05 LUGLIO 2005

dal Giornale di Vicenza

SCHIO.«No al corteo del 10 luglio»
I Cc hanno individuato l’aereo che portò l’imam
«Dedicate una via a Sergio solo se saprete amarla...»
Droga, il rischio non ha età

Parlamentari, consiglieri regionali e sindacati hanno incontrato a Vicenza il prefetto e il questore
«No al corteo del 10 luglio»

di Gianmaria Pitton

Tutti insieme contro la manifestazione dei repubblichini, prevista per domenica 10 luglio. Ieri parlamentari di sinistra, consiglieri regionali, consiglieri comunali e rappresentanti di partito di Schio, esponenti dei sindacati Cgil, Cisl e Uil hanno incontrato a Vicenza il prefetto Angelo Tranfaglia e il questore Dario Rotondi per esprimere la propria contrarietà alla parata che per il quarto anno consecutivo dovrebbe portare a Schio i nostalgici della repubblica di Salò, con il motivo ufficiale del ricordo dell’eccidio avvenuto il 7 luglio 1945. L’incontro con prefetto e questore è stato chiesto da parlamentari, consiglieri e sindacalisti: erano presenti, tra gli altri, le onorevoli Lalla Trupia (Ds), Tiziana Valpiana (Rifondazione comunista), Luana Zanella (Verdi), i consiglieri regionali Achille Variati e Giuseppe Berlato Sella (Margherita), Franca Porto segretario provinciale Cisl, Oscar Mancini segretario provinciale Cgil, Gianmarco Anzolin segretario scledense di Rc, Olol Jackson dirigente regionale dei Verdi. Sono state consegnate al prefetto Tranfaglia le oltre tremila firme contro il corteo fascista raccolte a Schio in quindici giorni. «Quella manifestazione è un’offesa molto seria alla città di Schio - dice l’on. Lalla Trupia -. È molto positivo che tutte le forze politiche scledensi siano state concordi nell’opporsi alla parata. Sta diventando, purtroppo, una sorta di appuntamento fisso, un sorta di 25 aprile alla rovescia: ci stiamo impegnando perché non abbia luogo il corteo di domenica, e in ogni caso ci batteremo perché non ci siano altre edizioni». Le parlamentari hanno chiesto per oggi un incontro con il ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu, «al quale - aggiunge Trupia - abbiamo già avuto modo di esprimere le nostre preoccupazioni». Un punto sul quale si è molto insistito, durante il colloquio con il Prefetto e il Questore, riguarda l’opportunità di una manifestazione - quella del 10 luglio - a poca distanza temporale da un atto che ha in qualche modo proposto una soluzione alla ferita aperta dell’eccidio di Schio. Il 17 maggio scorso è stata firmata la rappacificazione tra le associazioni partigiane e il Comitato familiari delle vittime. Questo documento, è stato detto ieri durante l’incontro, fa venire meno i presupposti stessi del corteo dei repubblichini. «Spero che gli organizzatori si “ravvedano” e siano loro stessi ad annullare la manifestazione - dice Franca Porto -. Il percorso di avvicinamento, compiuto finora sull’eccidio di Schio, è troppo importante perché possa essere vanificato da simili iniziative», tra le quali la segretaria provinciale della Cisl mette anche la contromanifestazione annunciata da “Libera Zone”, che Franca Porto definisce «sbagliata». Tuttavia, le valutazioni del prefetto Tranfaglia non potranno che essere tecniche, cioè sul rischio che ci siano problemi per l’ordine pubblico: «L’ordinamento prevede la libertà di manifestare - è il commento del prefetto -. Il nostro compito è avere grande attenzione verso l’ordine e la sicurezza pubblica e prendere le eventuali precauzioni. Il possibile rischio va valutato con estrema ponderatezza: ci potrebbero essere problemi anche nel vietare la manifestazione». Mentre le considerazioni tecniche sono ancora “in progress”, il Prefetto ribadisce «l’assoluta fermezza nei confronti di quei comportamenti che durante la manifestazione dovessero dimostrarsi contrari alle leggi e agli ordinamenti». L’on. Giorgio Conte (An) si dice «contrario alla manifestazione, se si trasforma in un atto politico che inneschi un clima di tensione sociale. Approvo invece la partecipazione dell’Amministrazione comunale alla cerimonia funebre del 7 luglio: un passo in avanti, che però non ripaga i troppi anni di oblio e di menzogne politiche».


