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Dei dolori e delle pene Seconda parte
OLTRE IL MURO


8.
L'abolizionismo è uno sguardo

1. Il caso del ragazzo che preferisce il carcere alla comunità dimostra che il rispetto è la questione più importante di tutte. Il rispetto disarma ogni aggressività; nelle istituzioni totali lo spirito aggressivo è in gran parte la reazione di una dignità ignorata.
E' quel che aveva capito sicuramente Rosa Luxemburg quando all'inizio del secolo ha detto che la libertà è la libertà degli altri. Esattamente all'opposto, il pensiero punitivo ritiene che la pena è sempre quella degli altri. Da qui deriva la sua forza, la sua capacità di avere tanti complici.
I giornali di maggio '96 hanno riferito di un'inchiesta svolta fra studenti di Roma e Palermo degli ultimi due anni di scuola media superiore. I ricercatori erano un po' spaventati: il 32,2% si era dichiarato per la pena di morte, il 74,3% per il mantenimento dell'ergastolo. Una forte richiesta di penalità - precisa una ricercatrice - proviene proprio dagli studenti di sinistra, mentre i più garantisti sembrano essere gli studenti di matrice cattolica. Forse l'intero mondo della sinistra dovrebbe interrogarsi sui troppi e pericolosi messaggi che sono stati fatti passare dalla cultura dell'emergenza in poi. (Liberazione, 18/5/96). Questi ragazzi facevano però una significativa eccezione: per i propri coetanei, cioè per se stessi.
Un caso ancora più significativo si è avuto quando dei militanti di sinistra hanno voluto organizzare una campagna per un'amnistia, o comunque una soluzione politica a favore dei detenuti per lotta armata degli anni '70. Uno dei principali motivi per cui il movimento abortì lascia nello stupore. Alcuni dissero che erano favorevoli alla liberazione dei compagni ma non a quella dei fascisti. Dunque la richiesta dell'amnistia diventava praticamente impossibile visto che (per fortuna) la si può chiedere per dei reati e non per l'individuo a seconda del motivo per cui ha compiuto il reato. Questi rigorosi antifascisti non si rendevano conto di esaltare il sistema penale al di là dello stesso chiedendo qualcosa che nessuno osa più chiedere esplicitamente, qualcosa che esisté solo ai tempi dell'Inquisizione: la reclusione per chi la pensa diversamente, un carcere ideologico.
Capire che la pena può sempre essere la propria perché la libertà è sempre quella degli altri dovrà essere il modo di pensare naturale dell'abolizionismo.

