Il Ministero pubblico motiva la decisione: «Lo scopo dell’intervento era di garantire l’incolumità fisica dei presenti»

LUGANO – L’inchiesta avviata per fare luce sulla notte delle ruspe, che tra il 29 e il 30 maggio scorsi ha visto la demolizione parziale dell’ex Macello di Lugano, si conclude ufficialmente con un decreto di abbandono. È quanto comunica oggi il Ministero pubblico.

Una trentina di interrogatori, analisi chimiche dei detriti, una perizia tecnica circa la pericolosità concreta delle sostanze nocive riscontrate, fotografie e filmati dell’accaduto e un attento esame di ogni atto acquisito. Sulla base di tutti questi elementi, i reati ipotizzati non sono risultati adempiuti. Lo ricordiamo, si parlava di abuso di autorità, violazione intenzionale, subordinatamente colposa, delle regole dell’arte edilizia, di infrazione alla Legge federale sulla protezione dell’ambiente e di danneggiamento.

Richiesta la demolizione parziale – Ma a quali conclusioni è giunta l’inchiesta? Quella notte il capo impiego dello Stato Maggiore (costituito per pianificare e gestire lo sgombero) e un ufficiale della polizia comunale di Lugano hanno chiesto alla capodicastero sicurezza Karin Valenzano Rossi l’autorizzazione all’abbattimento del tetto ed eventualmente di una parte di uno stabile. Valenzano Rossi ha ottenuto, nei minuti a seguire, il consenso telefonico al proposto abbattimento parziale da altri tre colleghi di Municipio.

Il malinteso – Poi ci fu però un malinteso «dovuto a un claudicante passaggio di informazioni fra il capo impiego del Servizio di mantenimento dell’ordine, dapprima, e un ufficiale dello Stato Maggiore, poi, operanti a Bellinzona, e chi, sul terreno a Lugano, era addetto a dirigere l’esecuzione degli ordini». E lo stabile dell’ex Macello è stato interamente distrutto.

L’obiettivo: preservare l’incolumità di manifestanti e polizia – Quella notte si temeva che, dopo l’occupazione temporanea dello stabile della Fondazione Vanoni da parte di alcuni autogestiti, questi ultimi riprendessero possesso degli spazi sgomberati in via Ciani, «accedendovi potenzialmente dal tetto in cattivo stato dopo aver ingaggiato uno scontro violento con le forze dell’ordine» spiega ancora il Ministero pubblico. «Preoccupazione, quella prospettata dallo Stato Maggiore al Municipio, tutt’altro che avulsa dalla realtà». Affermazione che si basa sulle seguenti constatazioni: prima di quel weekend alcune persone sono state fotografate sul tetto dell’ex Macello; anche presso l’edificio della Fondazione Vanoni alcuni manifestanti erano saliti sul tetto; il 30 maggio, durante la demolizione, alcuni manifestanti hanno tentato di entrare dalla parte posteriore dell’ex Macello.

Chi ha prospettato e chi ha deciso la demolizione dello stabile non ha pertanto agito con il fine di recar danno a terzi, spiega il Ministero pubblico, bensì con l’obiettivo «di preservare l’incolumità fisica dei manifestanti, degli agenti di polizia e di terzi in generale». Se l’obiettivo fosse invece stato quello di danneggiare gli autogestiti, sarebbe stato proposto l’abbattimento di tutto lo stabile.

Un pericolo imminente – Quella notte vi era dunque un pericolo imminente per l’incolumità fisica di diverse persone. E la proposta di una demolizione parziale è conforme al principio della proporzionalità, «poiché riguardava un bene giuridico di valore inferiore rispetto al bene giuridico minacciato dal pericolo, ossia l’incolumità fisica dei protagonisti». Il fatto che la demolizione sia stata totale è da ricondurre a «un’improvvisazione comunicativa di chi si trovava al fronte».

Lo sgombero – Per quanto riguarda il precedente sgombero dell’edificio, il Ministero pubblico sottolinea che il Municipio ha seguito tre passi formali (disdetta, diffida e decisione di esecuzione), basandosi su un preavviso allestito dal servizio giuridico cittadino. La via suggerita era pertanto ritenuta «come aderente alla legge». L’esecuzione dello sgombero è quindi stato deciso dalla maggioranza del Municipio nel caso in cui la manifestazione organizzata dagli autogestiti per il 29 maggio 2021 fosse degenerata. Una decisione per la quale non può essere rimproverato «alcun comportamento penalmente rilevante».

Dieci giorni per il ricorso – Ora le parti hanno dieci giorni per decidere se impugnare la decisione alla Corte dei reclami penali del Tribunale d’appello.

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