L'IMMAGINAZIONE DI GENOVA

Visualità [memoria] e rappresentazione del movimento globale


Enrica Capussotti, Beppe De Sario, Liliana Ellena, Ricke Merighi

“la vera alternativa riguardo ai traumi storici non è tra ricordarli o dimenticarli, dato che i traumi che non siamo disposti o capaci di ricordare ci perseguitano in modo ancor più ineluttabile. Dovremmo invece accettare il paradosso che – per dimenticare veramente un fatto – dovremmo prima essere abbastanza forti da ricordarlo correttamente. Per illustrare questo paradosso ci dovremmo ricordare che l’opposto di esistenza non è inesistenza, ma insistenza: quel che non lasciamo esistere continua a insistere, a lottare per emergere all’esistenza.”
Slavoy Zizek 2002b, p. 26


“occorrerebbe allora rovesciare l’interpretazione convenzionale dell’attacco al World Trade Center come segno di un’intrusione del Reale che sconvolge la nostra sfera illusoria: piuttosto è vero il contrario. Prima del crollo delle Torri noi potevamo ancora vivere dentro la nostra realtà, e assistere agli orrori che sconvolgono il Terzo Mondo come a qualcosa che di fatto non ci appartiene, qualcosa che esiste (per noi) solo nella forma di una spettrale e fugace apparizione sugli schermi televisivi. Con l’11 settembre, invece, proprio quella spettrale immagine televisiva ha fatto definitivamente breccia nella nostra realtà. Non è stata la realtà a penetrare il nostro mondo di immagini: è stata quell’immagine a irrompere e sconvolgere la nostra realtà, le coordinate simboliche che determinano ciò che esperiamo come reale.”
Slavoy Zizek 2003b, p. 133


COORDINATE

Questo scritto nasce dall’esperienza di attivismo e di ricerca politica e culturale di un gruppo di persone attive nel movimento globale contro il liberismo e la guerra. Molti di noi condividono, tra di loro e con altri, differenti posizionamenti nei gruppi e nella moltitudine di persone coinvolte nell’insorgenza transnazionale che data ormai da diversi anni, e che ha dato corpo ad un ciclo di mobilitazioni e soggettività nuove con pochi eguali nella storia recente.
L’obiettivo dell’articolo è discutere criticamente contenuti e strategie dei prodotti visuali sul movimento; ed articolare una riflessione su quale posto prende la visualità nelle pratiche di movimento - in quanto essa stessa pratica del movimento -.
L’uso concreto e la potenza simbolica dell’immagine hanno scosso la contestazione genovese contro il G8, durante gli ultimi giorni del luglio 2001. Il loro riverbero si è diffuso nei mesi successivi, e su spazi molto ampi. Attraverso le immagini si è costruita la campagna di controinformazione, sono apparsi i “fatti” raccontati dal movimento, si sono raccolte “prove” poi utilizzate nei procedimenti giudiziari contro le forze dell’ordine. Ma come hanno agito le immagini sulle emozioni della gente, sulle rappresentazioni del movimento e sulla memoria di quegli eventi? Le immagini, specialmente al tempo dell’uscita dei primi montati e della documentazione video inedita, hanno fornito alle persone l’occasione per tornare a incontrarsi e guardarsi, in piccoli o grandi gruppi, per rivedere i fatti di Genova – quindi per dargli senso, insieme a tutti i sensi implicati nella rappresentazione visuale, e per dar loro una realtà padroneggiabile emozionalmente -. Una parte significativa dell’evento-Genova è consistita nella sua rappresentazione e preparazione mediatica, sia quella indipendente sia quella mainstream. Sotto questo aspetto, non è possibile separare nettamente e concettualmente l’evento reale da quello mediato, ma non per una deriva “simulacrale”; al contrario, ciò è dovuto all’inserimento delle tecnologie di rappresentazione e comunicazione nella vita quotidiana e nella vita attivistica, dal momento che i meccanismi di significazione della gente, quelli di memoria, le tonalità emotive legate al senso e al ricordo sono sia frutto dell’esperienza vissuta sia di quella mediata. In questa prospettiva, il ruolo delle immagini si lega all’azione dell’immaginazione intesa come agency, pratica sociale vera e propria, all’altezza dei tempi della globalizzazione (Appadurai 2001).
Il racconto collettivo di Genova è stato costruito probabilmente anche dal basso, nelle narrazioni tra piccoli gruppi e nei social forum nelle settimane successive all’evento ; ma il racconto pubblico, da parte del movimento, si è dotato soprattutto della videodocumentazione e dei suoi strumenti. Questo, da una parte segnala l’apparire di una nuova “avanguardia di massa” (Calvesi 1978), per la quale l’uso della visualità è intrinseco alla cultura di movimento; questa è un’attitudine legata alla forma ipertestuale, combinatoria, emozionale con la quale vengono in luce la comunicazione e il racconto di sé di questo movimento. La “cultura visuale” (Mirzoeff 2002; Evans e Hall 1999) è quindi un’autentica componente del repertorio di pratiche del nuovo attivismo globale; è una “tattica” (De Certeau 2001, cit. in Mirzoeff 2002 p. 37-8) posta tra la vita quotidiana, la costruzione d’identità e il confronto con i poteri.
Se i video su Genova hanno avuto un ruolo così centrale nell’elaborazione di racconti, memoria, rappresentazioni, tutti elementi convogliati nella “cultura visuale” del movimento, quali sono le domande da porre a ciascuno di questi lavori? Noi abbiamo scelti alcuni video: italiani e internazionali, interni o benevolmente esterni al movimento, indipendenti o più istituzionali. Ciò che ci interessava era verificare la consapevolezza – o meno – circa il valore e il ruolo del racconto video entro la cultura visuale del movimento, oppure il suo appiattimento sugli eventi – per dimostrare una tesi politica, per svelare le responsabilità delle forze dell’ordine e così via -. Abbiamo considerato inoltre la posizione degli autori, le scelte di montaggio, il discorso filmico e le loro conseguenze – quasi sempre ignorate o non esplicitate –. La premessa di queste domande è che nessuna rappresentazione è neutra, né è esterna alla soggettività; ma ancor meno, data la centralità della cultura visuale, esse possono essere ininfluenti nel decidere la memoria individuale e collettiva, le immagini pubbliche e private del movimento, le emozioni che la gente associa ai propri ricordi e alle immagini che tornano – e continuano a insistere – nella mente.

