CONTROVENTO
n.0 |
I COMUNISTI E LE ELEZIONI POLITICHE DEL 2001
Premessa
Le elezioni politiche del 2001 costituiscono senza dubbio un appuntamento importante per le varie espressioni politiche del capitalismo italiano e per le organizzazioni riformiste del movimento operaio, ma lo sono anche per i comunisti che sono chiamati a svolgere una intensa attività di analisi, lotta e controinformazione.
È sempre un errore affrontare un qualsiasi terreno di lotta politica partendo da impostazioni pregiudiziali (favorevoli o contrarie); in ogni occasione bisogna piuttosto analizzare concretamente quali possibilità si aprono per i comunisti e per il loro progetto politico. Bisogna, cioè, “fare l’analisi concreta della situazione concreta”.
Se dovessimo scegliere un terreno di lotta sulla base del nostro personale gradimento non solo non voteremmo mai per eleggere parlamenti borghesi, ma probabilmente non faremmo neppure lotte sindacali (in quanto combattiamo il sistema del lavoro salariato), né lotte studentesche (in quanto la scuola è di regime e non c’è lotta che possa trasformarla in una istituzione realmente “educativa”)… Siccome viviamo (e probabilmente vivremo ancora a lungo) in un sistema capitalistico e tutte le istituzioni (elettorali, sociali, educative, economiche...) della borghesia ci disgustano, finiremmo per non scendere mai su alcun terreno di lotta in attesa di una non meglio precisata “ora x”, ciò che sarebbe appunto il più grande regalo che potremmo fare a chi detiene il potere.
Per questa ed altre ragioni, in riferimento alle elezioni politiche del 2001, non ci siamo preoccupati di scegliere aprioristicamente per l’astensione o per la partecipazione con liste e candidati (nel senso che non abbiamo ritenuto che questo fosse il problema principale), ma ci siamo domandati anzitutto quali fossero i rapporti di forza in campo ed abbiamo cercato di valutare come (e se) essi potevano essere migliorati a favore delle masse popolari.
C’è un dato che caratterizza ormai da molti anni i vari appuntamenti elettorali e cioè la progressiva astensione dal voto.
Per fare un esempio, alle ultime elezioni regionali non hanno votato 11,3 milioni di elettori; vi sono stati, cioè, circa 3,5 milioni di astenuti in più rispetto alle passate elezioni regionali del 1995.
Ovviamente, l’astensione non è sempre espressione di un dissenso: talvolta può essere espressione di una sostanziale indifferenza per l’esito finale perché ci si sente comunque rappresentati, chiunque vinca.
Ed anche quando l’astensione esprime un reale dissenso non necessariamente esprime un dissenso attivo e talvolta può persino preludere a forme di qualunquismo che rafforzano oggettivamente il potere delle classi dominanti.
Il diritto al voto dovrebbe essere un diritto elementare anche nelle cosiddette “democrazie” borghesi; eppure, per conquistare ed esercitare concretamente tale diritto sono stati spesso necessari immensi sacrifici. In Italia, ad esempio, le donne hanno conquistato il voto solo con la Costituzione del 1946 e grazie alla Resistenza.
Per questa ragione non dobbiamo mai sottovalutare nessuna conquista strappata con le lotte popolari e praticare ogni spazio “democratico”, seppure formale, che le classi dominanti sono costrette a concedere.
Nell’astensione al voto che si è manifestata negli ultimi anni ha avuto un forte peso la sfiducia che ampi settori dell’elettorato di sinistra hanno ormai maturato nei confronti delle proprie direzioni politiche da cui non si sentono più rappresentati.
Quando in seguito ritorneremmo più nello specifico sui dati numerici delle ultime tornate elettorali proveremo a spiegare perché l'emorragia di voti ha colpito principalmente il centro-"sinistra” e vedremo che tale emorragia non si è automaticamente rovesciata nel campo avversario (il centro-destra), ma ha piuttosto alimentato ad un’area astensionista che con il non voto ha inteso esprimere il proprio disaccordo nei confronti della politica di “lacrime e sangue” che gli ultimi governi di centro-"sinistra” (Dini, Prodi, D’Alema, Amato) hanno imposto alle masse popolari del nostro paese. Mostreremo che gran parte dell’astensione al voto delle ultime tornate elettorali è stata dunque, principalmente, una “astensione di sinistra”.
In linea generale, l’atteggiamento che i comunisti devono tenere verso il momento elettorale e istituzionale può essere sintetizzato nella formula “non essere affetti né da cretinismo parlamentare, né da cretinismo extra-parlamentare”.
I comunisti devono “semplicemente” valutare se e in che misura (e in quale modo) il momento elettorale/istituzionale può essere usato per sviluppare una più ampia coscienza di classe e anti-capitalista.
Questo significa, innanzitutto, sgombrare il campo da pericolose illusioni sulla possibilità di ottenere chissà quali risultati concreti “ben operando” nelle istituzioni. Non c’è nessun “ben operare” che possa sostituire la lotta di classe nella conquista da parte del proletariato di rapporti di forza ad esso più favorevoli.
Nell’ambito di una sistema capitalistico, cioè nell’ambito di un sistema in cui il potere è nelle mani dei capitalisti e in cui l’apparato statale è strumento di questo potere, tutti i nostri sforzo devono essere finalizzati all’accumulazione di forze rivoluzionarie cioè all’accumulazione di forze che si pongano l’obbiettivo strategico dell’abbattimento del capitalismo e della costruzione del socialismo, ovvero della società basata sul potere dei lavoratori.
E ogni comunista deve essere ben consapevole che non vi può essere alcuna via pacifica al socialismo perché le classi dominanti non saranno mai disposte ad accettarla. La Russia nel 1918 con l’invasione da parte di numerosi eserciti stranieri, la Spagna nel 1936 con la guerra civile scatenata da Franco, il Cile nel 1973 con il colpo di stato di Pinochet sono solo alcuni minimi esempi; ma anche la “strategia della tensione” in Italia, iniziata con la strage di Piazza Fontana, è un esempio di come le classi dominanti reagiscono di fronte anche solo allo sviluppo di vasti movimenti politici e rivendicativi.
Quando il proletariato mette in discussione il potere della borghesia questa reagisce con ogni mezzo a sua disposizione.
Solo in questo senso aveva ragione Berlinguer quando sosteneva che per costruire il socialismo in Italia (o quello che egli riteneva essere il “socialismo” dal suo non socialista punto di vista) non era sufficiente neppure raggiungere il 51%. Anche noi siamo convinti che non basterà raggiungere il 51% dei consensi elettorali per conquistare una società nuova dove siano abolite le ingiustizie economiche e sociali e dove sia abolito lo sfruttamento da parte di pochi del lavoro di tanti; riteniamo che sia necessario attrezzarsi in modo adeguato e per tempo a fronteggiare la reazione violenta delle classi dominanti poste di fronte all’ipotesi della perdita del loro secolare potere.
Oggi, tuttavia, non siamo alla vigilia della rivoluzione. Siamo, anzi, in una fase molto difficile in cui i capitalisti continuano ad avanzare mentre il proletariato continua ad arretrare.
Le nostre forze sono ancora deboli e le organizzazioni di classe del proletariato (politiche, sindacali, sociali) sono tutte da ricostruire.
Particolarmente in questa situazione, ma come abbiamo detto, in ogni situazione, sostenere che sia possibile cambiare lo stato di cose presenti semplicemente accumulando un voto alla volta e facendo continui compromessi con l’avversario di classe (sia pure di centro-"sinistra”) è solo una truffa che la realtà smaschera ogni giorno di più: del resto, la storia del ‘900, a questo riguardo, è stata chiarissima. Chi sostiene che mediante l’azione in campo istituzionale è possibile “superare il capitalismo” o anche solo limitarne gli effetti più devastanti mente sapendo di mentire.
