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- Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale?
Il mio percorso di formazione è complicato, perché 
  di fatto ho cominciato a stare più o meno a sinistra, ma generica, molto 
  mendesiana, prima del ’68: forse certi punti erano prossimi ai gaullisti 
  di gauche, questo è il primo orientamento. Il mio percorso personale 
  è molto complicato, mio padre non l’ho visto prima della classe 
  di filosofia, in quanto mia madre aveva voluto così, dal momento che 
  lui era piuttosto dell’estrema destra e quindi lei temeva che potesse 
  avere su di me delle forti incidenze intellettuali. Dunque, sono stato allevato 
  dal suo secondo marito, un corso professore di inglese: questi era molto legato 
  al partito comunista fino al ’56, poi ha iniziato ad avere forti riserve 
  e ha chiuso col partito comunista quando siamo partiti per il Brasile nel ’62. 
  Dopo di che, prima di partire per il Brasile, io ho saputo che mio padre non 
  era il primo marito di mia madre, cioè Moulier, ma era un altro: l’ho 
  poi visto e incontrato solamente a partire dal ’66-’67. A quel punto 
  lì io stavo per fare degli studi di architettura, di fatto c’è 
  stata una deviazione perché sono andato a fare la Scuola Normale: pur 
  non condividendo del tutto le scelte politiche di mio padre, pur trovando che 
  lui aveva un tipo straordinario, ho fatto questa Scuola Normale che mi ha orientato 
  verso la filosofia, che ho fatto con Louis Clavel. Da una parte ho visto molto 
  Gabriel Marcel, facendo della filosofia tradizionale e dall’altra parte 
  ero piuttosto legato per amicizia a persone del movimento prima del ’68, 
  che si caratterizzavano come gente piuttosto di sinistra, mi ricordo ad esempio 
  discussioni sulla seconda guerra tra Israele e i palestinesi nel ’67. 
  Arriviamo poi al ’68, fase in cui sono stato coinvolto molto rapidamente 
  in un milieau di sinistra: è stata una politicizzazione di massa, di 
  uno che stava piuttosto dietro le cose e che viene coinvolto in primo piano, 
  ma portato, non c’era una pianificazione, non avevo pensato di fare così. 
  Dopo di che ho partecipato a tutte le manifestazioni: io avevo compagni che 
  erano coinvolti nel Vingtdeux Mars, ho fatto naturalmente il 13 maggio, le barricate 
  ecc. E’ molto esemplare che, non essendo nulla in questo movimento, ho 
  portato lo striscione in testa alla manifestazione, dopo di che mio padre ha 
  visto le foto sui giornali, si è arrabbiato moltissimo, siccome mia nonna, 
  che avevo visto molto poco, è morta in quel periodo, mi ha detto che 
  io l’avevo ammazzata; poi, dal momento che sono entrato nella Scuola Normale, 
  si è un po’ calmato, a quel punto poteva essere una sorta di riconoscenza 
  tra potenze.
  Dall’autunno del ’68 fino al ’71-’72 ho cercato un po’ 
  quello che mi interessava. Avevo già letto Machiavelli, il Manifesto, 
  le cose classiche, poi ho incominciato a leggere più seriamente e ho 
  incontrato della gente molto interessante, marxisti parasituazionisti che facevano 
  una rivista che si chiamava Poesie et Revolution, Jean Ouver e altri; Ouver, 
  ad esempio, è stato scelto da Maximilian Rubel per aiutarlo nelle edizioni 
  di Marx nella “Pleiade”. Rapidamente sono entrato in contatto con 
  l’ultra-gauche, la più pura, si trattava di gente come Daniel Saintgerme, 
  l’ultima parte di Socialisme ou Barbarie, quella che ha fatta Information 
  et Corrispondance Ouvriere. Tra l’altro ho partecipato all’ultima 
  riunione di Noir et Rouge, che erano Vingtdeux Mars, ho incontrato tutta la 
  sua vecchia guardia. Erano piuttosto anarchici, perché politicamente 
  io ero assolutamente convinto dell’utilità della critica sociale 
  e dell’intervento operaio, però non vedevo perché passare 
  attraverso il PCF e neanche vedevo la pertinenza dei marxisti-leninisti, non 
  ero molto interessato dai trotzkisti ed ero molto critico sul tipo di appoggio 
  ai vietcong nella guerra del Vietnam, perché mi sembrava già una 
  ripetizione della lotta di liberazione algerina. Mi interessavano allora le 
  Cahiers du Mai, di Information et Corrispondance Ouvriere, ho partecipato per 
  quasi un anno a tutta questa vicenda; poi andavo alle assemblee e lì 
  ho incontrato compagni italiani che una volta mi è capitato per caso 
  di ospitare nella mia casa, perché in quei tempi c’era gente che 
  veniva da lontano e dopo le assemblee li si ospitava. Sei mesi dopo, nel ’69, 
  sono stato contattato da uno che si chiamava Beppe Bezza che faceva l’operaio 
  alla Renault: mi ha chiamato sulla questione della mensualizzazione, il problema 
  di questa iniziativa capitalistica che è stata la vera risposta al ’68, 
  Pompidou e il progetto di nuova società, contratto di progresso negli 
  enti pubblici ecc. Lui mi ha chiamato dicendo che aveva fatto un documento, 
  un volantone sulla mensualizzazione: ho letto queste tre o quattro pagine, naturalmente 
  era in un francese orrendo, però sono rimasto stupito perché era 
  probabilmente la prima volta che leggevo qualcosa che aveva un simile interesse. 
  Da quel momento lì mi sono stancato della “sceneggiatura” 
  francese, non ho più partecipato veramente a Information et Corrispondance 
  Ouvriere e a tutte le altre cose perché il discorso mi sembrava vecchio, 
  anche se avevo interesse a leggere le critiche di Lenin e a seguire tutta l’agitazione 
  perché come studente partecipavo ai collettivi antiautoritari. Però, 
  per il discorso politico ho incontrato questo Beppe Bezza, che era molto interessante, 
  un personaggio un po’ strano, e lui mi ha portato la cosa decisiva che 
  è stata Tronti. Io non parlavo per niente l’italiano, non sapevo 
  neanche leggerlo, però, dato che avevo vissuto in Brasile dai 13 ai 17 
  anni, mi è diventato facile impararlo e poi leggerlo. Bezza aveva firmato 
  un tipo di accordo con Edition et Documentation Ouvriere, che era un posto famoso 
  in cui si facevano delle traduzioni, e Robert Paris, il famoso curatore di Gramsci, 
  cercava di far tradurre il libro di Tronti; poi sono stato coinvolto in questa 
  storia dal ’70 fino alla pubblicazione, che è avvenuta nel ’77, 
  però il testo era finito nel ’74. Questa è stata la mia 
  formazione: facendo la traduzione di Operai e capitale ho cominciato a leggere 
  un po’ sistematicamente sia Marx sia Lenin, perché per il resto 
  avevo piuttosto una formazione di critica, mi interessavano molto Scholieau, 
  Cardan, i rapporti di produzione in Russia, il che era una discussione importante, 
  avevo letto tutta la tradizione di Pannekoek e gli altri. Sono tornato a vedere 
  Tronti, è stata una cosa interessantissima, dopo di che ho incontrato 
  anche i compagni portoghesi che erano in gran parte ex del PC clandestino, e 
  durante quel tempo avevano pubblicato due o tre pamphlet sull’Angola e 
  lo sciopero operaio nel Limburgo; ho lavorato con loro, poi con alcuni studenti 
  della Scuola Normale abbiamo fatto un gruppetto. Abbiamo fatto anche il go between 
  tra questi gruppi, gli italiani (che progressivamente si sono rivelati più 
  o meno tutti di Potere Operaio) e i gruppi francesi, quelli più prossimi, 
  cioè Vive la Revolution e gli altri. Nel ’71 sono andato ad un 
  convegno organizzato da Potere Operaio a Firenze, con Lapo Berti e tutti gli 
  altri: all’inizio io ero piuttosto legato a gente come Sergio Bologna, 
  decisamente Alquati mi interessava molto, c’era tutta quella parte di 
  Potere Operaio che era più operaista, la più trontiana, la meno 
  soggetivista. Nel ’73 ho incontrato Negri, e fino al ’79 non ho 
  smesso di essere coinvolto nella storia italiana piuttosto che in quella francese.