CONFLITTI VISUALI

Molteplicità/trasversalità: “SuperVideo G8”

Il prodotto è realizzato da Candida TV, un collettivo di videomaker e artisti provenienti da esperienze di autoproduzione legate alla fucina creativa del CSOA Forte Prenestino, a Roma. “SuperVideo G8” è presentato come genere “reality-fiction”; la trama è costruita intorno alla missione di “SuperVideo”, self-made super hero, il cui compito è annunciare a tutti il pericolo che corre l’informazione libera, parlando al mondo dalla scena di Genova durante i giorni del G8. Il film è premesso da un’intervista a Ricardo Dominguez, attivista americano di “Critical Art Ensemble”. Questa introduzione esplicita i termini politici ed estetici nei quali agisce “SuperVideo G8”; si tratta di una vera e propria premessa al discorso del video, non tanto una feature aggiuntiva o una sorta di bonus track senza legame col resto del testo. In questa intervista, l’attivismo-azione mediatica è ritenuta un “simulazione attiva”, un’allusione ad “un altro livello di realtà” che interviene con azioni simboliche sul piano delle rappresentazioni; tutto ciò si concretizza in forme di “disobbedienza civile elettronica”, capaci di portare sui piani simbolici una disobbedienza all’altezza dei tempi, nonché adeguata alle capacità comunicative e alla padronanza tecnologica del movimento.
L’evocazione della fiction e la voce esterna di Dominguez introducono il pubblico in una comunicazione esplicitamente ambigua, allusivamente critica, distanziata tanto da una ricostruzione oggettiva della realtà quanto da una immersione emozionale in essa. Questa strategia straniante perdura nel corso del video vero e proprio, sia nelle performance messe in scena durante la storia – spesso fuori tempo e fuori luogo, rispetto alle aspettative di un racconto ordinato - sia nel rivolgersi direttamente al pubblico, agli attivisti, alle persone comuni per decostruire il messaggio dei potenti. Lo strumento critico e parodistico risiede principalmente nella forma della narrazione e nel “genere” adottato, nel senso televisivo e letterario del termine. Ciò prende corpo in una narrazione che irride il ruolo del narratore, il realismo del racconto, quello dei discorsi e dei generi utilizzati, nonché degli attrezzi della comunicazione – videocamere, cassette VHS, onde radio e televisive – trasformati in parodistiche armi per combattimenti simulati, sulla scia dei manga giapponesi, o collegati in strane protesi con il corpo dell’attivista, usando cliché della narrativa cyberpunk. In qualche misura, se la comunicazione televisiva toglie senso alla realtà dei fatti, la medesima forma rovesciata e assunta da “SuperVideo”, unita alla sua performatività – assente invece nel discorso televisivo -, agisce sul senso di realtà del vertice G8 e sulla sua cornice simbolica, de-autorizzandola e smontandola.
Il video non ha l’obiettivo di riprendere i “fatti” avvenuti a Genova durante le proteste. Questi hanno un posto preminente nelle immagini utilizzate, ma l’evento – e la tragedia – non sono mai sul punto di travolgere il discorso, la forme e il genere di racconto recitato da “SuperVideo”. La distanza dai media mainstream, ma anche dai progetti audiovisuali di altra generazione e forniti di approcci discorsivi realisti, è lampante nelle dichiarazioni d’una videoperatrice intervistata da SuperVideo, al lavoro nella crew dei “30 registi”, che sostiene “siamo qui per riprendere ciò che altri non riprenderanno”, quindi per colmare un vuoto, riempire concretamente una lacuna tangibile, a un tempo non riconoscendo l’atto di rappresentazione e posizione di soggettività operante nel lavoro videoattivistico e ignorando ciò che è già una pratica di massa del movimento stesso (non è già presuntuoso sostenere che vi potesse essere qualcosa di non ripreso, di lasciato fuori dell’occhio di una videocamera?). L’intento di “superVideo” è piuttosto parodiare la verità del potere (“SuperVideo” dubita, insieme a un poliziotto, dell’esistenza degli otto grandi dietro le barriere della città fortificata) ed insieme ad essa beffare anche le rappresentazioni del movimento e la “verità” delle sue identità (“SuperVideo” fluttua da un luogo all’altro, visualmente e cromaticamente: arancio in mezzo alla banda musicale dei neri, arancio in mezzo alla polizia-blu, arancio tra i “pink and silver” e tra i bianchi pacifisti).
Il montaggio è velocissimo e sincopato, non è possibile riconoscere o fermarsi su differenze nette tra i manifestanti – ad esempio nazionali, o legate alle tattiche d’azione -. Si allude in tal modo alla molteplicità, ai flussi e alle connessioni che mettono in relazione i soggetti nel movimento: gli stessi spostamenti di “SuperVideo” nei luoghi delle manifestazioni indicano l’attraversamento/trasversalità come principale caratteristica del movimento (non a caso, la gran parte delle immagini sono tratte dalle manifestazioni del venerdì, giorno dell’“assedio”, giornata di differenza e convergenza di diversi punti di vista e strategie d’azione). Le accelerazioni e le decelerazioni dei movimenti di SuperVideo, così come i salti continui di spazio e di tempo, accennano sul piano formale - sebbene ironicamente - al flusso comunicativo della TV contemporanea (“neotelevisione”); ma sono anche agili affermazioni discorsive del flusso di movimento, della disposizione visuale e comunicativa della protesta, nei luoghi e nei tempi dell’assedio di Genova.
Altri prodotti hanno scelto, al contrario, narrazioni realistiche; le quali si sono concentrate sulla ricostruzione complessiva di fatti tempi e luoghi, oppure sull’approfondimento di fatti tempi e luoghi specifici. In “SuperVideo”, in una certa misura – sempre ironica e paradossale, esplicitamente conflittuale e orientata a entrare in relazione performativa con la gente nelle strade di Genova – il medium e il discorso diventano il messaggio e il cuore della rappresentazione del movimento, emergenti nella forma stessa della comunicazione visuale. “La comunicazione è il movimento”, è stato detto e agito nel 1977; come allora, e superando quei tempi, appare una comunicazione che in quanto visuale si diffonde nella dimensione globale, non è logocentrica, accende fuochi affettivi, relazionali e forme di vita nuove. Sollecitata da queste forze, la forma del racconto tradizionale di un movimento sociale, come di un qualsiasi fatto sociale e politico, è decostruita completamente: la fiction evocata nello stile di racconto smantella il fortino simbolico del G8, è vera e propria reality politica, un atto d’azione culturale dotato di senso e allo stesso tempo d’una forma paradossale (finzionale e disfunzionale per il sistema). L’effetto fiction induce un effetto realtà, l’uno indissolubile dall’altro in un dispositivo critico e decostruttivo, operante nella rappresentazione di un evento simbolicamente carico di potenze in contrasto reciproco. Seguendo ancora una volta le suggestioni di Zizek, si può sostenere che la tattica visuale di SuperVideo irrompe nella vita delle persone spettatrici non come la “Realtà” che penetra il velo di finzione del racconto mediale, ma come la ri-messa in scena della forma di un evento “traumatico ed eccessivo”, e tanto mediatizzato proprio in quanto ingovernabile sotto il profilo simbolico. “Questo <effetto del Reale> non è la stessa cosa di quel che Roland Barthes, negli anni Sessanta, aveva chiamato l’effet du réel, ma è piuttosto l’opposto, l’effet de l’irréel. In contrasto cioè con l’effet du réel barthiano, in cui il testo ci fa accettare come <reale> il suo prodotto finzionale, qui è proprio il Reale che – per poter essere sopportato – deve essere concepito come uno spettacolo irreale simile a un incubo” (Zizek 2002, p. 23). E per poter sopportare la critica decostruttiva di un simile incubo, sono occorsi tutti gli effetti d’irrealtà di cui è stata capace l’attitudine comunicativa e tecnologica di SuperVideo, e che il movimento ben conosce e mette all’opera sapientemente.


