IL CARCERE COME RAPPORTO SOCIALE

Introduzione

Le carceri sono una polveriera che accumula le contraddizioni prodotte dalla crisi economica e sociale. I movimenti sociali fuori hanno scosso e scuotono in profondità le galere, compenetrandosi e saldandosi con le istanze e le lotte portate avanti dentro le istituzioni totali stesse.

Questo è avvenuto, e tuttora avviene, per la natura di classe di queste istituzioni. Nelle carceri:

◦ possono avvenire rivolte spontanee: bambule, come le chiamavano le ragazze degli istituti di rieducazione femminili in Germania;

◦ possono verificarsi timidi tentativi di denuncia della propria condizione e lotte per parziali miglioramenti;

◦ può prendere piede un movimento in grado di comunicare con i soggetti e le esperienze politiche fuori dal carcere, e viceversa, grazie alla sedimentazione di precedenti esperienze di lotta e alla specifica struttura e composizione sociale delle carceri, nonché alla presenza all’interno di militanti rivoluzionari o di ribelli sociali permeabili ad una sensibilità antagonista.

Oggi risentono del clima di rinnovato fermento sociale e di mobilitazioni, anche se, tranne alcuni casi isolati, non è emersa una reazione soggettiva dentro, in grado di far precipitare le sue contraddizioni e di confrontarsi, almeno parzialmente, con lo scontro in atto.

Il carcere è un sismografo che registra i cambiamenti più profondi della società nel suo complesso, si riorganizza continuamente in funzione del ciclo di lotte precedenti, e del ruolo affidatogli di volta in volta dal potere. Si differenzia la durata e la condizione detentiva, come il suo affidamento e la sua amministrazione, sia a seconda delle  esigenze pragmatiche del potere politico, sia rispetto alle necessità dovute al governo interno dell’istituzione: se da un lato si può arrogare il diritto di concedere, dall’altro si riserva la possibilità di reprimere; se da un lato cerca di “rieducare”, dall’altra reprime e basta.

Essendo parte integrante dell’organizzazione sociale, ha ispirato e ispira, con il suo modello, ogni serio paradigma del controllo ed ogni codificazione comportamentale; rimane un ganglio vitale del sistema di riproduzione dei rapporti sociali, e insieme alle articolazioni militari e poliziesche rappresenta il baluardo delle ragioni di stato e della loro volontà di potenza.

Rimane così una palestra di disciplina, di introiezione dei valori capitalistici magari assunti per il tramite dei vari racket, della cultura, della sopravvivenza individuale e dell’affiliazione ad un gruppo, della subordinazione all’arbitrio di un beneficio concesso o negato, dell’autolesionismo suicida.

La prassi detentiva incorpora e sperimenta le tecniche di controllo più avanzate come le più arcaiche; utilizza sia le millenarie discipline e dottrine del controllo sociale come le religioni, sia le più attuali come la psichiatria, la medicina, la farmacologia, la psicologia sociale; usa sia la forma più estrema di alienazione dalla comunità umana come l’isolamento tout-court  - istituzionalizzata dal carcere speciale -, sia la più moderna forma di ri-socializzazione correttiva e trattamentale attraverso il lavoro esterno e la premialità della regolare condotta, giudicata da quella specie di tribunale permanente costituito dagli organi della Magistratura di Sorveglianza e dalle varie figure addette al giudizio-recupero del detenuto.

In sintesi, il carcere come rapporto sociale è l’esempio, insieme alla guerra, del pressoché assoluto monopolio della violenza da parte dello stato. Che entrambi questi fenomeni riguardino fasce sempre più ampie di proletari, non fa che rinvigorire la necessità della distruzione di questo edificio sociale, che passa anche attraverso l’abbattimento di tutte le istituzioni totali.

Col sangue agli occhi: il movimento dei comuni contro il carcere (’60-’70)

Nel secondo dopoguerra, terminato il periodo cosiddetto della “Ricostruzione”, la necessità di manodopera, per lo sviluppo dell’economia italiana nel triangolo industriale, fece affluire braccia dalla campagna delle zone contigue alle aree metropolitane e poi dall’esercito industriale di riserva del meridione, delle isole e delle zone settentrionali di tradizionale emigrazione, come il Veneto e il Friuli.

