CONTROVENTO
n.5 |
Stranieri
Ovunque (Torino)
NESSUN
PROLETARIO E' CLANDESTINO
Lavoratori italiani e
lavoratori immigrati uniti contro il comune nemico: il capitalismo
Abbiamo
chiesto forza lavoro,
sono arrivati uomini.
Max Frisch
Nessuno
emigra per piacere ecco una verità fin troppo semplice che in molti vogliono
occultare. Se una persona lascia di buon grado la sua terra e i suoi
affetti non la si definisce migrante, ma semplicemente viaggiatore o turista.
La migrazione è uno spostamento forzato, un errare alla ricerca di condizioni
di vita migliori.
Ci
sono attualmente 150 milioni di stranieri nel mondo, a causa di guerre, colpi
di Stato, disastri ecologici, carestie o del semplice funzionamento della
produzione industriale (distruzione delle campagne e delle foreste,
licenziamenti di massa, eccetera). Tutti questi fattori compongono un mosaico
d’oppressione e di miseria in cui gli effetti dello sfruttamento si fanno a
loro volta cause immediate e remote di sofferenza e di sradicamento, in una
spirale infinita che rende ipocrita ogni distinzione fra “sfollati”,
“migranti”, “profughi”, “richiedenti asilo”, “rifugiati”,
“sopravvissuti”. Basta pensare a quanto siano sociali le cosiddette
emergenze ambientali (la carenza di acqua, la desertificazione crescente, la
sterilità dei campi): l’esplosione di una raffineria di petrolio, unita alla
distruzione di ogni autonomia locale su cui è stata edificata, può talvolta
cambiare le sorti di un’intera popolazione.
Contrariamente
a quanto vorrebbe far credere la propaganda razzista, l’immigrazione riguarda
per il solo 17 per cento il Nord ricco, coinvolgendo di fatto tutti i continenti
(in particolare quello asiatico e quello africano); il che significa che per
ogni Paese povero ce n’è uno ancora più povero da cui fuggono dei migranti.
La mobilitazione totale imposta dall’economia e dagli Stati è un fenomeno
planetario, una guerra civile non dichiarata e senza confini: milioni di
sfruttati errano attraverso l’inferno del paradiso mercantile, sballottati di
frontiera in frontiera, costretti in campi profughi accerchiati dalla polizia e
dall’esercito, gestiti dalle organizzazioni dette di carità complici rispetto
a tragedie di cui non denunciano le cause reali al solo scopo di sfruttarne le
conseguenze , affastellati nelle “zone di attesa” degli aeroporti o negli
stadi (macabri circenses per chi non ha neanche il pane), rinchiusi in Lager
definiti “centri di permanenza temporanea”, infine impacchettati ed espulsi
nella più totale indifferenza. Per molti aspetti si può dire che i volti di
questi indesiderabili siano il volto del nostro presente e anche per questo ci
spaventano. L’immigrato ci fa paura perché vediamo rispecchiata nella sua la
nostra miseria, perché nella sua erranza riconosciamo la nostra condizione
quotidiana: quella di individui sempre più stranieri in questo mondo e sempre
più stranieri a se stessi.
Lo
sradicamento è la condizione più diffusa nella presente società, si potrebbe
dire il suo “centro”, e non una minaccia proveniente da un misterioso e
terrifico Altrove. Solo affondando lo sguardo nella nostra vita quotidiana
possiamo capire in cosa la condizione degli immigrati ci coinvolge tutti. Prima,
però, dobbiamo definire un concetto cardine: quello di clandestino.
La
creazione del clandestino, la creazione del nemico
[…]
cos’è lei? […]
Lei non è del castello, lei non è del paese, lei non è nulla.
Eppure anche lei è qualcosa, sventuratamente, è un forestiero, uno che è
sempre di troppo e sempre fra i piedi, uno che vi procura un sacco di
grattacapi, […] che non si sa quali intenzioni abbia.
