Libro bianco

testimonianze dei lucchesi sui fatti di Genova


 Le tre giornate di Genova

Arriviamo a Genova, io e i compagni dei Giovani Comunisti di Lucca, nella tarda mattinata di giovedì 19 con il tremo partito da Firenze e pieno di compagni e compagne di varie realtà toscane. Capiamo subito che siamo arrivati a Brignole quando sentiamo risuonare in lontananza le sirene ella polizia. Brutto inizio. Nel tragitto, fatto un po' a piedi e un po' in pulman, dalla stazione allo stadio Carlini (che diventerà la nostra residenza per i tre giorni di lotta) possiamo notare subito l'immensa militarizzazione che stava subendo la città, con decine e decine di camionette, volanti e centinaia di sbirri, sparsi dappertutto. All'intorno il deserto più completo: la città vuota, disabitata, morta. Quasi si fosse arresa ad una occupazione militare. E poi in lontananza notiamo i muri di reti metalliche innalzate per difendere la zona rossa. Nel vederli per la prima volta a me sono venuti in mente i chek-point Israeliani nei territori occupati in Palestina, il confine spinato "anti-immigrati" tra USA e Messico, il muro di Berlino: facili parallelismi. Arrivati al Carlini ci fanno sistemare con le tende su un campo di calcetto esterno allo stadio che dà su la strada. Siamo tra i csoa del nord-est, il No-Rage di Roma e il No-Global di Napoli. E poi ci sono i compagni dei GC da tutta Italia. La tensione e l'emozione sono forti. Tra un po' marceremo nel corteo dei migranti, ma la testa è già al giorno successivo, il giorno della disobbedienza civile. Tenteremo di sfondare i muri metallici. Vero le 14 inizia il corteo, noi siamo quasi alla testa. Incontriamo le rappresentanze parlamentari, i 99Posse al completo, il "contadino combattente" Bovè a cui io stringo calorosamente la mano e faccio i complimenti. Un tragitto lunghissimo, cinquantamila persone in festa, che ballano, cantano, urlano. Di sottofondo i comizi dei rappresentanti delle comunità straniere mentre dalle finestre della città spuntano timidamente bandiere del "che" e bucato da asciugare (in barba agli otto pre-potenti). E in tutto questo bellissimo, colorato e generoso fiume umano si alza in cielo lo slogan più gettonato della giornata: "la nostra Europa non ha confini, siamo tutti clandestini". Uno spettacolo meraviglioso che resterà forse il mio più bel ricordo dei tre giorni genovesi. Il 20 ci alziamo abbastanza presto, la stanchezza per il giorno precedente sia fa ancora sentire, ma siamo consapevoli che oggi non possiamo fallire e dobbiamo dare il massimo. Ognuno, indistintamente da quale ruolo avrà nel corteo dei disobbedienti è fondamentale per la buona riuscita di tutta la strategia. I caschi e le mascherine sono d'obbligo per tutti, chi sta davanti è ancora più difeso, tra cartoni e scudi di plexiglas. Noi siamo sistemati all'incirca alla metà del corteo, quindi in una posizione abbastanza tranquilla. Usciamo dal Carlini verso le 15: in tutto siamo13-14.000, un numero spaventoso di disobbedienti. Dopo circa un'ora di marcia la testa si trova nei pressi di piazza . Qui trova il primo cordone di polizia. La polizia carica senza alcun motivo, riesce a rompere la "tartaruga" di plexiglas, entra dentro nel corteo e fa una mattanza. E da lontano riesco a vedere decine e decine di lacrimogeni lanciati dai terrazzi di alcuni palazzi che circondano il corteo. L'odore acre arriva anche da noi. Lentamente tutti arretrano per poi avanzare più tardi: continueremo con questo "avanti"-"indietro" per più di due ore, mentre, davanti alla testa, stava accadendo di tutto. Ritorniamo al Carlini alle 18, sfiniti ma abbastanza soddisfatti della giornata. Ma la notizia della morte di un manifestante ci scuote tutti nel profondo dell'animo. Non sono bastati i lacrimogeni: adesso è questa terribile rivelazione che fa piangere. "Era uno del Carlini, era uno di noi". Poco dopo si tiene un'immensa assemblea sugli spalti dello stadio. Gli interventi si susseguono e contemporaneamente arrivano le prime notizie. Aveva 23 anni, si chiama Carlo Giuliani ed era di Genova. Gli hanno sparato in faccia e gli sono passati sopra due volte con la camionetta. E' stato un carabiniere di 