Dualismo/esternità: “Un mondo diverso è possibile”

Il video nasce intorno a un obiettivo di politica culturale (fornire visibilità a un movimento emergente) e a una strategia di rappresentazione chiaramente affermata (mostrare “l’altro movimento”, cioè quello creativo, non-violento, ricco di differenze, propositivo e non solo critico, etc). L’impulso storico e professionale va direttamente al cinema militante e all’impegno civile e politico dei cineasti degli anni ’60-’70 (oltre alle affermazioni riportate sui quotidiani precedenti il G8, le stesse biografie degli autori stanno lì a mostrarlo).
Il montaggio è realista… nel senso che “parla una realtà”, è lineare, sostiene una tesi univoca e propone un’unità d’azione, sviluppa una narrazione coerente, la quale, proprio per essere tale risulta naturalmente parziale pur venendo presentata come un racconto completo a “autentico”. Nella presentazione di copertina – che pure è dovuta agli abili comunicatori de l’Espresso – il film viene presentato come “Sessanta minuti di grande reportage sul G8 di Genova. Un affresco autentico e sincero sulle manifestazioni, gli intenti e gli ideali dei suoi partecipanti. Una straordinaria raccolta di testimonianze e di immagini realizzate da un pool di registi d’eccezione”. Gli elementi discorsivi dell’“oggettività” ci sono tutti: il genere sarebbe il “reportage”, non un’interpretazione di parte ma un “affresco” per giunta “autentico e sincero”. In ultimo, gli autori vengono presentati come “un pool di registi d’eccezione”, chiudendo in tal modo ogni discussione circa l’oggettività e l’autorità del filmato.
Riguardo agli aspetti formali di “Un mondo diverso è possibile”, la cronologia è forzata ai fini del sostegno della tesi, l’alternanza tra blocchi cronologici e blocchi concettuali (tra cronaca e significato) non è trasparente. La narrazione del soggetto che agisce e parla è anch’essa realista: è il movimento a parlare (o starebbe parlando), è il movimento che subisce, reagisce, si muove collettivamente, si disperde e si ricompone coralmente nella sequenza finale, di fronte al palco della manifestazione di sabato 21 luglio. Anche la gran parte delle scene inserite sono corali, sia quelle di gioia che quelle della paura, sia l’azione che la repressione. La musica e la fotografia aggiungono dualismi: chiaro e scuro, world music e un Philip Glass piuttosto fosco. Le riprese utilizzate sono esterne e spesso dall’alto, in misura significativa voyeuristiche. L’effetto di questo tipo di riprese è analogo a quello mass mediatico e lo riproduce; ma ovviamente si pone in una prospettiva di contro-narrazione, con il fine di “dire la verità”, individuando un punto di vista che si suppone esterno rispetto alla dinamica delle manifestazioni. Tuttavia, il piano della rappresentazione è collegato al piano della pratica politica, ed al rapporto produzione intellettuale/movimento. Il gruppo del “Cinema Italiano a Genova” pare non aver tematizzato questo aspetto; si è collocato dentro gli eventi di Genova come un “corpo” separato, mostrando nostalgia per il ruolo degli intellettuali come identità riconosciuta e autorevole deputata alla produzione di sapere, versus le pratiche di disseminazione di pensiero critico intrecciato, diffuso dentro le realtà del movimento.
La struttura, più in dettaglio, evidenzia ancora queste strategie. Il film è tripartito, in una prima parte vengono mostrate le “belle immagini” e il “bel movimento”. Sebbene nella “bella parte” esso non mostri solo i giorni o le ore precedenti agli scontri, il video suggerisce la rappresentazione di un prima omogeneo, anche temporale, nonostante vi compaiano mescolate e non facilmente riconoscibili immagini di tutti i giorni della settimana dal 15 al 21 luglio. La seconda parte rappresenta la violenza dei cortei; si apre con il Black Bloc a cui segue la violenza della polizia. Questo tempo del film si colloca come un dopo omogeneo nel racconto, sebbene raccolga immagini da venerdì e sabato. La terza parte è l’unica effettivamente legata al tempo dei fatti, vi si rappresenta sabato 21 luglio. L’esordio del film mostra la discesa dei manifestanti alla stazione di Genova Brignole, presumibilmente è l’arrivo dei treni nella mattinata di giovedì 19 luglio; la visione è inevitabilmente caratterizzata sotto il profilo nazionale, mostrando quasi solo attivisti italiani. Fino a 36’ vi è un intreccio di immagini del Public Forum, brevi dichiarazioni di manifestanti e leader del movimento, “belle immagini” di azioni creative, di cortei, socialità tra manifestanti, canti, danze. Da sottolineare che le immagini sono tratte dall’intera settimana di azioni, compresi i giorni di venerdì e sabato; nessun riferimento consente di distinguere le “belle immagini” del prima da quelle riprese dopo gli scontri e le violenze. Intorno a 36’ è introdotto uno stacco nero, cambia la musica, compaiono coloro che vengono indicati come Black Bloc, si allude al passaggio tra un prima e un dopo, sebbene il montaggio precedente non seguisse affatto un piano temporale lineare. Alla banda dei tamburini vestiti di nero seguono circa 5’ di immagini di scontri e violenze; intorno a 42’ avviene un altro stacco, il racconto è pienamente cronologico: il passaggio è al sabato 21 luglio, la musica suggerisce un’atmosfera di tensione, silenzio, sospensione (eppure avverranno ancora scontri, tra i più violenti e diffusi, ma anche “belle azioni” e “belle immagini” già utilizzate nella prima parte del film).
Qual è il metadiscorso, ideologico e narrativo, che emerge da questo lavoro? Mediante il missaggio di immagini, il movimento creativo-propositivo e non-violento è mostrato come un “prima”, come la fonte e l’elemento autentico, come una parte intera e non contaminata. Mediante la stessa tecnica di missaggio, immagini di diversa origine, in cui appaiono soggetti, luoghi e tempi assai vari di quella parte di movimento che agisce con l’azione diretta, vengono rappresentati come un “dopo” rispetto al resto delle manifestazioni (ma come un “prima” delle violenze, e cioè come una loro causa indiscussa), e in qualche modo come un “esterno” al movimento. Tra “prima” e “dopo” non è fornita una connessione causale ben articolata, nemmeno sul piano discorsivo – se non mediante l’intervento improvviso delle “Tute nere”, favolisticamente dissolutrici dell’incanto -. Ad uno stacco così netto e improvviso soggiace la presunzione che per il pubblico siano chiare e ovvie le chiavi per comprendere il passaggio da bianco a nero, da pacifismo a conflitto di strada – oltreché ad accettare tale spiegazione dei fatti come la più plausibile -. Il prima e il dopo non vengono rappresentati in un’articolazione profonda e complessa; cioè sfuggono a domande quali, “In che misura la stessa forza del movimento, la sua potenza non-violenta, ha suscitato una reazione violenta da parte delle istituzioni nazionali e transnazionali?”, o ancora, “Come interpretava la gente i segnali di quei giorni, come si era preparata, quanta gioia e creatività era mischiata alla consapevolezza dello scontro?”