  Dunque, la formazione è tata tipicamente operaista, ho letto tutto quello 
  che veniva prodotto, come si diceva erano i più grandi marxisti del mondo, 
  però probabilmente troppo intelligenti, come sosteneva Lapo Berti: “siamo 
  talmente intelligenti che lo prenderemo nel culo!”. Pensandoci un po’ 
  da capo, erano specialmente un paio le cose che mi interessavano: come capire 
  questa società dal punto di vista della fabbrica, ho avuto sempre una 
  curiosità che ho imparato dagli operaisti, che oggi mi serve anche professionalmente, 
  per i funzionamenti materiali del processo di lavoro, ma leggendoli come processi 
  politici o come concentrato della politica, per riprendere il nostro caro Lenin, 
  cioè il vedere questo tecnico come concentrato della politica, come controllo 
  ecc. Questa mi sembrava una rivoluzione epistemologica. Dunque, interesse per 
  gli operai, per i movimenti sociali, per il basismo, per la democrazia di massa, 
  e d’altra parte interesse intellettuale come paradigma. Io mi sono un 
  po’ autoformato, prima dei vent’anni non sono stato coinvolto nel 
  marxismo tradizionale come formazione didattica. Dopo di che io sono stato un 
  autodidatta, con maestri come Alquati, Negri, Bologna e gli altri, si trattava 
  veramente di una generazione straordinaria. In Francia sono stato molto isolato: 
  è infatti molto curioso il fatto che sia rimasto completamente estraneo 
  al paesaggio politico-teorico francese. Non condividevo né l’idea 
  politica dei maoisti, né quella dei cristiani di sinistra, da Clavel 
  a tutti quelli che si definivano sartriani, poi non condividevo neanche gli 
  althusseriani che erano tutti tornati attorno al partito, né Althusser. 
  Avevo tutti i riferimenti in un altro paese, è stata un’esperienza 
  di emigrazione teorica. Per di più ho fatto delle iniziative militanti, 
  nel ’73 abbiamo organizzato alla Scuola Normale un seminario che probabilmente 
  era molto emblematico di quello che io cercavo inconsciamente: da una parte 
  abbiamo fatto venire Negri, Daghini, in un dibattito sul concetto di capitale, 
  sulla crisi della legge del valore, al tempo in cui Althusser mandava le persone 
  a vedere e queste non capivano niente di quella cosa lì; poi, dall’altra 
  parte, abbiamo fatto un incontro con gli operai dell’auto con Romano Alquati 
  e alcuni altri. Il peso politico di queste cose era però quasi nullo, 
  tranne che per un piccolo circo non aveva riferimenti massicci. Naturalmente 
  durante questi anni ci sono state discussioni con gli italiani, coordinamenti 
  internazionali a Zurigo, e lì io mi sono confrontato con questa storia 
  del partito, con la fase leninista di Potere Operaio, e probabilmente c’era 
  chi aveva la percezione immediata del limite della questione, già Alquati 
  e Bologna erano molto dubbiosi su questa cosa dal ’72, di fatto nel ’73 
  è diventato chiaro. Dunque, non condividevo tutta quella parte un po’ 
  “piperniana” di Potere Operaio, anche se erano compagni molto simpatici: 
  noi dalla Francia vedevamo il limite di questa impostazione, queste fasi iperleniniste 
  io non le condividevo perché venivo da un’esperienza anche teorica 
  dell’ultra-gauche, dunque estremamente contraria a quel tipo di forzatura. 
  Ma d’altra parte io direi che era la più bella esemplificazione 
  teorica del progetto di partito, il che è triste, avrebbe dovuto esserci 
  questa teorizzazione negli anni ’20, quando non esisteva e lì avrebbe 
  potuto essere molto interessante, però a quel punto era la nottola di 
  Minerva. Dunque, c’è tutta questa storia, i quadri di Potere Operaio 
  si chiedevano se la vicenda del ’17 era un accidente, un miracolo, cosa 
  che si trova anche in Tronti, ossia il fatto che la rivoluzione come concetto 
  scientifico non esiste. Di fatto a livello francese non era tanto politica, 
  era una formazione, era l’incontro con alcuni compagni, anche francesi, 
  formazione di gente molto isolata e molto dubbiosa sulla situazione francese, 
  sul tipo di avvenire dei gruppetti.
  Dal ’73 in poi, fino al ’76-’77, si è scatenata la 
  crisi del gruppismo dell’estrema sinistra, un po’ dappertutto; in 
  Italia, con la scissione di PO a Rosolina, ma anche in Francia dove le cose 
  sono avvenute prima: il ’68 prima del ’69, la crisi dei gruppi, 
  di qualsiasi gruppo, prima dell’Italia. Forse gli italiani hanno pensato 
  di essere più intelligenti (il che era vero), più formati, più 
  sofisticati dei francesi, che erano un po’ pratici; però, di fatto 
  si è rivelata essere la stessa crisi, come ha dimostrato il ’77. 
  Questo avrebbe potuto essere un dramma o una depressione, cosa che è 
  effettivamente avvenuta in parecchi casi, per tutta una generazione che ha smesso 
  di fare politica e che si è messa da parte rispetto ad ogni idea generale, 
  tale è stata la situazione di gran parte della sinistra extraparlamentare 
  francese: dopo il fallimento alcuni sono tornati verso il giornale Liberation, 
  altri mano a mano sono tornati verso gli studi del pensiero ebraico (si prenda 
  l’esempio di Victor), o veramente hanno smesso di fare non solo politica 
  ma anche qualsiasi teoria. Durante questo periodo, cioè dopo lo scioglimento 
  di PO, in Francia direi che si è aperto un certo spazio per l’autonomia: 
  a me andava molto meglio l’autonomia e l’autonomia dell’operaio 
  sociale che la forzatura, il partito, le avanguardia per il partito, anche se 
  era ben scritto non era nulla, mi sembrava più che altro un discorso, 
  non una reale capacità di organizzare le cose. Dunque, durante questa 
  parte che va dal ’74-’75 fino al ’79-’80-’81, 
  c’è stato un vero e proprio inizio di uno sviluppo degli autonomi 
  francesi, che erano diversi dall’autonomia operaia italiana ma che costituivano 
  un’interessante realtà. Abbiamo quindi fatto un’esperienza 
  che era più francese che italiana, sono tornato a fare il leader dell’“autonomia 
  francese”, che in quel periodo ha fatto veramente una grande attività 
  sia nelle radio, sia nell’intervento del collettivo disoccupati e dei 
  sans papiers.