2. Oggi la sperimentazione abolizionista, pur offrendo positivi risultati, esiste soltanto con degli esempi limitati, quali isole nel mare del sistema penale, in Olanda o nei paesi scandinavi (l'olandese Hulsman e i norvegesi Christie e Mathiesen ne descrivono parecchi: risarcimenti, riconciliazioni...). E' soprattutto guardandoci intorno, nel vivere sociale, che cogliamo l'orizzonte oltre la pena: per la maggior parte dei nostri problemi, troviamo delle soluzioni naturali, senza ricorrere al giudice. Lo stesso diritto conosce, oltre al penale, il civile, l'amministrativo... Dove nel diritto si esce dal penale, la sanzione c'è ancora ma mira al risarcimento, alla riconciliazione perché non vuole porsi in contrasto alla possibile comprensione delle ragioni di un conflitto. E comunque la sanzione si verifica a posteriori e non a priori.
Ma quando un razzista venga a conoscere un inferiore che gli risulti simpatico, gli dirà lo stesso: Sì, tu mi sei simpatico, ma perché sei diverso. Qualche assistente sociale penserà di aver risolto i problemi della povertà togliendo i figli ai poveri, pur esistendo da molto una figliolanza povera affezionata ai propri genitori. Così, non credo che gli esempi positivi offerti dalla sperimentazione abolizionista in Nord Europa possano trovare molta condivisione in Italia allo stato attuale, tanto più che richiederebbero un lasciar fare delle istituzioni locali. Quei paesi sembrano non conoscere tutte le perfidie latine del sistema penale: l'accentuazione della pena nella pena, la politica delle emergenze continue. Olanda e Scandinavia non hanno neppure conosciuto bene, come farina del proprio sacco le deviazioni totalitarie della democrazia come il fascismo e il nazismo; neppure il totalitarismo sovietico. Rilevare questo loro... limite mi fa capire perché un abolizionista come Christie sottovaluti la questione della prigione delle menti. Per criticare la scuola classica di Beccaria e il neoclassicismo dei paesi nordici, egli per polemica dice infatti di preferire il modello correzionale di ispirazione positivista perché in esso c'erano comunque idee e esperienze che riflettevano dei valori, una volontà di migliorare la sorte del paziente. Christie ignora perciò i risultati del caso italiano, del paese di quel dottor Stranamore che fu il positivista-socialista Lombroso, del paese che oggi ha conosciuto il neopositivismo penale. Nella maggior parte dei paesi europei che non siano l'Italia le pene sono più brevi, c'è più certezza sulla quantità di pena da scontare perché c'è meno esasperazione premiale. Là i benefici ti vengono in genere concessi automaticamente a meno che tu non abbia combinato qualche guaio in carcere, guaio in ogni caso da dimostrare. Qui da noi tutto dipende dal giudizio dell'équipe che si occupa di te. La prigione delle menti che si nasconde dietro alla trasformazione del detenuto in un paziente si aggiunge alla prigione del corpo e aumenta pure quest'ultima.

3. L'unico vantaggio portato dalla Gozzini è che vi sono meno violenze tra detenuti. Ma questo obiettivo si raggiungerebbe ugualmente con un automatismo dei benefici, soppressi in caso di reato compiuto in carcere, com'è l'aggressione di un compagno.
Pene più alte, discrezionalità totale, aumento della sofferenza psichica legata sia alle umiliazioni da pretesa collaborazione che all'incertezza della pena, raddoppiamento del numero dei prigionieri classici dopo l'invenzione delle pene alternative portate dalla legge Gozzini!: questo è il caso del sistema penale italiano, un caso di perversione positivista che è arrivato alla pretesa di cambiare la classe dirigente italiana; un'illusione certo, ma che è servita tuttavia a diminuire le libertà. L'Italia è un paese dove non è difficile incontrare gente reclusa da 30 anni, o venire a sapere che un uomo di 84 anni è fuggito per bere un bicchiere coi suoi vecchi amici al bar ed è stato ripreso. Quanto ai suicidi e ai decessi in carcere, non fanno più notizia.
Il cinismo dei modelli neo-classici, invece, non ha ancora esasperato emergenze, dissociazioni, pentitismi. Per il detenuto la pena è una sorta di temporanea condanna a morte: è messo fuori circolazione. Più che all'anima del detenuto l'ideologia classica mira a quella dei liberi cittadini con la deterrenza. Perciò i primi due obiettivi da raggiungere in Italia sono l'europeizzazione delle pene e meno amore omicida per i detenuti...
L'intero movimento abolizionista dovrebbe assumere come esempio il caso italiano per riflettere su se stesso, per capire più in profondità l'anima del sistema penale, le sue perversioni. Questa riflessione potrebbe aiutare a inventare una politica dell'abolizionismo che in Italia dovrebbe anzitutto ottenere, all'interno dell'attuale sistema, pene europee, meno carcere invisibile dentro e fuori i penitenziari, meno diritto penale.

4. La politica abolizionista è un rovesciamento della politica tradizionale. Per quanto i suoi obiettivi possano incrociarsi con il riduzionismo penale dei riformatori, essa crea anche le condizioni culturali e sociali di un mondo autoorganizzato al di fuori della logica punitiva, una realtà sociale informale da porre in alternativa alla pena.