Questo fiume di persone che si riversò nelle città si barcamenava tra occupazioni dell’economia informale, una situazione abitativa precaria, senza trovare una comunità e un canale, che non fosse quello della parentela e del paese d’origine. Negli anni sessanta la composizione sociale delle carceri mutava e faceva il suo ingresso nelle galere quel proletariato marginale, di cui la provenienza geografica, la condizione di precarietà lavorativa, la collocazione urbana, la sensibilità sociale, erano proprie del proletariato metropolitano in formazione e della moderne classe pericolose per l’ordine capitalista.

Furono proprio le carceri delle realtà urbane più significative, soprattutto del nord, che incominciarono a ribollire e in cui cominciarono a formarsi le prime avanguardie di lotta forma e a sedimentarsi livelli di organizzazione.

Venne messa in discussione la gerarchia e i Kapò che servivano da strumento di governo interno al carcere. Per esempio, con i pestaggi dei fascisti, vennero messi in discussione gli atteggiamenti di implicita collaborazione con i secondini e il qualunquismo opportunista teso ad accattivarsi le simpatie dei propri carcerieri; soprattutto, prese forma una critica della propria condizione da un punto di vista classista, e non “innocentista”, che venne collocata all’interno di un meccanismo sociale, che bisognava contribuire a distruggere.

Tra questi, i rapinatori saranno l’avanguardia del movimento carcerario di fine anni sessanta e di inizio anni settanta; il grado di cooperazione sociale maturata, le capacità organizzative, la cultura antistatuale, la lontananza dalle tradizionali organizzazioni aventi la funzione di pacificatori sociali, erano tutte caratteristiche acquisite in conseguenza della propria attività, che li accomunavano ai proletari più combattivi formatisi nelle lotte di fabbrica e di quartiere.

Si crea una struttura di solidarietà con il proletariato in lotta, anche nelle carceri, in cui alcune figure professionali tradizionalmente legate alla classe dominante - come avvocati, medici, e altri profili di intellettuali della classe media - fanno propria la prospettiva dell’emancipazione del proletariato, con una precisa e organica scelta di campo. Questa presa di posizione che si sostanzierà con l’impegno continuo di questi compagni, li renderà non solo soggetti alla delegittimazione professionale, ma anche all’azione repressiva vera e propria.

Il Soccorso Rosso che si formerà in quegli anni, sarà una sponda importante del proletariato prigioniero, gli avvocati che ne fecero parte ruppero quel legame di connivenza con le strutture del potere giudiziario, citando un documento del Soccorso Rosso di Milano del settembre del ’71: « tutto ciò comporta, per gli intellettuali che devono fornire questi servizi secondo le esigenze della classe operaia, un nuovo stile di lavoro ben diverso dalla professionalità tradizionale. È anche necessaria una mentalità completamente nuova e una disponibilità generosa che niente ha da spartire con la diligenza mercenaria del professionista. I concetti di legalità, diritto, salute, funzionalità, produttività devono essere capovolti da coloro che si pongono dal punto di vista del proletariato». 

Formazioni politiche della sinistra extra-parlamentare, come Lotta Continua, costituirono una «Commissione Carcere» apposita, ospitando nel giornale, dalla primavera del ’71, lettere di detenuti e notizie sulle rivolte carcerarie in Italia e nel mondo: «A noi i detenuti interessano non perché “fanno pena”, ma per il contributo che possono dare alla lotta di classe e alla rivoluzione. È per questo motivo che ci interessano le caserme e magari i manicomi, come i proletari in divisa e i cosiddetti “malati mentali”», scrivevano i Dannati della Terra in Liberare tutti di LC.

Altre formazioni della sinistra radicale, provenienti dal marxismo e dall’anarchismo, dando una carica eversiva ai comportamenti del proletariato metropolitano che si muoveva ai margini della legalità, interpretavano la lotta criminale come la fonte più genuina di carica eversiva per il sovvertimento della società e, nella prassi illegale, il terreno prioritario della pratica rivoluzionaria, approccio che si tradurre nello slogan: contro lo stato e il capitale, lotta criminale.