Dai tracciati radar spunta jet fantasma
I Cc hanno individuato l’aereo che portò l’imam

di Diego Neri

Un jet fantasma che si nascondeva “sotto” un Galaxy. Era quello, secondo l’ipotesi più accreditata, l’aereo che partì da Aviano con l’imam di Milano Abu Omar, accusato di terrorismo internazionale, che fu rapito due anni fa da agenti Usa della Cia e che è tuttora rinchiuso nelle carceri egiziane del Cairo. Un aereo la cui scoperta, fondamentale per le indagini della procura di Milano che nei giorni scorsi ha chiesto l’arresto per gli agenti dei servizi segreti statunitensi, è da attribuire interamente ai carabinieri vicentini della compagnia dell’Aeronautica, con sede al Dal Molin. Un’indagine avviata per capire cosa fosse successo la notte fra il 17 e il 18 febbraio 2003 nella base italo-americana di Aviano, dove venne scortato secondo l’accusa l’imam rapito a Milano per un primo viaggio in furgone. Dalla base friulana il presunto terrorista sarebbe stato portato solo apparentemente in Germania per poi dirottare in Africa. L’imam di Milano Abu Omar, sospettato di aver avuto un ruolo in alcuni episodi terroristici, venne rapito verso mezzogiorno. In base agli accertamenti della procura milanese col pm Spataro e ad una serie di testimonianze raccolte dagli inquirenti, i sospetti caddero fin da subito su agenti della Cia che volle rapire l’imam per scoprire i segreti dell’organizzazione a cui faceva riferimento. In Egitto Abu Omar sarebbe stato torturato per rivelare i suoi segreti. L’inchiesta partì allorquando un cronista di Repubblica raccontò di una telefonata fatta da Omar ad un suo fratello di sangue, durante la quale raccontò di essere stato portato ad Aviano alle 3.30. I carabinieri della compagnia, guidata dal tenente Antonio Cavalera, avviò subito gli accertamenti in quanto, oltre a compiti di polizia giudiziaria, ha quelli di polizia militare sulla base del Pordenonese. Come era entrato Omar nella base? Che aerei volarono quella notte? Gli americani sapevano? Nei giorni scorsi, cronisti americani hanno riferito che non solo la Cia aveva informato i servizi segreti italiani dell’operazione, ma che la stessa era stata seguita da Condoleeza Rice e che probabilmente il presidente Bush ne era a conoscenza. I carabinieri in primo luogo scoprirono che dai cancelli Usa di Aviano entrarono agenti Cia, che una volta presentati godono di una sorta di immunità diplomatica. In secondo che il responsabile statunitense di Aviano, il tenente colonnello Joseph Romano, era stato avvertito. Ma su che aereo aveva volato l’imam? I militari vicentini, con i quali ha collaborato il Cofa di Poggio Renatico del generale Giampiero Gargini, hanno accertato che quella notte decollò da Aviano un Galaxy C5, un aereo di grandi dimensioni specializzato nel trasporto di mezzi, anche carroarmati. In un frangente in cui la guerra in Iraq muoveva migliaia di uomini, non c’era da insospettirsi se in piena notte partiva un aereo del genere. Ma non aveva senso far partire un colosso del genere per trasportare un sequestrato. Il Galaxy si diresse nella base Usa di Ramstein, in Germania. È studiando i tracciati radar del C5 che i carabinieri si sono resi conto che, nascosto dalle tracce del mastodonte del cielo, viaggiava un altro aereo, molto più piccolo. Un aereo che quando il Galaxy atterrò non fece altrettanto, ma si girò virando decisamente verso Sud. Verso l’Egitto. Abu Omar, con ogni probabilità, viaggiava accompagnato dagli agenti Cia su un jet, o un executive, o un C10, o ancora su un C12. Piccoli velicoli che offrono grande stabilità. Il volo sotto la traccia di un altro aereo non è una novità nei misteri italiani: basti pensare alla tragedia di Ustica e ai tracciati radar, quelli rimasti, nei quali si vedono segnali luminosi diversi accanto a quelli del Dc9 caduto in fondo al mare con 81 persone. Questa scoperta è stata di vitale importanza per la procura milanese, che aveva affidato l’indagine alla Digos lombarda. Il pm Spataro ha acquisito subito gli atti degli investigatori dell’Arma, che per conto proprio, subito dopo l’articolo di Repubblica, avevano avviato accertamenti interni che avevano generato molti sospetti sul comportamento degli americani ad Aviano. Il caso ora di rilevanza internazionale, un intrigo che ha generato non poche difficoltà al governo nonostante il ministro Giovanardi abbia riferito che l’Italia non era al corrente del rapimento. Mentre i diplomatici discutono, però, l’inchiesta continua e i dieci agenti Cia, per i quali è scattato il mandato d’arresto europeo, hanno fatto perdere ogni loro traccia. Con quali complicità?