F. Kafka
Il
“clandestino” è semplicemente un immigrato che non ha i documenti in
regola. Questo non certo per puro piacere del rischio e dell’illegalità, bensì
perché nella maggior parte dei casi, per avere tali documenti dovrebbe fornire
garanzie il cui possesso non lo avrebbe reso migrante, ma turista o studente
straniero. Se gli stessi criteri venissero applicati a tutti, saremmo buttati a
mare a milioni. Quale disoccupato italiano, ad esempio, potrebbe fornire la
garanzia di un reddito legale? Come farebbero tutti quei precari di qui che
lavorano tramite le agenzie interinali, i cui contratti non sono riconosciuti
agli immigrati per il permesso di soggiorno? Sono così numerosi, poi, gli
italiani che vivono in un appartamento di 60 metri quadrati con altre due
persone al massimo? Che li si legga, i vari decreti (di destra come di sinistra)
sull’immigrazione, si capirà allora che la clandestinizzazione degli
immigrati è un progetto preciso degli Stati. Perché?
Uno
straniero irregolare è più ricattabile, portato ad accettare, sotto la
minaccia dell’espulsione, condizioni di lavoro e di esistenza ancora più
odiose (precarietà, continui spostamenti, alloggi di fortuna, eccetera). E
questa minaccia vale anche per chi il permesso di soggiorno ce l’ha, ma sa
benissimo quanto sia facile perderlo quando non si è accondiscendenti con il
principale e con gli agenti della questura. Con lo spettro della polizia, i
padroni si procurano dei salariati docili, anzi, dei veri e propri lavoratori
forzati.
Anche
i partiti della destra più reazionaria e xenofoba sanno benissimo che una
chiusura ermetica delle frontiere è non solo tecnicamente impossibile, ma anche
non vantaggiosa. Secondo le Nazioni Unite, l’Italia dovrebbe, per mantenere
l’attuale “equilibrio fra popolazione attiva e inattiva”,
“accogliere”, da qui al 2025, una quota cinque volte maggiore di quella
attualmente stabilita per anno. La Confindustria, infatti, suggerisce
continuamente di raddoppiare le quote fissate finora.
La
concessione di permessi annuali e stagionali oppure il loro rifiuto determinano
una precisa gerarchia sociale fra poveri. La stessa distinzione fra rimpatrio
coatto immediato e espulsione (cioè l’obbligo, per l’immigrato irregolare,
di presentarsi alle frontiere per essere rispedito a casa) permette di scegliere
sulla base di criteri etnici, di accordi economico-politici con i governi dei
Paesi da cui l’immigrato proviene e delle necessità del mercato del lavoro
chi clandestinizzare e chi allontanare subito. Le autorità sanno benissimo,
infatti, che nessuno si presenterà spontaneamente alle frontiere per farsi
espellere; di certo non chi ha speso tutto quello che aveva e talvolta anche di
più per pagarsi il viaggio di arrivo. Gli imprenditori definiscono le
caratteristiche della merce che comprano (l’immigrato è una merce, come tutti
del resto), lo Stato raccoglie i dati, la polizia esegue gli ordini.
Gli
allarmi dei politici e dei mass media, i proclami anti-immigrazione creano
Nemici immaginari, per spingere gli sfruttati di qui a scaricare su di un facile
capro espiatorio le crescenti tensioni sociali e rassicurarli, facendo loro
ammirare lo spettacolo di poveri ancora più precari e ricattati di loro; per
farli sentire, infine, membri di un fantasma chiamato Nazione. Facendo
dell’“irregolarità” che essi stessi creano un sinonimo di delinquenza e
pericolosità, gli Stati giustificano un controllo poliziesco e una
criminalizzazione sempre più striscianti dei conflitti di classe. È in questo
contesto che si inserisce, ad esempio, la manipolazione del consenso dopo l’11
settembre, sintetizzata dall’ignobile slogan “clandestini=terroristi”, che
unisce, se letto nei due sensi, la paranoia razzista alla richiesta di
repressione nei confronti del nemico interno (il ribelle, il sovversivo).
Tuonano,
a destra come a sinistra, contro il racket che organizza i viaggi dei
clandestini (descritti dai mass media come un’invasione, un flagello, come
l’avanzata di un esercito), quando sono le loro leggi a favorirlo.