L’influenza delle rivolte urbane che dalla metà degli anni sessanta costellarono l’universo metropolitano statunitense e le lotte dei prigionieri afro-americani dal carcere, che trovarono la loro sponda politica nelle Black Panthers, diventarono patrimonio comune di una generazione di proletari prigionieri, che col sangue agli occhi, ribaltarono il ruolo in cui la società li aveva relegati.

L’influenza degli scritti di Franz Fanon  sul ruolo del sotto-proletariato metropolitano nel processo di liberazione coloniale, - filtrata attraverso l’utilizzo che ne fecero le punte più avanzate del movimento afro-americano, come dell’esperienza algerina -, darà una spallata alla vetusta interpretazione del marxismo tradizionale che vedeva nel Lumpen solo una massa di sradicati, da cui l’apparato repressivo poteva sempre attingere per reclutare i suoi sgherri.

Nel secondo numero di «Nuova Resistenza», del maggio ’71, le BR in un articolo dal titolo perentorio Bruciare le carceri è giusto, spiegarono la posizione del giornale sulla criminalità e sulla funzione rivoluzionaria del sottoproletariato: «La rivoluzione moderna non è più la rivoluzione pulita […] accumula i suoi elementi pescando nel torbido, avanza per vie traverse e si trova degli alleati in tutti coloro che non hanno nessun potere sulla propria vita e lo sanno […]. In attesa della festa rivoluzionaria in cui tutti gli espropriatori saranno espropriati, il gesto “criminale” isolato, il furto, l’espropriazione individuale, il saccheggio di un supermercato non sono che un assaggio e un accenno del futuro assalto della ricchezza sociale, il criminale rompe la monotonia a la sicurezza quotidiana, banale della vita borghese (K. Marx). Per il fatto stesso di esistere egli pone in crisi l’ideologia della società capitalistica: si appropria realmente di ciò che la borghesia gli mostra come astrattamente disponibile».

I Nuclei Armati Proletari raccolgono l’eredità politica del lavoro svolto da LC, che imboccò ben presto la lunga marcia verso le istituzioni in una deriva riformista che coinvolgerà anche la sua impostazione sulle lotte dei prigionieri, compiendo il suo distacco dall’azione politica armata, già dalle prime azioni significative delle BR, criticando più l’immagine distorta fornita dai media che la strategia d’azione maturata da questi compagni.

Le avanguardie delle lotte dei comuni danno vita ad un organizzazione e ad una pratica in grado di raccogliere le aspettative del proletariato prigioniero e di reggere il livello di scontro di quegli anni, che avrà come punto di svolta la strage di Alessandria.

Nel Maggio del ’74 in seguito a una rivolta nel carcere di Alessandria, in cui tre detenuti avevano sequestrato 21 persone, barricandosi in infermeria, il comandante dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, futuro responsabile dei reparti speciali anti-terrorismo, e il procuratore generale di Torino Reviglio della Venaria, decidono per un'azione di forza che si concluse con un bagno di sangue.

I NAP nell’ottobre del ’74, davanti ai cancelli delle carceri di Napoli, Milano e Roma, trasmettono un messaggio rivolto a tutti i detenuti che annuncia la loro piattaforma sul carcere.

Questa piattaforma ha come referenti sia le avanguardie detenute, alle quali si lancia lo slogan: «rivolta generale nelle carceri e lotta armata dei nuclei all’esterno», sia la massa dei detenuti, non ancora pervenuta alla coscienza critica del proprio ruolo, a cui i NAP indicano gli obiettivi immediati della lotta contro i codici fascisti, per la democratizzazione delle carceri, per l’abolizione dei manicomi carcerari, ecc.