. Ebbene, il tempo delle “belle immagini” rischia così di apparire un “tempo omogeneo e vuoto”, un tempo inconsapevole, non carico dell’attualità di quei giorni, della loro complessità e forza, consegnato alla causalità – e casualità - inesorabile dello stacco nero posto a 36’. Questa rappresentazione dualistica, condotta per sostenere la parte creativa-propositiva e non-violenta (considerata, in fondo, come il tutto autenticamente e legittimamente appartenente al movimento), in realtà pone un confine netto tra legittimità e illeggitimità dei soggetti, delle azioni e delle voci; al fondo non garantisce nessuno e permette che tutti potenzialmente possano essere colpiti. La linea netta e ferma tracciata tra gli uni e gli altri, diviene una linea netta ma mobile nelle strategie di repressione del dissenso. Un caso eclatante: nel film sono scomparse le azioni, i volti, i segni e le pratiche dei “disobbedienti”; le immagini che li riguardano o sono assenti, o marginalmente utilizzate nella parte “bianca” o in quella “nera”, dopo essere state sminuzzate e decontestualizzate. Secondo la stessa logica ma operando sul piano giudiziario, il movimento assente dal film, l’ombra a cavallo della linea netta tracciata tra “bianco” e “nero”, è stato oggetto delle inchieste e degli arresti di attivisti avvenuti nell’autunno 2002.
Tutte queste semplificazioni, o riduzioni del danno psicologico e politico mediante le immagini, hanno avuto conseguenze durature. “Un mondo diverso è possibile” introduce nella rappresentazione del movimento convenuto a Genova un elemento ambivalente: la “vittimizzazione”. Questa è radicale e sfaccettata: il movimento è vittima delle polizie – ovviamente -, ma anche della propria buona fede, della sua propria ingenuità – o presunta tale, per occhi politicizzati in altre stagioni e sotto altri quadri ideologici -, in sostanza è anche vittima di se stesso, come indica la presenza visuale determinante del Black Bloc. A chi è rivolto il messaggio della “vittimizzazione”? Come risorsa del breve termine, e cioè come sostegno d’emergenza, è certamente indirizzata a chi è dalla parte degli attivisti, ma non ha partecipato alle manifestazioni; il destinatario, politico e psicologico, di questo film è il cosiddetto “popolo della sinistra” – italiana, naturalmente -. Ma quali sono le reazioni delle persone alla “verità”? O meglio, cosa vogliamo sapere quando vogliamo la verità? Spesso, gli spettatori di atrocità e violenze ingovernabili psicologicamente corrono in ogni momento il rischio di “denegare” quanto avvenuto, sotto diversi aspetti. Una reazione naturale – ovvero, culturale e ideologica… - all’overload di informazioni ed emozioni può portare a chiudere le porte dell’interesse, della solidarietà, dell’empatia. Può condurre, in casi estremi, a ciò che è stato sostenuto a proposito della maggioranza dei Tedeschi, ai tempi dello sterminio degli ebrei europei: “ne sapevano abbastanza da sapere che era meglio non sapere di più” (Bankier, cit. in Cohen 2002, p. 207). Cosa porta questo alla nostra argomentazione? Beh, anzitutto, che il problema con il “pubblico” non è necessariamente, o principalmente, condurlo a conoscere ciò che “altrimenti non verrebbe spiegato, raccontato o mostrato da altri”, attraverso esortazioni che richiamano l’atteggiamento positivista e storicista nei confronti della “verità” dei fatti. E che, inoltre, il “diniego” è sempre in agguato, specie quando si maneggia materiale visuale, che agisce a diversi e diversamente profondi livelli di informazione ed affezione. Superficialmente, questo tema è stato formulato dagli autori di “Un mondo diverso…” secondo l’obiettivo di “rappresentare ciò che altri non avrebbero rappresentato”. Questo atteggiamento risponde al pericolo che Cohen chiama del “diniego letterale, di fatto”, e cioè quello in cui “il fatto o la conoscenza del fatto sono negati” (cit. p. 29). Il problema è più complesso, e già dagli stessi autori del film è posto sul piano non tanto dei fatti quanto della “rappresentazione”. Più che svelare fatti nascosti, bisogna dar loro una adeguata rappresentazione e visibilità. Anche in questo caso la strategia sembra andare, sebbene non esplicitamente, contro un’altra forma di diniego, quello “interpretativo”: “i fatti nudi e crudi (è successo qualcosa) non sono negati, ma, piuttosto, viene loro attribuito un significato diverso da quello che appare agli altri” (cit. p. 30).
Un lavoro visuale di questo genere è stato presentato come una risposta non solo alla verità del potere, ma anche ad atteggiamenti di rifiuto o rimozione che potrebbero sorgere tra la gente. Tuttavia, non vi si affronta una terza forma di “diniego”, che corre il rischio di essere addirittura sostenuta dall’impianto politico e discorsivo di “Un mondo diverso è possibile”. Quest’ultima figura della negazione è detta “diniego implicito”, si tratta di una situazione in cui “non c’è tentativo di negare sia i fatti sia la loro interpretazione convenzionale: sono negate o minimizzate le implicazioni psicologiche, politiche o morali che convenzionalmente ne conseguono” (cit. p. 30). Sotto questa definizione stanno diversi altri termini, come ad esempio, giustificazione, razionalizzazione, evasione, che nel caso di Genova, vanno a identificare le strategie delle polizie e dei governi, l’azione del Black Bloc e dei provocatori, l’eventualità della presenza di infiltrati, l’ambigua e/o ambivalente non-violenza di alcuni gruppi di attivisti, e così via… cosa resta di “implicito”, e che ne è del “diniego”, in una ricostruzione e motivazione tanto dettagliata dei fatti di Genova? Si racconta che l’evento è avvenuto, ne si dà una descrizione, si ammette che il movimento e i cittadini sono stati attaccati e che lo Stato di diritto è stato sospeso nei fatti… tutto è stato detto. Ma se proprio la supertematizzazione della violenza subita – con la conseguente costruzione di un avversario grande e altro da noi, a-normale e fuori dalla nostra portata -, ci impedisse di osservarci nei panni dei sovversivi, non quelli di oggi, non gli eredi di ieri, ma quelli “di sempre” ? Il fuoco delle immagini gettato sulla smisuratezza dell’evento, l’apparente rottura dei diritti operata dalle polizie e dai governi, ci svia e mostra però uno smisurato rimosso, quello dell’ “antagonismo primordiale” che, nel linguaggio di Slavoy Zizek, oppone dominanti e subalterni.


