Mag 012018
 

traduzione da Directa

Si riaccende la lotta tra le mura

Una quarantina di detenuti condannati a scontare pene differenti in vari centri penitenziari dello stato spagnolo ha iniziato una lotta collettiva con l’obiettivo di rendere visibili e denunciare le costanti violazioni dei loro diritti.

“Oggi ho 65 anni e ho scontato due anni di carcere in Francia, dal 1969 al 1971, e poi in Spagna, dal 1971 al 1977, partecipando alla fine della COPEL. Al momento, mi trovo detenuto dal 9 febbraio del 1979 e il mio fine pena è previsto per il 15 novembre 2026. Se sarò ancora vivo, dato che sto lottando contro un tumore alla prostata, verrò di nuovo consegnato alle autorità francesi per scontare un ergastolo per sovversione. Sapete spiegarmi dove stanno i diritti umani in Spagna? E la funzione di reinserimento sociale che secondo la costituzione spagnola dovrebbero avere le carceri?”. Questa è la testimonianza che ci è arrivata per posta da Antonio Carlos Niero, attualmente detenuto nel centro penitenziario di Murcia II e che, secondo quanto afferma, fa parte dei 300 detenuti condannati a “ergastolo dissimulato” nello stato spagnolo. Nonostante il codice penale fissi il massimo della pena a 40 anni, dispositivi quali la “Legge per il compimento integrale ed effettivo delle pene” – approvata dal congresso nel 2003 con l’appoggio di PP, PSOE e Coalición Canaria – o la recente applicazione della “prigione permanente modificabile” da parte del governo di Mariano Rajoy, disegnano uno scenario nel quale molte persone di fatto sono condannate a passare il tempo di vita che resta loro in stato di privazione della libertà.

Secondo Iñaki Rivera – direttore dell’Osservatorio sul Sistema Penale e i Diritti Umani (ODPDH) dell’Università di Barcellona – questi strumenti sono completamente innecessari e, al contrario di ciò che il “populismo punitivo” dei mezzi di comunicazione e la maggior parte dei partiti politici sostengono, non hanno alcun tipo di effetto dissuasore rispetto alla possibilità di commettere un crimine: “Qualsiasi persona che conosca anche minimamente il sistema penale capisce l’inconsistenza di questo strumento che suppone la negazione e la rinuncia legislativa esplicita di qualsiasi finalità rieducativa e la conversione di una condanna legale in una pena crudele, inumana e degradante, completamente contraria a quanto stabiliscono le Regole Nelson Mandela delle Nazioni Unite – ovvero gli standard minimi per il trattamento delle persone detenute”.

Al di là della lunga durata delle pene, secondo il lavoro realizzato dal OSPDH, la violazione dei diritti fondamentali delle persone detenute è una pratica quotidiana nei centri penitenziari, sia in Catalogna che nello stato spagnolo dove, a partire dall’applicazione della legge organica penitenziaria generale del 1979, viene applicato il regime di isolamento, nel quale le persone passano 22 ore al giorno in cella, per tutti quei detenuti considerati “pericolosi” o che secondo i funzionari “non sono adatti per le altre sezioni”. L’Osservatorio ritiene che questo regime in sé suppone un tipo di trattamento che può essere considerato “inumano e degradante” e che causa conseguenze molto serie per la salute fisica e psichica delle persone che lo vivono, riconosciute ormai da tempo sia dal Consiglio d’Europa che dalle Nazioni Unite. “Inoltre, questo isolamento genera un spazio di impunità per le torture e i maltrattamenti, dato che la persona detenuta si ritrova sola, senza testimoni che possano dichiarare eventuali aggressioni”, spiega Rivera, che ritiene che “i funzionari, invece, avranno sempre un gruppo di colleghi pronti a dichiarare che è stato necessario l’utilizzo della forza di fronte a un detenuto violento”. Secondo Rivera, questo regime di isolamento costituisce uno degli aspetti più oscuri della vita in carcere, dato che “non solo rende possibili maltrattamenti e torture, ma fa sì che sia impossibile provarli”.

Stanchi di soffrire costanti violazioni dei propri diritti fondamentali e dell’occultamento di questa impunità fuori dalle mura del carcere, a metà del 2015, la morte di tre detenuti nel carcere di Navalcarnero (Madrid IV) per negligenze mediche ha rappresentato la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Due prigionieri di questo centro hanno iniziato a organizzarsi – ispirati dal lascito delle precedenti lotte anticarcerarie come la Coordinadora de Presos en Lucha (COPEL), la Asociación de Presos en Régimen Especial (APRE) o la Lucha contra los ficheros de internos de especial seguimiento (FIES) – con l’obiettivo di “creare uno spazio e una comunità di lotta” di soggetti differenti – prigionieri, familiari, gruppi solidali – al fine di rendere visibile e denunciare la situazione che si vive ogni giorno nelle prigioni dello stato.

