Un 270 bis non si nega a nessuno

di Giuseppe Pelazza
[pubblicato su ROSSO XXI - N° 19 – GIUGNO 2004]

Per affrontare l'argomento del delitto di "associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico" (art. 270 bis del codice penale), e del suo utilizzo, può essere interessante svolgere qualche riferimento storico.

Senza addentrarsi in una dettagliata ricostruzione del succedersi di svariate normative e del dibattito giurisprudenziale della fine del milleottocento (non ne sarei in grado), si può ricordare come i diversi governi della Destra e della Sinistra preferirono, per un certo tempo, condurre la lotta alle associazioni politiche "sovversive" al di fuori di qualsiasi controllo giurisdizionale, privilegiando i collaudati strumenti dei decreti di scioglimento, del domicilio coatto, dei divieti di dimostrazione e delle ammonizioni, avvalendosi, poi, del prevalere dell'orientamento giurisprudenziale che assimilò le associazioni internazionaliste alle associazioni a delinquere.

Significative, a questo proposito, sono, nella loro brutale connotazione di classe, le parole della Corte di Cassazione di Roma (sent. 16 Febbraio 1880, ric. Bensi):

"... l'unica questione che sorge è quella di vedere se un'associazione così detta internazionalista, avente capi e composta di gente appartenente alle infime classi sociali, organizzata a solo oggetto di attuare con atti esteriori di violenza le sue sovversive idee contro le persone e la proprietà, eccitando all'assassinio e allo spoglio degli abbienti, possa definirsi una innocua riunione di uomini intenti a discutere problemi sociali o invece debba reputarsi una vera associazione di malfattori ai termini dell'art. 426 e 429 del Codice Penale...E se un'associazione appellata internazionalista non segua con calma il suo preteso apostolato, ma con fatti di violenza eccita alla strage ed allo spoglio, non può darsi ad essa altra denominazione che quella di cui all'art. 426 del codice penale...Essa deve essere punita come reato di per sé stante in ogni governo, qualunque sia la forma, a ragione del pericolo sociale che emerge dal solo fatto della sua costituzione".
Peraltro il codice Zanardelli del 1899, nel prevedere, successivamente, la specifica ipotesi di "associazione a scopo sedizioso" (art. 251), stabiliva: per i partecipanti, una pena – da 6 a 18 mesi – che oggi appare, possiamo dire, invidiabile.

Lasciando da parte gli approfondimenti della questione se la produzione normativa del periodo fascista sia connotata – nel suo complesso – da discontinuità, rispetto al periodo precedente, ovvero ne rappresenti un coerente sviluppo, possiamo ricordare che il delitto di associazione sovversiva (l'ancora attualissimo art. 270 cod. pen.), introdotto con il Codice Rocco, e teso, a colpire comunisti, socialisti, massimalisti ed anarchici, trovava il suo precedente immediato nell'art. 4, commi 1 e 2 della legge 25 novembre 1926 n. 2008, sulla difesa dello Stato, che puniva la ricostruzione e la partecipazione alle associazioni e ai partiti disciolti a norma delle leggi precedenti.

Correttamente, pertanto, nel primo dopoguerra, alcune sentenze della Corte di Cassazione (ad esempio Cass. 22 marzo 1950, Mazzoni) ritennero che l'art. 270 era stato abrogato dal Decreto luogotenenziale 27 febbraio 1944 n. 159 che, appunto, aveva statuito l'abrogazione di tutte le norme emanate a tutela delle istituzioni e degli organi politici creati dal fascismo. Ma tale atteggiamento mutò subito, e il delitto di associazione sovversiva, con le sue successive "filiazioni", è rimasto strumento centrale della repressione, nonostante gli evidenti aspetti di incostituzionalità su cui si sono soffermati numerosi, autorevoli, studiosi.

Il delitto previsto dall'art. 270, nel corso dello sviluppo del nostro Stato "democratico", non solo, (come abbiamo visto) non è stato espulso dall'ordinamento, ma, addirittura, si è rivelato insufficiente rispetto ai bisogni repressivi degli anni '70 e '80.

Contro le organizzazioni armate, ma anche contro ai movimenti di massa di quegli anni, l'autorità giudiziaria era infatti ricorsa allo strumento "principe" per la repressione di gruppi e movimenti, e cioè, il reato associativo.