  Non ho ancora parlato di un incontro che è stato per me decisivo, ed 
  è quello con compagni dell’immigrazione. Di fatto la questione 
  dell’immigrazione interessava ai nostri compagni italiani, specialmente 
  quelli di PO, però l’immigrazione italiana era interessante come 
  modo di propagazione, ma non era il problema teorico dell’immigrazione 
  come una spaccatura nella composizione di classe, come un problema reale di 
  essa. Mi ricordo che era difficile spiegare ai nostri compagni della Fiat o 
  a Romano Alquati che avere 22 nazionalità non è la stessa cosa 
  che avere una classe operaia italiana, anche se c’erano gli italiani del 
  Sud era comunque un’altra cosa; e quando 300 tunisini sono stati assunti 
  dalla Fiat nel ’73, mi ricordo perfettamente che ho detto ad Alquati, 
  a Toni e ad altri che bisognava sorvegliare questo fenomeno perché era 
  molto importante. Cosa che loro non hanno fatto, penso che sia stato un errore 
  tremendo: a mio avviso, anche se naturalmente è facile rifare la storia, 
  però tutto quello che ha seguito, questa radicalizzazione della classe 
  operaia bianca, in questo includendo i CUB, poi le Brigate Rosse e gli altri 
  gruppi armati, è accaduto quando nella composizione di classe il partito 
  invisibile non era più tale perché era già sciolto in varie 
  situazioni, e il padronato aveva un piano per scomporre tutto completamente, 
  per sconfiggere. Non mi ricordo quanti operai immigrati c’erano all’epoca 
  ma certamente nella sconfitta dell’80 alla Fiat questa era già 
  una variabile importante nel territorio. Ciò è un peccato perché 
  avremmo potuto veramente organizzare delle cose e cambiare un po’ questa 
  dinamica. Nel ’70 mi ricordo che Luciano Ferrari Bravo mi aveva chiesto 
  per L’operaio multinazionale uno scritto che ho fatto sull’immigrazione 
  in Francia, e lì ho studiato e ho scoperto una cosa che per me era importante, 
  cioè che mai la classe operaia è stata francese: il che era una 
  scoperta, perché si diceva che esisteva prima una classe operaia francese, 
  poi è stata scomposta dall’immigrazione, ma di fatto, riprendendo 
  da capo, ci si accorge che non è mai esistita una cosa del genere. E 
  c’era una traccia di ciò, la famosa discussione sulla classe operaia 
  di Francia o la classe operaia francese: è stata una discussione nel 
  Partito Socialista dell’Internazionale in Francia sopra la denominazione, 
  Parti Ouvrier de France o Parti Ouvrier Francais. La cosa corretta era piuttosto 
  Parti Ouvrier de France, perché già la classe operaia era completamente 
  mezzo italiana, poi polacca ecc. Mi ricordo perfettamente che l’anno in 
  cui è scoppiata la famosa questione attorno alla catastrofe di Formi 
  (se non sbaglio attorno al ’93 dell’800) è esattamente il 
  punto in cui arriva l’operaio italiano e gli operai francesi smettono 
  di ricavare metà del loro reddito dall’agricoltura: essendo stato 
  tagliato questo “giardino” dell’operaio francese, questo operaio 
  si trovava con il salario solamente come mezzo di reddito e con il salario della 
  fabbrica, si rifiuta di stare nella fabbrica, e comincia la crisi, si chiamano 
  quindi gli italiani e gli altri, e si degradano anche le condizioni di lavoro, 
  perché questo Formi è l’inizio della fuga dei francesi dalla 
  miniera, l’inizio della sostituzione molto rapida con i minatori polacchi, 
  italiani ecc. Questa cosa è stata importante per il resto della ricerca 
  che ho fatto sulla schiavitù; ma nello stesso momento in cui io facevo 
  questa ricerca sulla composizione della classe operaia francese o di Francia, 
  mi ricordo perfettamente che incontrai i piccoli gruppi di militanti che intervenivano 
  sull’immigrazione, attorno agli immigrati arabi. Con questi amici portoghesi 
  avevamo fatto già allora un collettivo sui sans papiers, sui senza documenti, 
  poi abbiamo incontrato dei compagni del MTA, che erano usciti dal comitato Palestina, 
  scioltosi quando la Gauche Proletarienne è scoppiata completamente. Questo 
  movimento di lavoratori arabi ha fatto una cosa pazzesca, un grande sciopero, 
  è riuscito a fare il blocco della fabbrica Citroen di 25.000 operai in 
  cui c’erano 22 nazionalità. Era molto affascinante vedere come 
  un piccolo gruppetto fosse in sciopero contro il razzismo: c’erano infatti 
  stati dei moti di lavoratori algerini che erano stati ammazzati a Marsiglia 
  e avevano quindi fatto questo sciopero contro il razzismo, non sapendo quasi 
  nulla dell’interno della fabbrica, mentre invece tutti i gruppetti di 
  Vive la Revolution e gli altri stavano lavorando lì da anni per tentare 
  di entrare dentro e di fare qualche cosa. C’è stato il corteo interno 
  e poi hanno bloccato la fabbrica: questa cosa era molto interessante, perché 
  ti dava anche una lezione di politica. Sono poi rimasto in contatto con questi 
  soggetti che erano veramente interessanti come tipo di militanti e per il rapporto 
  tra il territorio e l’interno della fabbrica, una cosa molto interessante 
  anche per quanto riguarda la soggettività operaia. Vivevano in condizioni 
  pazzesche, direi di miserie, di vita incredibile, ma erano legati ad un’esperienza 
  collettiva, ad una comunità esterna alla fabbrica, e hanno resistito 
  perfettamente alla sconfitta interna, non faceva loro nulla. Mi sono probabilmente 
  reso conto a quel punto che l’organizzazione interna della fabbrica non 
  interessava più questo nuovo tipo di militanti, cioè che dal territorio 
  si prendeva la fabbrica, non il contrario. Queste persone erano anche legate 
  ad esperienze violentissime, perché i comitati Palestina nel ’72 
  erano veramente considerati dei terroristi da qualsiasi ente statale; però, 
  questi avevano anche una capacità di sentire quello che si può 
  fare e quello che non si può fare che non esisteva più all’interno 
  della fabbrica. Penso che anche questa forza interna è diventata una 
  debolezza. Dunque, per me l’esperienza politica italiana era più 
  la fine di un processo terzinternazionalista che l’inizio di uno nuovo. 
  Allora, tornando alla questione dell’immigrazione, abbiamo fatto lo sciopero 
  dei sans papiers, sciopero della fame, organizzazione delle nuove nazionalità, 
  e poi abbiamo fatto anche intervento sulla scuola da piccolo gruppo, perché 
  ogni due anni nella scuola c’era una nuova onda di contestazione. Il che 
  era accomunato a questa storia dell’autonomia, abbiamo fatto una rivista, 
  in piccolo abbiamo vissuto un po’ tutti i percorsi italiani, però 
  in una situazione da una parte molto più debole, dall’altra molto 
  più prefigurativa del futuro, perché attorno alla vicenda del 
  ’77, dell’appello contro la repressione in Italia, c’è 
  il legame con tutta una parte di gente attorno a Guattari. Si è così 
  determinata un’area dell’autonomia che andava dai desideranti ai 
  più organizzati ed era significativa, che immediatamente si è 
  confrontata con delle questioni non facili, come la ristrutturazione della siderurgia 
  e il nucleare. Sulla ristrutturazione della siderurgia abbiamo avuto un intervento 
  veramente importante, che ha preoccupato seriamente anche il PCF, ed è 
  la manifestazione dei metalmeccanici a Parigi nel ’79: è stato 
  molto significativo, se ne è discusso, ci sono stati arresti per dimostrare 
  che questi autonomi facevano casino, hanno arrestato 300 prima della manifestazione, 
  ma questa si è fatta comunque ed è stata importante. E’ 
  stata una componente vitale della svolta politica dell’81, dall’altra 
  parte c’erano anche i movimenti dei disoccupati, perché abbiamo 
  lanciato i primi comitati non per l’impiego ma all’interno delle 
  strutture della disoccupazione, che sono stati più o meno la base su 
  cui si è organizzato il movimento ma 15 anni dopo. E’ stato un 
  po’ un laboratorio di questa gente perché c’è anche 
  una continuità con dei compagni che hanno fatto questa esperienza e che 
  sono dentro un movimento, naturalmente con una dialettica con i trotzkisti e 
  altre componenti, c’è stata questa presenza interna al movimento 
  dei disoccupati. Naturalmente la questione del razzismo è diventata importante, 
  mi ricordo perfettamente tutto il movimento e poi la discussione con i compagni 
  inglesi: tutto questo ha fatto sì che diventasse una cosa un po’ 
  più pesante e un po’ più difficile ma interessante. Sul 
  nucleare abbiamo vinto in Bretagna, abbiamo perso altrove, specialmente a Parigi, 
  perché non avevamo la capacità di organizzare e diffondere, il 
  movimento non era abbastanza ricco per affrontare tutto ciò, c’era 
  una sollecitazione tremenda dello Stato ad andare a scontri più duri, 
  ogni passo verso questi scontri di fatto aveva come risultato un progresso della 
  parte più militarizzata del movimento e una spaccatura dell’altra 
  parte che rifiutava quel tipo di militarizzazione: a mio avviso ciò è 
  molto illustrativo di quello che possiamo avere nella radicalizzazione della 
  “controglobalizzazione”, aggiungiamo venti Goteborg e avremo questa 
  spaccatura nel movimento, uno scontro durissimo di una parte più militarizzata 
  e più militante e tutta una nebulosa di gente che non può più 
  far niente perché non ha lo spazio nella strada, non può neanche 
  manifestare pacificamente. Ciò era molto interessante come processo, 
  ma durante quel periodo abbiamo avuto anche il problema rinascente di tutti 
  quelli che pensavano che la Gauche Proletarienne si fosse sciolta per una sorta 
  di arretramento, sciogliendo l’apparato militare: i giovani ritenevano 
  che fosse un disegno volontario di smantellamento della capacità offensiva. 
