Media Activism

Introduzione
di Matteo Pasquinelli

Non sarai vittima dei media fino a quando ne farai uso. Perciò gozzovigliamo nei media, alla Rabelais. I segnali per noi non sono immateriali ma tattili. Noi ci rotoliamo nel fango dei media.
(Geert Lovink, Hör zu oder stirb)

Noi abbiamo una scelta... Possiamo avere una attitudine cinica nei confronti dei media, dire che nulla può essere fatto... O possiamo semplicemente rimanere increduli... Ma esiste una terza opzione che non è né il conformismo né l'incredulità: quella di costruire una via diversa - mostrare al mondo ciò che realmente sta accadendo - avere una visione del mondo critica... È la nostra unica possibilità di salvare la verità, di custodirla e di distribuirla, poco a poco.
(Subcomandante Marcos, febbraio 1997)

Non abbiamo bisogno di comunicazione, al contrario ne abbiamo troppa. Abbiamo bisogno di creatività. Abbiamo bisogno di resistenza al presente.
(Gilles Deluze e Felix Guattari)

 

Il buco nero del movimento e della sinistra italiana

L'evento più comunicato, fotografato, filmato, raccontato del movimento globale è stato Genova G8. Ma paradossalmente le questioni dei media, della democrazia dell'informazione, delle telecomunicazioni erano totalmente assenti dall'agenda del Genoa Social Forum. Per questo motivo Mediachannel (www.mediachannel.org), network mondiale di organizzazioni che si occupano di comunicazione, in una lettera del 19 luglio 2001 chiedeva bruscamente agli attivisti di Genova "What about Media?" e inviava una bozza in 10 punti per suggerire un dibattito. La questione dei media si ripresentava ancora una volta come il buco nero nell'agenda del movimento italiano. È solo con Porto Alegre 2002 che il World Social Forum si affaccia timidamente sulla scena dell'informazione indipendente. Se i social forum dei paesi latini possono vantare anche nel campo dei media maggiore conflittualità sociale, è solo in nord America e nord Europa che troviamo una media culture già presente nel bagaglio della società globale. Introdotte rapidamente, sono queste le due faglie geopolitiche, latina e anglosassone, che tagliano la scena mondiale della comunicazione indipendente, due motori della storia che attraversano questo libro e che qui vorremmo confrontare e connettere. Il media attivismo, semplificato a sua volta come fenomeno mediatico, esplode con la congiuntura internet-Seattle, la convergenza dell'informazione autorganizzatata in rete con l'affiorare del network del movimento globale.

L'inquadratura che dobbiamo tenere non è comunque "movimentista": la questione "comunicazione" è ormai entrata nella sensibilità di tutta la società globale. L'altro attore antagonista che ancora non abbiamo introdotto è infatti il monopolio della comunicazione, un monopolio ibrido che è ormai un unico moloch statuale-commerciale, connubio dei poteri forti nazional-liberisti con i residui dei poteri post-statuali. La rete internazionale di propaganda del pensiero unico si manifesta senza soluzione di continuità dalla scala globale a quella nazionale e mostra la sua perfetta risonanza in occasione delle nuove guerre globali. In Italia il monopolio mediatico e il conflitto di interessi hanno la forma di un’anomalia che non vogliamo nemmeno nominare, un gigantesco bug costituzionale che la sinistra, facendone mercimonio di palazzo, ha trasformato in rumore bianco alle orecchie dei cittadini. Completamente svuotate ed apatiche le istituzioni "democratiche", la risposta non poteva non esplodere nella società: in Italia come nel mondo è proprio l'asfissiante monopolio ad aver catalizzato centinaia di progetti di comunicazione indipendente, quanto la necessità di un libro del genere che di questo movimento è parte.