C’è solo una strada che conduce alla liberazione dalla schiavitù del lavoro salariato, al superamento delle ingiustizie sociali ed economiche, alla tutela delle condizioni di vita, di lavoro, ambientali: la rivoluzione comunista.
Questa non è “utopia” come vorrebbero far credere le classi che detengono il potere e i vari partiti che ne curano gli interessi (per i quali è utopica ogni prospettiva che preveda di sottrarre loro il potere politico ed economico); il comunismo è la vera concretezza e sempre di più sarà chiaro, mano a mano che le contraddizioni sociali si acuiranno, che le “soluzioni” capitalistiche sono buone solo per i capitalisti e che la stragrande parte della popolazione mondiale è condannata, da queste soluzioni, alla fame, alle carestie, alle malattie, alla guerra, alla morte.
Utopia è pensare di “migliorare le cose” per i lavoratori facendo accordi di ogni genere con i nemici dei lavoratori. Utopia è sostenere che “ben operando” nelle istituzioni il proletariato può rompere il sistema dello sfruttamento e dell’ingiustizia.
Ciò non toglie che le masse popolari (e i comunisti) siano in ogni caso costretti ad avere un rapporto con le elezioni e le istituzioni della borghesia. Il problema sta nel definire la natura di questo rapporto.
I comunisti possono intervenire sul piano elettorale/istituzionale solo nell'ottica di favorire la crescita e il radicamento tra i proletari di una coscienza di classe rivoluzionaria, non certo illudendosi e illudendo di poter ottenere chissà quali risultati “concreti”. Ogni partecipazione alle elezioni e alle istituzioni della borghesia non deve mai nascondere che il vero obiettivo dei comunisti è quello dell'abbattimento dello stato borghese.
Quando i comunisti entrano in una istituzione borghese, locale o nazionale che sia, devono ricordare sempre che vanno in “territorio nemico”. E devono comportarsi di conseguenza.
Mentre questa tornata elettorale si avvicina, compito dei comunisti è avviare un dibattito partendo dall'analisi delle forze in campo, degli interessi che tali forze rappresentano, delle prospettive che vi sono di fronte e provare, nei limiti del possibile, a tracciare una tattica in vista di questa scadenza.
Centro-destra e centro-"sinistra"
Dopo quasi cinque anni di governo a guida centro-“sinistra” il centro-destra si appresta a riconquistare il governo del paese. Questo ormai lo ammettono tutti e neanche tanto tra le righe.
Solo Rutelli, che evidentemente non ha ancora capito perché è stato scelto come candidato premier, continua a straparlare di improbabili “rimonte” e di ancor più improbabili “vittorie”.
Fausto Bertinotti, più realisticamente, in una intervista alla Rivista del Manifesto, dice: “L'esito politico a breve può prendere le forme di un vero e proprio disastro. Solo il nucleo di comando del centro-sinistra sembra non rendersene conto. Peggio. Manifesta in pubblico propositi di vittoria salvo, in privato, prevedere il contrario” (dicembre 2000).
Questo passaggio chiarisce più realisticamente lo stato d’animo nel “quartier generale” del centro-"sinistra” dove sembra aleggiare la convinzione che le elezioni politiche del 2001 siano ormai perse, che sia meglio lavorare per “limitare i danni” e per tentare di rovesciare la situazione nelle prossime scadenze.
Del resto, non è superfluo ricordare che già il 21 aprile 1996 (il giorno della vittoria di Prodi) la destra aveva la maggioranza nel paese e che solo il “ribaltone” della Lega (con la sua presentazione elettorale autonoma) impedì a Berlusconi e soci di conservare le “leve del comando” conquistate con la vittoria del 1994.
Quel ribaltone fu suggerito e orchestrato dal grande capitale italiano il quale ritenne (anche sulla base dell’inequivocabile segnale offerto dalle grandi manifestazioni dell’autunno 1994) che per poter sviluppare il suo programma di controriforme anti-popolari (come quella del sistema pensionistico) era necessario un accordo con il sindacato confederale e con il maggiore partito della “sinistra”; solo essi, infatti, erano in grado di garantire, grazie alla loro capacità di controllo sociale sulla classe operaia e su ampi strati popolari, una solida pace sociale anche in presenza di contro-riforme durissime. Cosa, peraltro, puntualmente avvenuta con il governo Dini e, soprattutto, con quello Prodi.
La proposta del governo Berlusconi di inserire nella finanziaria per il 1995 la contro-riforma delle pensioni (sottoponendola dunque all’approvazione della maggioranza parlamentare e non alla pratica della concertazione governo-padroni-sindacato) fece riversare nelle piazze di tutta Italia centinaia e centinaia di migliaia di lavoratori. La manifestazione di Roma del novembre 1994, con oltre un milione di persone, organizzata da Cgil-Cisl-Uil sulla base della proposta di stralcio dalla finanziaria della riforma pensionistica, dimostrò alla Confindustria che, malgrado le dure contestazioni seguite alla firma degli accordi del 31 luglio 1992 e del 23 luglio 1993, Cgil-Cisl-Uil e centro-"sinistra” avevano ancora la direzione politica e sindacale di gran parte del movimento operaio italiano e che senza il loro consenso nessuna “riforma” sarebbe stata possibile o, quantomeno, avrebbe comportato un prezzo molto alto da pagare in termini di conflitto sociale.
Il sindacato confederale tornava così dalle durissime contestazioni di pochi anni prima (i “bulloni” a Trentin dopo la cancellazione della scala mobile del luglio 1992 e lo sviluppo del “movimento dei consigli di fabbrica” nel 1993) a soggetto ancora legittimato a sedersi, per conto dei lavoratori, al tavolo delle trattative con il padronato. Berlusconi, il 1° dicembre 1994, firmò l’accordo con la “triplice” per lo stralcio dalla finanziaria della contro-riforma pensionistica, ingoiò lo “strappo” della Lega e la nascita del nuovo governo Dini sostenuto da Bossi, D’Alema e Buttiglione.
La controriforma pensionistica fu rimandata al governo Dini che la presentò qualche mese dopo attraverso il suo ministro del lavoro, Tiziano Treu; Rifondazione Comunista, la sinistra extra-parlamentare e i sindacati extra-confederali tentarono di rilanciare la lotta e quando la proposta del governo e di Cgil-Cisl-Uil fu sottoposta a referendum essa venne bocciata tra i lavoratori attivi: con una decisione illegale il sindacato decise di far votare anche i pensionati (che ovviamente la controriforma non riguardava minimamente). L’esito - grazie anche a veri e propri brogli nelle Camere del Lavoro - fu ribaltato, seppur di misura, e la legge entrò in vigore.
La contro-riforma delle pensioni è dunque il primo“atto di governo”, illegale e anti-operaio, della sinistra-sindacato di regime.
Da quel momento in poi la successione di misure anti-popolari portate avanti dal centro-“sinistra” sarà impressionante.
In molta parte della base elettorale della “sinistra” la scelta di “turarsi il naso” e di rinnovare la propria fiducia a questi partiti e sindacati fu certamente dovuta alla convinzione della necessità di ingoiare tutti i rospi necessari per “battere le destre” e per riuscire, finalmente, ad accedere alle leve del potere. Dopo decenni di opposizione le cose sarebbero “cambiate”.
Del resto, proprio la dimostrata disponibilità a scendere in piazza - seppure sotto la direzione della sinistra-sindacato di regime - fu (e resta) un chiaro segnale da parte della classe operaia che la voglia di battersi contro i capitalisti (impersonati “magistralmente” da Berlusconi) era ancora alta .