  Questi hanno ripreso una dimensione pazzesca, hanno pensato che liquidando il 
  Tramoni che aveva ammazzato Loverné si poteva riaprire un ciclo nuovo: 
  naturalmente non hanno fatto niente. Però, questa è stata per 
  noi una grossa discussione, perché anche dai nostri collettivi è 
  uscita una parte della gente che dopo ha gravitato intorno ad Action Direct, 
  e abbiamo dovuto discutere molto fermamente, è stato assai difficile. 
  Ho fatto una registrazione alla televisione su queste cose, non so quando uscirà, 
  era importante perché quel tipo di radicalizzazione che li ha portati 
  due anni dopo ad ammazzare il capo della Renault era una cosa che è uscita 
  dal fallimento del movimento e dalla ricerca di forme politiche in cui questa 
  volontà di trasformazione avrebbe potuto essere usata altrimenti: ciò 
  si è perso e questi compagni la pagano duramente, uno è diventato 
  completamente matto e l’altra è malata, e sono già in carcere 
  da 25 anni. Poi c’è stata l’ondata repressiva italiana che 
  naturalmente ci ha fatto pensare, perché eravamo talmente legati a Negri 
  e agli altri che mi ricordo che uno di Liberation si aspettava l’arresto 
  di me o di qualcun altro, cosa che non è accaduta.
  Tuttavia, già una parte del movimento autonomo si era ricomposto sulle 
  questioni di inquinamento, del nucleare ecc.; qui abbiamo incontrato i Verdi, 
  che non erano ancora quelli che poi sono diventati. Anche Guattari è 
  entrato nei Verdi, ha giocato un ruolo importante durante gli anni ’80 
  a mettere insieme rosso e verde, per fare questo partito che poi è diventato 
  quello dei Verdi francesi, spostandoli da una posizione di centro o comunque 
  non di sinistra verso la sinistra. Questa era l’ultima cosa a cui abbiamo 
  partecipato, io nel giornale La Gueule Ouverte, che poi è diventata La 
  Gueule. Nell’81 io ho poi fatto l’ipotesi della svolta e della vittoria 
  di Mitterand, che fra l’altro non era molto condivisa anche dai miei amici, 
  perché io ho pensato che lì c’era qualcosa importante, la 
  pena di morte, la svolta verso situazioni nuove. C’è tutta una 
  generazione che si è rimessa a fare politica, e non completamente schiacciata 
  fra lo scontro contro lo Stato e una società civile o partiti istituzionali 
  completamente vecchissimi. A quel punto lì ho smesso di fare della politica 
  in modo attivo, cioè ho seguito le cose però non sono stato molto 
  coinvolto, osservavo il Partito Socialista, seguivo la scomposizione del PCF 
  ecc. Ho seguito un po’ Futur Anterieur, ero un po’ dubbioso sulla 
  sua impostazione politica più che sulla impostazione teorica, perché 
  io avevo dei problemi con una parte del ceto paratrotzkista, Jean-Marie Vincent 
  e altri, che erano legati alla rivista con gli italiani. Di fatto non avevamo 
  uno spazio specifico, perché i francesi consideravano gli italiani, Negri 
  e i rifugiati, come una parte, mentre per loro tutti gli altri erano francesi, 
  quindi i francesi che non erano trotzkisti come Vincent erano anch’essi 
  degli italiani. Dunque, quando Toni è uscito, tornando in Italia, pensavamo 
  a cambiare la rivista, io non ero dentro anche se avevo fatto vari contributi, 
  perché specificamente non ero d’accordo con l’impostazione 
  sull’Europa, pensavo che bisognasse andare molto più avanti sulla 
  questione europea: io non ero contro Maastricht, non ero contro la guerra dell’Iraq, 
  mi dava fastidio, e infine io non condividevo del tutto l’orrore contro 
  la Nato, la guerra del Kosovo e tutto il resto, perché pensavo piuttosto 
  che era la prima guerra europea, cioè la prima guerra della nuova potenza 
  politica. Per me era molto importante capire che, per esempio, l’Inghilterra 
  e la Francia avevano fatto l’unione dell’industria e della difesa 
  europea, e questa svolta era decisiva, marcava anche la reintegrazione della 
  Germania dopo la riunificazione. Si trattava di una sorta di “tripode” 
  dell’Europa che si dispiegava sulla costruzione di un ente politico assai 
  nuovo, che era di fatto un nuovo tipo di impero, essendo l’Unione Europea 
  una potenza vera, cercando di crearsi come tale. Mi ricordo che su questa cosa 
  Toni non era del tutto d’accordo, era molto scettico, pensava che sarebbe 
  fallita; io, invece, pensavo che si sarebbe fatta perché non esistevano 
  altre soluzioni, e in questo senso era una questione molto forte in quanto costruita 
  nella delusione assoluta: non era il prodotto di una grande manifestazione dopo 
  di che c’è un riflusso, ma era una cosa fredda fatta dalla realpolitik, 
  tipo l’unificazione tedesca fatta da Bismarck. Per me capire queste cose 
  era molto più importante del resto, perché fare della politica 
  senza mettersi in questo quadro significava veramente sbagliarsi completamente, 
  fare della ripetizione. Toni ha un po’ cambiato sull’euro, c’era 
  genete che diceva che non si sarebbe fatto, mentre io ero sicuro del contrario. 
  Dunque, quanto Toni è partito per l’Italia con una correzione di 
  linea sulla questione europea, io sono entrato in Futur Anterieur, ma è 
  durato un anno, perché poi è scoppiato lo scontro con Jean-Marie 
  Vincent e gli altri, non siamo riusciti a fare la rivista che volevamo con una 
  nuova formula; ci sono stati anche problemi sul resoconto del libro di Agamben, 
  poi su questioni ideologiche sul presunto (tra l’altro falso) negazionismo 
  di alcuni compagni dell’estrema sinistra. E infine, siccome io avevo pensato 
  di aprire la rivista a molta gente, i nostri amici trotzkisti si sono rifiutati 
  perché erano minoranze e non potevano accettare, e non c’era Toni 
  per fare la mediazione. Dunque, nel ’99, un po’ prima del Kosovo, 
  ci hanno detto che non volevano più lavorare con noi e quindi abbiamo 
  fatto un’altra rivista che è Multitudes, e attorno a quella abbiamo 
  preso tre quarti della gente, muovendoci su dei terreni più interessanti, 
  il biopolitico, l’Europa, la nuova economia ecc., riprendendo da capo 
  un’esperienza teorica legata strettamente alle questioni della rete, di 
  Internet e via dicendo, e poi facendo dei collegamenti con delle forze come 
  gli hackers o i sindacati di difesa. Abbiamo fatto un lavoro che comincia ad 
  essere interessante. Dunque, mi sono inserito in questa nuova esperienza politica 
  nello stesso momento in cui sono entrato nei Verdi, nel ’99, per la campagna 
  europea di Daniel Cohn-Bendit, di cui sono stato un po’ un consigliere, 
  il più a sinistra, mentre invece il vecchio Laidi era il più a 
  destra. Nei Verdi sono stato anche un po’ il consigliere di Mamere rispetto 
  a Lipietz, uno che ritengo molto classico, della classica estrema sinistra. 
  Adesso faccio in parte politica all’interno del comitato dei Verdi, senza 
  avere un mandato elettorale, faccio un po’ il consigliere, sono ad esempio 
  stato chiamato a discutere nel comitato esecutivo sulla questione del calo della 
  crescita economica, sul come reagire, sui salariati e via dicendo.