Sguardi globali e rifrazioni nazionali: “Genoa Red Zone”

“Genoa Red Zone” è il film realizzato dal collettivo mediattivistico di Indymedia. È stato concretamente portato a termine dagli attivisti inglesi e irlandesi, dopo la raccolta avvenuta intorno a Indymedia Italy di decine di ore di footage girato a Genova da operatori indipendenti e/o non professionisti. Il lavoro di montaggio è stato ultimato dai soli mediattivisti inglesi e irlandesi, e questo aspetto lo rende particolarmente interessante sul piano della lateralità dello sguardo rispetto alle vicende e ripercussioni nazionali (italiane) dei fatti di Genova. La struttura del film è quella del reportage, orientato agli avvenimenti, ai suoi precedenti e alle sue conseguenze immediate, nonché al suo inserimento nel complesso di eventi successivi l’11 settembre, in particolare in rapporto alle politiche di compressione del dissenso in Occidente. È una specie particolare di giornalismo in profondità, una sorta di reportage di soggettività che consente l’espressione e traccia le mappe delle diverse anime del movimento, invece di concentrarsi esclusivamente sul tema della repressione. Contrariamente a “Un mondo diverso è possibile”, il film anglo-sassone riesce agevolmente a collocarsi in un contesto globale e a riferirsi ad una audience ugualmente globale. Ciò avviene a partire da una genealogia più complessa dei movimenti antiliberisti proposta nei cartelli di avvio del documentario (si fa riferimento alle prime contestazioni tenute in Inghilterra e Germania tra ’98 e ’99, prima ancora della “battaglia di Seattle”) e grazie alla copertura completa dei diversi soggetti del movimento, specie quando si tratta della giornata di protesta di venerdì 20, per la quale si propongono brevi monografie di cronaca della durata di pochi minuti ciascuna. La parte dedicata al venerdì è aperta da un cartello nel quale si sostiene che le manifestazioni di quella giornata hanno visto la compresenza di differenti gruppi, agenti mediante diverse tattiche e forme di protesta, e sottolineando, senza enfasi, la mobilità delle persone tra un appuntamento e l’altro della giornata, nonostante le difficoltà di movimento all’interno della città. Questa semplice considerazione manca in tutti i documentari di fattura italiana: in quelli focalizzati su alcuni aspetti, caratterizzati da tesi forti, particolari registri di racconto, di discorso o rappresentazione. Se gli italiani si concentrano sulla repressione che ha strategicamente colpito ogni luogo e aggregazione del movimento, gli inglesi privilegiano l’articolazione delle differenze sia d’azione sia di reazione alla violenza poliziesca. L’autonomia – naturalmente… quanto effettiva? In che misura è stato possibile agli attivisti scegliere, di fronte alle polizie scatenate, la propria linea di azione e i propri linguaggi? – in contrasto con la pura reazione alla repressione, sia insorgendo sia alzando le mani e rifiutando il confronto violento, esprimono la polarità continua lungo la quale si sono mosse le rappresentazioni fornite dal video inglese e da altri video italiani. In termini più generali, il video di Indymedia UK può forse aver effettuato una semplificazione del messaggio e della forma, almeno secondo le aspettative di un “pubblico italiano” – di militanti, si intende -. D’altra parte, tale semplificazione è proceduta attraverso scelte stilistiche che hanno provato a rendere più complessa a articolata la convivenza di diverse “culture visuali” di movimento, e così rendere più godibile e comunicativo il video ad un pubblico più ampio. È da questo presupposto che pare discendere la mescolanza di stilemi provenienti da fonti e tradizioni narrative differenti: l’intervista-quasi-giornalistica, la parodia del linguaggio media mainstream, il montaggio lineare, ma anche diffusi effetti digitali, e così via.
Eppure, anche nel video più internazionale non mancano passaggi limitati e angusti, nei quali ritorna lo sguardo-Nazione. Il racconto di “Genoa Red Zone” mostra un ironico – ed esotico – interesse per la specificità del potere italiano, utilizzando molto materiale tratto dalla TV nazionale di quei giorni (mentre i brani di informazione montati in “SuperVideo G8”, ad esempio, sono quasi solo provenienti da TV internazionali o da RAIsat). Nella parte finale del film, invece, torna lo sguardo-globale; è dedicata a considerazioni di esponenti della società civile internazionale e a teorici del movimento (Amnesty International, World Watch Institute, Toni Negri).


L’ordine dei fatti e la prova: “Le strade di Genova”