5. C'è oggi una sola scienza legittima per analizzare l'evento sociale, una sola scienza che svolge un ruolo di base per tutte le altre: è l'economia. Lo sguardo egoista e meschino nato per risolvere gli affari del mercante è diventato lo sguardo che tutto deve comprendere e spiegare. Sociologia, psicologia ecc. sono succursali dell'economia. Gli esseri umani finiscono per unirsi o per dividersi nei loro scopi solo in superficie, sempre estranei fra loro nella sostanza, diventando sempre più incapaci di spiegarsi il perché d'ogni cosa che non sia riconducibile a un utile.
L'Uomo Economico può ragionare solo a partire da ciò che può vedere nell'altro, mai da se stesso. Questa è la sua prima legge. Così è diventato uno sconosciuto a se stesso.
L'esperienza del dolore non può essere vista dallo sguardo economico perché per sua natura non può essere ricondotta a quella legge. Il dolore, s'è già detto, è un fatto personale, si può conoscere il proprio, non quello dell'altro: si può partire solo da se stessi. Perciò la nostra non può essere che una società fondata sulla rimozione del dolore, guidata da un edonismo teso alla ricerca di una felicità ridotta alla folle presunzione che l'essere umano possa liberarsi del dolore. Del dolore non si riconosce più la funzione necessaria, funzione che ci dota di un senso della realtà percepibile oltre la coscienza acquisita, che ci porta dunque a capire il prossimo a partire da quello che proviamo noi stessi per primi. L'effetto di questa rimozione è disastroso: centuplica il dolore degli altri, cioè di tutti e finisce per accentuare la sofferenza dell'Io, resosi incapace di affrontare il suo dolore. Inoltre, la logica penale non incontra freni e segna un vero e proprio corto-circuito della ragione quando, come abbiamo visto con alcuni esempi, porta ad agire di fatto secondo il principio: faccio agli altri ciò che non voglio sapere di me.

6. Proletari del dolore, unitevi! dice il malato terminale nel romanzo già citato di Gustafsson; una parola d'ordine che è un controsenso per la società attuale. Esiste sì a volte una solidarietà di coloro che soffrono, ma è finora quella delle vittime, una religione del lamento, non una protesta. Non è ancora il saper riconoscere la propria condizione in base alla fatica e al dolore come nuovo criterio per riconoscersi con altri in classe che superi i criteri economicisti che continuano a dominare. I proletari del dolore sono una sfida alla sofferenza, una dignità dell'esperienza intima del dolore, un rovesciamento dello sguardo degli hominis oeconomici, rovesciamento resosi indifferente ai beni che questi ci propongono di conquistare - confusi come sono tra ben-essere e ben-avere.
I marxisti tedeschi per esempio, per molto tempo tempo non vollero accettare l'idea che i proletari economici potessero essere nazisti oltre che comunisti o socialdemocratici. Ebbero torto, come si sa, e con questa affermazione non intendo ovviamente affatto negare l'esistenza della lotta fra le classi ma la sua visione superficiale, economicista e, in sostanza, falsa. Il mio è il tentativo di considerare con maggiore acume quel che c'è di diverso nel mondo degli esclusi, dei vinti perché solo lì è la vera alternativa. Il movimento operaio nacque come denuncia della sofferenza legata alla fatica portata dall'avvento del lavoro salariato. La fatica è un'altra esperienza intima affine al dolore, come questo ai confini del dicibile. I bioritmi dell'individuo, l'intelligenza impiegata in quel che faceva subirono una espropriazione ad opera di quella cristallizzazione di un piano dispotico che sono le macchine. La fatica aumentò per effetto di questo esproprio, divenne simile al dolore e provocò una grande sofferenza dalla quale nacque una nuova epoca della ribellione sociale. Nel gioco, nell'impresa sportiva, in un lavoro fatto per i propri cari possiamo vedere riversarsi una quantità di sforzo maggiore che in molti lavori parcellizzati. Eppure quella fatica è come rigenerante, non dà luogo ad alcuna sofferenza bensì piuttosto a un'esperienza gioiosa; dal punto di vista utilitaristico, queste fatiche non si possono spiegare: sono gratuite, fanno parte dello spirito del dono e non dell'economia. Il movimento operaio nacque per il rispetto dell'esperienza intima legata alla fatica e la lotta contro la sofferenza era perciò indistinguibile dalla difesa della dignità. Ma in epoca tayloristica le organizzazioni del movimento operaio assunsero il punto di vista economico fino ad abbracciare completamente il criterio dell'utile. Il comunismo diventò il diritto di tutti ad avere quel che avevano i borghesi e non più di essere diversi da loro in una società diversa. Le rappresentanze del movimento operaio non si distinsero più dai partiti borghesi, le cosiddette società socialiste furono il regime di un capitalismo di stato difficilmente distinguibile dall'esperienza fascista. Si è innescata quella spirale che ha portato a decretare la cosiddetta fine del comunismo.