  Questa è la parte politica, mentre per quanto riguarda la parte teorica 
  la questione delle migrazioni e della composizione di classe mi ha dato un certo 
  percorso. Nell’84 c’è stato un convegno a Montreal organizzato 
  da Piperno, di cui è uscito un libro, ho tentato di fare una presentazione 
  globale dell’operaismo, del perché era stato sconfitto.
- Avevi fatto in particolare una relazione sulla composizione di classe.
Composizione, ricomposizione, le questioni della soggettività, 
  il perché questo movimento si era spaccato dentro la soggettività 
  oggettiva di Tronti, che è un po’ un bernsteinismo dell’operaismo, 
  e la soggettività esasperata di Negri che è l’opposto. Però, 
  ambedue non ci portano nella politica: quella di Negri è più produttiva, 
  mentre ho letto quello che Tronti ha scritto per la recente prefazione di Operai 
  e capitale che è apparsa a Madrid quest’anno e mi sembra che il 
  discorso sia meno preciso, molto più allargato e molto più vago. 
  Dall’altra parte in Empire di Negri e Hardt, che è un libro importante, 
  sulla parte propriamente programmatica mi sembra che manchino delle mediazioni, 
  manca ricchezza di proposizione ecc., oltre al reddito garantito, la cittadinanza 
  universale, non c’è gran cosa come proposta strategica, specialmente 
  sull’Europa e altre questioni. Dunque, il problema di come trattare non 
  tanto la fine del lavoro ma la fine di un certo tipo di movimento operaio, era 
  legato alla questione delle migrazioni, del culturalismo, del multiculturalismo, 
  di tutti questi nodi; in questo senso ho cominciato a trattare il problema dei 
  diritti, dei diritti civili, degli statuti, come base fondamentale per capire 
  molte cose, specialmente per capire il movimento di liberazione. Cioè, 
  il movimento di liberazione è interno alla questione dello sfruttamento: 
  non esiste lo sfruttamento che non sia movimento contrario, di liberazione della 
  gente, perché questa è sempre liberazione rispetto a un certo 
  status giuridico. E su questa cosa, prendendo le questioni delle migrazioni, 
  ho tirato un filo rosso che mi ha portato alla schiavitù. E’ per 
  questo che ho fatto il libro De l’esclavage au salariat e adesso stiamo 
  lavorando sulla questione: esiste una soggettività nella fuga, esiste 
  quel tipo di organizzazione della fuga, esiste una soggettività dell’exit, 
  e non una soggettività del voice. Ciò è importante, perché 
  mi ricordo che quello che mi piaceva del partito invisibile di Mirafiori non 
  era naturalmente il partito ma piuttosto l’invisibilità. Allora, 
  esiste questa cosa, come si può configurare, e a quel punto c’è 
  l’esperienza della prima classe operaia di fatto, perché gli schiavi 
  neri della piantagione sono stati la prima classe operaia. C’è 
  naturalmente forzatura in questo, ma lo penso veramente: l’ingovernabilità 
  della piantagione e delle prime forme del lavoro dipendente, salariato non libero 
  direi, è stato talmente forte che ha prodotto il ciclo tecnologico che 
  ha permesso l’inserimento di tutti quei poveri che durante il XVI, XVII 
  e XVIII secolo non è stato possibile mettere in fabbrica, cioè 
  l’addomesticamento e la disciplinarizzazione è stata possibile 
  nell’Europa, nel centro del capitalismo industriale, solo perché 
  c’era stata questa esperienza delle lotte prima, nel primo capitalismo. 
  Dunque, in quella transizione tutti i limiti pesanti del movimento operaio sono 
  dovuti probabilmente a questa spaccatura, il fatto cioè che la classe 
  operaia non ha avuto la memoria dei poveri e di essere stata nera prima di essere 
  stata bianca. Questo è importante quando torniamo all’oggi, al 
  passaggio al terzo capitalismo, perché per me è chiaro che striamo 
  vivendo un’epoca di questo tipo: il liberalismo, come già nella 
  nascita del capitalismo industriale, non è il nemico fondamentale, in 
  quanto è un’ideologia della transizione, non è un regime. 
  E’ un’ideologia della transizione che segna, con questa ipermercatizzazione 
  del mondo, la ricerca da parte capitalistica di nuovi centri di controllo, di 
  nuove strutture e anche probabilmente del capire quello che sta accadendo. E’ 
  ciò che io chiamo la carta delle esternalità, positiva o negativa, 
  all’interno del sistema dell’economia-mondo, in cui il capitale 
  sta cercando di vedere come controllare le fughe del sistema. Dunque, in questo 
  periodo si apre uno sfasamento della vecchia cultura della classe operaia, del 
  lavoro salariato classico, e si apre una stranissima battaglia delle new enclosures, 
  e riconfigurazione totale del potere. Per me l’impero americano ha avuto 
  un apogeo, quello del crollo dell’Unione Sovietica, la riunificazione 
  tedesca, la guerra del Golfo fino alla guerra del Kosovo; ma quest’ultima 
  non è il segno della potenza massima della Nato, è l’inizio 
  del declino, perché questa guerra è stata fatta dagli americani 
  ma loro non volevano farla all’inizio, è stata un’invenzione 
  dei Fischer e il reinserimento della Germania all’interno del gioco, il 
  terzo polo del tripode di cui parlavo prima. E’ stranissimo perché 
  nessuno l’ha visto e notato: c’è stato un incontro molto 
  simbolico in Africa tra i rappresentanti francesi e inglesi per mettere fine 
  all’antica e bisecolare lotta d’influenza in quel continente, per 
  riprendere la cosa dagli americani, perché questi andavano facendo nell’Africa 
  centrale un casino quasi genocidiario. Quindi, c’è stata questa 
  iniziativa, anche se poi naturalmente vedere questa costituzione dell’Europa 
  come una cosa puramente positiva sarebbe stupido: con una potenza del genere 
  che si configura si assiste alla prima guerra delle frontiere dell’impero 
  europeo, c’è tutta questa zona dell’Est che è molto 
  fragile e che tra l’altro è in decolonizzazione, perché 
  la Russia si sta decolonizzando quarant’anni dopo le altre potenze europee, 
  sta perdendo la Georgia, la Cecenia, sta perdendo tutto, è una cosa legata 
  al suo intervento nell’Afganistan, che è l’ultima conquista 
  che ha messo in crisi tutto. Ciò assomiglia molto alla situazione americana, 
  quando gli americani vedevano la decomposizione dell’impero spagnolo. 
  Dunque, io penso che lì ci sia una questione importante e in questa guerra 
  del Kosovo gli americani sono apparentemente i prepotenti, quelli che fanno 
  ciò che vogliono, ma questo non è vero, perché già 
  comincia la contestazione: per parlare come Tucidide, la talassocrazia americana 
  ha avuto un periodo di egemonia assoluta estremamente corto, cioè di 
  dieci anni, e io interpreto questa pressione sui diritti adesso, l’OMC, 
  la questione della negoziazione sulla proprietà intellettuale ecc., come 
  il tentativo attraverso il diritto di sfruttare il vantaggio competitivo che 
  gli americani hanno preso durante gli anni ’90, avendo sia la prepotenza 
  militare che la prepotenza tecnologica con il modello della nuova economia, 
  che adesso si sviluppa dappertutto, però comincia a contestare l’egemonia 
  americana. Perché la rete adesso si mondializza e l’Europa recupera 
  della forza, e a mio avviso una cosa come il progetto del Giappone (che adesso 
  è ufficiale) di creare un mondo con lo yen rispetto al dollaro è 
  importante, in quanto ciò significa anche la messa in discussione del 
  tipo di equilibrio nato a Bretton Woods nel ’71, quando il dollaro ha 
  smesso di essere legato all’oro con il regime di tasso flessibile. Per 
  esempio, l’Europa è stata la prima a rifiutare questi yo-yo dei 
  tassi di interesse e dei tassi della moneta locale, e il Giappone ha fatto un’analisi 
  del suo stop and go che è molto vicina a quella inglese degli anni ’60, 
  malgrado un uso keynesiano che non è mai stato visto nella storia, cioè 
  il tipo di spese che hanno fatto a livello statale è enorme. Probabilmente 
  loro ritengono di non poter più sopportare questo scaricamento delle 
  tensioni interne americane sul resto del mondo in termini di scambio flessibile. 
