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Parte terza.
USCIRE DI PRIGIONE.


A livello generale non si può forse dire che oggi, nelle carceri, esista una "situazione politica complessiva e ben definita", perché questa presuppone una più completa maturazione politica dei detenuti e che questa maturazione si evolva, si sviluppi detenuto per detenuto, carcere per carcere: questo processo avviene certo, ma in modo ancora limitato; esiste, invece, una generale "condizione politica" del detenuto, pressappoco uguale per la maggioranza dei detenuti. Sarà questa "condizione" che esamineremo in primo luogo.
Abbiamo detto che la maggior parte della popolazione carceraria italiana proviene dalle classi subalterne e ci sono ampie statistiche che lo dimostrano. Ma è importante notare subito che quando il "delinquente", il "condannato" è imputato, entra nel meccanismo giudiziario, la sua provenienza di "classe" conta solo per farlo condannare o reprimere ancora di più, perché "il carcerato è solo", ed il meccanismo di spersonalizzazione dell'istituzione non lo spoglia soltanto dei suoi attributi personali, ma tende a distaccarlo dai suoi affetti, dalle sue conoscenze, dal suo mondo, dalla sua classe, per farne un oggetto materiale senza volontà alcuna. Ripeto, il 90 per cento dei detenuti, nel momento in cui varca la soglia del carcere, è solo, completamente alla mercé della macchina repressiva che lo inghiotte. È chiaro che questo discorso vale molto di più per chi proviene dalla classe operaia, dal proletariato; vale molto meno per il delinquente abituale (che però nelle carceri non è poi così preponderante come si crede, anzi, negli ultimi anni è in notevole regresso), per il "sottoproletario", che spesso è già prima uno sradicato, privo di un contesto culturale e sociale suo proprio. Anche qui però bisogna stare molto attenti, cioè non bisogna sottovalutare il cosiddetto "sottoproletariato", se per sottoproletariato si intende masse di sottoccupati del Sud, emigrati in cerca di lavoro al Nord, disoccupati sia del Nord che del Sud: questi milioni di persone hanno interessi comuni, hanno lottato e sostengono durissime lotte contro il sistema, spesso sono l'avanguardia della lotta di classe e dello sviluppo complessivo della situazione politica in Italia, e per fare questo, è chiaro, si muovono a livello di classe. A rigor di termini, non si dovrebbe più usare il termine di "sottoproletari" per queste autentiche avanguardie del proletariato.
Se per sottoproletariato s'intende il delinquente abituale, allora il discorso di prima è valido, ma proprio per questo tende a rovesciarsi nel suo opposto. Mi spiego. Il ladro abituale, fino a quando non viene "preso", finché vive negli interstizi della società, è veramente isolato, al massimo ha rapporti con la sua banda, con il ricettatore, con la "bionda", ma dal punto di vista politico, a causa della sua estrema "ambiguità", non esiste, è meno che zero; e se esiste, è soltanto una pedina oggettiva del gioco a "guardie e ladri", che serve così efficacemente alle esigenze repressive del sistema. Anche al momento del suo ingresso in carcere è meno che zero, ma è proprio qui che scatta la contraddizione che lo può portare alla presa di coscienza: viene "forzatamente" introdotto in un luogo di massificazione di elementi come lui, e non solo, ma di tanti elementi finiti lì dentro per svariati altri motivi, tutti però, ora, con gli stessi problemi riguardo al vitto, alle condizioni igieniche, alla mancanza di rapporti sessuali, alla libertà provvisoria, ai colloqui, alla scarsa mercede, eccetera. In carcere, quindi, il nostro uomo può acquisire una coscienza di classe non ambigua: anzi, sicuramente il carcere è l'"unico posto" dove "può" acquisire questa coscienza.
Soffermiamoci bene però su questo "può", perché se è vero che esiste questa possibilità, è una possibilità che da sola è estremamente difficile che si realizzi. Per essere più chiari, senza un intervento politico organizzato nelle carceri, è quasi irrealizzabile.
Insomma, da qualsiasi classe provenga, il detenuto, all'inizio della sua carcerazione, si trova politicamente isolato e in una situazione in cui le possibilità che gli rimangono di sfuggire alla disgregazione della personalità sono molto poche. In particolare, se esaminiamo a fondo queste possibilità, vediamo che sono solo possibilità politiche. Per non lasciarsi defraudare del proprio io, del proprio desiderio di vivere come uomo, e non come animale, un detenuto deve necessariamente diventare o continuare ad essere un rivoluzionario, proprio perché nell'istituzione totale non si ammettono compromessi. Appena un detenuto protesta per una cosa, anche banale, lo "staff" lo bolla subito come sovversivo (anche se il detenuto non pretende di esserlo), ponendogli così l'immediato aut-aut: o con me o contro di me. Chi sarà il detenuto che dirà "contro" o che continuerà coscientemente la propria opera di contestazione interna? Sarà il detenuto veramente rivoluzionario, anche a livello soggettivo (senza con questo pretendere che sia un Lenin o un Gramsci...) e soprattutto il detenuto che può contare su centinaia di altri come lui, e che con loro è collegato con l'organizzazione rivoluzionaria esterna.
Questo processo, dall'isolamento più totale all'adesione ed alla effettiva partecipazione ad un lavoro politico interno ed esterno, lo vedremo attraverso i prossimi capitoli, "La resistenza spontanea" e "La resistenza organizzata".

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