Lo schema di questo reato, infatti, slegato dalla necessità di imputare la commissione di specifici fatti concreti, consente di incriminare per la semplice appartenenza ad un ambito politico.

Ma, poiché, soprattutto per i semplici partecipanti all'associazione, le pene previste dall'art. 270 erano ritenute troppo blande, la magistratura aveva ritenuto di dover e poter applicare l'imputazione prevista dall'art. 306 c.p., cioè la banda armata (pena prevista per i partecipi, da 3 a 9 anni). Contemporaneamente, le incriminazioni, "promuovevano" i partecipi ad organizzatori (pena da 5 a 15 anni), e coloro che semplicemente erano "contigui", cioè politicamente vicini, oppure disposti, al più, a fare qualche favore, a partecipi. Ed i giudici all'opera in quegli anni "dimenticarono" di porsi il problema della necessità della sussistenza di quegli elementi costitutivi del reato, che pure erano tassativamente ricompresi nella norma (esistenza di una vera e propria organizzazione militare, con struttura gerarchica, dotata di armi, finalizzata a commettere altri specifici delitti contro la personalità dello Stato), tanto che qualche studioso ha sottolineato come

" Troppo spesso, ahimè, le sentenze dei giudici penali degli anni di piombo hanno messo in evidenza una professionalità ancora minore di quella che fu propria dei giudici del Tribunale Speciale. In qualche caso poi, l'atteggiamento di quei giudici fu tale, da apparire oggi pericolosamente permissivo",
ricordando, fra l'altro e ad esempio, la sentenza 31 gennaio 1928 n. 4 del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, che aveva, assolvendo, così argomentato:

"Per banda armata, nel suo proprio, genuino e legale del vocabolo, si intende un corpo stabilmente organizzato per l'attacco e per la resistenza, un'associazione avente un valore militare, composta di persone armate pronte all'attacco e capace di sostenere l'urto di una forza organizzata dello Stato, un'organizzazione con legame permanente, gerarchico e disciplinare, in cui da un canto vi siano capi, duci, direttori e organizzatori, e dall'altro gregari, allo scopo di commettere uno dei delitti precisati dal codice penale"
(cfr. Paolo Petta, Spigolature da una giurisprudenza sempre attuale, in Critica del Diritto n. 33, giugno 1984).
E' certo che molti militanti dell'autonomia avrebbero dovuto, se possibile, preferire il giudizio dei Tribunali Speciali del ventennio!

Alla fine del 1979, per semplificare gli strumenti repressivi ed accentuarne la portata, venne introdotto, con il cosiddetto decreto Cossiga (poi convertito – con qualche modifica – nella legge 6.2.1980 n. 5) l'art, 270 bis, con questo letterale contenuto:

"Chiunque promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con fini di eversione dell'ordine democratico è punito con la reclusione da sette a quindici anni. Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da quattro a otto anni".
Come si vede, non solo sono di gran lunga aumentate le pene rispetto al vecchio reato di associazione sovversiva, ma i minimi sono aumentati anche rispetto a quelli previsti per il più grave reato di banda armata.

La previsione della condotta incriminata, poi, in ulteriore e clamorosa violazione dell'art. 25 della Costituzione e del principio di legalità, è ancor più vaga delle precedenti: addirittura è prevista la punizione del semplice "proporsi" il compimento di atti di violenza. La punibilità, cioè, scivola ancor di più verso la prevenzione della pericolosità, e verso il riferimento al cosiddetto "tipo di autore", teorizzazione propria della cultura giuridica della Germania nazista (ti punisco non per quello che hai fatto, ma per quello che sei). D'altra parte tutto quanto il cosiddetto diritto dell'emergenza (che è, in realtà, diritto penale non dell'eccezione, ma della nuova regola che si viene stabilendo) è incentrato sull'identità del soggetto "trattato" nel procedimento penale: questo è il senso della legislazione premiale – sui pentiti e sui dissociati – e della legislazione e delle prassi carcerarie basate sulla differenziazione.