La strada dei ricordi
«Dedicate una via a Sergio solo se saprete amarla...»
«Bisognerebbe saper onorare il luogo che si intitola a chi non c’è più»

di Silvia Maria Dubois

«Dedicategli una via solo se saprete amarla». Dopo la storia, dopo la politica, è tempo che trovi spazio il sentimento. A chiederlo è "una madre" di nome Anita Pozzoli. Trent'anni fa le hanno ucciso il figlio. Quel figlio si chiamava Sergio Ramelli, finito a sprangate sotto casa dall'estrema sinistra milanese, mentre tornava da scuola. Da allora, in molte città d'Italia, sono sorte vie e strade a lui intitolate ed ora, da qualche tempo, anche a Vicenza il dibattito sembra portare ad un progetto sempre più nitido, cosa che non può non far piacere alla famiglia Ramelli. Con una condizione, però: dopo le indigestioni politiche, dopo le overdosi televisive di programmi ed esperti che hanno analizzato e sviscerato la vicenda, ora è tempo di rispetto. Un rispetto che la stessa madre di Sergio chiede anche ai vicentini, con un appello preciso.
- Sa che anche a Vicenza qualcuno si sta battendo per intitolare una via a suo figlio?
«Ogni volta che sento questo, mi prende una grande emozione. E il ricordo di Sergio mi investe ancora di più».
- Sì, però qui l'Amministrazione deve ancora approvarla, vuole lanciare una sollecitazione?
«Assolutamente no. Io non sollecito nessuno. Vede, non si devono forzare queste cose perché devono nascere spontanee. E poi, se Vicenza vuol dedicare una via a Sergio, prima si deve chiedere se riuscirà ad amarla e a "coltivarla"».
- In che senso?
«Qui, a Milano, nei luoghi dedicati a mio figlio ed a Enrico Pedenovi, periodicamente, ci scrivono di tutto: vengono di notte ed incidono le loro offese. Ecco, se si deve inaugurare una nuova via perché succeda questo, allora è meglio di no. Bisogna prima riuscire ad amare, in modo collettivo, una persona che non c'è più e saper difendere ed onorare il luogo che le si dedica».
- Forse qui il rischio è minore: all'ultima conferenza stampa per via Ramelli c'erano anche esponenti della sinistra e tanta gente comune. Ora c'è chi parla addirittura di spettacoli teatrali e coinvolgimenti scolastici...
«Credo che si debba stare attenti. Cioè, non vorrei che si mettesse troppo la paglia vicino al fuoco. Anche qui a Milano volevano dedicare un'aula dell'istituto tecnico Molinari a Sergio, però, ecco, mi vien da sorridere perché so che i tempi son diversi però non vorrei che questo provocasse ancora qualche tensione. Insomma… ecco.. io… io vi dico solo grazie per tutte queste cose però… però ecco, attenzione… Non mettiamo la paglia vicino al fuoco… ecco, tutto qui».
- Lei è stanca di sentirsi fare sempre tutte queste domande, vero?
«(Piange) No, non è questo. È che sulla vicenda di mio figlio è già stato detto e scritto di tutto, anche troppo. La mia famiglia, per anni, è stata tormentata, è stata insultata prima e dopo il funerale, abbiamo dovuto cambiare indirizzi, numeri di telefono per sfuggire ai curiosi e a chi la pensava diversamente dalle idee politiche di mio figlio. E la verità che rimane, invece è che io, ogni mattina, mentre alzo le tapparelle della camera, me lo vedo ancora che esce di casa per andare a scuola e poi, all'improvviso, mi assalgono tutti i ricordi del tempo passato in ospedale. Ogni giorno è così, ogni giorno. Questa è la verità che rimane».