  Ma non sono i soli, si prenda per esempio il Mercosur brasiliano, argentino 
  (i cileni hanno smesso di far parte di questa cosa): è vero che c’è 
  stata l’ultima svalutazione del real come risposta americana all’attacco 
  brasiliano al progetto di grande mercato nordamericano e alla produzione di 
  medici generici nell’Africa del sud, cosa emblematica, cioè il 
  Brasile, adesso che è diventata un’importante potenza industriale, 
  non può sopportare di vedere in quattro giorni la sua moneta abbassata 
  del 25%. Dunque, probabilmente dopo un’area tobiniana si apre un’area 
  di ritorno ai tassi di scambio fissi, perché non è che non sia 
  funzionale il ciclo del dollaro ecc., ma con il cambiamento dei poteri locali 
  e questa emergenza del tripode americano-europeo-giapponese, con la minaccia 
  della Cina, nessuno sa dove va a parare la situazione. Allora, in questo senso 
  penso che ci saranno delle pressioni fortissime verso tassi di scambio fissi 
  all’interno di grandi aree, e naturalmente ci sono i rapporti di questa 
  moneta con il dollaro che diventano più o meno antagonisti; cioè, 
  fine di questa regolazione liberale del mercato, dunque in un certo modo è 
  un livello più efficace per lottare contro la speculazione, ossia la 
  famosa Tobin Tax. Allora, queste cose sono importanti per determinare anche 
  che spazio c’è nell’Europa oggi, perché due anni fa 
  nessuno credeva che ci sarebbe stata un’accelerazione tanto rapida a livello 
  dello sbocco istituzionale europeo; tanta gente diceva che con questo allargamento 
  ci sarebbe stata una dilazione di tutto e che questi passi sarebbero andati 
  allo smantellamento dell’edificio nato nel dopoguerra, nato dalla Comunità 
  Europea e dal trattato di Roma. Invece, quello che si produce è il contrario. 
  Allora, il problema è perché, che tipi di composizione si producono. 
  Probabilmente non esiste altro modo di controllare il grado di scontro interno 
  all’Europa senza un livello federale. Essendo di matrice operaista, io 
  mi fermerei a questa ipotesi di ricerca, il cercare perché questa Europa 
  viene fatta malgrado i governanti: che spinta ha dietro, perché funziona 
  così? Perché probabilmente il mondo liberale non funziona, come 
  modello politico è chiaro che l’Europa è il cuore del rifiuto 
  di un modello politico di tipo imperiale o anglosassone. Ma probabilmente ci 
  sono delle cose più interessanti ancora: già un’unificazione 
  di fatto delle lotte e dei bisogni che non può essere ricondotta al progetto 
  di crescita nazionale. Dunque, questa è un’ipotesi sulla modernizzazione 
  del potere che non è solamente sviluppo capitalistico, è una cosa 
  più interessante perché ci apre anche delle finestre politiche, 
  in quanto siamo usciti da questi venticinque anni di inverno, come diceva Guattari. 
  
  Questa è una parte, l’altra è la questione teorica che mi 
  interessa: in questa transizione da un capitalismo all’altro, come dice 
  l’attesa della modernizzazione, oggi è un po’ la stessa cosa: 
  bisogna andare a vedere i rapporti con la nuova economia non tanto e non solo 
  come una modernizzazione del capitalismo con gli strumenti finanziari e liberali, 
  ma veramente come una crisi dell’ipotesi del capitalismo industriale, 
  cioè ristabilire questa dimensione della crisi. Perché quando 
  c’è potere finanziario c’è dietro una crisi, cioè 
  quando il potere si configura solamente con il comando della moneta probabilmente 
  c’è un’ipotesi di crisi fortissima del centro del potere. 
  Quindi, dovremmo cercare di vedere queste cose e probabilmente anche la posizione 
  che si assume se caratterizziamo questo passaggio al terzo capitalismo come 
  un capitalismo cognitivo, che cosa cambia nel quadro del marxismo classico, 
  direi anche dell’operaismo. Per esempio, stavo pensando alla riduzione 
  del lavoro vivo al lavoro morto, leggendo naturalmente i Grundrisse e gli altri 
  classici, e adesso penso che abbiamo veramente un nuovo tipo di sfruttamento, 
  che è produzione del lavoro vivo a mezzo del lavoro vivo tramite lavoro 
  vivo. Cioè, l’impossibilità di eliminare o di ridurre il 
  lavoro vivente a mero macchinario, capitale ecc. Il che cambia tutto sulla questione 
  del comando, perché questo non può essere dato dall’apparato 
  del capitale fisso: dunque il comando ridiventa il comando degli affetti, questi 
  nuovi operai cognitivi hanno più potere di quello che avevano i tecnici 
  sul capitale materiale, perché non sono più riducibili e ricontrollabili 
  tramite il peso del capitale. Dunque, tutta questa storia sul digiuno del capitalismo, 
  cioè di farlo diventare più svelto e più magro, non è 
  una storia solo di profittabilità, è piuttosto il contrario. Si 
  prenda ad esempio l’allargamento nelle start-up: è chiaro che il 
  capitale vero di quelle start-up sono i salari, sono il lavoro vivo, ma ciò 
  nella contabilità classica ed economica non può essere valutato 
  in questa maniera, perché il salario è visto come un costo ma 
  non come un investimento. Non sto parlando del fordismo, ma non è visto 
  a livello della produzione come il vero capitale, mentre invece nella produzione 
  dell’hardware e del software, il wetware (che è la mente) e il 
  netware (che è la rete) sono più importanti, sono legati completamente 
  tra di loro: più o meno a livello dell’economia politica siamo 
  tornati a Quesnay, abbiamo bisogno di un nuovo Tableau General perché 
  adesso la produzione di valore e di ricchezza ha completamente cambiato di senso. 
  Questo probabilmente significa che senza un mutamento radicale del salariato, 
  un indebolimento del salariato come tipo di controllo, non si darà un 
  regime stabile di controllo di questo lavoro dipendente che produce conoscenza; 
  nel terzo capitalismo, detto cognitivo (mi sto riferendo anche al lavoro di 
  Rullani, anche se noi stiamo lavorando a una problematica vicina ma un po’ 
  diversa), la produzione del valore si fa producendo novità; però, 
  la novità non è più innovazione rispetto alla diffusione 
  e via dicendo, ma è direttamente la produzione di innovazione usando 
  la rete, usando l’attenzione. Dunque, il controllo dell’attenzione 
  e della rete non si può dare con il salariato classico, è probabilmente 
  necessario il suo indebolimento, siccome la conquista della libertà formale, 
  giuridica, il diritto alla fuga è stata la conquista fondamentale del 
  salariato puro, anche se ha funzionato nell’economia e anche altrove nel 
  centro, come l’ho chiamato io, con un salariato imbrigliato, con il 35-40% 
  della forza-lavoro mondiale che è stata imbrigliata, non libera; però, 
  adesso penso che il lavoro dipendente, producendo la parte maggiore del valore, 
  dovrà probabilmente riconfigurarsi con il tipo di cose che sono la garanzia 
  del reddito universale, cioè una base fondamentale molto più larga 
  che lascia la capacità di attività agli individui, cioè 
  crearsi il senso perché il capitalismo abbia il problema di pagare i 
  costi di transazione di questa cosa, che stanno diventando altissimi, ma che 
  spontaneamente si organizzano molto bene. Dunque, penso che probabilmente questo 
  aggiornamento radicale del salariato è la cosa che manca oggi, e il welfare-state 
  vi è legato naturalmente, perché finché non avremo questo 
  regime avremo l’instabilità finanziaria, c’è la gestione 
  del rischio sistemico che abbiamo ora in quanto non c’è questa 
  liberazione del salariato. E questa è un po’ la chiave di comprensione 
  per il futuro, per il tipo di battaglia sia attorno alla riforma dello Stato 
  sia alla forma del diritto del lavoro ecc., per l’organizzazione del lavoro 
  indipendente, ma in modo operaio, che funzioni come la nuova classe. Quali sono 
  oggi i nostri famosi fisiocratici, probabilmente tutto questo settore che fa 
  a meno del 10% della forza-lavoro sono un po’ i nostri operai di Manchester. 
