halstead, oggi comandante in Iraq, ha raccontato alla Cnn come nel 1981 a soli 22 anni superò l’ostilità di un veterano del Vietnam
E la Ederle svezzò la generalessa Usa
Prima donna con le stellette: «La mia guerra con quel sergente a Vicenza»

di Alessandro Mognon

È finito su tutti i media americani il racconto del generale, anzi della generalessa Rebecca S. Halstead. Dalla Cnn all’Abc. Forse perché sembra uscito da un film tipo Ufficiale e gentiluomo o Full metal jacket. Un racconto, quello dell’unico generale donna dell’esercito Usa presente oggi in Iraq oltre che prima donna con le stellette uscita dalla mitica accademia di West Point, che ruota intorno alla caserma Ederle di Vicenza. Dove la prima durissima guerra che ha dovuto affrontare è stata quella con un sergente duro come il cemento stile «ma-che-c...o-ci-sta-a-fare-una-donna-qui». E che ha risolto, grande dote per un futuro generale, con una risata. È il 1981 e una giovanissima e piccolissima Rebecca detta “Becky”, 22 anni appena compiuti per neanche un metro e 60 di altezza, fresca di accademia con il grado di tenente, viene spedita a Vicenza e si ritrova a comandare un plotone nella 69esima compagnia, gruppo artiglieria. Siamo ancora in piena guerra fredda: a Berlino il Muro è più solido che mai, in Unione Sovietica il presidente è l’inossidabile Breznev sempre più malato ma sempre più ufficialmente “raffreddato”, Vicenza è a due ore di strada dal confine con la Jugoslavia ancora in lutto per la morte di Tito e sotto la collina di Longare ci sono le testate nucleari per i missili Nike. Ma questo è niente. Il vero problema del microscopico tenente Halstead è quello di farsi obbedire da un sergente veterano del Vietnam. Basta immaginarlo: 90 chili per 1,85 di altezza, cicatrice in faccia figlia di un corpo a corpo con un vietcong e una pallottola di Ak-47 ancora impiantata in un polmone. E lui, proprio lui, si ritrova a prendere ordini da un tenente: 1) donna; 2) altezza-microbo che gli arriva all’ombelico; 3) tenentino appena uscito dall’accademia degli ufficiali “fighetti”. Insopportabile. Lei, Rebecca Halstead, è entrata a West Point nel 1977 perché l’ha iscritta la madre, ed è solo dal ’76 che accettano le donne. Viene da un paesino sperduto, Willseyville (New York) e si definisce «una ragazza di campagna di una cittadina dove non ci sono manco i semafori». È un mese di inferno, quello alla Ederle. Perché non c’è verso di farsi ripettare da quella specie di Clint Eastwood versione “Gunny”. Non lo dice, la generalessa, ma chissà quante gliene combina: ordini ignorati, risatine, battutacce. E alla fine scoppia: un bel giorno, forse sotto una pioggia torrenziale e dopo tre ore di duro addestramento, prende da una parte il sergente e guardandolo dal basso verso l’alto gli urla in faccia tutta la sua rabbia: «Lo so le tre cose che pensi di me, caro-il-mio-sergente-che-è-stato-nel-Vietnam: primo che sono il solito ufficialetto che ti tocca svezzare, secondo che vengo da West Point...». Pausa: il sergente con il sorrisetto si aspetta il finale «...e terzo che sono una donna». Ma la piccolissima Rebecca sale su una pietra alta 30 centimetri, lo guarda dritto negli occhi e gli dice «e terzo ce l’hai con me perché sono una nanerottola». Racconta il generale Halstead che il sergente d’acciaio che faceva la guerra con i vietcong non finiva più di ridere. Ma non l’ha più presa in giro. E questo, ha aggiunto, l’ha convinta che un giorno sarebbe diventata un generale: «Un consiglio per le donne soldato? Numero 1, non arrendetevi mai; numero 2, ricordatevi del consiglio numero 1».