La vittoria di Prodi, il 21 aprile 1996, presentatosi alleato a Rifondazione Comunista, alimentò ulteriori illusioni. Molti elettori della sinistra pensarono che era finalmente arrivato il “grande momento” e molti compagni del PRC ritennero possibile condizionare “da sinistra” l’attività di governo di una coalizione piena di ex-democristiani ed ex-socialisti, diretta da partiti che in realtà non avevano nulla a che fare con una impostazione politica anche solo timidamente “di sinistra”.
Del resto, il viatico che un settore importante del grande capitale italiano (da Agnelli a Benetton, da De Benedetti a Mediobanca) aveva dato alla vittoria dell’Ulivo non poteva non destare qualche “dubbio” sulla propensione di “sinistra” di questa coalizione. Ma il PRC “tenne duro” nel suo sostegno a Prodi.
Malgrado la sconfitta elettorale (e per certi aspetti proprio in virtù di essa) il centro-destra ha continuato a rafforzarsi ed oggi i rapporti di forza si sono ulteriormente sviluppati a suo vantaggio, specie dopo il recupero di Bossi.
La crescita del centro-destra è, ancor più che elettorale, culturale, politica, sociale.
Del resto, ultra-liberismo, razzismo, militarismo, “ideologia dell’impresa”… si sono affermati con forza irresistibile proprio grazie al centro-"sinistra”.
Mentre la crisi economica mondiale acuiva oggettivamente le contraddizioni sociali la risposta della “sinistra” è stata quella della rincorsa alle proposte della destra, il tutto in ossequio agli interessi del potere economico-finanziario e clericale.
Introdurre l’esercito professionale era una proposta di Almirante, prendere le impronte digitali agli immigrati era una proposta di Borghezio e della Lega, finanziare con denaro pubblico la scuola privata è una richiesta storica del Vaticano…
Ciò che la DC non ha potuto fare in 50 anni, il centro-"sinistra” lo ha fatto in 5 anni.
Nei principali aspetti della propria attività politica il centro-“sinistra” ha portato avanti una politica ultra-liberista e “di destra”. E ovviamente la destra ne sta raccogliendo i frutti.
Non è solo il consenso elettorale di cui il centro-destra gode che deve preoccuparci, quanto piuttosto il suo consenso culturale e il suo insediamento sociale che si manifestano attraverso lo sviluppo di tendenze razziste e xenofobe anche in settori proletari, popolari, operai.
Stigmatizzare la crescita politica e culturale della destra non basta. Dobbiamo chiederci dove nasce questo consenso e come sia possibile rovesciarlo.
I presidi anti-fascisti, la presenza sul territorio contro le iniziative dell’estrema destra sono solo aspetti del nostro lavoro.
Certamente le condizioni oggettive poste dalla crisi economica mondiale dell’imperialismo (che permane malgrado le chiacchiere sulla cosiddetta “new economy”) rendono necessarie misure di carattere restrittivo che colpendo le masse popolari ed anche settori delle classi medie consentono la difesa dei profitti capitalistici, ma determinano anche un crescente malcontento.
D’altro canto, le risposte politiche offerte in questi cinque anni dai governi di centro-"sinistra” non solo non placano, ma alimentano ulteriormente questo malcontento. In questi ultimi anni decine e decine di categorie sono scese in lotta (dagli allevatori ai produttori di riso, dai benzinai ai camionisti. Persino medici, avvocati e poliziotti si sono messi a scioperare da un pezzo a questa parte). Anche se queste lotte non possono essere considerate il segnale di un rilancio della lotta di classe esse rappresentano in ogni caso la manifestazione dell’acuirsi di pesanti contraddizioni all’interno del blocco storico che ha sostenuto per decenni la classe dominante (il grande capitale industriale e finanziario). In queste contraddizioni il centro-“sinistra” ha scelto di schierarsi con il grande capitale contro la piccola e media borghesia che infatti costituisce oggi la principale base sociale del centro-destra. Tra la grande impresa e l’artigiano il centro-“sinistra” ha scelto la grande impresa, tra la grande distribuzione e il piccolo negozio ha scelto la grande distribuzione. E non poteva fare altrimenti perché le ferree leggi dell’economia capitalistica si posso in larga parte riassumere nel detto “il pesce grande mangia il pesce piccolo”.
Ma il centro-“sinistra” ha scelto l’impresa (e in particolare la grande impresa ) anche contro il lavoro salariato, attuando una serie impressionante di misure di flessibilizzazione e precarizzazione, continuando inesorabilmente a smantellare ogni conquista popolare, dall’equo canone alla scuola pubblica, dal diritto di sciopero alla sanità.
Dal 1996 in poi, la “sinistra” ha subito una pesante emorragia di voti.
Se prendiamo come dato di riferimento le elezioni regionali del 2000 e lo confrontiamo con il suo dato omogeneo, le regionali del 1995, vediamo che il centro-"sinistra” (compresi PRC e PdCI) ha perso circa 2,4 milioni di voti. Lo stesso PRC perde quasi un milione di voti (passando da 2.212.000 voti del 1995 a 1.293.000 voti del 2000). Anche il centro-destra perde, ma perde meno (poco più di un milione di voti).
In una situazione di crescente malcontento il non voto assume in larga parte i caratteri di un rifiuto del sistema nel suo complesso.
Ma vi sono anche preoccupanti dati di un tendenziale avvicinamento di settori operai ai partiti di destra. Da una indagine commissionata dalla CGIL della Lombardia all'Abacus sul voto degli operai nella regione il 21 aprile del 1996 apprendiamo che il 33% votò per la Lega Nord, il 18.4% per Forza Italia, il 14.5% per il PDS, il 10.4% per il PRC. E stiamo parlando del 1996. Malgrado i vari sondaggi vadano sempre presi con il “beneficio del dubbio” è verosimile ritenere che la situazione non solo non sia migliorata, ma che anzi si sia ulteriormente aggravata.
Il centro-“sinistra” ha svolto un “ottimo lavoro” a favore del grande capitale e in quasi cinque anni non ha prodotto la più piccola riforma progressiva a favore delle masse popolari. Ciò conferma l’assoluta infondatezza delle tesi che il PRC aveva avanzato per giustificare l’accordo di desistenza del 1996 e la partecipazione alla maggioranza parlamentare del governo Prodi.
Proprio tale governo si è contraddistinto per la sua opera anti-popolare attraverso finanziarie imponenti (120.000 miliardi in due anni), attraverso la legalizzazione del lavoro in affitto e precario sancito con il “Pacchetto Treu”, attraverso l'adesione alla moneta unica europea, organico tassello nella costruzione del polo imperialistico europeo.
Il processo di ristrutturazione capitalistica (flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, privatizzazioni, controriforme sociali, trasferimento di masse imponenti di risorse dal lavoro al capitale...) portato avanti da Prodi nei suoi due anni di governo non ha eguali nella storia recente dei paesi capitalistici e al suo confronto “tremano” persino le politiche tatcheriane e reaganiane degli anni ’80.
Sulla scia del governo Prodi hanno operato anche i governi successivi con ulteriori attacchi alla scuola pubblica e alla sanità, con privatizzazioni in grande stile di settori pubblici, con reiterati attacchi al diritto di sciopero (promossi addirittura dal “sindacalista” Cofferati) fino alla partecipazione dell'Italia alla vile aggressione imperialista al popolo jugoslavo, aggressione in cui l'Italia ha svolto un ruolo determinante (come riconosciuto dall’allora Segretario della Nato, Xavier Solana, oggi consigliere di Prodi e della Commissione Europea, tra le altre cose, per la ricostruzione nei Balcani !).
