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L'universo concentrazionario L'UNIVERSO CONCENTRAZIONARIO.


A Marcel Hic, Roland Filiatre, Philippe Fournié,
che furono per anni miei compagni di lotta

A Pierre Martin,
il mio più intimo amico nella Società concentrazionaria


"Troppo semplice, amico mio, la vostra libertà, per essere una buona forchetta da lumache, strumento bifido. E io sono sigillato tra queste mura. Buona notte. Fuori, i becchi a gas sono pronti ad accendersi al nostro comando qualora la cometa che avrete scelto a guida - ce lo dice la nostra competenza meteorologica - si rivelasse un astro insufficiente. Il vostro sguardo vedrà molto lontano, nel freddo, nella fame e nel vuoto. E' l'ora del nostro riposo. Il nostro carceriere vi congederà".
Alfred Jarry, "Ubu incatenato"

Esiste un'ordinanza di Gšring a protezione delle rane.


1.
LE PORTE SI APRONO E SI CHIUDONO.


La grande cittadella solitaria di Buchenwald; una piccola località turistica sulle rive della Weser, Porta Westphalica, colline erose da cave lungo il fiume e opifici che a poco a poco si sviluppano ai piedi del regno degli alberi e delle radici; Neuengamme nella prospettiva diruta di Amburgo, nuovi cantieri che si moltiplicano scaglionandosi intorno al canale e al suo porto (Klinker, Metallwerk, Industrie, Messap); Helmstedt: baracche in cerchio mimetizzate da cumuli di immondizia in suppurazione, all'aperto casse su casse di bombe e siluri, campi di grano e di senape, e a stagliarsi nella pianura l'alta sagoma nera dei pozzi; a cinquecento metri sotto terra, la batteria sontuosa dei torni e delle fresatrici nella fantasmagoria policroma dei blocchi di sale; vagoni abbandonati su binari divelti al di là delle massicciate negli spazi deserti della fame, squarciati di quando in quando dai richiami di una guerra vicina e mai compresa; come un cancro sulla foresta, il campo di Wšbbelin in prossimità di Ludwiglust, nudo scheletro dei muri e, a terra, escrementi secchi a fianco di cadaveri in disfacimento: cammino lungo sedici mesi, materia di esperienza.
Incontri con uomini di tutti i popoli e di tutte le convinzioni che, quando vento e neve fustigavano le spalle, irrigidivano il ventre al ritmo di marce militari stridule come una bestemmia sincopata e beffarda, sotto i fari ciechi del grande piazzale, nelle gelide notti di Buchenwald; uomini senza principi, smunti e abbrutiti; uomini portatori di fedi distrutte, di dignità smantellate; tutto un popolo nudo, interiormente nudo, spogliato di ogni cultura, di ogni civiltà, armato di badili e zappe, picconi e martelli, incatenato ai Loren arrugginiti, a estrarre sale, spalare neve, impastare cemento; un popolo scarnificato dalle percosse, ossessionato da paradisi di cibi dimenticati; intimo morso del decadimento - quel popolo tutto, nel trascorrere del tempo.
E, in un fantastico ingrandimento d'ombra, figure grottesche, il ventre gonfio di un riso disarticolato: ostinazione caricaturale a vivere.
I campi sono di ispirazione ubuesca. Buchenwald vive sotto il segno di un debordante umorismo, di una buffoneria tragica. All'alba, le banchine irreali sotto la luce cruda e neutra dei fari, le S.S. istivalate, il Gummi in pugno, mordaci; i cani che abbaiano tesi col guinzaglio floscio e allentato; gli uomini, raggomitolati per saltar giù dai vagoni, accecati dai colpi che li intrappolano, rifluiscono e si scontrano, si urtano, si slanciano, cadono, beccheggiano a piedi nudi nella neve sporca, impediti dalla paura, perseguitati dalla sete, coi gesti allucinati e rigidi di meccanismi inceppati. E poi, senza soluzione di continuità, le S.S. di guardia, e grandi sale chiare, file ben allineate, detenuti-funzionari rilassati, inappuntabili, con moduli, numeri, una rassicurante indifferenza; schiere serrate, come in una parata militare, di tosatrici elettriche che denudano i corpi stupefatti, a catena, precise, implacabili come una combinazione matematica; un bagno obbligatorio, una vasca piena di disinfettante nero e vischioso che brucia le palpebre; docce esaltanti dove le marionette si congratulano tra loro con soddisfazione ingenua e magnifica; carovane sinuose lungo stretti corridoi che sembrano non voler mai finire; e la scoperta di spazi immensi: sfilate parallele di banchi coperti da mucchi di stracci, invenzioni tardive di sarti ubriachi e assassini, da ghermire passando, in fretta, sempre più in fretta: le "Galeries Lafayette" di una corte dei miracoli. E ancora uffici sempre più ingombri di funzionari, detenuti impeccabili e affaccendati, dai volti grigi e seri, usciti da un universo kafkiano, che educatamente domandano il nome e l'indirizzo della persona da avvisare della vostra morte, e tutto viene trascritto per bene, con calma, su delle piccole schede preparate in anticipo.