Ad un anno circa dai fatti di Alessandria, i NAP rapiscono Giuseppe di Gennaro, direttore dell’Ufficio studi del Ministero, in appoggio a un'azione nata nel carcere di Viterbo a opera di tre detenuti che hanno tentato un’evasione. Anche se l’azione, concertata tra il nucleo interno e quello esterno, anche se non raggiunge l’obbiettivo di liberare i tre rivoltosi ottiene, comunque, una risoluzione positiva: nessun intervento delle forze di polizia esterne, nessuna rappresaglia sui tre protagonisti della tentata evasione e il loro trasferimento in carceri non punitive. In cambio, i compagni, liberano il Giudice De Gennaro.

Con la riforma del sistema penitenziario e l’incarcerazione di massa di militanti politici, la struttura, l’organizzazione e la composizione del carcere muta nuovamente.

I detenuti comuni, la Riforma carceraria del ’75 e la Legge Gozzini del ’86

Vennero istituiti ufficialmente tre circuiti penitenziari differenziali, in cui la vasta area della criminalità comune è soggetta a nuove forme di controllo premiale: territorializzazione dell’esecuzione, non più esclusivamente tra le mura carcerarie; scambio pena-comportamento, con l’istituzione di una micro-magistratura che ha il compito di giudicare in continuazione, in combutta con tutta una serie di nuove figure del disciplinamento democratico, la buona condotta del detenuto e di decidere le forme e i tempi in cui deve scontare la propria pena.

Senza dilungarci sul trapasso da un modello segregativo ad un modello correzionale, attraverso un approccio trattamentale e non più solamente punitivo, che si sostanzia con l’uso di disposizioni disciplinari in un regime di premialità, ci interessa sottolineare come il detenuto comune viene e venga tuttora individualizzato.

Se qualcuno può decidere i tempi e i modi della pena, se qualcuno detiene l’arbitrio assoluto per soddisfare ogni qualsiasi richiesta inoltrata, attraverso la pratica della Domandina, allora il potere di ricatto delle gerarchie carcerarie aumenta e diminuisce  la possibilità dei “comuni” di riconoscere in coloro che decidono di un beneficio nient’altro che le articolazioni terminali dell’organizzazione del potere contro cui combattere.

Lo stato interviene modificando la configurazione dei rapporti di forza all’interno delle carceri, attraverso questa ristrutturazione, per isolare dal resto della popolazione carceraria, i compagni più combattivi. I meno risoluti ad iniziare una qualsiasi mediazione con il potere si differenziano da quelli che, a seconda della loro pericolosità sociale, possono incominciare a vedere schiudersi la possibilità della semi-libertà, di uno sconto di pena, disposti a sottoporsi ad un approccio trattamentale che verifica la costante volontà di piegarsi ai dettami, la reale volontà di riscatto attraverso il lavoro, la famiglia e la fede.

Con la riforma del ’75 rimangono esclusi dai benefici sopraindicati i detenuti a medio indice di pericolosità, sospesi tra il circuito del carcere riformato e l’inferno degli speciali. Coloro che sono accusati o condannati per reati di rapina, sequestro di persona, estorsione e dall’82, anche per associazione mafiosa, vengono esclusi.

Erano state figure chiave, come quella del rapinatore, nella crescita del movimento carcerario del passato e allora, a metà anni settanta, erano le fasce della nuova criminalità metropolitana più permeabili al progetto politico di movimento, nonché quelle ritenute responsabili del nuovo allarme sociale: bisogna quindi impedirne la politicizzazione, mostrando quale condizione sarebbe riservata a loro nel caso volessero fare una precisa scelta di campo e, allo stesso tempo, dare all’opinione pubblica l’immagine di una rinnovata sensibilità per la questione dell’ordine pubblico, usando il polso duro e facendo scontare il dovuto alla delinquenza sociale che più preoccupava il belpaese.

In questo modo alla tradizionale prassi coercitiva si univa il rinnovato potere di deterrenza degli speciali, anche nel senso opposto: passare da uno speciale ad una sezione di questo circuito significava rompere l’isolamento dagli altri reclusi, attraversare i vetri divisori, incontrare più spesso la famiglia, poter telefonare e ricevere giornali e libri, entrare, cioè, in un regime disciplinare quasi ordinario.