  Bisogna pensare come organizzare la politica, l’intervento, anche l’idea 
  di liberazione di soggettività, di creazione, di trasformazione attorno 
  a questa ipotesi fondamentale. Naturalmente in questa ipotesi fondamentale la 
  fabbrica diventa quella che Peter Brooker ha definito come una scatola vuota, 
  cioè un tipo di rapporto giuridico: non a caso l’Alcatel ha annunciato 
  che nel futuro sarà una ditta senza impresa, senza stabilimenti che sono 
  trasferibili dappertutto. C’è un rapporto dell’OCD, ancora 
  più o meno confidenziale, che dice che l’80% di tutti i lavori 
  materiali che vengono sviluppati nelle metropoli europee possono essere fatti 
  da qualche altra parte del mondo molto facilmente. Dunque, questo probabilmente 
  significa che torniamo ad una situazione in cui le fabbriche sono ditte sul 
  territorio, che lo governano, con delle combinazioni di una parte dell’hardware, 
  essendo il prodotto o qui o là, ma ciò non importa perché 
  può essere cambiato domani. Questa riorganizzazione cambia enormemente, 
  perché probabilmente il tipo di rapporto ottocentesco fra società 
  e fabbrica, isolandosi, non esiste più, e questo è interessante 
  anche come problema di intervento. La crisi del sindacalismo, la crisi di ripresentazione 
  di questo lavoro mi interessa se legata a tale questione: il problema non è 
  che i sindacalisti non sono abbastanza bravi, che la gente non si mobilita ecc., 
  questo non mi interessa, mi interessano invece le trasformazioni sistemiche 
  che possono dare un quadro complessivo di spiegazione. 
- Rispetto all’operaismo politico e a questa ricerca, Romano ha formulato un’ipotesi che sicuramente si riferisce ad un’esperienza trascorsa, ma che può offrire dei fondamentali nodi analitici aperti nel presente. Romano sostiene infatti che l’operaismo si è mosso all’interno di un particolare poligono, cercando di fare i conti con i suoi vertici, in parte riuscendovi ed in parte no. I vertici sono rappresentati dalla politica e dal politico, dagli operai e dalla loro soggettività (questione ben poco affrontata dagli operaisti), dalla cultura (che tutto sommato è rimasta quella umanistica di derivazione desacntisiana-crociana-gramsciana), dalla questione generazionale e giovanile; si può poi aggiungere un quinto vertice costituito dalle donne. L’importanza dell’operaismo politico (in particolare di quello sviluppatosi tra la fine degli anni ’50 e i ’60) è stata di collocarsi, oggettivamente e soprattutto soggettivamente, in una cruciale fase di transizione capitalistica, quella del passaggio (che per l’Italia è avvenuto in ritardo rispetto ad altri paesi dell’occidente sviluppato) al taylorismo-fordismo; anche tu hai prima sottolineato la diversità della situazione francese rispetto all’anomalia italiana, che è sostanzialmente segnata da un periodo di reindustrializzazione. In questa particolare fase, l’importanza dell’operaismo è consistita da una parte nell’avere avuto una lettura nuova del sistema socio-economico, in questo rompendo con un PCI e una sinistra fermi al discorso sul capitale monopolistico; dall’altra, nell’individuare l’operaio-massa come forza baricentrale non solo per una prospettiva anticapitalista, ma anche per l’ipotesi di un’operaietà contro se stessa. In questo c’è stata la capacità di cambiare effettivamente segno rispetto alla cultura di sinistra che si è formata sull’operaio di mestiere, da cui il lavorismo, lo scientismo, il tecnicismo, lo sviluppismo di cui continua a essere impregnata la sinistra oggi. In questo senso si è riusciti ad andare avanti, verso una rottura con una certa sinistra e un certo marxismo; dall’altra parte, però, l’operaismo non riesce a ri-elaborare nuovi obiettivi, un nuovo progetto e una nuova cultura politica adeguata all’operaio-massa come referente collettivo, all’ipotesi di una classe operaia contro se stessa. A quel punto l’operaismo torna indietro, ad una cultura politica ottocentesca, quella formatasi sull’operaio di mestiere. Dalle interviste si può significativamente vedere come quasi tutti gli operaisti, con tutte le differenze di percorsi e di opzioni che si sono dati (Tronti nel PCI, Negri in un partitino ad esso alternativo), tutto sommato intendono la politica e soprattutto il politico come mera questione di organizzazione, e non come ri-elaborazione di nuovi fini, di un nuovo progetto e di una nuova cultura politica.
Si tratta della famosa affermazione che il compito non è niente, non abbiamo che fare, rifiuto immediato, il che produce la cultura del rifiuto.
- L’individuazione della classe come strategia, riduce il partito e la politica ad una questione tattica. Questo modo di intendere la politica è diventato piuttosto caratterizzante di tutte le varie ipotesi operaiste. C’è quindi un operaismo che va avanti e rompe con la sinistra e con un certo marxismo, e c’è un operaismo che torna indietro alla cultura politica ottocentesca formatasi sull’operaio di mestiere.
Probabilmente è per questo che, per esempio, è stata mancata la critica dell’ecologia politica, che è potente. Perché potevamo dire durante gli anni trontiani che l’unica anarchia del capitale era la classe operaia, ma oggi, se torniamo a grandissimi fatti, non possiamo dire solamente questo, perché c’è un livello di sviluppo che è in crisi, che non è più sostenibile, e lì dunque si riapre una discussione etica. Non a caso secondo me l’unica novità in termini di partiti politici in Europa è l’emergenza dei verdi, è veramente la novità di fatto. La gestione della città e delle metropoli adesso diventa una cosa rosa e verde, ha smesso di essere rossa, diventa rosa e verde dappertutto, anche a Parigi. E’ una situazione generale, perché l’intreccio tra questioni di sicurezza, di salute, di sanità, di destino individuale della gente, di tutte queste cose sono legatissime ad un progetto globale di società. E io direi che non possiamo più fare della politica dicendo quello che si poteva dire negli anni ’60, “ce ne freghiamo del progetto globale di società”; a chi gli aveva chiesto che tipo di società volevano nel futuro, Cohn-Bendit (che non era del tutto un operaista) aveva risposto: “innanzitutto non lo so esattamente, ma se lo sapessi non ve lo direi!”. Ma questo non funziona perché non possiamo dire che non ne parliamo del tipo di società che vogliamo, in quanto adesso la gente ne parla per la strada, il summit del G8 è tutto legato ad un’alternativa globale. Dunque, lì c’è un pesante limite. Ma altri limiti che dovrebbero essere esaminati sono limiti italiani. Non sono assolutamente sicuro che il ritardo e il recupero sia la migliore interpretazione, perché questa metafora è stata molto discussa da Gershenkron, e se di fatto torniamo alla Russia vediamo che essere in ritardo su un piano, è stato essere in avanti su un altro. Si potrebbe anche parlare dell’anomalia teorica dell’operaismo, perché è un’anomalia teorica rispetto al marxismo classico occidentale. Non la possiamo spiegare unicamente per il ritardo italiano, questo non funziona, ma è vero che funzionano anche dei limiti che sono per esempio assenza di multicomposizone: di fatto l’esperienza italiana è stata quella di una situazione unificata all’interno di una medesima lingua, un territorio molto unificato culturalmente rispetto alla Francia, che paradossalmente aveva un’unità molto più forte, ma era probabilmente un tentativo dialettico di imporre un’unità che non era del tutto visibile, che era cioè molto più separata, molto più eterogenea di quello che si pensa. Allora, forse sull’Italia questo ha pesato come un limite. Il secondo limite è costituito da questa egemonia culturale del PCI. Mi ricordo che uno degli operaisti mi diceva un po’ sdegnosamente: “come fate ad avere ancora un segretario generale del Partito Comunista che è un operaio?”, comparando Marchais a Berlinguer o ad altri; e da quel punto di vista poteva essere visto come una sofisticazione altissima del