Faglie geopolitiche che si incontrano

Media attivismo è una parola di orgine anglossassone, nuova alle orecchie italiane, entrata nell'uso mantenendo la sintassi inglese. Non ci interessa il purismo della lingua, il mondo che andiamo a descrivere usa un pidging universale, uno slang veloce e sporco improvvisato su chat e mailing list, un inglese meticcio che rende l'idea dell'accelerazione culturale portata da migliaia di mediattivisti che tutti i giorni comunicano sulle dorsali internet intercontinentali.

L'origine della parola tradisce l'attitudine liberal anglosassone, un DNA cognitivo che inconsciamente forma anche gli attivisti politici. I paesi latini, e l'Italia fra questi, non hanno nel loro bagaglio culturale la figura e la funzione sociale dell'attivista, conoscono invece il militante, etimologia militare ben visibile e lontana dagli speaker's corner. Se le faglie geopolitiche della storia si fossero scontrate in maniera diversa, forse oggi parleremmo (tristemente) del militante dei media e non solo dell'attivista dei media. La fantapolitica ci serve per mettere a fuoco la genealogia di pratiche e idee politiche, per mostrare equivoci e scivolamenti di senso che passano inosservati. McLuhan stesso notava le differenti attitudini verso i media caldi e freddi dei popoli anglosassoni e latini. Non ci sembrava sbagliato immaginare che il media attivismo nella sua attitudine così liberal potesse nascere solo nei paesi anglosassoni: a prova di questo si veda l’analoga diffusione della media art. Parallelamente, nella cultura latina, al posto dell'uso dal basso dei media, si è combattuto con strategie "mitiche" di comunicazione. Dallo zapatismo a Luther Blissett, il mondo latino ha espresso l'uso politico dell'icona, del medium immagine ereditato dall'alfabettizzazione video-cristiana.

A essere precisi all'interno del mondo anglosassone si distinguono altre due attitudini: quella americana, pragmatica, antiteorica, legata allo storico movimento freespeech, e quella mittel-europa, soprattutto tedesco-olandese, radicata nel "nichilismo europeo" (direbbe Geert Lovink), nelle sperimentazioni dell'avanguardia storica, che cerca di coniugare il piano teorico e politico alla pratica del media attivismo. E fu proprio il movimento europeo a non accorgersi di quanto stava accadendo nel novembre 1999 a Seattle con Indymedia. I teorici del net criticism e della media culture avevano snobbato per anni la tradizionale e plumbea controinformazione. Quando un bing bang sconvolse tutti e la storia dei media indipendenti ripartì da dove meno ce lo si aspettava.

Gli "ismi" del media attivismo

Il media attivismo è presentato e inteso in questo libro in senso ibrido, a mappare non i media in sé ma tutte le convergenze tattiche e tecnologiche tra nuovi e vecchi media. Si lascia fuori l'attivismo di rete (net activism), perché particolarmente prolifico, anche in quanto a critica e pubblicistica, e perché un po' autoreferenziale. Meriterebbe un intero libro a parte. Inoltre Media Actvism non affronta una parte importante, le pratiche che hanno a che fare con il cultural jamming, la simulazione mediatica, il détournement, i piani "alti" del media attivismo su cui altri testi si sono già espressi (vedi Comunicazione-guerriglia sempre per DeriveApprodi). Accademie e subculture della rete si sono sbizzarite in questi anni in ogni branding combinatorio sull'attivismo. Altri "ismi" emersi di recente sono "hacktivismo" e "artivismo": il primo rappresenta l'hacking con finalità politiche e sociali (contro una tradizione hacker apolitica), il secondo è nato negli ambienti della net art e fa dell'arte uno strumento di lotta o analisi sociale. La contaminazione dell'atteggiamento "attivista" nei settori della comunicazione, della cultura, della vita sociale è un segno dell'influenza esercitata dai modelli anglosassoni e soprattutto americani sul movimento globale. A proseguimento ideale e pratico di questa ingegneria combinatoria poniamo come culmine del media attivismo — suo livello meta — il network activism, l'Arte di Fare Network, ciò di cui si ha più bisogno di fronte alla disperata entropia del movimento e della sinistra.