20 anni. Rivelazioni raggelanti ed incredibili: anche perché siamo tutti consapevoli che poteva succedere a chiunque di noi. Era partito dal Carlini insieme a tutti gli altri quel pomeriggio, con lo stesso sorriso, la stessa voglia di lottare, la stessa speranza in un mondo diverso, migliore, più giusto. E ancora dalle altre piazze veniamo a sapere che al repressione violenta dello Stato ha colpito chiunque, anche i pacifisti con le mani alzate. Ed è allora mi rendo davvero conto di trovarmi di fronte ad una e vera e proprio clima da dittatura cilena, come da decenni nessuno, anche i compagni più anziani, ricordava. Troppo dolore e rancore per chi interviene al microfono: sono parole che si perdono fra sgomento e rabbia, fra incredulità e disperazione. "Assassini" è l'unica cosa che riusciamo a urlare lucidamente in coro. E poi un minuto di silenzio, in un clima irreale, con il pugno alzato e un nodo in gola. Ma la repressione non si ferma. Chiunque dalle 20 in poi esce dallo Stadio, per cercare un po' di cibo o soltanto per bere un caffè, viene fermato da agenti in borghese armati di pistola. Dei compagni sono caduti nella trappola: minacciati con l'arma alla testa, perquisiti ed umiliati. E poi portati in caserma. Siamo assediati, imprigionati e abbiamo fame. La protezione civile riesce a portarci dei viveri. Bene o male riusciamo ad andare a letto a pancia piena. Altre provocazioni si susseguono nella notte. Dalla nostra "postazione" che si affaccia sulla strada posso vedere più volte passare camionette di sbirri. Spesso dall'interno si alza un saluto romano, un gesto offensivo. E dal finestrino ci gridano di tutto: "merde", "bastardi", "ci vediamo domani". E il "domani" arriva presto. Ci doveva aspettare una manifestazione tranquilla. Ma dopo quello che era successo il giorno precedente, dopo le violenze indiscriminate delle forze dell'ordine che già emergevano, sapevamo di aspettarci di tutto. A noi viene assegnato insieme ad altri compagni il servizio d'ordine alla fine del corteo del Carlini. Il corteo esce dallo Stadio verso le 13. Cambia direzione più volte, a causa degli scontri che si stanno tenendo nelle altre piazze. Vero le 16 procediamo verso piazzale Kennedy ma il corteo si rompe dai lacrimogeni lanciati indiscriminatamente sui manifestanti. Noi ci ritroviamo nella situazione peggiore, a dover fronteggiare dietro di noi il cordone della polizia che avanza, con intanto i lacrimogeni che ci bruciavano gli occhi e la pelle: disperazione e rabbia, tanta rabbia. Anche perché la maggior parte di noi era senza mascherine, nessuno si aspettava una reazione così spropositata della polizia. Intere gruppi di persone, composte anche di anziani, devono subire i fumi dei lacrimogeni. Qualcuno si fa prendere dal panico quando il cordone della polizia avanza fino ad apparire a poco più di centro metri da noi. Se avessero caricato, saremmo stati tutti travolti. Per fortuna la coda del corteo tiene abbastanza, non si sfalda più di tanto e si avanza, nonostante la fatica e le lacrime dovute ai gas. Dopo un paio d'ora l'odissea sembra finita. Dall'alto delle finestre sui palazzi che danno sulla strada i genovesi ci salutano facendoci la doccia con secchiate d'acqua. Io ne approfitto per togliermi da dosso le tossine dei gas e rinfrescarmi. Così tanti altri. Intanto le prime favolose notizie: "Siamo stati in trecentomila". La soddisfazione è tanta così come l'amarezza per aver dovuto subire anche oggi l'ennesima repressione da parte delle "forze dell'ordine". Torniamo allo Stadio a gruppetti. Stanchi, incazzati e schifati dalla repressione di teppisti in divisa che hanno spadroneggiato su Genova per tre giorni. Facciamo le valigie in fretta, al primo buio ci dirigiamo all'uscita, ci aspetta il pulman che ci riporterà alla stazione Brignole. L'ultima immagine che mi è rimasta impressa nella mente prima di andarmene dallo Stadio, è un immenso Murales su di un muro interno, probabilmente creato la notte prima. E' colorato e bellissimo e molto semplice, con sole quattro lettere e un simbolo: Carlo. Con una stella al posto della "o".

Daniele Lombardi

 

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