Tuonano
contro la “criminalità organizzata” che sfrutta tanti immigrati (fatto vero
ma parziale), quando sono loro a fornirle la materia prima disperata e pronta a
tutto. Stato e mafia, nella loro simbiosi storica, sono uniti dallo stesso
principio liberale: gli affari sono affari.
Il
razzismo, strumento di esigenze economiche e politiche, trova spazio per
dilagare in un contesto di massificazione e isolamento generalizzati, quando
l’insicurezza crea paure opportunamente manipolabili. Serve a ben poco
condannare moralmente o culturalmente il razzismo, poiché esso non è
un’opinione o un “argomento”, ma una miseria psicologica, una “peste
emozionale”. È nelle presenti condizioni sociali che occorre cercare la
spiegazione del suo diffondersi e, al tempo stesso, le forze per combatterlo.
L’accoglienza
di un lager
Definire
Lager i Centri di Permanenza Temporanea per immigrati in attesa di espulsione
centri introdotti in Italia nel 1998 dal governo di sinistra con la legge
Turco-Napolitano non è un’enfasi retorica, come in fondo pensano anche molti
di coloro che utilizzano tale formula. Si tratta di una definizione rigorosa. I
Lager nazisti sono stati dei campi di concentramento in cui venivano rinchiusi
individui che la polizia considerava, anche in assenza di condotte penalmente
perseguibili, pericolosi per la sicurezza dello Stato. Questa misura preventiva
definita “detenzione protettiva” consisteva nel togliere tutti i diritti
civili e politici ad alcuni cittadini. Fossero profughi, ebrei, zingari,
omosessuali o sovversivi, spettava alla polizia, dopo mesi o anni, decidere sul
da farsi. I Lager, cioè, non erano prigioni nelle quali si scontava qualche
reato, né un’estensione del diritto penale. Si trattava di campi in cui la
Norma stabiliva la propria eccezione; in breve, una sospensione legale della
legalità. Un Lager, dunque, non dipende dal numero degli internati né da
quello degli assassinii (fra il 1935 e il 1937, prima dell’inizio della
deportazione degli ebrei, gli internati in Germania erano 7500), bensì dalla
sua natura politica e giuridica.
Gli
immigrati finiscono oggi nei Centri indipendentemente da eventuali reati, senza
alcun procedimento penale: il loro internamento, disposto dal questore, è una
semplice misura di polizia. Esattamente come accadeva nel 1940 sotto il regime
di Vichy, quando i prefetti potevano rinchiudere gli individui “pericolosi per
la difesa nazionale o la sicurezza pubblica” oppure (si badi) “gli stranieri
in soprannumero rispetto all’economia nazionale”. Si può rinviare alla
detenzione amministrativa nell’Algeria francese, al Sudafrica dell’apartheid
o agli attuali ghetti per i palestinesi creati dallo Stato di Israele.
Non
è un caso se, rispetto alle condizioni infami dei centri per immigrati, i buoni
democratici non si appellano al rispetto di una legge quale che sia, bensì a
quello dei diritti umani ultima maschera di fronte a donne e uomini cui non
rimane altro che la pura appartenenza alla specie umana. Non li si può
integrare come cittadini, si fa finta di integrarli come Uomini.
L’uguaglianza
astratta dei princìpi maschera ovunque le disuguaglianze reali.
Un
nuovo sradicamento
Gli
immigrati che sbarcavano per la/prima volta a Battery Park non tardavano/ad
accorgersi che quel che gli era stato/raccontato della meravigliosa America/non
era per niente esatto:/la terra forse apparteneva davvero a tutti,/ma quelli che
erano arrivati per primi/si erano già ampiamente serviti,/e a loro non restava
altro che/ammassarsi in dieci nei tuguri senza finestre/del Lower East Side e
lavorare quindici ore al/giorno. I tacchini non cadevano già
arrostiti/direttamente nei piatti e le strade di New York/non erano lastricate
d’oro./Anzi, il più delle volte, non erano/lastricate affatto. E allora
capivano che/era proprio per fargliele lastricare che li/avevano fatti venire. E
per scavare gallerie/e canali, costruire strade, ponti, grandi/dighe, ferrovie,
dissodare foreste, sfruttare/miniere e cave, fabbricare automobili e
sigari,/carabine e vestiti, scarpe, chewing-gum,/corned-beef e saponette, e
costruire/grattacieli ancora più alti/di quelli che avevano scoperto
all’arrivo.