La decisione di concedere l’utilizzo delle basi Nato italiane (peraltro assunta senza alcuna consultazione parlamentare e in palese violazione dell’art.11 della stessa Costituzione Italiana) e la partecipazione all’aggressione militare contro un popolo colpevole solo di non volersi allineare ai disegni egemonici delle varie frazioni imperialiste, segnano uno spartiacque netto su cui non è ammessa alcuna ambiguità.
I partiti che direttamente o indirettamente hanno sostenuto questa operazione, dal centro-destra ai DS ai sedicenti “comunisti” di Cossutta ai Verdi “protettori dell’ambiente” (e distributori di tonnellate di uranio impoverito sul popolo e il territorio jugoslavo)... meritano solo il disprezzo più profondo e il trattamento che deve essere riservato a degli assassini quali essi sono. I proletari un giorno presenteranno il conto, e sarà “senza sconti”.
Rifondazione comunista
Rifondazione comunista merita una analisi a parte. Sulla questione centrale della guerra imperialista contro la Jugoslavia il PRC ha avuto una posizione sicuramente più ambigua rispetto al centro-“sinistra” poiché non apparteneva alla sua maggioranza parlamentare.
Ma anche se il PRC non faceva parte della maggioranza nazionale di centro-“sinistra” faceva tuttavia parte di migliaia di giunte e maggioranze locali nelle grandi città (Roma, Napoli, Torino per fare qualche esempio), in alcune regioni, in molte province e in moltissimi comuni assieme a chi aveva scatenato la guerra. Se il PRC avesse ritirato il suo appoggio ai partiti della guerra in tutte queste maggioranze si sarebbe innescato un meccanismo a catena e le crisi “locali” (ma si tratta di aree di decine di milioni di elettori) avrebbero inevitabilmente determinato una crisi nazionale i cui sbocchi potevano essere il ritiro dell’Italia dalla guerra e la fine dell’uso delle basi, oppure, in ogni caso, la nascita di un “governo di “unità nazionale” aperto a tutte le forze politiche di centro-“sinistra” e di centro-destra che avrebbe messo a nudo in modo ancor più inequivocabile la natura imperialista del centro-“sinistra”.
Il PRC ha continuato a sostenere amministrazioni locali nei cui consigli venivano votati ordini del giorno a favore della guerra imperialista semplicemente perché è un partito riformista e dunque non può non porsi nella prospettiva di costruire, in ogni caso, alleanze con il centro-“sinistra”. Rompere le alleanze con i partiti della guerra avrebbe infatti significato mettere per lungo tempo una pietra tombale su future alleanze e questo, il PRC, non poteva e non voleva farlo. La vita di migliaia di uomini e donne, vecchi e bambini, non era evidentemente l’aspetto principale nelle scelte politiche del PRC.
Del resto, per due anni il PRC ha sostenuto il governo Prodi, al quale non è riuscito peraltro a strappare nulla, ingoiando e, soprattutto, facendo ingoiare ai lavoratori, controriforme durissime, come il già citato “pacchetto Treu” che legalizza il nuovo caporalato e reintroduce di fatto le gabbie salariali.
Il PRC ha rotto con Prodi solo per tentare di ricucire il rapporto, sempre più compromesso, con le istanze della sua base.
Ma il PRC era, e in larga parte è ancora, attraversato da una contraddizione irrisolvibile, cioè quella di raccogliere il consenso di settori politicamente antagonisti alle politiche ultra-liberiste del centro-“sinistra” e nello stesso tempo avere nel proprio codice genetico l’alleanza con il centro-“sinistra” stesso.
Una dimostrazione di questa contraddizione del PRC è quella che la permanenza nella maggioranza del governo Prodi ha provocato una scissione alla sua sinistra e l’uscita da tale maggioranza ha provocato una scissione alla sua destra. Una seconda dimostrazione è quella che il PRC, mentre attacca Rutelli candidato alla presidenza del Consiglio, ha sostenuto per anni Rutelli sindaco di Roma (con tutto ciò che Rutelli ha fatto, dal vergognoso ossequio al Vaticano, alle mega-privatizzazioni - vedi Acea - fino al ritiro del patrocinio del World Gay Pride). Certo Rutelli non è uomo di sinistra: ma perché sostenerlo come sindaco e non come candidato premier ?
Ma anche a livello nazionale il PRC ha continuato a ricercare accordi con il centro-“sinistra”. Alle elezioni regionali il PRC si è presentato in alleanza con il centro-"sinistra” in 14 delle 15 regioni in cui si votava. L’unica regione in cui l’accordo è saltato è stata la Toscana dove il centro-“sinistra” era autosufficiente e non aveva bisogno della “ruota di scorta” del PRC. In molte delle amministrazioni locali che ha sostenuto il PRC ha avvallato misure chiaramente anti-popolari (come ad esempio il finanziamento alle scuole private o la privatizzazione dei servizi).
Per il PRC queste elezioni nascondono una grossa insidia: dopo le scissioni degli ultimi anni e la perdita di voti e di iscritti la possibilità - seppure improbabile - di non ottenere alcuna rappresentanza parlamentare è reale (in definitiva il PRC supera lo sbarramento solo di un 1 %).
E’ anche in questo senso che vanno letti i tentativi di arrivare ad un accordo elettorale con il centro-“sinistra” mascherato da “non belligeranza” in cambio di una riforma elettorale maggiormente proporzionale (Bertinotti ha più volte sostenuto che la proposta di forma di governo del PRC è quella del “cancellierato alla tedesca”, peraltro in diverse occasioni sostenuta anche da Lega e Forza Italia); pur di ottenere una tale legge il PRC avrebbe accettato anche uno sbarramento al 5% per l’accesso al Parlamento, come “garanzia di governabilità” (come se fossero i comunisti a doversi preoccupare della stabilità dei governi capitalistici !).
La legge elettorale, osteggiata dal centro-“destra” per ragioni puramente opportunistiche, non è fino ad oggi passata e certamente non passerà, malgrado le recenti dichiarazioni a suo favore da parte di Andreotti e D’Antoni; il PRC, pur non avendo ottenuto quello che aveva chiesto, ha comunque garantito unilateralmente alla Camera la “non belligeranza” dichiarando che intende presentare il simbolo nella quota proporzionale e che invece non presenterà candidati nella quota maggioritaria (peraltro obiettivamente incapaci di strappare alcun eletto e in grado solo di togliere qualche voto al centro-“sinistra”).
Al Senato (dove il sistema elettorale prevede solo collegi uninominali) il PRC presenterà invece proprie liste e causerà qualche problema al centro-“sinistra” (i DS sostengono che la mancata “non belligeranza” farà perdere alla coalizione di centro-“sinistra” 40 seggi, il PRC sostiene che saranno solo 15).
Il segretario del PRC nella già citata intervista alla Rivista del Manifesto fornisce due interpretazioni possibili della “non belligeranza”: la prima è una interpretazione “difensiva”, “Evitare di essere accusabili, seppure strumentalmente, della vittoria delle destre”, la seconda riguarda l'efficacia ai fini del risultato elettorale,“Per poter essere efficaci su questo terreno ci sarebbe bisogno di una non belligeranza attiva, ci sarebbe bisogno, cioè, di determinare una propensione attiva al voto dell'elettorato di sinistra anche nei collegi uninominali della Camera, insomma un voto contro le destre, individuato come avversario principale. Ma per questo ci vorrebbe un mutamento di rotta da parte del centro-sinistra...”