Più di dieci anni dopo, con la Legge Gozzini, vengono liberalizzati gli accessi ai benefici, universalizzando il modello del governo premiale e viene introdotta la possibilità per i condannati, che hanno tenuto regolare condotta e che non risultano di particolare pericolosità sociale, di poter godere di permessi premio di 15 giorni.   

La Carcerazione sociale oggi

Partiamo da una fotografia della realtà.

La popolazione carceraria sfiora le 56.000 unità, di cui più del 40% detenuta in attesa di giudizio, di questa particolare condizione di imputato - specialità Italica nel campo del diritto penale - ne fanno le spese quasi il 60% degli immigrati nelle prigioni.

Circa un quarto dei detenuti viene accusato, o è stato condannato, per reati che violano le norme contro il patrimonio, circa un quinto per la violazione delle norme del testo unico sulle sostanze stupefacenti, circa un sesto per norme a tutela dell’ordine pubblico, poco di meno per reati contro la persona, tra cui alcuni reati micro-criminali che poco tempo prima erano considerati contro il patrimonio e che ora, bontà del centro-sinistra, sono da considerarsi atti criminosi contro la persona.

Ricordiamo che nella penultima categoria vanno collocati anche i detenuti per “reati di immigrazione”, quali il non avere osservato un ordine di espulsione o l’aver dato generalità false, reati che a metà degli anni ’90 riguardavano il 43% di quelli attribuiti dalla polizia agli immigrati, reati per cui una legge del ‘93 ha introdotto una condanna dai 6 mesi ai due anni!

Se pensiamo che la nuova ondata di carcerazioni nel corso degli anni novanta è diretta conseguenza di un inasprimento legislativo e di una maggiore produttività del sistema repressivo, che colpisce sistematicamente il sotto-proletariato metropolitano giovanile, non ci può sorprendere che la stragrande maggioranza dei detenuti non ha assolto l’obbligo formativo o è in possesso solo della licenza media-inferiore e quasi i 4/5 di coloro che svolgevano una qualsiasi professione, prima di essere sbattuti in cella, facevano l’operaio.

Il tasso di detenzione e il numero di coloro che sono sottoposti ad una qualsiasi misura di restrizione della libertà aumentano, nonostante non vi sia un aumento dei crimini commessi, perché si aumenta la fascia di comportamenti ritenuti criminali, o meglio dei profili sociali giudicati come tali. Le varie guerre combattute dallo Stato contro le fasce più basse del proletariato, mascherate contemporaneamente da guerra alla droga, guerra all’immigrazione, guerra alle organizzazioni mafiose e guerre contro la micro-criminalità, hanno cambiato la composizione sociale dei detenuti degli ultimi vent’anni.

Fanno parte dell’arcipelago carcerario le comunità terapeutiche istituite nella seconda metà degli anni ottanta, i centri di detenzione temporanea istituiti a fine anni novanta, le varie articolazioni del controllo sociale per coloro che possono godere di un regime premiale, di cui beneficiano, si fa per dire, circa 20.000 persone, oltre ai rinascenti “vecchi” manicomi e ai sempre verdi istituti minorili. Andiamo con ordine:

Poco meno di un terzo dei detenuti è costituita da immigrati di origine extra-Unione Europea, prevalentemente concentrati al centro-nord e nelle aree metropolitane, dove costituiscono talvolta circa la metà della popolazione carceraria, mentre quasi la metà delle donne detenute è di origine extra-UE.

Su di loro pesa un inasprimento della custodia cautelare, più alta in percentuale rispetto agli italiani, oggettive difficoltà di difesa legale, una minore possibilità di accesso alle misure alternative alla detenzione, difficoltà maggiori per i colloqui con le proprie famiglie, tra cui l’impossibilità di avere colloqui telefonici fuori dall’Italia.

Il processo di criminalizzazione della condizione di immigrato, particolarmente accelerato e intenso in Italia, rispetto alle nazioni dell’UE, è dovuto a due specificità,  una storica e l’altra geografica, del sistema-paese: il tramutarsi dell’Italia da paese di emigrazione estera e immigrazione interna a paese di immigrazione interna ed estera, e dalla sua posizione di confine e di transito di differenti flussi immigratori verso l’area della Unione Europea dei paesi firmatari del Patto di Schengen.