Media laboratorio del fare società

Il media attivismo è una rete mondiale. Per comprenderlo e descriverlo occorre immaginare un ambiente interconnesso fatto di flussi informativi, network, campagne mediatiche, programmatori, scrittori, giornalisti free lance. Il media attivismo non è un solo un fenomeno sociale e politico, rappresenta un laboratorio di innovazione e sperimentazioni di media e modelli sociali che vedremo sorgere appieno nella società del futuro. Viste le dimensioni globali di questo fenomeno non è iperbolico considerarlo la fucina di una nuova cultura e di una nuova forma mentis. Diverse e molteplici sono le pratiche che vanno a immaginare e costruire un mondo nuovo: dai social forum all'hacktivism, dal biliancio partecipativo al commercio equo e solidale, dalla disobbedienza sociale all'interposizione pacifica nei territori dalla guerra globale. È una nuova attitudine, un modello culturale, una forma mentis che consideriamo centrale nell'umanesimo del mondo a venire. Un prototipo mentale che oggi vediamo solo in embrione ma carico di potenzialità radicalmente innovative, che già hanno scalfito la superficie delle piramidi imperiali del potere, dei media, dell'economia. Fare media come metafora, modello, rispecchiamento, tappa fondamentale del fare società.

Tecno-narcisi e comunità locali

In questi anni sono emersi centinaia di progetti di comunicazione net-based, costruiti in rete e pensati a rete. Tagliando con l'accetta, notiamo una distinzione tra i progetti nati su internet, in cui i techie — tecnici, programmatori, sysamdin — hanno un ruolo centrale e portano un alto contenuto di innovazione (ma stabiliscono anche una loro specifica egemonia), e i progetti partoriti off-line dalle comunità locali, come i social forum, che invece hanno una organizzazione classica e non hanno visibilità, perché meno preparati tecnologicamente. Due diverse nature, spesso comunque intrecciate, che mostrano altrettanti modi di concepire i media dal basso. Nei primi non possiamo nascondere un’ideologia iscritta nelle macchine, una pratica tecnology-driven, tipica di chi proviene dall'ambiente techie. Nei secondi il particolarismo delle comunità li rende progetti interessanti nei limiti delle loro dimensioni, spesso incapaci di fare network con altre realtà. Questa situazione rende necessaria una convergenza tra la sensibilità sociale e l'attitudine tecnofila, avendo il coraggio di affrontare il tecnonarcisismo dell'ultima generazione di media attivisti, gli smanettoni del video, dello streaming, del web publishing: la tecnologia, come le istituzioni o l'archittetura, produce ideologia, idee, comportamenti. Nel mediattivismo s’incontra spesso una incondizionata fiducia nella liberazione, che la tecnologia porterebbe automaticamente con sé, e nella rete, assurta a perfetto strumento di democrazia, dimenticando il divario digitale che tiene buona parte della società fuori da questi mezzi. Il tecnonarcisismo del mediattivista è forse un derivato del narcisismo dei media descritto da McLuhan. Il passaggio dal tecnonarcisismo alla tecnonarcosi avviene quando la tecnologia (tra cui la tecnologia della comunicazione) si infiltra inconsciamente sottopelle e diventa parte non solo del nostro corpo, ma comincia a produrre ideologia e forme culturali e politiche che poi si impongono come ovvie, naturali e indiscutibili.