Più chiaro di così. Noi siamo disposti a darvi tutto, addirittura a non presentare candidati nella quota maggioritaria della Camera anche in cambio di nulla, ma scordatevi comunque l’appoggio attivo nei collegi (in sostanza il voto per il candidato del centro-“sinistra”) se non ci date in cambio quello che abbiamo chiesto (la riforma elettorale).
A nostro avviso, la “non belligeranza” unilaterale del PRC va letta in chiave futura, data per scontata la vittoria delle destre. Il PRC cerca di non legare i propri destini a quelli infausti del centro-“sinistra” e, per certi aspetti, ha persino interesse ad una sonora sconfitta del centro-“sinistra”; in questo modo potrebbe mostrare con più forza che l’alleanza dei DS con il centro (del centro-“sinistra”) piuttosto che con il PRC è perdente e potrebbe tentare di aprire un varco alla ricostruzione di una ipotesi strategica organica tra il PRC e la parte “sinistra” del centro-“sinistra” (DS, Verdi, PdCI, SDI) che aggregherebbe il centro del centro-“sinistra” (la Margherita) solo in modo subalterno (e non in modo strategico come nell’Ulivo). Questa strategia trova conferma anche nella stessa rottura dell’alleanza con Prodi. Dopo averne appoggiato tutte le misure, il PRC ha improvvisamente disarcionato Prodi, facendo un bel favore a D’Alema e mettendo in seria difficoltà una coalizione che fino alla sua caduta sembrava destinata a durare per anni.
Con la “non belligeranza” unilaterale il PRC cerca contestualmente di mostrare al “popolo della sinistra” la propria disponibilità alla lotta contro le destre (che era lo slogan principale - se non unico - di Bertinotti di tutte le passate campagne elettorali e che evidentemente lui stesso oggi non ritiene più tanto “forte”); vuole mostrare che è il centro-“sinistra” che non fa niente per raccogliere questa disponibilità negando la tanto agognata riforma elettorale (la cui approvazione in questa fase avrebbe tuttavia offerto alle destre un formidabile strumento di propaganda).
Per inciso: se l’interesse delle masse coincide con il “battere le destre” allora un partito onesto deve puntare a tale obbiettivo indipendentemente dagli interessi attinenti alla propria rappresentanza parlamentare; se invece gli interessi delle masse sono altri (noi diciamo la ricostruzione del partito comunista e il recupero di autonomia politica da parte della classe operaia e del proletariato dalle direzioni borghesi di centro-destra e di centro-“sinistra”) allora in nessun caso dovrebbe essere posto come possibile alcun accordo elettorale.
A vittoria delle destre avvenuta il PRC presenterà il conto e cercherà di fare pagare il prezzo più alto possibile al centro-“sinistra” nell'obiettivo strategico di staccare i DS dall'alleanza con il centro. Ma allo stesso modo dovrà aspettarsi un intenso “fuoco di fila” da parte delle forze del centro-“sinistra” (di fatto già iniziato) che tenderà a smembrarla, cioè a rimuovere la sua anomalia.
Quale delle due tendenze avrà più forza (la rottura del rapporto strategico dei DS con i centristi dell’Ulivo e la ricostruzione di una asse “a sinistra” con il PRC oppure il rafforzamento della prospettiva del partito democratico con l’isolamento - e possibilmente la disarticolazione - del PRC) dipenderà anche dal risultato elettorale. Ed anche per questa ragione la posta in gioco è alta.
Nel PRC esiste una minoranza interna che sulla linea del partito ha lanciato una campagna di opposizione con lo slogan “belligeranza alla non belligeranza”. Si tratta della minoranza congressuale (Progetto comunista) diretta da Marco Ferrando.
Se non ci soffermiamo agli slogan e scendiamo nel concreto della proposta “alternativa” di Ferrando (prendendo ad esempio i documenti presentati alle ultime Direzioni Nazionali del partito) scopriamo paradossalmente una profonda convergenza con la linea della maggioranza riguardo alla tattica elettorale.
Ferrando propone in sostanza una “non belligeranza” (definita “desistenza unilaterale”) più selettiva ed ancora più cervellotica di quella di Bertinotti che prevede l’appoggio agli esponenti di una non meglio precisata “sinistra critica” (!?) del centro-“sinistra” nei collegi uninominali: “La scelta eccezionale di desistenza unilaterale può essere praticata solo verso gli esponenti di quella sinistra critica che sfidiamo alla rottura col Centro (a fronte di esponenti non governativi e nei soli collegi in cui la presenza dei comunisti è determinante per il risultato)”.
La formulazione “esponenti non governativi” è ambigua. Si tratta di esponenti che non appoggiano il governo di centro-“sinistra” o di esponenti che non fanno “istituzionalmente parte” di tale governo ? La risposta la da’ proprio Ferrando nell’ordine del giorno presentato al Comitato Politico Nazionale del partito del 3-4 febbraio. Si tratta di esponenti della “sinistra critica […] privi di incarichi di governo” e non appartenenti alla “maggioranza della burocrazia DS”.
Sarebbe interessante capire cosa Ferrando intenda con “sinistra critica”. Si tratta forse dell’area “sindacale” dei DS facente capo a Cofferati, già promotore di un ulteriore attacco al diritto di sciopero ? Oppure si tratta di Gloria Buffo e Tortorella ? O di chi altri ancora ?
E della “sinistra critica” fanno parte anche i Verdi e il PdCI ?
La categoria di “sinistra critica” (coniata peraltro non da Ferrando, ma proprio da Bertinotti) serve solo a creare ulteriore confusione perché lascia intendere che esista una “sinistra” DS con cui è possibile allearsi; questa categoria “fa il paio” con le categorie di “sinistra moderata” e “sinistra alternativa” (anch’esse coniate da Bertinotti per riferirsi ai DS e al PRC) le quali sono servite al segretario del PRC solo per mostrare che esiste una “grande famiglia della sinistra” di cui fanno parte a pieno titolo un po’ tutti.
Noi riteniamo, invece, che se questa è la “grande famiglia della sinistra”, i proletari e la classe operaia devono tenersene il più possibile alla larga, come peraltro da anni avviene ormai sempre di più.
Quello che colpisce della linea di Ferrando è la sostanziale mancanza di un progetto alternativo a quello del gruppo dirigente del PRC con la conseguente subordinazione alla tattica del partito. La tattica della minoranza nasce, si sviluppa e si modifica esclusivamente in relazione alla tattica complessiva del partito. Non ha una propria autonomia. E questa non è che la logica conseguenza della sostanziale mancanza di strategia politica della minoranza del PRC.
L'area extra-parlamentare
All'interno dell'area che definiamo solo per comodità, ma schematicamente “extra-parlamentare” (all’associazionismo di base, ai centri sociali, fino alle forze soggettive comuniste) esistono diverse tattiche relative alla prossima scadenza elettorale. Le varie posizioni meriterebbero una analisi più ampia di quella che possiamo sviluppare in questa sede. Possiamo comunque provare a tracciare alcuni elementi di riflessione.
E’ noto che anche nell’area extra-parlamentare esistono soggetti affetti da un inguaribile elettoralismo i quali ritengono che il consenso reale nel paese possa essere misurato solo attraverso la rappresentanza istituzionale e sono convinti che una tale rappresentanza sia il solo strumento per la costruzione di un blocco sociale di riferimento e per la conquista di risorse e spazi di visibilità. Questi soggetti non ancora fatto i conti con la trasformazione istituzionale avvenuta negli ultimi anni; il passaggio dal proporzionale al maggioritario, lo svuotamento degli organismi rappresentativi con l’enorme trasferimento di responsabilità verso gli organismi esecutivi, gli sbarramenti… hanno profondamente modificato la situazione precedente. E non a caso, perché il grande capitale ha preteso queste trasformazioni proprio per impedire qualsiasi rappresentanza delle lotte o delle istanze di base all’interno delle istituzioni.