Due anni di lotta collettiva

“Dall’odio, la rabbia, la paura e la vendetta alla solidarietà più umana che io abbia conosciuto nella vita. Ma soprattutto, in memoria di tutti i compagni assassinati nelle carceri dello stato spagnolo”. Con queste parole il prigioniero Jose Antonio Chavero (Toni) – attualmente in regime di isolamento nella prigione di Villena (Alicante II) con fine pena previsto nel 2027 – ha spiegato l’inizio della proposta di lotta collettiva a cui ha dato inizio, con un altro compagno detenuto nella prigione di Estremera (Madrid VII) e diffusa tramite Radio Vallekes dal collettivo Propresxs Madrid, alla fine del 2015. Dopo aver stabilito un dialogo con il gruppo di solidarietà madrileno e con il collettivo Tokata di Valencia, i promotori della proposta decisero di modificare la prima bozza per far sì che questa iniziativa fosse il più efficace possibile, che fosse basata sulla orizzontalità, senza utilizzare sigle né nomi collettivi per evitare di diventare oggetto di controllo e vigilanza da parte delle istituzioni penitenziarie fin dal principio, e di sintetizzare le rivendicazioni per renderle più chiare.

Dopo alcuni mesi di riflessione e dibattito tra gruppi di solidarietà e prigionieri, la proposta venne presentata nel luglio 2016 con un comunicato e una griglia di rivendicazioni in dodici punti. Venivano denunciate tutte le situazioni che più “attentano alla nostra dignità e alla nostra vita”: la proposta era aperta ai suggerimenti e al contributo degli altri prigionieri ed era rafforzata da digiuni mensili che venivano comunicati sia ai gruppi di solidarietà sia alle direzioni penitenziaria, con l’obiettivo di rendere pubbliche e far conoscere le rivendicazioni sia dentro – affinché altri detenuti si unissero – sia fuori dalle mura del carcere.

Dalla diffusione di questa prima bozza, sono già più di 40 i prigionieri – di cui 19 dal carcere di Albocàsser (Castellón II) – che hanno aderito alla proposta di lotta collettiva e che si sono aggiunti ai digiuni organizzati all’inizio di ogni mese e alla comunicazione con i gruppi solidali, denunciando a livello legale qualsiasi tipo di abuso che vivono o di cui sono testimoni. Dal centro penitenziario di Castellón – dove più alto è stato il numero di morti negli ultimi anni e dove vengono perpetrati la maggior parte dei casi denunciati di tortura e maltrattamenti – è nata anche la proposta di iniziare uno sciopero della fame a partire dal primo maggio con una durata prevista di 5-15 giorni in base alla situazione di ogni detenuto, con l’obiettivo di tentare per la prima volta un’azione coordinata tra tutti i detenuti che hanno aderito alla lotta e provare a farne aggiungere altri.

Secondo la testimonianza di una trentina di detenuti che partecipano attivamente alla lotta e con i quali abbiamo stabilito una comunicazione postale come Directa, la maggior parte dei detenuti in lotta sta subendo le conseguenze repressive derivanti dalla messa in discussione del regime penitenziario tramite rappresaglie quali il castigo nel regime speciale di isolamento continuo, il controllo di tutte le comunicazioni, la dispersione e i continui trasferimenti in prigioni lontane dalle famiglie e dalle amicizie. Nonostante le strategie del segretariato generale delle istituzioni penitenziarie per reprimere la lotta, sono tutti molto consapevoli e ritengono necessario andare avanti con la proposta: “Dentro le carceri i diritti fondamentali esistono solo a livello teorico, dato che in pratica mancano del tutto. La normalizzazione di questa follia è ciò che ci disumanizza. Non avere aspettative di nessun tipo fa sì che l’unica cosa che desideriamo sia dedicare la vita a lottare contro questa bestialità, è la sola cosa che può dare dignità e può farti sentire un essere umano e non un animale selvatico”, spiega Chavero dal regime di isolamento, e conclude con un messaggio chiaro: “Il mio futuro è dedicarmi a lottare per coloro che sono ancora qui dentro, se riesco a uscire vivo da questa tomba”.

L’obiettivo è creare una “comunità di lotta”

Fernando Alcatraz – ex prigioniero e membro di quella che fu la COPEL – è attualmente membro del collettivo Tokata, che cerca di essere uno strumento di comunicazione tra i prigionieri in lotta e di sostenere e dare voce alle persone detenute che hanno dato vita a questa iniziativa, e ritiene che “anche se il nostro obiettivo sarà sempre quello dell’abolizione del carcere, nel breve e medio periodo questa iniziativa può servire a denunciare la violazione dei diritti umani nei centri penitenziari. Nello specifico, vogliamo aprire un dibattito sociale su questa situazione e andare avanti per ottenere queste dodici rivendicazioni”.