- Che rapporto ha lei, oggi, con quelli che "la pensano diversamente"? «Bisogna premettere che non si è più negli anni '70, il tempo degli estremismi è finito. Prima i giovani occupavano le scuole, si scontravano. Oggi sono tutti più moderati. Io non ho nessun problema. Certo, rimangono quelli che scarabocchiano offese in via Ramelli, ma quelli sono ignoranti, non gente che la pensa diversamente. Io non mi permetterei mai di oltraggiare la memoria di un morto. Mai!».
- E negli aggressori, o i famigliari di questi, non si è mai imbattuta, anche casualmente, in questi anni?
«No e, sinceramente, non ne ho mai voluto sapere di loro. Mi basta che siano stati presi, poi che abbiano scontato un mese o dieci anni di carcere non mi interessa. Lo dico oggi, come lo dissi allora ad Ignazio (ndr. La Russa, avvocato della famiglia) che invece si batteva con passione per noi. Non mi interessa sapere di loro. So solo che alcuni hanno avuto dei figli, si sono fatti una famiglia: ecco io spero che ai loro figli sappiano insegnare qualcosa di buono. Hanno ammazzato un ragazzo perché non gli hanno saputo perdonare di pensarla diversamente e questo è terribile. Io di certo non li ho perdonati e sa cosa le dico? Che ho la coscienza a posto, a postissimo!»
- Non c'è nulla di irrisolto nel caso Ramelli, secondo lei?
«Ci sono delle cose pesanti da sopportare, come quella di vedere in tv qualche leader di Lotta Continua che invece dovrebbe stare da altre parti».
- Senta, a proporre una via intitolata a Sergio Ramelli, un po' in tutta Italia, è soprattutto il partito di Alleanza nazionale: non c'è il rischio che questa via diventi, anche involontariamente, un'operazione politica?
«No, il rischio non c'è se si riesce, come le ho detto all'inizio, ad amare collettivamente una persona che non c'è più, tanto da volerle dedicare una via. E poi, nessun partito oserebbe farsi propaganda con operazioni del genere: credo che qui si tratti di vera volontà, non c'è alcuna strumentalizzazione».
- Lei, in via Ramelli, chiede di anteporre la memoria e il sentimento a qualsiasi lettura politica, dunque?
«Sì».
- Ma non vuol dire proprio niente all'Amministrazione vicentina?
«La lascio agire col cuore. Magari grazie anche a questa chiacchierata le cose si sbloccheranno. Altrimenti, pazienza. L'importante è che, se si fa una cosa, poi la si faccia crescere e proteggere. Tutti assieme, però».


Allarmante analisi condotta dal Sert del S. Bortolo. Secondo la ricerca su dieci ragazzi vicentini tra i 13 e i 15 anni, sei “hanno accesso all’uso dell’hashish e marijuana e si sono fumati almeno uno spinello”. Il fenomeno delle tossicodipendenze in costante aumento dal 1990. I numeri dell’Ulss
Droga, il rischio non ha età
Consumatori sotto i 15 anni mentre dilaga l’uso delle “sintetiche”