Media Macchina. Per un pensiero dei media post-liberal

Tutto l'attivismo è attivismo dei media. Si tratta di una lettura frequente, per dire il primato della simulazione mediatica sul mondo reale, dello Spettacolo sulla Politica, esattamente il contrario delle rime che Gil Scott-Heron cantava dal ghetto, The revolution will not be televised. Oggi circola una vulgata: una persona dietro a una telecamera ne vale 1000 in corteo. È dunque impossibile immaginare l'attivismo politico senza pensare ai media. Eppure così è stato in Italia negli ultimi 40 anni. Lo notiamo continuamente nelle trappole tese da stampa o tv, nella strategia della tensione che usa i "no global" come pedina, nella gestione della comunicazione di improvvisati "portavoce": il movimento italiano paga un ritardo nello sviluppo di un pensiero critico sui media. Eccetto rare eccezioni, è stato il mondo anglosassone a farlo, coniando al di sopra di tutto l'idea liberal dell'informazione indipendente. Ma il bagagliaio teorico italiano potrebbe dare oggi un contributo altrettanto importante.

La battaglia sulla comunicazione non è più semplicemente una battaglia per un’informazione "vera", obiettiva, indipendente. Information wants to be free suona qui come uno slogan freak anni Sessanta: nell'epoca dell'intelligenza collettiva e della rete dovremmo dire Information wants to be General Intellect. La reale posta in gioco è riuscire a scardinare una delle macchine economiche che sostengono il capitale del pensiero unico. Marxianamente parlando, l'obiettivo è riappropriarsi dei media in quanto mezzi di produzione, piuttosto che mezzi di rappresentazione: in quanto mezzi di produzione economica, produzione dell'immagine del mondo, produzione di bisogni e desideri. Occorre finalmente aprire un dibattito sul lavoro della comunicazione, seguendo quel bacino del post-operaismo che ha introdotto il concetto di lavoro immateriale e cognitivo. Lo snobismo dell'intellighenzia italiana nei confronti della macchina, del medium, della tecnologia, è forse tipico della sinistra "latina", concentrata sul lavoro delle mani degli operai, lontana da quel Frammento sulle macchine in cui Marx incarnava nella tecnologia il potenziale di liberazione del General Intellect. Le prime letture di superficie di Empire di Negri e Hardt nel nord Europa lamentavano questa misconoscenza della cultura e della critica dei media, salvo poi ritrovarla nell'intelligenza della moltitudine che si riappropria delle tecnologie di comunicazione. Negri e Hardt non si fermano alla semplice riappropriazione delle macchine ma affermano che la moltitudine, 20 anni dopo Deleuze & Guattari, deve concepire se stessa come macchinica (mediatica, potremmo dire noi) ovvero come autonomo agente di produzione. Una citazione sorprendentemente cyborg dal capitolo Moltitudine contro l'Impero: "L'ibridazione dell'umano e della macchina non è più un processo che ha luogo ai margini della società; piuttosto è un episodio fondamentale al centro della costituzione delle moltitudine e del suo potere". Nel capitalismo cognitivo la produzione d’informazione appartiene a tutti, non più solo ai giornalisti o ai media. La malattia infantile del media attivismo è quella di non riconoscere la comunicazione indipendente come produzione di valore autonomo, e dimenticare che esso stesso è una macchina "economica".

Medioclastia. La crisi dei media

Questo vorrebbe essere un libro sulla crisi dei mass media come li abbiamo fino a oggi conosciuti sotto la spinta di un movimento della società globale. Il modo migliore, più veloce ed efficace, per capire i media è guardare ciò che li mette in crisi. Esistono molte scuole di pensiero che cercano di spiegare gli intricati meccanismi dei media e la loro funzione nel mondo. La nostra vorrebbe essere un’analisi in negativo. Questo libro ci sembra il modo più veloce e pragmatico per rivelare i meccanismi della società dell'informazione proprio con le energie che cercano di combatterla, decostruirla, criticarla. Parafrasando Roland Barthes, si può dire che non si dà mediologia, scienza dei media, se essa non finisce per assumersi come medioclastia, distruzione e conflitto con e dentro i media. Il senso viene solo dal conflitto, fosse anche solo semantico, e così anche la comunicazione indipendente e l'uso sociale dei media (ma attenzione, anche quello commerciale, vedi la pubblicità che usa sapientemente tutti i generi di conflitto).