Alcatraz riporta che da quando è stato creato il gruppo di sostegno al collettivo Nais contra a Impunidade (Madri contro l’impunità) – che furono denunciate nell’ottobre del 2010 per aver protestato di fronte alla sede della guardia civil di Arteixo (la Coruña) richiedendo informazioni sulla morte del giovane Diego Viña nella struttura della benemérita – il coordinamento tra prigionieri, familiari e gruppi solidali sta migliorando e che questa proposta vuole far sì che la solidarietà si estenda a tutta la popolazione per poter formare una “comunità di lotta” e un movimento anticarcerario molto più ampio di quanto non sia attualmente: “L’atomizzazione e l’alienazione sociale generalizzata alle quali siamo sottomessi, il populismo punitivo dei mezzi di comunicazione – che nel parlare delle prigioni danno voce solo ai sindacati delle guardie carcerarie – e la repressione perpetrata dalla politica penitenziaria – con i regimi punitivi, i trasferimenti continui o la costruzione di nuovi modelli architettonici di super-carceri – sono finalizzati a evitare che si formi un’organizzazione di lotta, come è già successo in passato”, però pensa anche che il cammino tracciato e l’impeto dei prigionieri sta rendendo possibile “l’aumento di interesse, la consapevolezza e la riarticolazione del movimento”, dato che secondo Alcatraz “la riapertura di uno spazio di lotta costituisce il mezzo e il fine della proposta”.


Tortura e sovraffollamento

Secondo il rapporto della Coordinadora para la Prevención y Denuncia de la Tortura (CPDT) – formata da 48 realtà diverse – la maggior parte delle denunce di tortura nel 2016 nello stato spagnolo sono state fatte da uomini, migranti, minori e persone colpite dalla repressione dei movimenti sociali. Per quanto riguarda la distribuzione territoriale, le comunità autonome con più denunce sono Madrid, Catalogna, Ceuta e Andalusia. Infine, i corpi di sicurezza in cima alla classifica delle aggressioni sono il Cuerpo Nacional de Policía Española, il personale delle carceri e la Guardia Civil.

I rapporti annuali pubblicati dall’organizzazione sottolineano che il numero di denunce reali per tortura è superiore al numero delle denunce citate nei loro rapporti. I fattori che possono spiegare questa discrepanza sono la paura di denunciare le aggressioni subite di fronte a possibili contro-denunce o sanzioni amministrative, l’insicurezza giuridica o la percezione dell’impunità dei torturatori, molti dei quali vengono condannati ma poi beneficiano dell’indulto. Come forma di autocritica, sottolineano anche l’impatto della diminuzione del numero e dell’efficacia degli osservatori sui diritti umani, molti dei quali sono saturati o colpiti dalla riduzione delle prestazioni pubbliche. Nel nord della Catalogna, il carcere di Perpiñán, costruito nel 1987, ospita attualmente 728 persone, nonostante abbia una capacità massima di 541 detenuti. Lo spazio più sovraffollato è la sezione per la carcerazione provvisoria o di breve durata (massimo due anni), con 144 posti ma nella quale vivono 307 prigionieri. A causa del sovraffollamento molte persone dormono a terra.


Rivendicazioni (da Tokata)

1. la fine delle torture, delle aggressioni e dei trattamenti crudeli, disumani e degradanti e dell’impunità delle guardie carcerarie in tutte le carceri dello stato spagnolo

2. la fine dei FIES, l’abolizione del cosiddetto “regime speciale” di carcerazione e la chiusura assoluta delle sezioni di isolamento

3. fine della dispersione dei prigionieri

4. che i servizi medici non siano afferenti alle istituzioni penitenziarie ma siano indipendenti

5. l’applicazione immediata degli articoli 104.4 e 196 del regime penitenziario a tutti i/le malat* cronic* senza che sia necessario che entrino nella fase terminale

6. per quanto riguarda le persone con disturbi mentali, esigiamo che vengano trattate adeguatamente in luoghi appropriati e non in carcere

7. che i “programmi” che prevedono metadone, trattamenti psichiatrici ecc. siano accompagnati da gruppi di sostegno, terapie ecc. indipendenti dalle istituzioni penitenziarie

8. che vengano aperti fascicoli di inchiesta, chiarimento e riconoscimento di responsabilità per la morte di compagn* nelle carceri dello stato spagnolo

9. che le strutture carcerarie rendano accessibili aule, laboratori, palestre, attività formative e culturali ecc. ai/alle prigionier* classificat* come “irrecuperabili”

10. che le sezioni di rispetto (modulos de respeto) non vengano utilizzate per ricattare in cambio di supposti benefici penitenziari, in cambio della degradazione morale dei prigionier*

11. la fine delle perquisizioni integrali dei familiari e amici in visita

12. esigiamo che i giudici, le forze di sicurezza dello stato e i vari organi repressivi smettano di criminalizzare la solidarietà tra le persone