Ed è con questo 270 bis che lo Stato, all'epoca, si prepara a fronteggiare, e fronteggia, chi si ostina a non adeguarsi alla normalizzazione della seconda metà degli anni ottanta e degli anni novanta. Esemplare, in questo senso, è l'istruttoria veneziana del 1985 che vede decine di imputati di 270 bis patire molti mesi (fino ad un anno) di carcerazione preventiva perché, gli si contesta di aver promosso, nell'ambito dell'attività del Coordinamento dei Comitati contro la repressione e del Bollettino, campagne di solidarietà materiale morale nei confronti di detenuti "irriducibili"; gli si contesta che i predetti comitati sarebbero frequentati da imputati scarcerati doverosamente, ma non perché hanno fruito della legislazione premiale, bensì per scadenza dei termini; la loro pericolosità sociale, poi, deriverebbe dalla partecipazione a manifestazioni contro la NATO, contro la installazione dei missili nucleari, contro la presenza dei militari italiani in Libano, giacché tali iniziative politiche sarebbero in sintonia (oltre che con l'opinione di milioni di persone) anche con la linea delle Brigate Rosse!

Tutti questi imputati, anni dopo (nell'autunno 1991), saranno assolti dalla Corte di Assise addirittura nella fase degli atti preliminari, senza cioè dar corso al dibattimento, in quanto è del tutto evidente che il fatto non sussiste... Intanto però, la repressione "preventiva" aveva già fatto il suo corso.

Con la ripresa dei movimenti, alla fine degli anni novanta, inizio del duemila, l'utilizzo dell'art. 270 bis, peraltro mai cessato, riprende vigore, anche solo per consentire lo svolgersi di perquisizioni, e di acquisire, così, informazioni sui rapporti fra singoli, movimenti, ambiti organizzativi.

Ma, in questo modo, siamo giunti alla nuova fase della guerra globale contro il terrorismo.


Con il decreto legge 18 ottobre 2001 n. 374, poi convertito nella legge 15 dicembre 2001 n. 438, e del quale già ci siamo occupati anche in questa rivista, nell'ambito di un più generale discorso sulle leggi di guerra, l'art. 270 bis viene modificato: si introduce la figura del finanziatore, vengono ulteriormente aumentate le pene per i partecipi (dalla forbice 4-8 anni si passa a 5-10), viene introdotta la finalità di terrorismo internazionale ("anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un'istituzione e un organismo internazionale"), ed è prevista l'obbligatorietà della confisca "delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato...", così allineandosi alle norme internazionali ed europee che mirano a colpire i beni delle organizzazioni o dei singoli che sono ritenuti "terroristi".

Con questo accoppiamento fra "finalità di terrorismo" e "atti di violenza rivolti contro uno Stato estero, un'istituzione ecc", il legislatore ha tentato di snaturare la comune definizione di terrorismo (volto a incutere timore nella collettività con azioni di violenza indiscriminata), cercando di rendere ad esso equiparabile qualunque tipo di violenza contro Stati esteri od organismi internazionali, e ciò anche se il senso delle parole non può essere, evidentemente, modificato con un atto di imperio legislativo, perché l'atto di violenza dovrà pur sempre avere natura terroristica, per quello che significa il termine.

Ma l'operazione di "violenza semantica" si muove anche in ambiti extranazionali: la Decisione Quadro del Consiglio dell'Unione Europea 13 giugno 2002 (2002/475/GAI), ad esempio, lega la definizione di atto terroristico alle finalità, oltre che di "intimidire gravemente la popolazione", anche di "costringere indebitamente i poteri pubblici o un'organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto", o di "destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche o sociali di un paese (e sembra di rileggere, con linguaggio più moderno, parte del contenuto del vecchio art. 270 – associazione sovversiva ndr) o un'organizzazione internazionale"

E, oltre che a livello USA e di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, è noto come anche a livello europeo sia costantemente aggiornato un elenco (le cosiddette Liste Nere), attraverso Posizioni Comuni e Decisioni del Consiglio dell'Unione Europea, di persone, gruppi o entità contro le quali debbono essere adottate, per "combattere il terrorismo", misure restrittive specifiche o di tipo economico (congelamento dei beni) o di tipo repressivo, nel senso di una cooperazione giudiziaria ancora più rafforzata.