I media non sono semplici mezzi di comunicazione ma campo delle battaglie politiche, teatro dell'immaginario collettivo, specchio di proiezione della struttura e della costruzione sociale. Dietro la superficie patinata dello spettacolo dei telegiornali si muove un intrico mondiale di reti e radiotrasmissioni, cavi e teleschermi, hardware e software, capitali e corruzione. Oggi la base della piramide mediatica si sta sgretolando. Nel network mondiale si diffondono conoscenze tecniche e scetticismi costruttivi. La crisi del neoliberismo mina la fiducia delle masse nel sistema Occidente. I moghul dell'informazione corrono ai ripari, muovono migliaia di schiavi per rinforzare le fondamenta che scricchiolano, portano i loro servigi ai potenti della guerra. Come in tutti i teatri, il senso è dato da un gioco di ruoli aldilà delle semplici apparenze.

Porno Media

Per chiudere l'ultima pagina del libro, per buttare la scala usata a salire sull'albero, per aprire nuovi piani di azione serve una buona dose di ironico scetticismo. Trasformiamoci in media dandy, accorgiamoci della superficialità del gioco dei media e impariamo a pattinare.

Sono state le innovazioni tecnologiche piuttosto che politiche, l'avvento di Internet e delle videocamere digitali, piuttosto che nuovi immaginari esistenziali, ad aver accelerato l'evoluzione del mediascape della comunicazione indipendente e ad aver fornito nuovo terreno per centinaia di progetti. Non si vuole snobbare il ruolo democratico e l'entusiasmo liberatorio dei media attivisti, ma oggi si pone a tutti una questione: riconoscere l'egemonia culturale della tecnologia, riconoscere che le nuove tecnologie costruiscono sottopelle — quasi porno-tecnologie — le forme sociali e psicologiche di questo fenomeno mondiale. In particolare la porno-tecnologia informatica, gadget di fine millennio, ha assorbito e spostato sul corpo tecnologico la creatività che nei movimenti di liberazione e nelle avanguardie del novecento si esprimeva in una sovversione dei corpi reali e dell'immaginario. Linux come moda sociale e droga cognitiva prende il posto del punk e della psichedelia.

Al di sopra del suo nocciolo duro tecnofilo, la comunicazione indipendente sembra presentare se stessa unicamente come questione di contenuto alternativo e "libero" rispetto ai media dominanti. McLuhan insegna dagli anni Cinquanta a valutare l'effetto tutto "fisico" del medium contro il puro contenuto "informativo" del messaggio. Che significa? Significa che bisogna cominciare a parlare alla pancia e non è sufficiente costruire osservatori democratici sui mass media. Che il media attivismo più importante sta a livello del medium e non del contenuto: reti, interfacce, format, palinsesti, brainframe, narrazioni, mito, immaginario, desiderio. Che il "contenuto" si trova sempre schiacciato tra le infrastrutture tecnologiche e le sovrastrutture dell'immaginario.

In questo senso vanno interpretati i progetti di televisione indipendente dal basso, la cui strategia non è controllare da hacker buoni le infrastrutture di trasmissione, ma costruire un palinsesto alternativo, una narrazione collettiva altra, nuovi contenuti non tanto informativi quanto motori di desiderio e di comunità. Si è detto provocatoriamente, e qui occorre alimentare la provocazione, che i media indipendenti non servono appunto a fare informazione ma a costruire soggettività politiche.