La mancata corrispondenza tra consenso elettorale e rappresentanza istituzionale (che è un tratto caratteristico delle principali “democrazie” occidentali) impone a molte realtà di considerare il momento elettorale/istituzionale solo in termini di visibilità nell’immediato e di rassegnarsi a non avere più per lungo tempo alcuna presenza parlamentare.
Ma se si pensa che l’accesso alla cosiddetta “par condicio”, cioè alla ripartizione degli spazi di propaganda elettorale, è subordinata alla presentazione di liste in almeno 120 collegi sul territorio nazionale (con la contestuale raccolta di migliaia di firme nelle circoscrizioni di cui i collegi fanno parte) è facile comprendere che oggi ben pochi sono in grado di cogliere anche solo questo risultato di visibilità.
Quanto poi a conquistare anche un solo seggio la cosa è impossibile nelle quote maggioritarie di Camera e Senato e subordinata al superamento della soglia del 4% (ben più di 1 milione di voti) nella quota proporzionale. Numeri irraggiungibili per chiunque e sui quali anche partiti come il PRC devono lavorare con grande dispendio di energie e di denaro.
Ma se la presentazione elettorale è sostanzialmente inopportuna per molte ragioni tecniche, essa risulta ancor più inopportuna sul piano politico.
Se distinguiamo tra le forze soggettive comuniste e le “aree di movimento” (come alcuni centri sociali, associazioni, collettivi…) possiamo distinguere anche approcci diversi.
Alcune settori storici dell’area dei centri sociali (Leoncavallo a Milano, Corto Circuito a Roma, centri sociali del nord-est...) intrattengono già da anni organici rapporti politici con diversi settori istituzionali. Un esponente del centro sociale Corto Circuito di Roma è stato candidato ed eletto nelle liste del PRC, esponenti dei centri sociali del nord-est sono stati candidati ed eletti nelle liste dei Verdi prima e del PRC poi.
Questi settori, assieme ad altre aree (Manifesto, ex-Pdup, Carta, Cantieri sociali, rete di Lilliput, Attac Italia…), sono da tempo impegnati nel tentativo di costruire un soggetto politico di riferimento (cercando di sfruttare l’“onda lunga” del cosiddetto “movimento di Seattle”).
La proposta formulata da Luigi Pintor sul Manifesto di procedere alla costruzione di un tale soggetto intorno al PRC (per certi aspetti una specie di Izquierda Unida all’italiana) ha suscitato un dibattito modesto, ma avuto quanto meno l’effetto di “rompere il ghiaccio” e di porre in termini chiari la questione. In sostanza, per Pintor, la crisi della “sinistra” (ed in particolare dei DS) deve mettere in moto un processo aggregativo di cui il PRC, data la sua maggiore solidità e strutturazione, dovrebbe essere il centro. Come in Spagna la formazione rosso-verde Izquierda Unida aveva (ed ha) nel PCE il suo principale “azionista”, così, anche in Italia si potrebbe e dovrebbe (secondo Pintor) costruire una nuova aggregazione che superi il PRC mantenendone la centralità.
Anche se non vi sono state molte reazioni ufficiali da parte PRC (eccezion fatta per la sostanziale apertura di Bertinotti che vede la possibilità di costruire un area abbastanza forte da stimolare l’avvicinamento della “sinistra” del centro-“sinistra”) la proposta di Pintor dovrebbe risultare gradita anche all’area ferrandiana la quale infatti propone il PRC come “polo autonomo di classe” attorno al quale aggregare un blocco sociale rosso-verde (da notare la grande attenzione che Ferrando ripone sul movimento “anti-globalizzazione di Seattle” definito “importantissimo” e di cui i soggetti prima citati sono in Italia i principali promotori). Se Ferrando è disposto a votare Gloria Buffo, Cofferati e Tortorela, non dovrebbe avere grandi problemi a votare Magri, Casarini o Rossanda...
Ma anche altri soggetti politici si stanno muovendo in vista delle prossime elezioni politiche.
Alcuni probabilmente proporranno “liste popolari” non molto caratterizzate politicamente (la parola comunismo è bandita) alla caccia del maggior numero di consensi possibili
Queste liste cercheranno di intercettare, sulla base di proposte politiche minimaliste, settori popolari che non nutrono fiducia verso i partiti istituzionali attuali (un esempio di tali liste è stata Azione Popolare presentata alle recenti regionali in Emilia-Romagna con il risultato dello 0,2%).
Altri potrebbero proporre liste di supporto ad esperienze sindacali (come la lista “Cobas per l’autorganizzazione” presentata alle ultime Europee e alle ultime Regionali da Mara Malavenda e Vittorio Granillo dello Slai Cobas di Napoli, anch’essi con il risultato dello 0,2%).
Vi sono anche altre proposte di liste elettorali promosse da comunisti (come il “Fronte Popolare per la ricostruzione del partito comunista” o il “Movimento per la Confederazione dei Comunisti”) che meritano sicuramente maggior interesse (non fosse altro che per il fatto di proporsi come “liste comuniste”).
Ma ogni proposta sconta il limite della mancanza di un partito comunista che possa catalizzare i risultati parziali che ciascun soggetto ottiene o può ottenere dalla propria iniziativa.
In definitiva, malgrado la “buona volontà” di alcune forze soggettive comuniste, noi riteniamo che non esistano le condizioni pratiche per una presentazione elettorale comunista e che le molte energie che verranno spese nella raccolta delle firme e nella loro presentazione saranno in larga parte energie distolte da compiti più importanti ed urgenti.
A fronte di questa nostra contestazione ci viene risposto che in ogni caso, indipendentemente dal suo risultato finale, la campagna elettorale può essere un momento di sviluppo di relazioni e di radicamento nella classe.
A questo ragionamento potremmo opporre che la presentazione elettorale dovrebbe essere anzitutto l’espressione di un radicamento piuttosto che la sua sorgente. In altre occasioni abbiamo detto che la partecipazione alle elezioni può essere il momento in cui si raccoglie ciò che si è costruito in termini di consenso e di relazioni politiche all’interno di un territorio.
Inoltre vi sono sicuramente molti altri terreni su cui costruire relazioni con la classe operaia e il resto del proletariato. Ricondurre al solo momento elettorale la costruzione del blocco sociale anti-capitalista, come abbiamo detto in precedenza, è il sintomo dell’incomprensione che molti compagni hanno della situazione concreta.
Gli elementi della campagna elettorale
Fra i tanti elementi di questa campagna elettorale su almeno due vale la pena di dire qualcosa di più: un tema è fondamentalmente trasversale a quasi tutte le forze politiche ed è il tema dell'immigrazione (la destra dice la “sicurezza dei cittadini”); l'altro tema è peculiare al centro-“sinistra” ed è quello del “battere le destre”.
Gran parte di questa campagna elettorale si sta giocando sulla pelle dei lavoratori immigrati.
Anzi, ormai da molti anni, il tema dell’immigrazione costituisce la base politica della crescita in tutta Europa delle organizzazioni di destra. Ma anche il centro-“sinistra” su questo tema non ha mancato di mostrare il suo volto autenticamente anti-popolare.