Se “Un mondo diverso è possibile” rappresenta un prodotto ideologico datato e politicamente debole, “Le strade di Genova” agisce a differenti e diversamente profondi livelli di ideologia. Esso prova – attraverso la “ricostruzione dei fatti” e dell’esibizione delle “prove” – a dire la verità del potere (di Un Potere, “attore razionale” e capace di strategie coerenti). Dicendo tale verità – leggendo sulle immagini brani dalle audizioni dei responsabili dell’ordine pubblico, ascoltati dalla commissione “d’indagine conoscitiva” sui fatti del G8, in palese contraddizione con quanto mostrato in video – e svelando le bugie, palesi e sfacciate, sostenute anche di fronte al Parlamento, il film affonda i colpi con efficacia, ma allo stesso tempo riduce il campo politico del suo discorso. Si voleva provare che la repressione è stata ingiustificata… ma la repressione del dissenso è sempre giustificata, e cioè motivata da buone ragioni e senso di realismo; la repressione non è mai fuori misura, specie quando emergono dall’antagonismo sociale delle soggettività che non stanno più al gioco. Il “rimosso” che pare essere emerso a Genova è senz’altro l’antagonismo sociale; un rimosso non tanto del potere – che di fatti ha reagito portando lo scontro all’altezza della sfida – quanto del movimento stesso, e dei soggetti che si sono fatti carico di darne immagini e rappresentazioni. L’elemento assente dalla “normalità”, cioè il conflitto sociale, non può saltare agli occhi senza mediazioni traumatiche. Sotto questo aspetto, in quanto vettore di mediazione simbolica, la visualità ha giocato un ruolo determinante. La “prova” cercata e tentata da Ferrario ha puntato a di-mostrare che governo italiano, G8, polizie e media non erano stati al gioco – democratico, civile, dei diritti umani e così via -; quando invece occorrerebbe sostenere che è stato il movimento, a Genova, e da allora sempre più profondamente e coerentemente, a non voler più stare al gioco, a tirarsi fuori rompendo le regole , immaginando e praticando altre e diverse realtà, in uno spazio-senza-parte , posto tra le norme consentite e quelle ufficialmente non consentite.
L’ideologia, tra le tante definizioni possibili, può dirsi assai in generale la “matrice generativa che regola sia le relazioni tra visibile e non-visibile, tra immaginabile e non-immaginabile, sia i cambiamenti che si possono verificare tra queste relazioni.” (Zizek 2002a, p. 41). L’uso che qui viene fatto dei termini visibilità e immaginazione può darci una mano per familiarizzare con questa definizione, e facilitare la sua applicazione al campo visuale e al discorso visivo. Difatti, in gioco nelle immagini di Genova non c’è tanto la “visibilità” delle strategie del potere di mettere a tacere il dissenso, cancellando il diritto a “immaginare” un “altro mondo possibile”. Piuttosto, sono state in gioco – e sono andate in crisi – le relazioni e i cambiamenti possibili tra visibile e non, tra immaginabile e non. Anche nelle immagini, e cioè nella cultura visuale del movimento, sono apparsi gli indizi e le allusioni utopiche dell’antagonismo sociale, non ancora visualizzate nelle relazioni di potere, e per questo pericolose in sé e considerate un pericolo dai poteri.
Occorre tuttavia tornare a quei giorni, alle emozioni e ai bisogni affettivi di allora. Chi era stato a Genova, nei giorni successivi difficilmente riusciva a star solo, e a star da solo con le mani in mano. Ci si è cercati, gli uni gli altri, in privato e in pubblico, e la “storia” che ci raccontavamo, che già ricordavamo nel momento in cui ancora era nel suo farsi, quasi sul presente in cui stava accadendo, si rovesciava nel racconto personale che spesso ha inondato le riunioni pubbliche del movimento, nei giorni d’estate del 2001. Così tutti, nessuno escluso, siamo andati alla ricerca di tutto il materiale disponibile, dalle foto ai reportage giornalistici; e poi l’uscita dei primi video ci ha richiamati a raccogliere tutto il possibile, e a rivedere tutto quanto siamo stati in grado di sopportare. Li abbiamo visti anche noi i video – e ci siamo rivisti -, per tentare di provare la nostra innocenza, per cercare il dettaglio che ci avrebbe permesso di capire. Questa è una precisazione, non di maniera, alla riflessione critica dei filmati genovesi. Tra questi, il lavoro di Ferrario ha raggiunto di certo buoni risultati, ha contribuito a intrecciare un racconto comune e di base degli avvenimenti, specie per un evento quale quello genovese per cui non mancano di certo visioni e vissuti parziali e soggettivi. Inoltre, l’utilità di filmati del genere è stata essenziale per produrre coesione nel movimento, sostegno nell’opinione pubblica, nonché prove utili alle indagini in corso contro “singoli” appartenenti alle “Forze dell’ordine”. Non per questo è esente da criticità, non tanto sul merito dei fatti ricostruiti, quanto per la scelta del discorso e del “regime di verità” che instaura con esso. Nelle nostre argomentazioni, il lavoro di Ferrario ha lo scomodo e un po’ immeritato compito di offrire una sponda al discorso critico.
Il film punta a ricostruire un racconto che sia una prova in sé: prova dell’ordine dei fatti di Genova, delle responsabilità della polizia e delle altre forze di repressione, prova delle strategie poste alle spalle dei singoli atti di repressione. Tuttavia, la natura attribuita alla prova filmata sembra da una parte ancora legata a una definizione realista e moderna delle fonti, ormai abbandonata dalla comunicazione visuale (almeno a partire dall’apparire della fotografia; Mirzoeff 2002), la quale si lega all’uso dell’immagine come prova giudiziaria. Il salto risulta breve tra la funzione rappresentativa dell’immagine (alle immagini si chiede di spiegare una strategia, e i significati reperibili nelle strade e nei fatti di Genova) e la funzione giudiziaria (immagini o sequenze che provano strategie o responsabilità in senso giuridico). Il lavoro di Ferrario non è affatto isolato; altri attivisti hanno raccolto testimonianze e dati, mediante interviste, ricerche su fonti mediche e giudiziarie, videoriprese, al fine di stabilire un quadro probatorio dei fatti di Genova. All’impegno di molti tra questi soggetti si devono buoni risultati nell’accertamento delle responsabilità, quantomeno politiche, nella repressione del dissenso contro il G8; ma le immagini – come d’altronde le altre fonti – non sono oggetti naturalistici, sono costruite nella ripresa, e vengono catturate da occhi forniti di soggettività e strategie. Prima del vertice del G8, certamente centinaia di attivisti stavano preparando i propri strumenti di documentazione visuale – macchine fotografiche, fotocamere digitali, videocamere -; molti altri professionisti, spesso attivisti anch’essi, avevano elaborato progetti di intervento nella contestazione genovese, da differenti punti di osservazione e con diverse strategie. Dopo Genova, molti di questi progetti sono stati riorientati, hanno scelto di mettersi al servizio del movimento o mediante la prova di una tesi – “Un altro mondo è possibile”, etc -, oppure fornendo prove dei fatti e la loro autentica versione mediante il mezzo video – “Le strade di Genova”, e altro -. Questa strategia nuova, imposta dagli eventi – ma non subita allo stesso modo da tutti gli operatori video e dai mediattivisti – non ha semplicemente rovesciato i piani del lavoro documentario, ma ha avuto profonde conseguenze sulla rappresentazione del movimento. Chi è intento a provare una tesi, o a ricostruire la disposizione e l’andamento dei fatti accaduti, quale genere di rappresentazioni fornirà degli attori ripresi nel campo visuale? Queste saranno in grado d’essere autonome dal discorso della prova, da quello della ricostruzione e dalla selezione istruttoria degli eventi vissuti? Il regime di verità imposto dalla prova selezionerà le immagini, le inquadrature, i campi e le sequenze nel montaggio; formerà un narratore, un autore e un attore che le si adatti; il discorso di verità stabilirà pure i confini della frammentazione o dell’unità cronologica degli eventi, e così via. In sostanza e in profondità, verrà