Manca alla comunicazione di oggi, tanto del movimento quanto della società globale, l'avventura della liberazione libidica e creativa, quale emergeva nella società degli anni Sessanta e Settanta, energie un tempo eruttate da un underground che oggi sembra dissolto nell'overground. Come contrappasso finale, imponiamo una contraddizione, istituiamo un double-bind tra la necessità di imparare l'Arte di Fare Network e il bisogno di far detonare il desiderio, la liberazione libidica. Se all'interno della comunicazione indipendente non scoppia una rivoluzione culturale, non avremmo armi per fronteggiare la potente macchina mitopoietica dei media commerciali e quei politici che su questa macchina di fascino e immaginario fondano il loro potere. La questione in realtà non è politica, ma principalmente esistenziale. I media hanno a che fare con il nostro desiderio, sono protesi, estensioni del nostro corpo e della nostra libido, non semplice specchio in cui riflettiamo la nostra vita quotidiana. Media attivismo è riappropriarsi di questo corpo, del corpo pubblico, del corpo della società e farlo parlare.

Lo slogan di Jello Biafra Don't hate the media be the media si trasforma nel programma di Rekombinant We don't need communication we need creation, parafrasi pop di Deleuze e Guattari quando dicono: "Non abbiamo bisogno di comunicazione, al contrario ne abbiamo troppa. Abbiamo bisogno di creatività. Abbiamo bisogno di resistenza al presente". È la storia della comunicazione indipendente a chiedere di unire network indipendenti e cellule creative, di ribaltare il feticismo della tecnologia in delirio dei media, di trasformare i media indipendenti da fucine di news a laboratori per l'immaginazione e la creazione di nuovi mondi.

Biopsia del media attivismo


Per una volta, cerchiamo di essere schematici e tratteggiare semplici contorni, utili a tutti coloro che vogliono approfondire e mappare ulteriormente il media attivismo.

La comunicazione indipendente e il media attivismo, come forma culturale (o se preferite "moda" politica), sono stati innescati da eventi come Seattle N30 e Genova G8, sono stati spronati dall'emergenza monopolio, ma essenzialmente si sono sviluppati solo con la massiccia diffusione di tecnologie a basso costo, dei cosiddetti personal media e della rete.

Il media attivista è una figura sociale, una nuova figura di operatore, militante, artista, cittadino impegnato a sperimentare, spesso nel proprio tessuto urbano, forme di autogestione della comunicazione (figura sociale che probabilmente fra breve vedremo recuperata a moda giovanile da qualche sapiente format di MTV).

Il diritto all'informazione si sta progressivamente affermando come diritto all'autogestione della comunicazione. Il media attivismo è ormai una cultura politica che trova spazio nel bagaglio di tutta la società e del movimento. Non solo la conoscenza dei meccanismi della comunicazione, ma soprattutto le possibili pratiche di autogestione sono considerati pilastri essenziali di una nuova idea di democrazia e cittadinanza.

Il media attivismo è una rete mondiale. I network di comunicazione autogestiti, Indymedia per primo, coprono ormai tutto il pianeta con una forma di organizzazione dal basso. Per primi sono riusciti a creare la consapevolezza di una società e di una cittadinanza globale.

Il media attivismo è modello e metafora del fare società. I media indipendenti sono la cartina di tornasole del legame sociale e democratico e il laboratorio in cui le diverse aree dimostrano le proprie capacità di "fare società".

A ben guardare i media indipendenti non servono a fare informazione libera, ma a costruire soggettività politiche (in senso lato, non necessariamente identità "dure"). Poiché è l'informazione che costruisce i suoi fruitori.

Per finire, nel media attivismo riconosciamo queste tendenze e attitudini:
1) Politica: autogestione dei media contro il pensiero unico dei monopoli, i cosiddetti media di movimento e "indipendenti", i media comunitari e il fenomeno dei mediawatch. Questa dimensione ha a che fare soprattutto con la socialità e l'oralità.
2) Ludica: l'investimento libidico e ludico, il gioco con i media come macchine da smontare e rimontare, all'interno della mutazione antropologica verso il cyborg, vedi i net artisti, gli hacker ma soprattutto i programmatori di nuovi software per l'informazione indipendente impegnati nella scena mediattivista. Questa attittudine si esprime nella sperimentazione tecnologica e nella tattilità.
3) Creativa: la costruzione di immaginario, nuovi media come nuovi modelli di comunicazione, organizzazione, creazione, di socialità. La comunicazione è intesa come narrazione collettiva, mitopoiesi, guerriglia comunicativa, psicosfera, in cui s’inventano simulacri pop, sabotaggi mediatici, nuovi memi, meta-media. Questa è la dimensione dell'immaginario e dell'iconicità.

