Nov 292019
 

                                                                                                                                                                                                                                   Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Cominciamo decisamente a perdere il conto. Le operazioni repressive contro gli anarchici si susseguono senza sosta: “Scripta manent”, “Panico”, “Scintilla”, “Renata”, “Prometeo”, “Lince”… Più l’arresto di Juan e Manu, di Amma, Uzzo e Patrick. Senza scordare l’“ordinaria amministrazione” di processi e condanne per singoli episodi di lotta, le perquisizioni e lo stillicidio di misure cautelari, di detenzione domiciliare e di “misure di prevenzione”.

Un sistema articolato di strumenti giudiziari e polizieschi finalizzato a togliere dalle scatole quanti più compagni possibile e di isolarli anche all’interno del carcere. Se diamo una lettura complessiva, la natura sia “reattiva” sia “preventiva” della repressione emerge chiaramente. Di più, siamo di fronte a un processo di normalizzazione, in cui l’aspetto strettamente repressivo è solo una parte. L’obiettivo è quello di togliere alla ribellione ogni dimensione storica e sociale, trasformando tanto le pratiche quanto gli individui in “figure di reato” prive di qualunque sfondo in cui possano essere collocate. È come se, mentre la società è attraversata da un sentimento inconfessato da finale di partita – con la percezione diffusa di qualcosa che incombe –, lo Stato compendiasse tutte le forme di repressione che ha accumulato nella storia. Ci sono singole azioni che dànno indubbiamente fastidio, a cui l’apparato reagisce con la solerzia di attribuirle a tutti i costi a qualcuno, forzando se del caso la realtà all’interno delle ipotesi di Digos e Ros. Ci sono interi percorsi di lotta, di cui scompare l’ingiustizia che li genera, per diventare mera realizzazione di un “progetto criminoso” di un pugno di sovversivi. Non è l’esistenza stessa dei CPR a spingere chi vi è internato a ribellarsi, a tentare la fuga, a distruggerne il funzionamento: no, sono gli anarchici all’esterno a sobillare gli animi e a istigare le rivolte. Non è lo storico processo di servitù militare a cui sono sottoposti interi territori a suscitare le mobilitazioni antimilitariste, bensì le trame di qualche anarchico. Non è la brutalità delle politiche anti-immigrati a fomentare l’azione contro le sedi della Lega, bensì una “campagna di lotta contro il fascio-leghismo” teorizzata da una rivista anarchica. Per cui in varie inchieste torna con insistenza il reato di “istigazione”, il cui veicolo sono riviste, giornali, opuscoli. Ma siccome dietro le lotte e le pratiche di azione diretta ci sono individui che, persino nell’èra della democrazia digitale, mantengono delle relazioni umane – e, tra queste, dei rapporti di affinità –, l’Apparato colpisce anche il tessuto di relazioni di solidarietà. Dal momento in cui anche per reati di piazza si possono accumulare anni e anni di carcere, diversi compagni potrebbero decidere in futuro, come altri in passato e nel presente, di sottrarsi al carcere. Ecco allora gli sbirri sguinzagliati nelle case di amici e parenti alla ricerca di chi è uccel di bosco e, contemporaneamente, giudici emettere condanne spropositate – con tanto di “aggravante di terrorismo” – nei confronti di chi è accusato di aver aiutato un compagno latitante. Come monito per eventuali solidali e come ingiunzione: non c’è fuga dall’apparato di cattura delle vite. Più in generale, siccome resta piuttosto complicato, nonostante le intercettazioni, i pedinamenti, le perquisizioni, capire esattamente chi fa cosa, si attaccano a lana grossa contesti e raggruppamenti umani di cui le lotte e le azioni sono parte. Quest’ultimo aspetto rievoca, benché il contesto sia molto diverso, la legislazione dello Stato liberale contro gli esordi dell’Internazionale in Italia e del nascente associazionismo proletario – proprio da quell’epoca provengono anche misure come il divieto o l’obbligo di dimora e la sorveglianza speciale. Il regime fascista si è incaricato poi di stroncare fino alla paranoia quanto e quanti si collegavano a quella storia ribelle. Per la democrazia, infine, che è la forma politica dell’intubamento privato delle vite, dietro il sovversivo non dev’esserci più alcuna storia, ma solo una catena più o meno lunga di reati. Ora, visto che lo Stato democratico, rispetto ai precedenti strumenti repressivi, non ha buttato via nulla, il risultato è appunto un compendio: la “depoliticizzazione” di ogni forma di illegalità antagonista. Così, da un lato, si cancella ogni dimensione storico-sociale del conflitto, mentre si spinge, dall’altro, l’asticella del consentito sempre più in basso.

Tutto questo per dire che, a dispetto dell’album delle figurine allestito dalla polizia politica e dalle Procure, e delle ricostruzioni a loro uso e consumo, come sfruttati in genere e come anarchici in particolare abbiamo una storia assai ricca da giocare contro i nostri nemici. Se è un insieme di relazioni, di strumenti e di pratiche che è sotto tiro, è proprio quell’insieme che va rivendicato e difeso.

Cogliamo l’occasione per mandare un saluto solidale ai compagni e alle compagne sotto inchiesta in Sardegna, in particolare ai cinque per cui verrà esaminata a breve la richiesta di sorveglianza speciale. In questo caso è particolarmente evidente non solo l’uso incrociato di reati associativi e di misure di prevenzione, ma anche il tentativo di far fuori una lotta antimilitarista che ha rivolto contro la macchina della guerra sia le trance e i sassi di tanti sia il fuoco di pochi. Questi compagni, che abbiamo avuto a fianco negli anni, hanno dato un prezioso contributo. La solidarietà nei loro confronti consiste per noi soprattutto nel rimuovere il rimosso della guerra, in un’epoca in cui non si esce dall’angolo senza rilanciare con forza, nel pensiero e nell’azione, una prospettiva internazionalista.

compagne e compagni di Trento e Rovereto