Mag 172017
 

fonte: Macerie

Da oramai più di un anno il prelievo del Dna è entrato a far parte delle procedure di rito nell’identificazione delle persone arrestate o fermate, non fanno eccezione i compagni colpiti dalle ultime inchieste. Resistere al prelievo lo trasforma in una manovra coatta, averla vinta contro i tutori dell’ordine e del controllo nelle stanze della scientifica è più che difficile . Qui di seguito l’esperienza di un compagno arrestato il 3 maggio, tutt’ora detenuto alle Vallette, che continua a domandarsi quali potrebbero essere le possibilità per opporsi.

«Scrivo qualche riga per raccontare quanto è avvenuto durante il nostro arresto di qualche giorno fa, relativamente alla permanenza nel questura di via Grattoni, a Torino. E al procedimento identificativo.

Le parole che seguono, come spero si capisca, non mirano ad impressionare nessuno, ma a condividere una piccola esperienza sulle modalità repressive della controparte, in particolare sul prelievo del Dna, di cui in Italia si sa ancora ben poco.

Appena arrivati in questura per formalizzare l’arresto siamo stati sottoposti ai controlli di rito, fotosegnalazione e prelievo delle impronte.

Una volta completata questa fase hanno iniziato a chiamarci per il prelievo del Dna; anche se in quel momento eravamo separati, come del resto in quasi tutte le fasi dell’identificazione, tutti e tutte avevamo in mente cosa fare.

Avendo già discusso sulla questione Dna e interessati a capire se ci fosse spazio di manovra per opporsi, abbiamo deciso di rifiutare il prelievo e resistere.

Una volta comunicato il nostro rifiuto, Digos e polizia scientifica hanno iniziato a parlottare, mimando gesti di quello che sarebbe stato il prelievo con la forza.

Detto ciò, io e un altro compagno, una volta messi insieme, abbiamo acceso entrambi una sigaretta. Non appena abbiamo iniziato a fumare, dopo qualche tiro, cinque agenti della Digos ci si sono gettati addosso nel tentativo di sottrarci le sigarette, dopo un po’ di strattonamenti una di queste è stata trovata, un’altra no. Così uno di noi è stato messo da parte per essere perquisito e malgrado ciò nulla è stato rinvenuto.

Un agente della Digos visibilmente innervosito dall’accaduto, è ritornato indietro e tra le cicche spente per terra, lasciate là dalle decine e decine di fermati ogni giorno e magari dagli stessi agenti della polizia, ne ha presa una a caso dal pavimento e l’ha messa in una busta con su scritto: “Dna + nome e cognome”.

Alla richiesta di verbalizzare l’accaduto è stato risposto un netto rifiuto. Dopo un’ora si è iniziato con il prelievo vero e proprio. Uno ad uno a turno siamo stati portati in un ufficio della polizia scientifica. Racconterò ciò che è accaduto a me. Sono entrato nell’ufficio e sono stato ammanettato e messo a sedere, sulla mia sinistra è stato piantato un treppiedi con una telecamera. Di fronte a me due uomini in camicia della scientifica, dietro di me 5 o 6 agenti della Digos. Due carabinieri in uniforme, infine, a presenziare alla cerimonia.

Comincia lo spettacolo, la telecamera inizia a registrare, viene aperta la busta del Ministero con il materiale, un funzionario di polizia recita una formula di rito a cui io rispondo negativamente. Tale formula ha il sapore della sentenza. Così gli agenti della Digos, aiutati dai carabinieri, si buttano su di me, mani al collo, testa all’indietro, stringono forte, cercano di farmi spalancare la bocca, mi danno colpi nel ventre e con le dita cercano di scavare le guance e nel costato. Intanto si avvicina uno dei due in camice e con il tampone mi preme con forza sulle labbra serrate. Mi tappano il naso, non riesco più a respirare, apro la bocca, l’agente ci ficca dentro il tampone per più volte. Mi lacrimano gli occhi, ho un conato di vomito, sono pieno di bava sulla faccia. L’operazione si ripete una seconda volta, sempre peggio e neanche i presenti, forse novizi della pratica, sembrano gradire la scena.

Finisce tutto, chiuso il sipario, ma senza applausi.

Queste quattro parole scritte volevano dare una fotografia su ciò che accade in caso ci si rifiuti di aprire spontaneamente la bocca, oltre che mostrare come il prelievo, come detto nella prima parte del testo, si presti alla completa arbitrarietà di chi lo effettua raccogliendo campioni un po’ come meglio crede.

Molti diranno: “Cosa ti aspettavi da un prelievo coatto? Un invito a cena?”

Personalmente mi aspettavo questo. Certo viverlo non è esattamente come pensarlo, ma ero pronto a questo. Soprattutto ero interessato a capire cosa possiamo fare, dove ci possiamo spingere, cosa ci possiamo inventare per impedire, contrastare e non normalizzare questa pratica abominevole, disgustosa come chi la esegue».

Uno degli arrestati a Torino il 3 maggio 2017

macerie @ Maggio 16, 2017