Nov 242013
 

Testo di un compagno rinchiuso nel carcere torinese delle Vallette pubblicato sul sito Macerie

«Benvenuti ai nuovi giunti!
La sezione dove sostano i nuovi arrivati in questa galera, che un mio compagno chiama il “limbo”. In teoria dovresti starci circa otto giorni, il tempo di compilare le scartoffie e di fare i primi esami, per poi essere trasferito in “sezione ordinaria”, ma le carceri sono piene e si svuotano lentamente, molto lentamente!
Come se il tempo non esistesse affatto, a volte in questo corridoio ci resti persino un mese. L’Amministrazione, e quindi le guardie, non rendono più piacevole l’impatto: un rotolo di carta igienica, uno spazzolino, un tubetto di dentifricio lungo due centimetri, due piatti di plastica, una coperta o un lenzuolo, questa è la dotazione offerta dal carcere. I materassi sono di gommapiuma e siccome non ti viene dato nulla per pulire queste celle dove passano decine di persone ogni mese, si strappano dei pezzi per farci delle spugne. Così spesso non solo devi dormire senza cuscino ma anche coi piedi sul metallo della branda. Un’ora d’aria alle 9 e una all’1, rispetto alle due ore dell’ordinaria, il resto del tempo chiuso in cella senza “socialità” e senza televisione. Molte celle non hanno nemmeno gli sgabelli e gli stipetti per mettere la roba.
Il normale rapporto tra agenti e carcerati è impostato sul “vivi e lascia vivere”, o meglio “vivi in questo buco in pace che io non ti disturbo”. La responsabilità per la vita di merda che si fa in mancanza di tutto viene rimandata alla gestione della grande e lontana Amministrazione. Per gli agenti siamo “detenuti” e ci danno pure del lei. Ma la parola più azzeccata è prigionieri. In quanto tali siamo sempre e comunque imprigionati ingiustamente, perché nessuna struttura carceraria o giudiziaria sarà in grado di sapere quello che abbiamo fatto, in che circostanze e perché. I loro funzionari vivono da tutta un’altra parte e in modo assai diverso, e le aule di Tribunale sono degli uffici come altri dove tutti i conti vengono approssimati in eccesso. Non ci conoscono e non ci conosceranno mai. Allora su quale base ci giudicano?
Spaccio, furto, rapina, resistenza, ecc… questi sono i loro nomi alle nostre risposte che in molti abbiamo trovato alla loro crisi. Papà ha perso il lavoro, mamma deve operarsi in una clinica privata costosa, un bimbo e un altro in arrivo, nessuno mi presta i soldi per aprire una piccola attività per sostenere la famiglia, la macchina, il telefono e quello che serve per vivere bene…
Allora si prende una pistola, un motorino, si studia un obiettivo e un percorso, e via! A volte va bene a volte va male. Ma la galera resta sempre una merda, e se va male ce la fanno pure pagare coi soldi che non abbiamo. Altri sacrifici, doppia fregatura. Vaffanculo.
I prigionieri più forti (e dignitosi) sono quelli che non si condannano e non condannano gli altri per quello che hanno fatto. D’altronde se tutto fosse andato bene fuori non ci saremmo nemmeno sentiti in colpa, perché dovremmo sentirci in colpa ora che siamo qua dentro? Quando ci biasimiamo, quando diciamo “ho fatto una cazzata” dovrebbe essere solo per dire che avremmo potuto muoverci meglio: non far suonare l’antifurto di quel BMW, stare più attenti alle telecamere, usare dei guanti per non lasciare impronte, mascherarsi per tirare un pugno a quella guardia infame che voleva prendere una nostra amica.
Se tra prigionieri ci comprendiamo è perché sappiamo quanto è dura la vita quando non si ha il culo al caldo in qualche ufficio a comandare, a farsi i conti in tasca, ad eseguire. Conosciamo i nostri quartieri, le strade dove viviamo o dove siamo stati presi. Se i posti dei ricchi sono, per molti, il luogo di “lavoro”, i posti dove viviamo dovrebbero essere quelli dove la polizia fatica a lavorare. Dove se cadiamo arrestati la notizia vola di bocca in bocca, di balcone in balcone. Dove i nostri cari si incontrano per raccogliere soldi tutti assieme o per cucinare per noi e i nostri fratelli rinchiusi.
I nostri amici dovrebbero venire fuori dal carcere a salutarci, con botti e fischi, perché qui il tempo è una macina che ti consuma lentamente e dieci minuti di euforia bastano a riempire tutta l’ora dopo.
Qua è uno schifo, ma niente giornalisti a testimoniare, grazie. Ci basta vedere le nostre facce stampate sulle pagine di “Torino Cronaca”, quella rivista populista e forcaiola, per capire che sono tutti infami. E quelli che non lo sono, con le belle parole non possono nulla. Niente associazioni né parlamentari europei, che restino all’”Arcobaleno” a far finta che le Vallette sono il carcere migliore del Nord Italia.
Ci siamo solo noi e la nostra gente, nel bene e nel male, quando si gioisce e quando si patisce… quando si lotta.»