Nuovo collocamento, ovvero totale comando capitalistico sul lavoro

Da sempre il collocamento pubblico ha funzionato poco e male. Da qualche anno, con tutte le nuove figure precarie, spesso era “saltato a pié pari”. Ma dopo questa riforma le cose sono destinate a peggiorare drammaticamente.

Sono soppresse le liste di collocamento. Rimane un elenco anagrafico e la permanenza nell’elenco non significa più nulla. Chi sta bene al padrone lavorerà più spesso: gli altri possono aspettare...

Resta la lista di mobilità, ma solo perché verrà smantellata nella “riforma” degli ammortizzatori sociali.

Ogni nuova assunzione avverrà solo per chiamata diretta. Solo il padrone sceglie sulla base dei suoi interessi. Non esiste più nessun criterio oggettivo.

E’ considerata in stato di disoccupazione una persona priva di lavoro che sia “immediatamente disponibile allo svolgimento o alla ricerca di una attività lavorativa”.
Da notare l’“immediatamente disponibile”.
Infatti “si perde lo stato di disoccupazione in caso di rifiuto delle iniziative formative o di una congrua offerta di lavoro a tempo pieno e indeterminato o di un lavoro a termine di durata superiore a otto mesi (quattro per i giovani) nell'ambito del territorio regionale” (Il sole 24 ore”, 11 aprile 2002
).
Se uno che abita a Carrara non vuole lavorare a Grosseto è proprio uno scansfatiche e deve perdere il sussidio.
Già il lavoro è una costrizione quando te lo cerchi. Se poi te lo cercano loro…
E poi devi andare alle iniziative di formazione (senza prendere una lira) per formarti secondo gli interessi del padrone.

Per quanto riguarda i licenziamenti collettivi il diritto di riassunzione presso la stessa azienda passa da 1 anno a 6 mesi.

Con i colloqui di orientamento i “servizi per l’impiego” intervisteranno periodicamente i disoccupati e proporranno loro attività formative che, come tutti sanno, altro non sono che sedute per sviluppare il senso di colpa e di frustrazione dei lavoratori, nonché per indottrinarli psicologicamente e far loro il lavaggio del cervello con la cosiddetta “cultura di impresa”.
In più passa definitivamente la “logica” che per formare tecnicamente personale destinato ad ingrassare le tasche dei padroni debbano pagare lo stato, le università e i lavoratori stessi.