7. L'utilitarismo è l'estremizzazione della logica economica. Il suo campione fu Bentham, il quale fu anche non a caso il dottor Stranamore che inventò il Panopticon, fabbrica-prigione con un sistema di controllo in cui il controllore vede senza esser visto. Ancora oggi struttura archittetonica di molte prigioni, il Panopticon resta comunque valido nel suo principio anche in ogni nuova edificazione carceraria che non segua quei criteri architettonici, rivelatisi poi non così efficaci. Magari uno spioncino sul muro del cesso si rivela altrettanto funzionale: ed è quel che è stato fatto.
Qui, nello spioncino di un cesso, è chiarissimo il nesso fra utilitarismo e tentativo di eliminare totalmente l'esperienza intima dell'individuo, è chiaro il nesso esistente fra punto di vista economico e totalitarismo. La trasparenza che bisogna sempre cercar di raggiungere tra le esperienze interiore ed esteriore viene risolta cercando di sradicare la prima, attraverso l'essere visti senza vedere.

8. Ma nonostante lo spioncino applicato perfino al gabinetto, quando ragiono sui miei dolori-pene di carcerato, posso avvicinarmi alla comprensione di quel che attraversa un malato di tumore. A sua volta, un super borghese colpito da stato tumorale può fare delle riflessioni su se stesso che lo portino ad una maggiore comprensione (meno utilitarista) del mondo e perciò degli altri (la letteratura autobiografica al riguardo non manca, non starò a citarla). Il dolore non esorcizzato mette in discussione i confini dell'acquisito, l'egoismo ed esalta insieme la dignità del singolo e la lotta alla sofferenza, oggi spesso inutile sovrappiù che moltiplica il dolore umano oltre l'inevitabile.
La rimozione del dolore riduce le ideologie a maschere della falsa coscienza.