Georges Perec
Se
facciamo qualche passo indietro, ci risulterà evidente che lo sradicamento è
un momento essenziale dello sviluppo del dominio statale e capitalista. Ai suoi
albori, la produzione industriale ha strappato gli sfruttati dalle campagne e
dai villaggi per concentrarli nelle città. L’antico saper fare dei contadini
e degli artigiani è stato sostituito così dall’attività coatta e ripetitiva
della fabbrica attività impossibile da controllare, nei suoi strumenti e nelle
sue finalità, dai nuovi proletari.
I
figli primogeniti dell’industrializzazione, quindi, hanno perso
contemporaneamente i loro antichi luoghi di vita e le proprie antiche
conoscenze, quelle che permettevano loro di procacciarsi autonomamente una buona
parte dei propri mezzi di sussistenza. D’altra parte, imponendo a milioni di
uomini e donne condizioni di vita simili (stessi luoghi, stessi problemi, stesso
sapere), il capitalismo ne ha unificato le lotte, ha fatto ritrovare loro
fratelli nuovi per combattere contro quella stessa vita insopportabile. Il
Novecento ha segnato l’apice di questo concentramento produttivo e statale i
cui emblemi sono stati la fabbrica-quartiere e il Lager ed insieme l’apice
delle lotte sociali più radicali per la sua demolizione.
Negli
ultimi vent’anni, grazie alle innovazioni tecnologiche, il capitale ha
sostituito alla vecchia fabbrica nuovi nuclei produttivi sempre più piccoli e
dislocati sul territorio, disgregando anche il tessuto sociale all’interno del
quale erano cresciute quelle lotte, e determinando così un nuovo sradicamento.
Non
solo. La ristrutturazione tecnologica ha velocizzato e facilitato gli scambi,
aprendo il mondo intero alla concorrenza più feroce, travolgendo le economie ed
i modi di vita di interi Paesi. In Africa, in Asia, in America Latina, la
chiusura di moltissime fabbriche, i licenziamenti di massa, in un contesto
sociale distrutto dal colonialismo, dalla deportazione degli abitanti dai
villaggi alle bidonville, dai campi alle catene di montaggio, ha prodotto uno
stuolo di poveri divenuti inutili ai loro padroni, di figli non voluti del
capitalismo. Si aggiungano il crollo dei Paesi sedicenti comunisti e il racket
dei debiti organizzato dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale
e si otterrà una cartografia piuttosto precisa delle migrazioni, delle guerre
etniche e religiose.
Quello
che oggi si chiama “flessibilità” e “precarietà” è la conseguenza di
tutto ciò: un ulteriore progresso nella sottomissione alle macchine, una
maggiore competizione, un peggioramento delle condizioni materiali (contratti,
salute, eccetera). La ragione l’abbiamo vista: il capitalismo ha smantellato
le “comunità” che aveva esso stesso creato. Sarebbe comunque parziale
concepire la precarietà solo in senso economico, come assenza del posto fisso e
del vecchio orgoglio per il proprio mestiere. Essa è un isolamento nella
massificazione, cioè un conformismo fanatico senza spazi comuni.
Nell’angoscioso vuoto di senso e di prospettive, ritorna mistificato il
bisogno insoddisfatto di comunità, sotto forma di vecchie e nuove
contrapposizioni nazionaliste, etniche o religiose, tragica riproposizione di
identità collettive laddove è venuta meno ogni reciprocità reale tra gli
individui. Ed è proprio in questo vuoto che trova spazio il discorso
integralista, falsa promessa di una comunità redenta.
Guerra
civile
Tutto
ciò porta a uno scenario che è sempre più quello della guerra civile
permanente, senza distinzione tra “tempi di pace” e “tempi di guerra”.
Il conflitto non viene più dichiarato come ha dimostrato l’intervento
militare nei Balcani , ma semplicemente amministrato a garanzia del mantenimento
dell’Ordine Mondiale.
