Nov 222016
 

Pubblichiamo il testo dell’ intervento che una compagna di Rete Evasioni ha fatto durante un’iniziativa a San Didero (Val di Susa) sulla resistenza alle misure cautelari e di prevenzione.

 

rete-evasioni-romaCercherò di essere breve, poiché mi rendo conto delle difficoltà dell’intervento che sto per esporre.

 

Parlare di repressione non è facile senza incorrere nel pericolo di fare del terrorismo psicologico.

 

Mi occupo di carcere e repressione da diverso tempo e nonostante le difficoltà di approccio del tema ritengo che sia fondamentale capire quanto tutto quello che ci cade addosso a livello repressivo, debba necessariamente avere una chiave di lettura che vada oltre l’essere stati personalmente colpiti dalla repressione. Certo, quando ciò accade ci si sente persi, impauriti; ci sottraggono dai nostri affetti, dai nostri luoghi, dalla nostra quotidianità. La mannaia colpisce non solo la persona direttamente coinvolta, ma tutti coloro che le sono vicini. Questo a prescindere che la misura restrittiva sia quella cautelare in carcere o le altre varianti alternative. Come giustamente Nicoletta ha evidenziato quando ha dichiarato di non volere che la sua casa diventi una prigione!

 

Ma se riusciamo ad allargare il discorso, comprendendo che purtroppo non siamo che incappati in un progetto più ampio portato avanti dallo Stato italiano e non solo, potremmo avere la possibilità di sentirci meno soli, meno vittime di sistemi repressivi “ingiusti” e di dotarci soggettivamente e collettivamente di strumenti atti ad agire e reagire. Insomma non essere impreparati ci da delle chances in più rendendoci, auspicabilmente, più forti.

 

Da qualche tempo assistiamo ad un aumento esponenziale di tutte quelle misure repressive che appaiono a primo acchito più blande: misure cautelari alternative al carcere e misure di prevenzione.

 

Le prime hanno il “pregio” di non farci ritrovare costretti all’interno di mura, tempi, ritmi e vessazioni carcerarie. E’ pur vero, però, che sono più “spendibili” da un punto di vista dell’impatto sull’opinione pubblica, del sentire comune, proprio perché percepite come più morbide. Garantiscono infatti (anche di fronte a prescrizioni rigide) una certa continuità della nostra vita. Il sequestro del corpo che si compie al momento dell’arresto è di per se un atto molto violento e scioccante.

 

Le seconde, le misure di prevenzione, hanno una loro storia che risale al 1865 anno in cui si affacciano le prime Leggi di Pubblica Sicurezza. Erano rivolte a quei soggetti considerati non criminali bensì potenzialmente criminali in quanto turbavano l’ordine pubblico (oziosi, vagabondi, privi di reddito). Furono presto applicate contro le situazioni di lotta contadine ed operaie. Queste leggi, di lì a poco, furono in seguito adattate ai nuovi principi costituenti.

 

Altre modifiche furono apportate nel 1956 e la legge fu intitolata “Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità”. Nuovamente modificata dal D.L. n.159 del 2011 e rubricata come “Legge Antimafia” – stabilirà i nuovi criteri per la loro applicazione.

 

Tre i criteri:

a) per coloro che debbano ritenersi, su base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi;

b) per coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose;

c) per coloro che, in base al comportamento, debba ritenersi che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale di minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.

 

Una premessa, intanto. Da notare che nel D.L. si parla di condotte e non di reati, quindi qualcosa che non ha a che fare direttamente con un agire illegale (diciamo così) quanto piuttosto con criteri di moralità e comportamentali.

 

Torniamo ai 3 criteri. Com’è deducibile i punti a) e b) non possono essere funzionali allo scopo di reprimere le realtà in lotta, i “conflittuali”, essendo certamente più riferibili alla criminalità organizzata.

 

Invece al punto c), lì dove si riferisce alla “tranquillità pubblica”…. Ebbene voi del movimento NO TAV sapete bene quanto facile sia incorrere in questo criterio vista l’accezione data dagli organi repressivi a questo concetto!

 

Inoltre, nel diritto si stanno sempre più affacciando due figure distinte: il “nemico forte” e il “nemico debole”.

 

Proviamo a chiarire.

 

Con “nemico debole” si intende colui/colei che vìola le norme relazionali interne ad una comunità. Quindi parliamo di un comportamento individuale.

Con “nemico forte” si intendono due “tipologie”:
colui/
colei che commette illeciti ma è integrato nel sistema sociale (organizzazioni mafiose);
colui/
colei che commette illeciti facendosi portatore di un sistema di valori alternativo, cioè di un nuovo patto sociale.

 

Direi che la seconda definizione di “nemico forte” ci tocca pienamente! Su questo “nemico” la repressione si abbatterà senza esclusione di colpi,poiché la sua stessa esistenza pregiudica e mette a rischio l’intero sistema attuale.