9. In carcere, dove tutto arriva più facilmente all'estremo, nei primi anni '90, al massimo del regime premiale, si è visto persino un'arma estrema come lo sciopero della fame diventare strumento della dissociazione mentale, momento di spettacolo.
E' opportuno ricordare che la vera lotta non violenta è probabilmente la più eroica fra tutte. La lotta armata è più facile a realizzarsi dato che in essa, ancora, si difende il proprio corpo. Ma quando si arriva al punto di usare come unica arma la propria vita (o morte), diventano necessari un sereno coraggio e un'elevatezza spirituale che sono di pochi. Proprio per questo, però, quei pochi hanno un effetto devastante sull'avversario: hanno sviluppato una tale capacità comunicativa della forza interiore da risultare disarmanti, impongono un rispetto di sé senza pari.
Il vero sciopero della fame, insomma, non è neanche una vera e propria lotta, una protesta: è un'affermazione estrema del proprio modo d'essere, della propria persona, del Sé più che di sé, della propria dignità, in circostanze dove il compromesso si riveli impossibile. E' dunque poco generalizzabile a livello di massa e proprio qui sta la sua grande forza quando sorge. Esce infatti dalla cultura di una civiltà fondatasi sul mito dell'Io e, perciò, da ogni logica politica intesa in senso stretto (della rappresentazione, dell'atto dimostrativo) e apre varchi di luce nell'inconscio collettivo invece di rinnovare i suoi limiti. A livello di massa è dunque possibile una seconda forma di lotta, una protesta vera e propria, in un certo senso... iniziatica rispetto alla prima che è al di là dello stesso concetto di protesta: parlo della non-collaborazione.
Nel carcere si è sviluppato per un certo periodo un gran pasticcio. Ricorrendo a dei digiuni si è imitata la prima forma per raggiungere e fare l'opposto rispetto alla seconda! Lo sciopero della fame è stato ritualizzato, svuotato d'ogni contenuto e perciò di efficacia, inflazionato in una pratica che ormai il più delle volte meritava un solo nome: simulazione. Poiché spesso (e fin qui pazienza, si capisce) il digiuno non è più stato soltanto un atto dimostrativo (con scadenza prefissata di x giorni, simbolico, senza uno scopo cui venisse legato), ma è diventato pure falso: il rifiuto del carrello col cibo dell'amministrazione non significava digiuno, e si crearono persino le consuete ingiustizie fra chi aveva tanto e chi poco cibo in cella. Lo sciopero allora riuscì dove c'era tanto da mangiare e fallì nelle sezioni più povere dove si rischiava di fare sul serio la fame se non si prendeva il cibo dal carrello.
Non c'è dunque da stupirsi se un tipo di lotta così tipicamente delicata e soggettiva, necessariamente legata a una totale libertà di coscienza individuale (e perciò tradizionalmente praticata da poche persone molto determinate), sia stata quella volta proposta come cosa da fare in massa, come dovere per delle migliaia, a chi aveva 20 o 50 anni, e così via. Interpretare uno sciopero della fame come un'astensione dalla produzione (che tutti possono fare) significa ridurre la visione della persona a quella di una macchina. Il risultato è lo svuotamento di significato di uno strumento prezioso, di un atto estremo (direi quasi sacro nella storia delle prigioni).
Ma quale fu allora il vero scopo di quegli scioperi di massa? E' semplice: offrire di sé una visione vittimistica, di buoni, come se lo scopo di migliorare le proprie condizioni (ottenendo più premi) potesse essere raggiunto attraverso una commozione della controparte (la società, l'autorità, il mass media). E' una visione molto ingenua delle cose, irresponsabilmente indotta dalla TV e dai giornali: apparire come notizia là sopra vuol dire essere, eccetera.
Il corrispettivo di tutto ciò è stato la coda per il premio. Solo che quanta più coda c'è, tanto più aumenta la discriminazione, l'ingiustizia. E quali rapporti reali possano instaurarsi fra detenuti lungo questa linea suicida, è facile immaginare. Per fortuna, devo dire che c'è sempre una buona dose di saggio scetticismo fra non pochi carcerati e perciò, dopo un po' di tempo non si sentì più parlare di scioperi della fame di massa...
Ricordo che in questi ultimi decenni molti prigionieri (per lo più politici) sono morti in seguito a degli scioperi della fame: in Germania, nel Regno Unito (militanti irlandesi), in Turchia. Quando si arriva alla questione essenziale, il senso della propria vita, ci si accorge che si tratta della propria dignità, concetto che racchiude tutto ciò che è opposto all'utilitarismo e che, nella sua concretezza, riguarda la capacità di attraversare il dolore superando la sofferenza.

10. Lottando per l'abolizione del dolorificio legale, il movimento abolizionista non realizzerà la felicità, ma potrà consentire all'umanità intera di ridare un senso all'esperienza intima del dolore: è una necessità ormai urgente contro la crisi della ragione.

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