Il gregge si accalca nel fango tra alte facciate cieche che incombono sulla notte. Caviglie si torcono sugli zoccoli piatti. I muri trasudano luce e sembrano ingrandire a dismisura. I gruppi si sostengono vicendevolmente e avanzano a tentoni verso i Blocks. Nel volgere di un'ora eccentrica, l'uomo ha perduto la propria pelle. Solerti funzionari hanno tagliato senza prendergli le misure il suo essere di internato. Ora toccherà alla quarantena condizionare i suoi riflessi.
Tutte le sere, nel camminamento tra un Block e l'altro, gli uomini immobili e muti, ovunque la neve, e dall'alto della scalinata di pietra la stessa voce monotona che cala su di loro: «Ascoltate, francesi...» La voce strascicata, sempre uguale, manipola incessantemente nervi e cervelli. «Qui non siete in un sanatorio, siete in un campo di concentramento.» L'iterazione scolpisce le frasi e, spettro aleggiante dietro ogni ingiunzione, sentinella di ogni pretesa ubbidienza, si profila lo spauracchio tentacolare: il Krematorium. Dopo qualche giorno le teste rasate vacillano, consapevoli soltanto di aver perduto un mondo che doveva essere unico e che probabilmente si cela al di là del filo spinato percorso dalla corrente elettrica, al di là, molto al di là di quegli spazi vuoti e sconfinati percorsi da binari divelti.
Chi arriva viene vaccinato. L'ordine è pervenuto molto presto, e per la terza volta. Gli HŠftlinge sono ammassati nel dormitorio, nudi, ormai da un'ora, sferzati da un'implacabile corrente d'aria. I vetri si dischiudono sullo squarcio di un pianeta di ghiaccio: il mondo di Buchenwald, stretto fra neve e bufere, che al di là delle torrette si apre su declivi innevati folti di abeti, come nelle cartoline di Natale. I detenuti lottano contro il freddo scambiandosi grandi pacche sulla schiena. All'improvviso la porta del refettorio si spalanca in un turbine su tre infermieri che si precipitano, manichini agitati e grotteschi, travolgendo i tavoli deserti. Il primo fa cadere a caso sulle braccia uno sfregio giallo, il secondo punge, punge, punge come una perforatrice meccanica. Un bel lavoro a cottimo e via, è fatta. L'ago non è mai stato sterilizzato.
Niente lavoro durante la quarantena, solo corvé: l'apprendistato che deve addestrare i muscoli ai comandi. Lunghe teorie si profilano in alto, sulla cava, cratere aperto di fronte al paese. Il vento ne sferza i fianchi e infuria su sfondi che si rinnovano senza sosta. Come attraverso un vetro molto spesso, a distanze incommensurabili, in un altro sistema planetario, si scorgono un treno che passa, e villaggi sparsi tra le colline, e sbuffi di fumo sospesi in una sorta di vapore grigio, e boschi, e le macchie chiare dei campi che tremolano come attraverso un'acqua profonda. Nella solitudine, imprecazioni e grida. Gli uomini sprofondano, scivolano nelle buche colme di fango. Scegliere una pietra di bell'aspetto e che pesi il meno possibile, e tornare al campo così, in fila, a consumare le ore che non passano mai.
Sagome esili e nere sul margine dell'altopiano, curve sotto le folate di neve che volta a volta le coprono e le scoprono, gruppi di uomini trasportano, trascinano, spingono casse, barili, carriole di merda. La merda viene pompata in grandi bacini e poi sparsa sui giardini delle S.S., a quattrocento metri di distanza. Ci si arriva per uno stretto sentiero accidentato e coperto di ghiaccio, dove i piedi non hanno presa. I muscoli sono tesi per la fatica. I volti e le mani ardono di freddo. I Vorarbeiter sbraitano e picchiano. Senza requie, sbandando sotto l'incalzare della bufera, le colonne si incrociano per dodici ore di fila.

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