Dopo aver rincorso la destra su ogni terreno possibile, dopo aver attaccato la Resistenza Antifascista ponendo sullo stesso piano le vittime anti-fasciste e i carnefici fascisti, dopo aver fatto a gara con la destra a chi era più anti-comunista e filo-clericale… proprio sulla questione dell’immigrazione la “sinistra” di regime ha dato il peggio di sé nel riprendere i temi politici della destra. Dopo avere “ritoccato” gradualmente in forma peggiorativa le normative vigenti è arrivata a proporre (attraverso il sottosegretario agli Interni Massimo Brutti) addirittura le impronte digitali per gli immigrati (riprendendo peraltro una proposta della Lega Nord). Il tutto con la complicità dell’associazionismo “catto-diessino” che non ha alzato alcuna voce di protesta. Per rispondere alle proposte della destra contro i clandestini (Bossi ha sostenuto che il reato di clandestinità è il reato più grave che ci possa essere !) Rutelli, per non essere da meno, ha proposto che gli immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno vengano rispediti immediatamente alla frontiera per via amministrativa (cioè in pochi giorni) senza indagare se si tratti di profughi o esuli politici (come è noto la ratifica dello status di profugo prevede spesso tempi lunghi di molte settimane). Più la destra alza il tiro e più la sinistra si adegua e la rincorre sul suo terreno. Senza parlare del trattamento riservato agli immigrati sbarcati sulle coste pugliesi o l’affondamento - durante il governo Prodi - di una nave carica di profughi albanesi o la creazione di veri e propri campi di concentramento che il regime ha chiama eufemisticamente “centri di accoglienza temporanea” (via Corelli a Milano o Ponte Galeria a Roma, solo per fare due esempi).
Il problema del centro-“sinistra” è quello che malgrado le sue ignobili azioni nei confronti degli immigrati, nell’immaginario collettivo è la destra (storicamente razzista, nazionalista e xenofoba) ad essere più legittimata sulla questione della repressione anti-immigrati.
All’attacco proveniente da destra il centro-“sinistra” risponde pseudo-democraticamente che “degli immigrati abbiamo bisogno in quanto accettano di fare lavori che gli italiani non vogliono più fare” (giustamente perché spesso pericolosi o mal retribuiti) lasciando intendere neanche tanto implicitamente che la legittimità dell’immigrazione verrebbe meno nella misura in cui anche gli italiani accettassero le condizioni di vita e di lavoro offerte agli immigrati oppure nella misura in cui gli immigrati “pretendessero” di avere lo stesso trattamento riservato agli italiani.
Abbiamo già detto che in questi anni la sinistra-sindacato di regime è stata autrice di un formidabile attacco diretto alle condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari nel nostro paese. Ma l’attacco al salario e ai diritti è stato portato anche indirettamente mediante l’impiego di forza-lavoro immigrata che viene usata per alimentare la concorrenza nel campo dei lavoratori.
I lavoratori immigrati (impiegati ad esempio nei latifondi meridionali o nelle piccole e medie fabbriche del nord-est) subiscono un ricatto molto maggiore di quello riservato ai lavoratori italiani, ricatto che comporta la maggiore disponibilità ad accettare condizioni lavorative e sociali quasi disumane. In questo modo i capitalisti hanno un duplice vantaggio: disporre di manodopera a basso costo e ricattata; usare questa manodopera per ricattare i lavoratori italiani e costringerli a rinunciare ai diritti acquisiti in anni di lotte. Anche la questione della clandestinità deve essere smascherata con forza. Quale migliore situazione ci può essere per un capitalista di quella di poter disporre di lavoratori sottoposti alle condizioni di massimo ricatto - economico e giuridico - garantite dalla clandestinità ?
Da un lato l'ideologia dominante alimenta l'equazione “clandestinità = criminalità” per sviluppare tra le masse popolari un sentimento ostile verso gli immigrati da utilizzare come base della mobilitazione razzista e reazionaria. Dall'altro il capitale fa entrare liberamente i clandestini per poterli sfruttare alle più vantaggiose condizioni economiche.
Ovviamente la questione dell’immigrazione è una questione complessa che attiene anche al ruolo imperialista dei paesi capitalisti industrialmente avanzati (come l’Italia) e che non può essere liquidata con poche righe. Sarebbe importante comprendere il motivo per cui anche in ampi settori proletari tende a svilupparsi una mentalità ostile nei confronti degli immigrati, cioè perché l’ “istinto di classe” tende a svilupparsi più facilmente verso gli immigrati sfruttati piuttosto che verso i capitalisti sfruttatori.
In ogni caso, dobbiamo rispondere al tentativo della borghesia di disorganizzare i lavoratori italiani per farli arretrare alle condizioni di quelli immigrati con la lotta per organizzare i lavoratori immigrati e farli avanzare alle condizioni di quelli italiani.
Un elemento centrale della campagna elettorale del centro-“sinistra” sarà ancora quello del “voto utile” per “battere le destre”. E’ un cavallo di battaglia storico del centro-“sinistra” e del PRC che tuttavia a nostro avviso tende a ad essere sempre meno incisivo.
Questo per alcune ragioni principali: primo, la scelta del PRC di presentarsi autonomamente indebolisce oggettivamente questa parola d’ordine che il PRC per primo non solo non potrà usare molto, ma di cui verrà poi chiamato a rispondere; secondo, dopo anni di governo del centro-“sinistra” tra le masse popolari il sentimento del battere il centro-destra si è molto affievolito; terzo, malgrado la destra sia effettivamente pericolosa viene percepita sempre meno come tale perché ormai da anni governa in numerosissimi comuni, province, regioni facendo più o meno le stesse cose del centro-“sinistra” e senza somministrare olio di ricino.
I comunisti hanno il dovere di percepire il pericolo fascista quando effettivamente esso si presenta e ciò può non corrispondere allo stereotipo che la storia ci ha consegnato.
Per le masse popolari è stata assai più devastante l’azione politica del centro-sinistra che non l’azione squadristica delle formazioni di estrema destra. Il punto è semmai quello che queste formazioni possono essere usate in futuro come forza d’urto contro eventuali insorgenze e rivolte popolari.
I comunisti non devono minimamente sottovalutare la crescita politica, organizzativa e di consenso dell’estrema destra in Italia e in Europa - peraltro assai più rilevante di quella dell’estrema sinistra -, ma non devono dimenticare neppure che il nemico principale è la borghesia imperialista e che il consenso della destra è principalmente dovuto al vuoto lasciato dai comunisti con l’assenza del loro partito.
Il partito comunista saprà sicuramente dialogare con risultati molto migliori con i proletari che si definiscono fascisti, che non con i borghesi e piccolo-borghesi che si dichiarano “di sinistra” (e talvolta addirittura “comunisti”).
Anche se la parola d’ordine del “battere le destre” è un po’ arrugginita ciò non significa che non abbia ancora un certo impatto in molti settori popolari (anche perché la destra ci ricorda continuamente - vedi la proposta di revisione dei testi scolastici avanzata da Storace nel Lazio e ripresa da Formigoni in Lombardia - che tipo di “cultura politica” abbia). D’altra parte questi quasi cinque anni hanno segnato profondamente il patrimonio storico del movimento operaio. Molte illusioni sono crollate e i lavoratori , dopo aver versato “lacrime e sangue” sotto i governi democristiani e socialisti hanno continuato a versare “lacrime e sangue” sotto quelli del nuovo centro-“sinistra”.
Era ovvio che i comunisti (e anche non pochi compagni del PRC) non nutrissero alcuna illusione nei confronti dei governi di centro-“sinistra”. Ma in ampi settori popolari queste illusioni c’erano eccome. Il PDS rappresentava, in definitiva, l’evoluzione del PCI e il PCI era in larga parte del “popolo della sinistra” il partito dei lavoratori, il partito della Resistenza, il partito delle lotte vincenti (anche se può stupire che così fosse malgrado tutte le abiure che il PCI aveva compiuto negli ultimi decenni).
