Gen 182017
 

banksy-uomo-attesa-275661-768x573fonte: freccia.noblogs.org

“Tra qualche giorno mi scadrà il foglio di via da Teramo. Il terzo consecutivo. Datomi per i motivi più disparati: dei danneggiamenti, una manifestazione antifascista, fino ad arrivare all’ultimo datomi per attacchinaggio di manifesti solidali con i No Tav. Ognuno della durata di tre anni che, sommati ad un periodo di divieto di dimora da Teramo, fanno un totale di dieci anni.
Quanto sono lunghi dieci anni?
Prima di fare questa riflessione ad alta voce, in prima persona, mi sono interrogato molto sul senso. Sul significato di narrare questa storia senza che fosse fraintesa come un qualcosa di personalistico o, peggio, di vittimistico.
Poi però ti accorgi che arriva il momento di raccontarle certe vicende, per il semplice motivo che, averne lette di altre, ti ha arricchito. Ti ha dato qualcosa. Ti ha fatto trovare compagni.
Arrivano dei momenti cioè, che certe storie vanno raccontate, anche perché non tutto è scontato come pensiamo, che tutto si sappia. Ed una volta conosciute certe vicende si possono fare anche considerazioni con più chiarezza.
Chiarisco, al riguardo, anche un’altra cosa: vicende come questa, purtroppo, sono sempre più frequenti e diffuse. Ed anche per questo, raccontarcele, ci aiuta a ragionarci sopra. Un’altra cosa da chiarire è, senza dubbio, che vi sono vicende repressive ben più pesanti e durature, purtroppo. Ma il senso di questa riflessione ad alta voce non è sulla “gradualità” della repressione, non è una classifica. Il senso di questa riflessione è, partendo da un’esperienza singola, cosa comporta la repressione e ragionare su come affrontarla.
Torniamo quindi al foglio di via. Esso è una misura repressiva, emanata dal questore, nei confronti di chi ( a discrezione del questore stesso ed evidentemente su pregiudizi di polizia) viene considerato un “pericolo per la pubblica sicurezza”. Al foglio di via, una volta emanato e quindi reso esecutivo, si può fare ricorso: o al questore stesso (?!?) o tramite il Tar, pagando ovviamente il ricorso. In quest’ultimo caso si devono addurre serie motivazioni (lavorative, famigliari, ecc..) per il fatto di poter rimanere in un territorio. E, per esperienza, vi dico anche che queste “serie motivazioni” molto spesso non sono sufficienti, laddove vi sono forti pressioni poliziesche. Uno, poi, può anche sbattersene del foglio di via; solo che, laddove vi è abbastanza attenzione su un individuo, le varie inosservanze di tale misura si tramutano poi tutte in procedimento penale.
Dopo questa piccola e semplice digressione legislativa, tocca entrare nel merito della riflessione: cosa comporta il foglio di via? Ma avrei potuto dire anche, con le varie differenze, la sorveglianza speciale, il divieto di dimora e via discorrendo.
In primo luogo comporta, perlomeno il tentativo, di rompere molti rapporti che uno ha in un territorio. Non poter frequentare amicizie, luoghi famigliari, lotte. Non poter venire in contatto con tutto ciò che in tre, cinque, dieci anni é nato e cresciuto. Non poter rinsaldare quel che già c’era, che si era costruito. Comporta il dover reinventarsi in un altro luogo, ricostruire rapporti, situazioni; e non per scelta, ma per costrizione! Queste misure quindi mirano soprattutto ad escludere da un contesto sociale e ad isolare l’individuo dal mondo che ha vissuto e che vuole ed intende vivere.
Qui s’inserisce la riflessione da cui queste righe prendono corpo: se infatti ci diciamo, giustamente, che i compagni sono molto spesso isolati da e in situazioni “sociali”; questo discorso va traslato anche su un piano individuale. Diciamoci la verità: molte volte, oggi, chi realmente si mette in gioco (soprattutto in situazioni di provincia, ma non solo) si trova isolato, a confrontarsi, quando ha fortuna, con pochi intimi. A ragionare sul da farsi, ad affrontare situazioni spiacevoli, a sorbirsi grane giudiziarie. E possiamo facilmente immaginare quanto ciò sia deleterio per le lotte, per una loro progettualità, una loro espressione pratica, una loro efficacia. E, alla lunga, quanto può essere deleterio anche individualmente.
In questo contesto la repressione, con tutte queste “semplici” applicazioni di cui dispone, ha gioco facile. E la frammentazione e l’isolamento, non possono che avanzare.
In questo quadro a tinte fosche, però non c’è da buttar la spugna. C’è piuttosto da riconoscere che uno dei primi aspetti da combattere è l’isolamento a cui vorrebbero relegare i compagni e, di conseguenza, le lotte. Perché chi ancora si avvicina alle idee di libertà e giustizia sociale, non deve sentirsi isolato: né in contesti sociali e di lotta, nè tantomeno alle prime avvisaglie repressive. Se non capiamo che dobbiamo ripartire da questo collante solidaristico, perderemo per strada sempre più compagni e compagne, sopraffatti, comprensibilmente (stando così le cose), da un senso di isolamento e spossatezza. Ed ancor meno, se ne avvicineranno.
Perché è pur vero che le nostre idee non moriranno mai, ma nel momento in cui non abbiamo la forza e la capacità di metterle in pratica, quelle idee, per quel periodo storico, stan già morendo.”