selezionato un genere assai rigido di soggetto, e tale soggetto interpellato sarà chiamato a testimoniare di una soggettività funzionale al discorso giudiziario. Per fare un esempio: la “dimostrazione” dell’orientamento pacifico della protesta è offerta nel film di Ferrario esibendo una serie convincente di azioni repressive e brutali della polizia, carabinieri, guardia di finanza contro “manifestanti inermi e pacifici” (la prova deve essere inequivocabile, e viene ampiamente contestualizzata utilizzando dettagli orari, topografici, perfino rasentando l’illustrazione di tecniche di strategia militare). L’essenza e la potenza creativa, attiva e pacifica del movimento non viene più lasciata alla sua rappresentazione visuale indipendente dagli scontri, è sottratta ai dettagli e agli indizi, oppure alle strategie discorsive visuali di montaggio, selezione delle immagini, incrocio dei punti di vista e proiezione dei desideri degli attivisti nell’occhio che riprende. Viceversa, essa viene strenuamente – e al fondo, mai soddisfacentemente – ricercata in prove visuali inconfutabili (fino all’esibizione degli “infiltrati” della polizia tra i manifestanti, certamente presenti, ma quanto significativi? e, semmai, c’è da chiedersi “cosa significano?”).
Questo insieme di tattiche è necessario in ogni processo (provare la colpevolezza dell’avversario anche in base alla certezza della nostra innocenza), ma diventa distruttiva e fragile in un’opera di rappresentazione. Ad esempio, si potrebbe obiettare: “quel manifestante colpito a terra di un gruppo di poliziotti di cosa si era appena reso responsabile?”, “Quelle persone chiaramente inermi a chi avevano permesso di far parte del corteo pacifico?” E così via… il discorso giudiziario se consente di “provare” le responsabilità, chiama però in causa corresponsabilità, capacità di giudizio, individualità, non ambiguità e razionalità degli attori; esso assume e istruisce i soggetti, crea una relazione discorsiva fortissima tra il soggetto vittima e l’altro soggetto. Soprattutto, parlare il discorso giudiziario significa appellarsi a una autorità superiore, riconoscere il “grande Altro” anche nell’atto della ribellione, cercare in tal modo un risoluzione del conflitto per via paterna ed equitativa. In ultima istanza, e richiamando il piano visuale, di chi si cerca il riconoscimento mediante il lavoro di ricostruzione dei fatti e costruzione di verità? E noi siamo in grado di reggere una simile prova e un riconoscimento del genere? Giudiziariamente, politicamente e sul piano della soggettività – dell’identità che costruiamo nelle nostre pratiche e rappresentazioni, in questo caso visuali -, la risposta è negativa. La trasformazione in “prova” del girato realizzato nelle strade e piazze di Genova può rivolgersi anche contro il movimento stesso, ad esempio nell’uso giudiziario di immagini e filmati da parte degli apparati giudiziari. “L’egregio” lavoro svolto dalla polizia scientifica, a Genova come peraltro in ogni altra manifestazione, ha ricevuto un indubbio sostegno da parte dei mille e più racconti-girati video che sono proliferati nei mesi successivi alla contestazione. Se quindi la prova visuale può rovesciarsi nella prova della propria colpevolezza, ciò non avviene solamente per i contenuti oggettivi di tale materiale – mostrando gli incidenti e chi vi partecipa -, ma soprattutto per il suo carattere intrinseco di discorso aperto, per il quale anche sul piano giudiziario, all’apparenza più fattuale di altri, viene operata un’operazione interpretativa. La ricerca di una prova visuale più che ad uno scavo archeologico somiglia a una battaglia discorsiva tra interpretazioni, e ancor più ad una performance attraverso le immagini. In questo senso, i lavori video che si sono concentrati sull’obiettivo della prova hanno mostrato un’assoluta naiveté rispetto al nesso potere/sapere, ad una rappresentazione visiva che opera come strumento di controllo/sovversione (Paul Virilio 2002).
Anche un lavoro audiovisuale inteso a costruire delle prove è per sua natura portato a produrre delle rappresentazioni, anche non intenzionalmente. E quali rappresentazioni degli attivisti traspaiono da questo documento? Necessariamente rappresentazioni riduttive e passive. Per “provare” il carattere della protesta occorrerà mostrare il manifestante sempre in rapporto alla repressione (le immagini racchiudono “persone pacifiche” e aggressori ben armati e malintenzionati) fornendo in tal modo un’immagine di passività e debolezza; mentre altre immagini di forza della non-violenza e della disobbedienza sociale non sono, spesso letteralmente, “utilizzabili come prove”. E ciò perché sono naturalmente ambivalenti, rappresentano potenza e senso difficilmente riducibili all’immagine del “manifestante inerme”, e quindi ad una sua “vittimizzazione” senza la quale nessun processo è concepibile – né si può vincere in giudizio -. Per giunta, questa forma di vittimizzazione potrebbe raggiungere obiettivi rovesciati rispetto a quelli desiderati; e cioè, invece di avvicinare il “pubblico” e farlo agire per il cambiamento, l’immagine delle vittime potrebbe allontanare da esse: “questa scissione, questa separazione dalla vittime, costituisce il nucleo di verità del discorso di vittimizzazione: io (il me di chi è molestato e turbato) versus gli altri (del Terzo Mondo, piuttosto che i senza tetto delle nostre città) con cui solidarizzo a distanza” (Zizek 2003b, p. 59).
Il lavoro visuale sul movimento globale in molti casi non è stato condotto completamente dall’esterno. Al contrario, molti mediaoperatori si sono identificati col movimento o con sue organizzazioni. Ma più delle scelte individuali è la pratica visuale in sé ad esprimere attitudini profonde, modi di fare e orientamenti alla rappresentazione presenti all’interno delle culture attivistiche. La riduzione di questa pratica ad una produzione di prove non solo è riduttiva, ma pericolosa, dal momento che cristallizzerebbe un modo d’essere e di fare del movimento in una posa giudiziaria, quando invece la visualità è chiamata a creare significati, affettività, identità e memoria attraverso le immagini. In tutte queste forme molteplici la visualità è un aspetto della nuova politicizzazione. C’è uno scarto ancora grande, una distanza di comprensione radicale tra la richiesta degli organizzatori di avere nelle strade “videocamere, macchine fotografiche…” per proteggere i cortei e la sicurezza degli attivisti, e il desiderio che sta a monte di questa pratica di massa. Per quanto si sia mostrato utile, l’orientamento probatorio alla rappresentazione visuale pone gli stessi problemi – scientifici, estetici e politici – già posti da altre fasi di movimento, a proposito dell’uso dell’arte “al servizio” del conflitto, o del discorso giudiziario per fare storiografia, o viceversa. In molte occasioni passate, “al servizio della politica e del movimento” ha significato esattamente “depoliticizzazione”, e cioè rimozione delle implicazioni politiche delle pratiche e discorsi che si mettevano al lavoro in politica, non importa se istituzionale oppure no. Nella nostra attualità, l’alternativa potrebbe porsi in termini rinnovati: “rappresentare il movimento, o praticarne la rappresentazione dall’interno, è possibile avendo nello stesso campo visuale potere e movimento, vittima e carnefice?”, “Il movimento <vittima della repressione> quanto ha a che vedere con il movimento che si media e viene rappresentato, oppure si esprime da sé nelle immagini e nelle proprie pratiche visuali?” Le risposte a queste domande devono tener conto del fatto che il rischio portato con sé dalla vittimizzazione è quello di una “depoliticizzazione” (Zizek 2001, p. 139-44); e cioè, non tanto una riduzione estetica del discorso, o un appello puro e semplice ai buoni sentimenti di solidarietà degli spettatori, quanto la negazione implicita che le “vittime” possano parlare da sé e per sé, negando, per un altro verso, che le immagini stesse debbano prestarsi ad una “critica dell’economia politica” della visualità, ed esentandoci in tal modo dall’interrogativo “Che fare con le immagini?”

