Mentre una lenta panoramica scopre il porto di Genova, una voce racconta il passato di un uomo. Ieri Alain Tanner aveva 17 anni e scopriva un paese di cui amava i film attraverso una città singolare ed in pieno fermento.

Il regista vi andò perché aveva visto il cinema neorealista italiano. Lavorò un anno in uno “scagno”, poi s’imbarcò su un cargo per un altro anno. “Ho imparato lì cosa è il lavoro, e questo mi è servito poi anche nel cinema.”
Poi, per quarant’anni, Tanner non era più tornato a Genova: Nel 1994 il cineasta ritorna in quella città, osserva la crisi del porto, con le merci divenute anonime e gli uomini sempre meno necessari. Filmando i vecchi pensionati che forse aveva incrociato nel porto, gli scorci di via Prè, le musiche del dialetto. Riconoscente, ha cercato di fare qualcosa per la città che gli aveva insegnato a lavorare e di cui ora racconta la crisi, i cambiamenti, le trasformazioni culturali, la rivoluzione dei container, che non solo ha decimato i portuali ma ha reso anonime le merci e il rapporto degli uomini con esse. Spiega a un popolo senza mare chi sono gli “uomini del porto” e come funziona la “Compagnia unica” che vede come un modello di organizzazione del lavoro nella libertà.
Resta sconvolto dall’autostrada sopraelevata, un pezzo di America in un tessuto medievale, ma non sta troppo a rimpiangere il passato. Qualcosa è rimasto: le mani di un operaio che guidano un gruista nella posa di un container sembrano quelle di un direttore d’orchestra.

Omaggio all’etica lavoro, “Les Hommes du port” è una riflessione sul tempo, sul qui e sull’altrove.

Cinema militante, che racconta di una società in grado di resistere alle pressioni del capitalismo imperante.

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