Mar 042018
 

A poche settimane dalla piazza romana contro Erdogan del 5 febbraio, e a seguito di tante altre occasioni in cui il controllo delle forze dell’ordine ha attuato le stesse dinamiche specialmente in questa città, ci prendiamo il tempo per qualche considerazione, sperando che le riflessioni qui poste possano tradursi in stimoli per il nostro agire.

Queste righe, infatti, non vogliono prendere in esame le ragioni che spingono la controparte a disporre o meno dei dispositivi repressivi di cui parleremo né, tanto meno, entrare nel merito della valutazione di presunta “pericolosità” che lo Stato e i media fanno nei confronti di chi lotta. A nostro avviso, quanto scelgono di mettere in campo non è sempre direttamente proporzionale al potenziale livello di conflittualità.

Premettiamo che siamo nell’Europa del “sistema hotspot” e, più precisamente, nel Paese che ha più volte ricevuto elogi per il sistema di identificazione forzata a cui sottopone le persone immigrate che vi fanno ingresso. Solo tre settimane fa è stato addirittura presentato un progetto per l’identificazione “hi-tech”, che verrà applicato in via sperimentale nel porto di Catania. Si tratta di un tunnel modulare, dotato di sensori e facilmente ricollocabile, che consentirà di velocizzare ed ottimizzare le procedure di identificazione dei migranti che approdano nei porti siciliani, attraverso la raccolta di specifici parametri biometrici, e anche di effettuare in pochi minuti un primo screening sanitario. Questo “tunnel” verrà spostato secondo le esigenze e di fatto renderà l’identificazione forzata un passaggio “naturale”.

Sono proprio le resistenze collettive e individuali a raccontarci le pratiche e gli scopi di questo sistema che, oltre a classificare e deportare persone il più velocemente possibile, punta a costruire un’immensa banca dati, condivisa fra più Stati.
Qui la categoria della “pericolosità sociale” o quella della “vittima da salvare” viene, di volta in volta, attribuita in base al paese di provenienza. Dunque per “chi si è” e non per “ciò che si è commesso”.

Nel nostro piccolo…

Da anni, e ormai sempre più di frequente, le grandi manifestazioni sono accompagnate da numerosi tentativi di identificazione di massa che si aggiungono al solito impianto investigativo fatto di numerose videoriprese e fotografie.
Pullman bloccati all’ingresso delle città per permettere il foto segnalamento di tutti i passeggeri; rastrellamenti nei luoghi “caldi”, anche nei giorni precedenti ai cortei, per elargire preventivamente fogli di via a presunti manifestanti; checkpoint nelle vie d’accesso alle piazze dove avviene il concentramento, così da poter effettuare la perquisizione di ogni persona che intenda accedervi. Infine, il famoso kettle, preso in prestito dalla polizia britannica, ossia l’accerchiamento di tutti i partecipanti a una manifestazione o di uno spezzone specifico da bloccare e separare. Ciò allo scopo di identificare ogni persona presente oppure consentire il trasferimento in massa nella questura con l’ausilio di pullman della polizia.
Queste pratiche sono andate via via estendendosi anche a momenti di mera espressione di dissenso, con bassissima partecipazione e nessuna conflittualità.

Perché opporsi?

Chiunque scelga di salire su un pullman per recarsi in un’altra città e partecipare a un corteo ha voglia di arrivare alla manifestazione e di farlo nel più breve tempo possibile. Chiunque ha partecipato a una manifestazione, una volta finita, ha voglia di tornarsene ai propri impegni o comunque preferisce stare ben lontano da un accerchiamento asfissiante della celere.
Non possiamo però pensare che per chiunque sia spontaneo mostrare un documento, sempre che lo si abbia, o che sia consentito a tutti e tutte l’accesso in un determinato territorio (pensiamo per esempio a chi è raggiunto da obblighi o divieti di dimora, fogli di via…). Puntare i piedi, avversando il controllo, metterebbe però tutte e tutti sullo stesso piano.
Liquidare questa scelta, affermando che “tanto in piazza ci sono migliaia di telecamere della digos e dei giornalisti”, significa negare a priori che sia possibile eludere il controllo pervasivo delle forze dell’ordine. Significa non riconoscere la differenza che fa l’avere e il poter esibire tranquillamente o meno un documento di riconoscimento. Eppure c’è chi quotidianamente ci prova: nelle stazioni, nei bus o durante ordinari controlli nelle zone di frontiera o nei centri di detenzione per l’identificazione forzata. Se l’opposizione all’identificazione viene ridotta a una “questione di principio”, pur sempre degna di appoggio concreto, neghiamo così che questa possa comportare conseguenze, immediate o no, prodotte dal foto segnalamento.
In ogni caso: oggi parliamo di una foto al documento o anche di 10 secondi di videoripresa del nostro viso affiancato al documento, domani potremmo tranquillamente parlare del prelievo del DNA.

Possibilità.

È più semplice intravedere delle possibilità se possediamo un nostro bagaglio di esperienza o se ci confrontiamo con chi ha vissuto situazioni simili, ma senz’altro anche l’improvvisazione e la fantasia possono dare i loro frutti.
Creare delle contromosse che distolgano l’attenzione delle forze dell’ordine, dei diversivi che le costringano a dover gestire contemporaneamente più situazioni. Se per esempio una decina di pullman vengono fermati al casello autostradale o in un autogrill; se, ogni volta, cinquecento, o anche più manifestanti si trovassero dentro via Patini (nel caso di Roma) a opporsi all’identificazione; se davanti il checkpoint della celere prima di entrare in piazza si rifiutasse la perquisizione; se si formasse un presidio al di là di un accerchiamento di manifestanti…

Lontana da noi l’arroganza del voler dare consigli o ricette risolutive.
Quello che davvero ci preme è la voglia di ragionare assieme e lucidamente, quindi non sotto spinte date dall’urgenza, così che si possano intravedere delle possibilità, da creare e ricercare, ogni qualvolta vorrebbero rinchiuderci nei cerchi della rassegnazione.

Rete Evasioni