 

E questo punto mi porta direttamente a quelli che sono i progetti dell’intero sistema repressivo, incluso il piano carceri.

 

Ricordate la sanzione europea comminata all’Italia nel 2014 a causa del persistere delle condizioni di sovraffollamento all’interno delle patrie galere? Quali sono le soluzioni che lo Stato intende adottare per evitare che il problema si ripresenti evitando ingenti aggravi economici?

 

Ebbene è di poco tempo fa la notizia del rinvio dell’inaugurazione del nuovo carcere di Bolzano. Si sarebbe dovuta tenere nel giugno2016, ma a causa di alcuni ritardi nei lavori, è slittata a giugno 2018. Questa struttura,voluta fortemente dalla provincia autonoma di Bolzano – Alto Adige, è definibile a tutti gli effetti come un vero e proprio penitenziario privato, il primo di questo genere in Italia. Il carcere, progettato per 220 detenuti,è il primo esempio in Italia di partnership pubblico-privato applicata alla reclusione ed il primo caso di project financing riferito all’edilizia carceraria. La privatizzazione delle carceri è un fenomeno oramai diffuso su tutti i continenti. Si è scritto e indagato tanto sulle sue origini, la sua storia e sui mostruosi effetti che si verificano nei contesti in cui si sviluppa. In paesi come gli Stati Uniti, l’Australia o la Gran Bretagna le prigioni private rappresentano da più di trent’anni una triste normalità e le grandi corporation che vi operano, hanno modellato i penitenziari statali secondo l’ottica liberista,riuscendo a capitalizzare, con precisione e a fondo, ogni aspetto della vita carceraria. Un processo che mette a profitto la funzione base del carcere,quella detentiva e repressiva. In questo caso il carcere privato è definibile come una vera e propria fabbrica della reclusione,dove la presenza effettiva del prigioniero è di per sé fonte di guadagno e dove, quindi, è interesse dell’impresa-carceriere tenere costantemente piene le celle. I punti forti del Project Financing sono la velocità nei tempi di attuazione, risparmi nella spesa per lo Stato, possibilità di negoziazione con l’affidatario scelto per il progetto.

 

Altre “soluzioni” sono la costruzione di nuovi carceri speciali (vere e proprie tombe progettate ai fini di provocare la “deprivazione sensoriale”) per chi è accusato di reati così detti “socialmente pericolosi” le cui condizioni detentive possono prevedere il regime di 41bis. Questo regime prevede il totale isolamento e l’esclusione da qualsiasi attività “riabilitativa”. La Sardegna è destinata ad “ospitare” diverse carceri con all’interno sezioni di 41bis. Molti di voi avranno sentito parlare di queste sezioni. Ciò che ci viene propinato è che sia l’unico mezzo necessario per metterci in sicurezza dalle atrocità perpetrate dai boss mafiosi. In realtà in queste sezioni ci sono, ad oggi, circa 730 fra detenuti e detenute e quindi, va da sé che qualcosa non torna. Inoltre al loro interno,da codice penale, può essere rinchiuso anche chi è accusato di reati quali banda armata e associazione con finalità di terrorismo ed eversione. E, anche qui, voi sapete bene quanto facile sia per lo Stato formulare un’accusa del genere!

 

Inoltre i cosiddetti “reati di pericolosità sociale” si trasformano nel tempo sulla base delle esigenze politiche ed economiche. Oggi il maggior pericolo, per esempio, è identificato nelle persone di religione musulmana e infatti sono tra i primi ad avere (anche in fase non definitiva,cioè quando non è ancora terminato l’intero iter giudiziario e quindi non è stata ancora accertata la loro responsabilità) il privilegio di essere rinchiusi nei carceri speciali….

 

Ma il periodo attuale richiede altri strumenti repressivi che vadano ben oltre le mura carcerarie. Il pericolo che sorgano sacche di conflittualità, come reazione alla crisi economica e all’arroganza delle politiche finanziarie, è reale e quindi occorre non solo lasciare al carcere il suo ruolo di monito e addomesticamento attraverso la paura, bensì estendere capillarmente il controllo preventivo.

 

Le misure cautelari alternative alla detenzione in carcere e quelle preventive servono proprio a questo. Chi ne sarà sottoposto sarà l’esca grazie alla quale lo Stato potrà esercitare un controllo capillare del territorio e dei luoghi che vive e in cui lavora (siano essi quartieri di città o paesi), delle persone che incontra e via dicendo.

 

Del piano carceri si può avere ampia documentazione andando a spulciare di qua e di là tra gli interventi politico istituzionali quali i “Tavoli degli Stati generali sul carcere”.

 

Il rifiuto di ottemperare alle prescrizioni imposte da queste misure pone certamente, soprattutto se esteso e sostenuto,in difficoltà gli organi preposti alla repressione inceppandone, in qualche modo, il meccanismo.