La Legge Martelli a inizio anni novanta, la Legge Turco-Napolitano del marzo ’98, fino alla recente Legge Bossi-Fini, insieme agli altri provvedimenti legislativi, hanno progressivamente criminalizzato la condizione di immigrato, facilitando progressivamente la possibilità di espulsione, istituendo i centri di detenzione temporanea con il governo di centro-sinistra,  rendendo la vita di questi proletari un vero e proprio inferno, in cui le varie sanatorie che si sono susseguite sono state più uno strumento di cristallizzazione della precarietà della propria condizione, che altro.

I centri di detenzione temporanea vennero allestiti in gran silenzio in Puglia, in Sicilia e a Trieste e in altre località ritenute “critiche”. Il grande pubblico scopre la loro esistenza, e la loro natura tutt’altro che assistenziale, nell’estate del ’98, quando ad Agrigento e a Caltanisetta alcune decine di immigrati si ribellano alle condizioni inumane in cui sono costretti, incendiando questi lager. Senza aver commesso nessun reato, sono tenuti a pane e acqua per diverse settimane in edifici fatiscenti sorvegliati a vista dalla polizia che interviene con violenza al minimo segno di protesta. L’altra componente che dalla metà degli anni ottanta e soprattutto dopo la Legge n.161 del 1990 ha subito un'accentuata criminalizzazione, è quella che ha il profilo, nella stigmatizzazione socio-mediatica, del tossicodipendente consumatore e spacciatore.

L’articolo 47bis della Legge Gozzini prevede la possibilità di affidamento ai servizi sociali per tossicodipendenti, cioè più prosaicamente l’auto-reclusione volontaria in una comunità terapeutica per chi deve scontare una pena detentiva inferiore ai tre anni.

Questo micro-cosmo carcerario su cui non è dato indagare, da cui nessuna notizia sulle regole che lo governano può trapelare, e a cui è stata delegata una funzione terapeutica normalizzante, applica tutti i mezzi che ritiene necessari per ottenere i fini sublimi della introiezione della colpa e della sua espiazione attraverso la vita comunitaria incentrata sul lavoro gratuito.

Queste oasi del sequestro dal sociale sono proliferate, aumentando in numero e in capacità di accoglienza, e hanno catalizzato su di sé le aspettative illusorie di chi pensa che la permanenza in uno di questi lager sia garanzia di un certificato di guarigione almeno dall’infame marchio sociale di tossicomane, di soggetto a rischio, di micro-delinquente, ecc. Hanno spostato il discorso del disagio sociale, non sulle cause di questo, ma sulle conseguenze e sono stati uno dei primi esperimenti di privatizzazione del welfare con operazioni mirate alla cattura di consenso e benestare della pubblica opinione. Un buon trampolino di lancio per santoni nostrani, pretazzi con la vocazione del sociale, uomini forti che offrivano l’immagine dell’impresa famigliare vincente, cooperative e tutto il carrozzone variopinto dell’impresa sociale. 

Il carcere cura poi la tossicodipendenza con gli psicofarmaci, che costituiscono i farmaci maggiormente somministrati negli istituti di pena, provocando una dipendenza di ancora più difficile rimozione!

L’ultima fascia protagonista suo malgrado del grande internamento degli anni novanta riguarda la manovalanza della criminalità organizzata, in parte compresa nelle componenti precedenti e delle fasce della micro-criminalità che non ha bisogno di grandi mezzi per svolgere la propria attività illegale: ladri di macchine, topi d’appartamento, scippatori, ecc.

Gli appartenenti al crimine organizzato in carcere sono circa settemila. L’operato dello stato ha prodotto un notevole numero di collaboratori di giustizia. Questo lo si deve sia alla costante instabilità delle gerarchie dei gruppi criminali e il ricambio continuo delle elitès, sia al trattamento differenziato riservato ai collaboratori di giustizia, comprese le garanzie di protezione assicurate ai familiari.