Ma il punto sta proprio qua, che questo elenco (dove sappiamo sono state, e sono, inserite organizzazioni che lottano per la liberazione nazionale, che lottano contro regimi autoritari, che lottano contro il capitalismo, e così via) è formato dal Potere Esecutivo, senza alcuna possibilità di difesa da parte dei soggetti o delle organizzazioni direttamente interessate.

L'inserimento nella lista, tuttavia, equivale a definire tali organizzazioni come "terroriste". E la ricaduta di questo, seppur del tutto arbitrariamente, avviene sul piano militare e sul piano giudiziario. Sul piano militare viene, in sostanza e nei fatti, dato il via libera a un ulteriore inasprimento delle azioni belliche o, ad esempio, degli omicidi mirati (ricordiamo la concomitanza temporale fra notizia della volontà di Hamas nella lista e primo tentativo omicidiario nei confronti di Yassin). Sul piano giudiziario viene sollecitata l'incriminazione per "organizzazione terroristica", e cioè, in Italia, per 270bis. E questo è proprio quello che è successo nell'indagine perugina, che ha visto l'arresto di militanti del Campo Antimperialista, e che si è mossa sulla base della definizione del DHKP-C (come noto inserito nella lista) come associazione "con finalità di terrorismo ed eversione dell'ordine democratico, in Turchia e altrove".

E siamo, davvero, alla rottura dell'abituale schema della separazione dei poteri (fra l'altro in tempi in cui proprio i magistrati scendono in sciopero pretendendo di difendere la loro autonomia..). Ma, non solo: si realizza la cooperazione giudiziaria rafforzata con uno stato Extra – CEE, la Turchia, sul cui carattere violentemente antidemocratico e brutalmente repressivo sarebbe necessario scrivere pagine e pagine. E, invece, nell'ordinanza del Gip italiano sono ripetutamente citati, come fonte di prova, i rapporti della polizia turca, che svolge, evidentemente, le sue indagini come tutti possiamo immaginare.

Ma, quel che più conta, si ritiene sussistente il fatto di cui all'art. 270 bis anche nel caso della lotta armata per abbattere un regime di moderno fascismo e per cercare di costruire uno Stato socialista. La nozione di terrorismo è dunque completamente scardinata, e l'arresto di tre italiani (cui si addebitano comportamenti che nulla hanno a che fare con l'organizzazione in questione, e che attengono, invece, alla solidarietà internazionale verso un esule politico) proprio con la incredibile accusa di far parte dell'organizzazione turca, costituisce un assai pesante avvertimento a tutti coloro che si muovono nell'ambito, appunto, della solidarietà internazionale.

In realtà, in una situazione di guerra estesa e diffusa, che prescinde anche dall'esistenza di confini statuali, l'utilizzo dell'art. 270 bis appare mirato a colpire chi non si ha il coraggio di definire nemico, poiché la guerra che pure c'è, per i nostri governanti (e per il loro ceto politico nel suo complesso) deve essere negata.

E', infatti, di questi giorni la notizia degli arresti in Toscana, per 270 bis, di alcune persone di religione musulmana che, secondo l'accusa, avrebbero voluto recarsi in Iraq per combattere contro gli occupanti.

Sono le note "torsioni" del diritto: si fa finta che la guerra illegittima (che si connota – come peraltro le precedenti – come clamorosa rottura della legge fondamentale dello Stato) non esista, e, a chi non si vuole definire nemico in questa guerra che non si vuole ammettere esista, si imputa l'associazione con finalità di terrorismo anche internazionale.

Come linea di tendenza, insomma, si può intravedere, nell'art. 270 bis c.p., il potenziale strumento per gestire il nemico e chi ad esso è vicino.

Lo sviluppo di questa inesauribile norma (dal 270 al 270 bis, e poi al 270 bis "allargato") che –paradossalmente – era stata ritenuta "morta" nell'immediato dopoguerra, la porta dunque ad allargare il suo ruolo: non più soltanto strumento di repressione contro il "nemico" interno (i comunisti e gli anarchici prima, i sovversivi/eversori, tout court, poi), ma anche contro il nemico esterno, contro il nemico dell'Occidente Capitalista, contro il terrorista internazionale, giacché, ormai, tutto ciò che combatte contro l'imperialismo, i padroni del mondo (e delle parole), lo vogliono chiamare terrorismo.

Ma anche le parole sapranno ribellarsi.

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