Dopo cinque anni molte illusioni sono scomparse. E allora anche l’antifascismo, sventolato da chi è stato corresponsabile del massacro sociale dei lavoratori, rischia di essere definitivamente svuotato di ogni significato reale e progressivo. Di più, rischia di essere associato a soggetti politici ormai odiati e trascinato in quello stesso odio.
La perdita della memoria storica, specie nelle giovani generazioni che sempre di più si rifanno - formalmente e sostanzialmente - a valori e riferimenti di destra, è il portato di una cesura che partiti come il PCI hanno operato in forma embrionale, ma che partiti come i DS hanno spinto alle estreme conseguenze.
In questa orgia revisionista vittime e carnefici sono stati posti sullo stesso piano dai vari Violante o Veltroni, in ossequio alla “riconciliazione nazionale” voluta dal grande capitale; la necessaria conseguenza è stata l’ulteriore perdita del patrimonio storico della Resistenza Antifascista e della Lotta Partigiana. Il richiamo ormai sempre più vuoto e formale ai valori della Resistenza che il centro-“sinistra” opera per ragioni di puro opportunismo elettorale, ha una influenza sempre minore sugli orientamenti elettorali.
Più il centro-“sinistra”, chiamato a rispondere della sua azione politica di governo di questi ultimi anni, utilizzerà l’antifascismo per guadagnare voti e più la gran parte delle masse assocerà l’antifascismo a qualcosa di negativo, cioè alla politica di governi anti-popolari, guerrafondai, che in ossequio ai diktat delle banche non restituiscono il maltolto dei mutui usurai, che colpiscono le condizioni di vita e di lavoro delle masse...
Certo le destre sono un pericolo reale così come reale è il pericolo della mobilitazione reazionaria di cui esse sono espressione. Ma la storia ci insegna come la corresponsabilizzazione della “sinistra” nella gestione della crisi economica del capitalismo abbia storicamente spalancato le porte alla vittoria sociale e culturale, prima ancora che elettorale, della reazione. Il malcontento alimentato dalla crisi economica e politica mondiale dell’imperialismo e dalle misure che i governi attuano per fronteggiare questa crisi può prendere due strade: o la strada della rivoluzione o la strada della reazione. In periodi intermedi queste due direzioni esistono solo come potenzialità. Quando la crisi si aggrava esse si manifestano invece come possibilità. Nei prossimi anni queste possibilità saranno sempre più chiare e i comunisti devono, sin da adesso, attrezzarsi politicamente ed organizzativamente ad affrontare i compiti che si presenteranno di fronte ad essi. Già una volta, in Italia, la mobilitazione reazionaria (il fascismo nei primi anni ’20) ha potuto vincere grazie all’impreparazione dei comunisti. Non dobbiamo permettere che ciò possa accadere di nuovo.
Le destre non si battono con i cartelli elettorali. Non si battono con un strumentale, quanto vuoto, richiamo all’antifascismo: le destre si battono lottando fianco a fianco con i lavoratori, italiani o immigrati che siano, si battono lavorando per una prospettiva di radicale trasformazione sociale, si battono avendo la capacità di prefigurare un nuovo ordinamento sociale in cui il potere sia nelle mani dei lavoratori.
Proprio perché non sottovalutiamo il pericolo delle destre siamo favorevoli alla costruzione di un fronte ampio antifascista che si attrezzi con ogni mezzo necessario a fronteggiare l'avanzata delle destre. Ma senza il ruolo dirigente dei comunisti e del loro partito che ponga al centro della lotta la trasformazione della società in senso socialista, che ponga come obiettivo strategico la conquista del potere da parte dei lavoratori, che riattualizzi l'esperienza viva delle rotture rivoluzionarie del ’900 e degli insegnamenti dei grandi rivoluzionari, anche il più radicale fronte antifascista è destinato a soccombere.
Conclusioni
Fra pochi mesi il centro-“sinistra” raccoglierà quello che ha seminato. Non c'è nessun motivo per rallegrarsene giacché all’orizzonte non si profila la vittoria del proletariato, ma quella delle destre. C’è anzi motivo di grande preoccupazione soprattutto perché i comunisti hanno molta difficoltà a proporsi come reale alternativa di classe alla stabile alternanza delle varie espressioni della borghesia imperialista [1] alla guida del paese.
Oggi in Italia non esiste un partito che rappresenti realmente gli interessi di classe del proletariato. Anche una organizzazione riformista come il PRC sottomette tali interessi alle logiche della propria sopravvivenza parlamentare.
Di fronte ad una situazione generale di crisi del sistema capitalistico lo scontro tra le potenze imperialistiche si fa ogni giorno più marcato, ma i comunisti non sono ancora all’altezza della situazione.
Il “sismografo” della lotta di classe nel mondo (Turchia, Palestina, Colombia, Messico) è tutt'altro che fermo, ma noi dobbiamo fare la nostra parte innanzitutto nel nostro paese. Fintanto che i comunisti non ricostruiranno il loro partito, la vittoria della destra di Berlusconi e Fini sarà solo il primo gradino che dovremo scendere.
Centro-destra e centro-“sinistra” sono due facce diverse della stessa medaglia: entrambe sono espressione degli interessi della classe dominante.
Di fronte a questo scenario l’unica alternativa è lavorare con sempre maggiore forza a riunire le condizioni necessarie alla ricostruzione del partito comunista.
La prima condizione necessaria è quella della rottura completa con il riformismo e con l'entrismo, il superamento della fase gruppuscolare attraverso processi di aggregazione-fusione sia di carattere politico che organizzativo partendo dalle forze soggettive che concretamente esistono. La fase attuale è contrassegnata da una grave difficoltà del movimento comunista: bisogna impegnare tutte le proprie energie per superarla. Bisogna che le risorse materiali ed intellettuali che molte organizzazioni o forze soggettive hanno consolidato nel corso di questi anni vengano poste al servizio della lotta di classe.
La seconda condizione è la necessità di sostenere ogni lotta di difesa del proletariato lavorando per la maturazione politica dei settori di avanguardia di tali lotte, cioè per far sì che questi settori possano sostenere il processo di ricostruzione del partito comunista. Questo impedirà a tale di restare monco ed autoreferenziale. In questa direzione vanno anche gli sforzi per la costruzione di un sindacato di classe e di un blocco sociale anti-capitalista.
La terza condizione è quella della definizione di una analisi complessiva della fase e di un programma minimo, di fase e di classe.
Oggi nessuna organizzazione ha un livello di pratica e di comprensione della realtà tali da potersi assumere l'onere (e l'onore) della definizione integrale del programma. Per questo, diverse forze soggettive possono/devono partecipare alla sua elaborazione. Ma il programma non può essere un eclettico elenco della spesa; deve essere un'analisi accurata delle possibilità di sviluppo di terreni di lotta nell'ottica dell'accumulo delle forze rivoluzionarie e nello stesso tempo deve essere indicazione dei riferimenti di classe e degli strumenti di lotta.
Solo a queste condizioni sarà possibile rilanciare la lotta per una società superiore, la lotta per il comunismo. E indipendentemente dall’esito del prossimo voto politico, anzi indipendentemente dall’esito di qualsiasi voto, questa resta la lotta a cui i comunisti devono dedicare, sempre, le loro migliori energie.
Febbraio 2001
Pietrasanta, Viareggio, Massa
LABORATORIO MARXISTA
[1] Per borghesia imperialista intendiamo la frazione dominante della borghesia, per capirci, quella dei grandi industriali, finanzieri… Tra tutti i vari strati interni alla classe borghese la borghesia imperialista è lo strato che è in grado di determinare gli orientamenti politici ed economici fondamentali.