di Sara Marangon

Iniziano sempre più presto: prima dei 15 anni. Usano droghe sempre più sintetiche e particolari. E il fenomeno è in crescita. Questi sono i tre aspetti principali che emergono dall'analisi compiuta dal Sert dell'ospedale S. Bortolo e che delineano un quadro preoccupante sull'uso degli stupefacenti tra i giovani e gli adolescenti. Secondo la ricerca su dieci ragazzi vicentini, dai 13 ai 15 anni, sei hanno accesso all’uso di hashish e marijuana e si sono fumati almeno uno spinello. Un dato preoccupante se si conta che, dall’assunzione sporadica, si passa al consumo frequente (che, secondo i medici, significa aver fumato più di cinque volte in un anno), con l’aumentare dell’età. Percentuali. Se le ragazze che “fumano hashish/marijuana raramente” sono il 6,4% tra le quindicenni ed 15,5% tra le diciannovenni, quelle che lo fanno più di frequente sono, rispettivamente, il 3,2% ed il 16,2%. Nei ragazzi che fanno uso sporadico di tali sostanze si registra invece il 7,3% tra i quindicenni ed il 16,3% tra i diciannovenni; i fumatori più assidui tra i primi risultano essere il 5,9%, contro il 29,8% dei secondi. Sostanze. Non solo hashish e marijuana tra le mani dei giovani berici, ma anche eroina e cocaina che trascinano i ragazzi dall’uso all’abuso ancora in età scolare. Si sono riscontrati casi di tossicodipendenza in età adolescenziale, e dipendenza da cannabis dovuta ad un’assunzione non più saltuaria ma costante. Un panorama, quello vicentino, che non si discosta di molto da quello del “bel Paese”. Secondo un’indagine sull’uso di sostanze lecite ed illecite, condotta dall’Espad Italia 2003 (realizzata dal Consiglio nazionale delle ricerche) e ricavata da un campione di 27.392 soggetti nella popolazione scolarizzata (dai 15 ai19 anni), risulta che la sostanza più utilizzata dai giovani con meno di 20 anni è l’hashish/marijuana. Quest’ultima, è stata assunta dal 27,4% del campione intervistato, più tra i maschi che tra le femmine (32,7% dei primi contro il 22,9% delle seconde). Seconda della lista risulta essere la cocaina, utilizzata del 4,5% degli studenti comunque, anche in questo caso, meno diffusa tra le ragazze (3%), e più tra i coetanei dell’altro sesso (6,3%). Un ulteriore dato di rilievo è rappresentato dalla diffusione dell’eroina “fumata” dal 2,6% dei giovani tra i 15 ed i 19 anni (dal 3,5% dei ragazzi e dal 2% delle ragazze); si tratta di una modalità più “soft” di consumo, meno invasiva rispetto all’uso di ago e siringa, ma anche meno riconducibile ai luoghi comuni del “tossico di strada”. Collegato a questo, il numero di nuovi casi di positività per Hiv tra i tossicodipendenti è di solo l’1 %: a testimonianza che sta completamente scomparendo l’abitudine di scambiarsi siringhe infette. Fasce d’età. Balza agli occhi come la fascia d’età di coloro che si rivolgono alle case di cura o alle comunità terapeutiche si sia notevolmente abbassata. C’è un incremento rilevante per quanto riguarda i giovani dai 15 ai 30 anni; la droga più usata risulta essere l’eroina seguita da cocaina e cannabis. Alcuni giovani vicentini si sono inoltre rivolti al Sert (a volte ancora sotto effetto allucinogeno) per i disturbi psichiatrici da cui erano colpiti a causa dell’uso frequente di ecstasy o di altre sostanze psicoattive. Numeri dell’Ulss 6 di Vicenza. Nella sede cittadina, lo scorso anno, sono stati accolti 868 tossicodipendenti (di cui 736 uomini e132 donne); altri 110 (tutti maschi) hanno usufruito della struttura di Noventa per un totale di 978 ospiti. Queste, naturalmente, sono solo le persone che hanno un problema di dipendenza nei confronti delle sostanze stupefacenti, il numero lieviterebbe se si dovessero sommare tutti coloro che rientrano nella categoria “consumatori”. Dei 978 pazienti, 130 stanno seguendo un trattamento di cura con metadone (di quest’ultimi la metà ha un’occupazione lavorativa). I