discorso, mentre invece in Francia quel distacco intellettuale col Partito Comunista si è rivelato molto più tosto, dopo il ’56 io credo che della gente sofisticata poteva al massimo essere d’accordo col PCF ma sicuramente non esserne coinvolta. E non a caso il divario è sulla questione algerina, la posizione molto ambigua del PCF sulla questione coloniale gli è costata la maggior parte della gente, io direi la più rivoluzionaria. In Italia c’era questo Partito Comunista che era un’idra senza testa, che ha protetto il dibattito politico e culturale italiano dell’apertura internazionale ai livelli più duri e più brutti. Dunque, alcuni cambiamenti si sono dati solamente nel ’77: io ho avuto l’impressione di una certa regressione, quando uno come Bifo si è messo a leggere Foucault, Deleuze (e lui aveva cominciato con i nuovi filosofi, ci si figuri), questo ci ha fatto un po’ sorridere in Francia, perché si diceva: “ma guarda, questi italiani che hanno un discorso talmente elaborato, sofisticato, che di fatto era sulla politica e non sulla teoria, e d’altro canto sono talmente nativi dal punto di vista teorico che prendono le cose francesi per i lumi, cioè prendono delle cose che di fatto hanno prodotto una certa distruzione del paradigma PC, della cultura politica”. In questo senso mi sembra che tutti siano rimasti fortemente legati a certi schemi. Prendiamo per esempio la questione della guerra del Kosovo: l’Italia è rimasta terribilmente legata a un certo antiamericanismo degli anni ’50, c’è una cultura antiimperialistica classica che è una cosa stranissima, perché d’altra parte se si prendono gli scritti trontiani sugli Stati Uniti sembrano il contrario, ma nella cultura politica immediata e nella cultura dell’organizzazione c’era questo. Non è un nazionalismo, in Francia è diverso, c’è un nazionalismo puro: in Italia non è così, è piuttosto una questione di vero riformismo, ma come i veri riformismi non appaiono mai, sono molto difficile da vedere e da sconfiggere. E questo probabilmente ha fatto durare dieci anni di più certe ipotesi all’interno dell’operaismo, che altrimenti sarebbero state cancellate. Penso che probabilmente sarebbe stata utile un’apertura più forte al dibattito con i radicali anglosassoni, a cui veniva tolta ogni possibilità di fare della bella politica: questo spazio civico della politica generale è stato distrutto nei paesi anglosassoni, non esiste, perché esistono lotte radicali, punti di vista radicali, ma questa idea del ceto politico di sinistra che si nutre di una certa tradizione illuministica, poi statale, poi storica, non esiste nel paese, ed è di fatto la condizione generale. Credo che ciò l’operaismo l’abbia pagato, e rileggendolo (perché io ho letto delle cose vecchie dell’operaismo) c’è tutta una parte di retorica che è legata a questa cosa. Per esempio, Operai e capitale è stato tradotto in Spagna e io mi chiedo veramente come persone giovani di 25 anni possano leggere queste cose: è stata una riedizione, come leggere Lenin in Inghilterra quando tu non hai più quella cultura marxista classica? E’ per questo che io penso che dobbiamo ritrovare dei riferimenti, delle ipotesi operaiste: io non ho fatto molto di più che riprendere anche l’ipotesi operaista all’interno del mio discorso sul lavoro salariato, però cambiando di terreno, non più sulla vecchia Europa ottocentesca o novecentesca, ma su un terreno mondiale di confronto di forme di sfruttamento nuove.
- Quali sono secondo te gli autori e le figure che possono offrire degli spunti e delle chiavi di lettura politica importanti nell’analisi della presente transizione e in prospettiva futura?
Io sto lavorando con Maurizio Lazzarato, tentiamo di 
  trovare uno spazio che non sia lontano da Marx in un certo modo; lui litiga 
  anche con Toni su delle cose del genere, ma io penso di trovare un luogo di 
  discussione. Poi naturalmente ci sono stati Deleuze, Guattari, Foucault. E’ 
  difficile rispondere a questa domanda, perché di fatto a un certo punto 
  a me piace leggere piuttosto la storia di parti sconosciute, storia delle piantagioni, 
  o oggi storia del cognitariato: queste figure ibride che sono esploratori e 
  che sono sempre la frontiera. In queste fase di transizione è gente che 
  sta un po’ in un mondo, un po’ nell’altro e poi nell’altro 
  ancora, e questo crea una differenza di potenziale interessante. Direi che sono 
  tutte queste figure nella frontiera ad esempio americana, che erano i cacciatori, 
  i contrabbandieri, i pirati, tutto questo tipo di figure ibride dal punto di 
  vista culturale. Mentre invece oggi trovare il corrispondente nella nostra società 
  moderna, calda e naturalmente nascosta, perché non si vede immediatamente. 
  Questi contrabbandieri erano dei marginali nel loro tempo, e oggi qual è 
  questa gente? Allora, per esempio ho trovato queste persone che vivono in Internet, 
  è probabilmente gente che sta elaborando dei valori, un certo tipo di 
  convivialità, che vi assomiglia più o meno, ma questa volta non 
  come delle basi rosse, con tutta questa figura un po’ retorica delle basi 
  rosse: vive in un certo mondo, un mondo virtuale che però è anche 
  un mondo effettivo della cooperazione cognitiva, che diventa pure immediatamente 
  cooperazione intellettuale e politica. Prendo sempre l’esempio di questi 
  ricercatori interni alla Monsanto che successivamente alla pubblicazione sull’Intranet 
  della firma del progetto, l’hanno diffuso nel web e hanno raccolto 8000 
  firme contro questo progetto, e di fatto tre giorni dopo la firma ha dovuto 
  cambiare. Questo è il tipo di organizzazione, è affascinante capire 
  come funziona. Penso ad alcune cose di Romano legate a questa idea, sono di 
  fatto realizzate, sono diventati fatti reali, e oggi funzionano come la ricreazione 
  di uno spazio pubblico e comune che precisamente è tolto nella società 
  classica, che non esiste più, perché la piazza non è più 
  il luogo delle manifestazioni, i comizi e le elezioni non sono più il 
  luogo della politica, e la politica si è spostata su questo tipo di cose. 
  Cioè, l’intelligenza critica del mondo si fa oggi con tutta questa 
  gente che va sul net, prende delle informazioni, e questa è anche diventata 
  forza produttiva, ma anche forza produttiva di denaro, non solo di critica. 
  Leggere tutta questa cultura (perché ci sono vari autori che cercano 
  di sapere come funziona) mi sembra una cosa molto interessante oggi per le ricerche 
  che sto facendo. Ma dire autori precisi non è facile. La cosa più 
  interessante che ho visto recentemente è stata trattata per il nostro 
  prossimo numero sulla critica dell’universale, ragione mestizia, si tratta 
  del concetto della colonialidad del potere, elaborato da gente che cerca di 
  sapere come funzionava e funziona ancora dopo la decolonizzazione un colonialismo 
  del potere interno a tutto, alla politica, alla scienza ecc. E’ interno 
  a una geopolitica del sapere, e non più solo a una geopolitica della 
  geografia, della forza. Dunque, c’è il problema di che tipo di 
  sapere, che pensiero c’è ai margini, dentro e contro: ma questo 
  dentro e contro non è più quello dell’operaio dentro la 
  fabbrica, ma è il dentro perché tutti siamo coinvolti nel movimento 
  del capitale mondiale, però è ai margini per avere una visione, 
  ad esempio, di quelli che sono stati emarginati. Cioè, ricostruire il 
  punto di vista della totalità, però non per fare una fusione, 
  ma per guardare questa divisione, questa spaccatura, questa scissione, e quindi 
  la duplicità del pensiero intellettuale che è allo stesso tempo 
  interno alla globalizzazione ma pensa anche a tutto quello che la globalizzazione 
  continua a colonizzare, come continui ad essere un potere coloniale, non solo 
  un potere classico. Un potere che si nutre di cose che sono ben al di là 
  della fabbrica o dello sfruttamento. 
  
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