Il libro

Media Activism è un libro operativo, una scatola degli attrezzi, un manuale e una cartografia dell'attivismo mediatico degli anni a venire. Non è un libro storico o teorico, è un libro pratico, scritto sul campo, collettivamente, per schemi e mappe, pensando a tutti gli stili e le voci della comunicazione indipendente ma senza voler essere esaustivo: si sono voluti mettere a fuoco problemi precisi e descrivere i progetti più interessanti e strategici. Vi troverete un kit tascabile per immaginare, progettare, smontare i media, un report dalla trincea dalla guerra fredda contro la piramide dei media dominanti. Non abbiamo bisogno di libri, abbiamo bisogno di manuali operativi, software per la conoscenza, knoware per entrare immediatamente in azione.

Nel primo capitolo trovate una scatola degli attrezzi: concetti operativi, strategie, previsioni di scenario. Il secondo capitolo è dedicato al fenomeno Indymedia, il meme di successo che ha fatto breccia e ha costituito un network mondiale. Il terzo, il quarto e il quinto capitolo sono dedicati alle evoluzioni di tre media: il video, la radio, la televisione. Sul medium testuale troverete un’introduzione ai weblog nel primo capitolo. Il sesto capitolo propone una piattaforma di azione per tutta la comunicazione indipendente, ovvero l'introduzione e il rinnovamento della battaglia sul dominio pubblico dei media. Il settimo capitolo immagina un Media Forum Mondiale, con le testimonianze di alcuni soggetti del movimento globale e alcune idee per stendere e diffondere una carta mondiale dei diritti della comunicazione. L'ottavo capitolo è dedicato allo strumento dei mediawatch che, dopo gli Stati Uniti, si stanno diffondendo anche in Europa e in Italia con esperienze come Megachip.

Ringrazio tutti coloro che hanno raccolto l'invito a partecipare alla costruzione aperta e collaborativa dell'indice, un esperimento di successo che ha permesso di montare il libro in pochi mesi e che verrà preso a modello per future edizioni. Gli autori del libro, vecchi amici o enigmatici nickname mai incontrati nel mondo off-line, vanno a costituire una rete che per la prima volta mette a confronto progetti e comunità molto diverse fra loro. In questo modo il libro vorrebbe dare il suo contributo al raggiungimento di una massa critica per un salto di qualità della comunicazione indipendente e la costituzione di un network di strategia e progettazione politicamente efficace.

Il libro è copyleft. Per copyleft s’intende che il libro appartiene al dominio pubblico, che può essere diffuso, fotocopiato, piratato, detournato, ma non per fini commerciali o istituzionali. Per tutelare il libro abbiamo quindi apposto un copyright. Lo statuto legale è quindi "ibrido": copyright verso l'"alto", copyleft verso il "basso". Questa ci sembra una scelta coerente con i nostri principi e strategicamente forte. Abbiamo scelto di non utilizzare la licenza GNU/GFDL perché pensiamo che non tuteli dallo strapotere della grande editoria.

Il sito web fornisce la versione on-line, scaricabile e copyleft del libro, ma rappresenta soprattutto il proseguimento del progetto. Il sito funziona da media nodale, ambiente di discussione, network di progettazione, nonché come weblog dell'intelligenza collettiva e spontanea per tenere il libro work in progress, costantemente aperto e aggiornato con nuovi capitoli e collaboratori.

L'indirizzo del sito è: www.rekombinant.org/media-activism

Matteo Pasquinelli

giugno-luglio 2002, Bologna