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L'universo concentrazionario 18.
GLI ASTRI SPENTI CONTINUANO IL LORO CORSO.


L'universo concentrazionario si rinchiude su se stesso. Oggi continua a vivere fra noi come un astro spento carico di cadaveri.
Gli uomini normali non sanno che tutto è possibile. Anche se le testimonianze costringono la loro intelligenza ad ammetterlo, il corpo si rifiuta. Gli internati sanno. Il combattente che è stato per mesi al fronte ha conosciuto la morte. Ma gli internati hanno vissuto faccia a faccia con la morte tutte le ore della loro esistenza. Essa ha mostrato loro ogni suo volto. Ne hanno toccato con mano tutte le miserie. Ne hanno vissuto l'angoscia come un'ossessione costante. Hanno sperimentato l'umiliazione delle percosse, la debolezza del corpo sotto la frusta. Hanno constatato le devastazioni che produce la fame. Hanno camminato per anni nello scenario indicibile della distruzione di ogni dignità. Sono separati dagli altri da un'esperienza impossibile a trasmettersi.
Si è reso loro percepibile - realtà immediata come un'ombra minacciosa incombente sull'intero pianeta - il disgregarsi di una società, di tutte le sue classi, nel lezzo putrescente dei valori distrutti. Il male è incommensurabile ai trionfi militari. E' la cancrena di un intero sistema economico e sociale. Contamina anche lontano dalle macerie.
Pochi internati hanno fatto ritorno, e meno ancora sani. Quanti non sono altro che cadaveri viventi, bisognosi solamente di riposo e di sonno!
Eppure, in tutte le cittadelle di quello strano universo vi sono stati uomini che hanno resistito. Penso a Hewitt. Penso ai miei compagni: Marcel Hic, morto a Dora; Roland Filiatre e Philippe, tornati con il corpo devastato ma la loro condizione di rivoluzionari intatta. Penso a Walter, a Emil, a Lorenz, ossessionato dal pensiero della moglie, anche lei internata, e che tuttavia non si lasciò mai andare. A Yvonne, al dottor Rohmer, a Lestin, a Maurice, un comunista di Villejuif tormentato dalla febbre, ma sempre sereno e incrollabile. A Raymond, massacrato di botte ma fedele a se stesso. A Claude e Marcel, costantemente affamati e tuttavia capaci di tenere alta la dignità della loro gioventù. All'adolescente Guy, al mio compagno di lavoro nella Parigi occupata Robert Antelme, che quando tornò sembrava un fantasma, ma si manteneva pieno di passione. Al panettiere Broguet, che seppe sempre rifugiarsi in un suo sogno infantile. A Pierre, che per vivere inventava pericolose avventure. A Veillard, morto a Neue-Bremm. A Paul Faure, così attento e posato, bravissimo nel risolvere i piccoli problemi fondamentali. A Crémieux, che nei momenti peggiori di scoramento non tradì mai la sua arte. A Martin, il mio amico più intimo dei giorni della morte. Vecchio di sessantasei anni, non cedette un solo istante e alla fine vinse la sua battaglia.
Il saldo non è negativo.

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E' ancora troppo presto per redigere un bilancio positivo dell'esperienza concentrazionaria, ma va detto sin d'ora che si rivela ricco. Presa di coscienza dinamica della forza e della bellezza del fatto di vivere in quanto tale, allo stato puro, spogliato di qualsivoglia sovrastruttura - vivere anche attraverso le peggiori prostrazioni o i più gravi regressi. La freschezza sensuale di una gioia nata sulla più assoluta consapevolezza delle rovine, e di conseguenza un indurimento nell'azione e un'incrollabile tenacia nelle scelte - in breve, una salute più generosa e intensamente creativa.
Per alcuni, una conferma; per i più, una scoperta, e folgorante: saltate le molle dell'idealismo, la caduta di ogni mistificazione mette in luce, nella miseria dell'universo concentrazionario, la dipendenza della condizione umana da un sovrapporsi di strutture economiche e sociali, i veri rapporti materiali che sono alla base dei comportamenti. Nella sua espressione ulteriore, tale conoscenza tende a divenire azione precisa, che sa dove colpire, che cosa distruggere e come costruire.
Vi è infine la scoperta travolgente dell'umorismo, non in quanto proiezione personale ma come struttura obiettiva dell'universo.
Ubu e Kafka perdono i tratti originali legati alla loro storia per trasformarsi in componenti concrete del mondo. E' stata proprio questa scoperta dell'umorismo a consentire a molti di sopravvivere. E senza dubbio essa dischiuderà nuovi orizzonti al ricostituirsi delle idee di vita e alla loro interpretazione.

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L'esistenza dei campi è un monito. Nella congiuntura mondiale che stiamo attraversando, il disgregarsi della società tedesca, dovuto alla forza della sua struttura economica unita alla durezza della crisi che vi si è abbattuta, può ancora considerarsi eccezionale. Sarebbe però facile dimostrare che i tratti più caratteristici sia della mentalità S.S. sia delle sue basi sociali si ritrovano in molti altri settori della società mondiale. Meno accentuati, d'accordo, e certo incommensurabili agli sviluppi che conobbero sotto il grande Reich. Ma è solo questione di circostanze. Sarebbe però un inganno, e un inganno criminale, sostenere che gli altri popoli non possano vivere un'esperienza analoga per ragioni di natura opposta. La Germania ha interpretato con l'originalità propria alla sua storia la crisi che l'ha portata all'universo concentrazionario. Ma l'esistenza e la meccanica di tale crisi appartengono ai fondamenti economici e sociali del capitalismo e dell'imperialismo. Sotto una nuova veste, analoghe conseguenze potranno tornare a manifestarsi domani. Vi è dunque una battaglia molto precisa da combattere. Il bilancio dell'esperienza concentrazionaria è in tal senso un meraviglioso arsenale bellico. Gli antifascisti tedeschi, internati per più di dieci anni, saranno preziosi compagni di lotta.

Agosto 1945

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