Questo
scontro senza sosta attraversa l’intera società e gli stessi individui. Gli
spazi comuni di dialogo e di lotta sono sostituiti dall’adesione agli stessi
modelli mercantili: i poveri si fanno la guerra tra loro per la felpa o il
cappellino alla moda. Gli individui si sentono sempre più irrilevanti, pronti
allora a sacrificarsi per il primo trombone nazionalista o per uno straccio di
bandiera. Maltrattati quotidianamente dallo Stato, eccoli a difendere con zelo
una qualsiasi Padania (desolata e inquinata, con fabbriche e centri commerciali
ovunque sarebbe questa l’invidiabile “terra degli avi”?). Attaccati a quel
miraggio di proprietà che è loro rimasto, hanno paura di scoprirsi per quello
che sono: ingranaggi intercambiabili di una Megamacchina, bisognosi di
psicofarmaci per arrivare a sera, sempre più invidiosi verso chiunque appaia
anche solo più felice di loro. A una razionalità sempre più fredda, astratta
e calcolatrice corrispondono delle pulsioni sempre più brutali e inconfessate.
Cosa di meglio, allora, di qualcuno diverso per pelle o religione su cui
scaricare il proprio rancore? Come diceva un mozambicano, la “gente ha preso
la guerra dentro di sé”. Bastano alcune condizioni esterne perché tutto ciò
esploda come in Bosnia. E queste condizioni, ce le stanno apparecchiando con
cura. All’universalismo capitalista si oppone, in
Due
uscite possibili
Perché
abbiamo parlato così tanto, fin qui, di immigrazione e di razzismo, dal momento
che non siamo direttamente coinvolti dal problema dell’erranza e
dell’espulsione? Il capitalismo stesso accomuna sempre di più le nostre vite
all’insegna della precarietà e dell’impossibilità di decidere del nostro
presente e del nostro futuro: è per questo che ci sentiamo fratelli, nei fatti,
degli sfruttati che sbarcano sulle coste di questo Paese.
Di
fronte al sentimento di spoliazione che milioni di individui provano verso un
imperialismo mercantile che costringe tutti a sognare lo stesso sogno senza
vita, non è possibile alcun appello al dialogo e all’integrazione
democratica. Checché ne dicano gli antirazzisti legalitari, è tardi per le
ipocrite lezioni di educazione civica. Quando crescono ovunque dalle bidonville
di Caracas alle periferie di Parigi, dai territori palestinesi ai centri e agli
stadi in cui vengono rinchiusi i clandestini i campi in cui confinare la
miseria; quando lo stato d’eccezione cioè la sospensione giuridica di ogni
diritto diventa la norma; quando si lasciano letteralmente marcire milioni di
esseri umani nelle riserve del paradiso capitalista; quando si militarizzano e
si blindano interi quartieri (Genova, vi dice qualcosa?), parlare di
integrazione è un’ignobile burla. Da queste condizioni di disperazione e di
paura, da questa guerra civile planetaria, ci sono solo due uscite: o lo scontro
fratricida (religioso e clanico, in tutte le sue varianti), oppure la tempesta
sociale della guerra di classe.
Il
razzismo è la tomba di ogni lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori, è
l’ultima carta la più sporca giocata da chi vorrebbe vederci massacrare tra
di noi. Può evaporare solo nei momenti di rivolta comune, quando si riconoscono
i propri nemici reali gli sfruttatori e i loro tirapiedi e ci si riconosce come
sfruttati che non vogliono più esserlo. Lo scontro sociale degli anni Sessanta
e Settanta in Italia quando i giovani operai immigrati dal sud incontrarono
quelli del nord sul terreno del sabotaggio, dello sciopero selvaggio e
dell’assoluta slealtà verso il padrone lo ha dimostrato. La scomparsa dopo
gli anni Settanta delle lotte rivoluzionarie (dal Nicaragua all’Italia, dal
Portogallo alla Germania, dalla Polonia all’Iran) ha sgretolato la base di una
solidarietà concreta fra gli espropriati della Terra. Questa solidarietà potrà
essere riconquistata solo nella rivolta, e non nelle parole impotenti dei nuovi
terzomondisti e degli antirazzisti democratici.