dati dell’Ulss 6 sottolineano come, dal 1990 in poi, il numero dei tossicodipendenti sia sempre stato in aumento. C’è da considerare il fattore informazione: probabilmente il numero delle persone che ha problemi con la droga è circa uguale negli anni, solo che ora la quasi totalità di loro si rivolge alle strutture. Chi si rivolge al Sert. Generalmente si tratta di tossicodipendenti da eroina e, solo più raramente, da cocaina e cannabinoidi. Quest’ultimi giungono quasi esclusivamente su segnalazione della Prefettura. L’età media dei pazienti è tra i 23 e i 28 anni, ma molti utenti sono ancora minorenni. La tossicodipendenza è diffusa in tutte le classi sociali; si può comunque affermare che l’uso di eroina è maggiormente riscontrabile tra le classi sociali medio-basse, di cocaina tra quelle medio-alte, mentre i cannabinoidi sono utilizzati senza alcuna distinzione tra le due. In questi ultimi anni si è assistito ad una significativa impennata nel consumo di cocaina e di psicostimolanti mentre sembra essersi stabilizzato quello di eroina. La figura del tossicodipendente. Oggi il tossicodipendente è sempre più simile alle persone cosiddette “normali”. A differenza di quanto accadeva negli anni ’70 e ’80, molti di coloro che fanno uso di droghe, lavorano, mantengono discrete relazioni sociali e non sono identificabili da particolari stili di vita o modi di vestirsi e comportarsi. Carcere. Una realtà spesso dimenticata, quella del carcere. Dietro le sbarre, invece, più della metà dei detenuti ha problemi di dipendenza legati all’alcol o a sostanze stupefacenti. Purtroppo l’ambiente in cui vivono non permette loro di ricevere cure adeguate soprattutto dal punto di vista psicologico e psicosociale. Caratteristiche socio-ambientali in cui si sviluppa il fenomeno e fattori causali. La diffusione del consumo di droghe, soprattutto tra i giovani, è un fenomeno tipico delle culture occidentali industriali e post-industriali (telematiche) con economie basate sul benessere diffuso, consumismo, e conseguenti processi di esasperata competitività, corsa al successo e attenzione all’immagine. I fattori causali più importanti sono: la crisi dei valori, della famiglia e la diffusione dell’individualismo a scapito della solidarietà. In questo clima sociale aumentano i vissuti di noia, insoddisfazione e solitudine, nonostante l’enorme massa di stimoli e d’informazioni. Fa così la sua comparsa il vuoto affettivo che, soprattutto nei giovani, è favorito da un ambiente familiare caotico con una mancanza di comunicazione tra genitori e figli. A differenza di quanto accadeva negli anni ’70 e ’80, è completamente scomparsa la “cultura hippie” che promuoveva l’uso delle droghe come metodo di ricerca interiore e protesta civile ed è scomparsa anche la solidarietà tra i tossicodipendenti. Oggi la droga si consuma per “sballare” e “fregarsene” di tutto e di tutti; il passaggio dall’uso di droghe “leggere” a quelle “pesanti”, dunque, nella maggioranza dei casi è legato ed influenzato da problematiche individuali e/o sociali. I giovani vicentini pare si “limitino” al consumo di cannabinoidi e psicostimolanti, utili per aumentare il divertimento; solo a seguito di traumi o gravi problemi passano ad eroina e cocaina. Polifarmacodipendenza. O polifarmacofilia, è l’uso di più sostanze contemporaneamente alternativamente a seconda della disponibilità del mercato. Questa pratica è sempre più diffusa tra i giovani come, sempre più radicato, è l’uso di sostanze psicostimolanti, come le anfetamine (spesso utilizzate anche nelle diete dimagranti e nello sport) e psichedeliche. Tra quest’ultime vi è un lento ritorno degli allucinogeni, quali Lds, mescalina e psilocibina. A “spopolare” per un puro scopo ludico-ricreativo, durante i fine settimana (soprattutto nelle discoteche) è però l’Mdma: metilen-desossi-metamfetamina, meglio conosciuta con il nome di ecstasy