O
il massacro clanico e religioso, dunque, o la guerra di classe. E solo in fondo
a quest’ultima possiamo intravedere un mondo libero dallo Stato e dal denaro,
in cui per vivere e viaggiare non ci sarà bisogno di alcun permesso.
Una
macchina che si può spezzare
Negli
anni Ottanta c’era uno slogan che diceva: “Oggi non è tanto il rumore degli
scarponi che dobbiamo temere, quanto il silenzio delle pantofole”.
Ora
stanno tornando entrambi. Con un linguaggio da guerra santa (le forze
dell’ordine quale “esercito del bene” che protegge i cittadini dagli
immigrati, l’“esercito del male”, come ha affermato di recente il
presidente del Consiglio), lo Stato sta organizzando quotidianamente retate ai
danni degli immigrati. Le loro case vengono devastate, i clandestini vengono
rastrellati per strada e deportati, rinchiusi nei lager ed espulsi nella più
totale indifferenza. In numerose città sono già in costruzione nuovi centri di
detenzione. La legge Bossi-Fini, degna continuazione della Turco-Napolitano,
vuole limitare i permessi di soggiorno in base alla durata esatta del contratto
di lavoro, schedare tutti gli immigrati, trasformare la clandestinità in reato
e rafforzare la macchina delle espulsioni.
Il
meccanismo democratico della cittadinanza e dei diritti, per quanto allargati,
presupporrà sempre l’esistenza di esclusi. Criticare e cercare di impedire le
espulsioni degli immigrati significa al tempo stesso realizzare una critica in
atto del razzismo e del nazionalismo; significa cercare uno spazio comune di
rivolta contro lo sradicamento capitalista che ci coinvolge tutti; significa
ostacolare un importante quanto odioso meccanismo repressivo; significa spezzare
il silenzio e l’indifferenza dei civilizzati che rimangono a guardare;
significa infine mettere in discussione il concetto stesso di legge,
all’insegna del principio “siamo tutti clandestini”. Si tratta, insomma,
di un attacco a uno dei pilastri della società statale e di classe: la
competizione fra poveri, la sostituzione, oggi sempre più minacciosa, della
guerra etnica o religiosa alla guerra sociale.
La
macchina delle espulsioni ha bisogno, per funzionare, del concorso di molte
strutture pubbliche e private (dalla Croce Rossa che cogestisce i lager alle
ditte che forniscono servizi, dalle compagnie aeree che deportano i clandestini
agli aeroporti che organizzano le zone d’attesa, passando per le associazioni
dette di carità che collaborano con la polizia). Tutte queste responsabilità
sono ben visibili e ben attaccabili.
Dalle
azioni contro i centri di detenzione (come è successo un paio di anni fa in
Belgio e qualche mese fa in Australia, quando delle manifestazioni si sono
concluse con la liberazione di alcuni clandestini), a quelle contro le “zone
di attesa” (come in Francia, ai danni della catena di hotel Ibis, che fornisce
le proprie stanze alla polizia) o per impedire i voli dell’infamia (a
Francoforte, un sabotaggio dei cavi a fibre ottiche aveva messo fuori uso,
qualche anno fa, tutti i computer di un aeroporto per un paio di giorni), mille
sono le pratiche che un movimento contro le espulsioni può realizzare.
Oggi
come non mai è nelle strade che si può ricostruire la solidarietà di classe.
Nella complicità contro le retate della polizia; nella lotta contro
l’occupazione militare dei quartieri; nell’ostinato rifiuto di ogni
divisione che i padroni vorrebbero imporci (italiani e stranieri, immigrati
regolari e clandestini); nella consapevolezza che ogni oltraggio subito da
qualsiasi espropriato della Terra è un oltraggio a tutti - solo in questa
maniera gli sfruttati di mille Paesi potranno finalmente riconoscersi.
Per
contatti:
Stranieri
Ovunque, C.p. 1244, 10100 Torino
Centro di Documentazione “Porfido”, Via Tarino 12/c, 10124 Torino