 

CONFLITTI DISCORSIVI

Politiche estetiche [e memorie] della rappresentazione visuale

Il film documentario produce rappresentazioni dei soggetti. E queste non sono “cose”; viceversa sono sempre collocate all’interno di una relazione, per quanto mediata, ed hanno a che fare – fanno, disputano, negoziano e ricombinano – con la soggettività della gente chiamata sulla scena visuale. Nessuno dei film considerati mostra una completa consapevolezza di operare un lavoro di rappresentazione-come-relazione (del e con il movimento); eppure tutti quanti effettivamente intervengono nel campo della produzione del discorso sul (e del) movimento globale. La scelta strategica del posizionamento – politico, tecnologico e dello sguardo – attraverso il movimento è già di per sé una scelta di rappresentazione. Le relazioni decise e strette sul campo, durante le mobilitazioni e le proteste, sono un segno del modo di lavorare dei videoattivisti di nuova generazione e indirizzano verso uno spazio aperto all’ascolto, alla legittimità delle autorappresentazioni dei soggetti, all’intersezione dei discorsi. Essere in relazione, anche nel lavoro visuale, conduce a declinare specifiche azioni documentarie, modi speciali di rappresentazione ed anche nuovi usi delle tecnologie. Una relazionalità in cui è il processo mobile di connessioni a decostruire un’idea di soggetto politico che si vuole trasparente e universale.
Può sembrare singolare che il prodotto all’apparenza più distante da questa consapevolezza – per le forme e il registro da reportage utilizzato – sia quello prodotto dai mediattivisti di Indymedia. Essi sono gli unici videoasti per i quali non è in questione l’ovvia appartenenza e l’identificazione con il movimento, e ciononostante si propongono di raggiungere un pubblico non necessariamente appartenente alle organizzazioni di attivisti, anche se culturalmente affine. Gli altri film mostrano un atteggiamento più ambivalente. Il documentario dei “registi italiani”, pur essendo partito con l’idea di “rappresentare ciò che altri non avrebbero rappresentato”, è passato da un intento di rappresentazione ad uno di sostegno politico esplicito. Ha concentrato i suoi messaggi intorno alla tesi dualistica che separa il “bianco” dal “nero”; una strategia agita anche filmicamente oltreché sotto il profilo politico. Lo stesso potrebbe valere per molti altri prodotti audiovisuali realizzati dopo il G8 in Italia, specie i più diffusi. Sarebbe interessante conoscere i progetti iniziali che stavano dietro all’interesse per il movimento di così tanti professionisti del cinema e della comunicazione. Molti di questi progetti sono sicuramente cambiati, è evidente, “i fatti lo hanno imposto”. Questo tipo di intervento è stato sicuramente giustificato dalla gravità della violenza subita nelle strade di Genova; ma pone ugualmente diversi problemi, sia sul piano delle rappresentazioni del movimento e della sua storia, sia problemi più strettamente politici. Anzitutto, il movimento che vi emerge sembra frutto di un trauma originario. È difficile, a partire da questa strettoia discorsiva, cogliere il senso di una genealogia complessa che affonda le radici nello spazio globale e nel tempo degli anni ’90, dimensioni che hanno preparato l’emergere della protesta. “La perdita dell’innocenza” del movimento sostenuta in rapporto al trauma genovese (Ceri 2001), rischia di cancellare la “perdita della rispettabilità” e del conformismo (mutuando Lumley 1998, in riferimento al “1968”) che una generazione di attivisti ha costruito, assunto con piacere e introiettato con desiderio lungo il corso degli anni ’90. In sintesi, Genova appare in molti video solamente come un inizio, tanto più drammatico quanto meno viene collegato con i suoi passati. Sul piano visuale, la vittimizzazione evocata dalle immagini di “denuncia” o da quelle “realiste” impedisce anche una definizione storica dell’autoconsapevolezza sovversiva del movimento globale, la cui coscienza di rompere la continuità neoliberista – nel pensiero, nelle pratiche e nelle rappresentazioni – andrebbe indagata più a fondo e collocata in un “momento di pericolo” di cui sono attori, più o meno consapevoli, i soggetti coinvolti nel conflitto. Come in un circolo vizioso ideologico, il timido o appassionato interesse di molti cineasti o mediaoperatori italiani per il movimento globale, manifestato prima di Genova, si è traslato nell’urgenza della denuncia politica e della pressione sull’opinione pubblica – necessariamente nazionali -. Nessuno dei prodotti italiani sarebbe distribuibile fuori del nostro Paese (fatta eccezione per “SuperVideo G8”). Comparati con essi, i prodotti audiovisuali realizzati da Indymedia sulla protesta di Seattle o Praga contro WTO e IMF, oppure in Argentina da mediattivisti locali e nord-americani per documentare il collasso economico e le rivolte cominciate nel dicembre 2001, mostrano una ben maggiore apertura e orientamento internazionale, e illustrano anche una buona consapevolezza della popolazione per le dimensioni globali della crisi. Questi video, assai più di quelli nostrani, battono il tempo del movimento. La differenza profonda tra la gran parte dei prodotti italiani e quelli degli attivisti globali si traduce inoltre nell’orientamento a una differente audience (quella di questi ultimi comprende anche una audience italiana, naturalmente, ma non il reciproco), e l’alloggiamento in un contesto di storie politiche e memorie di movimento ovviamente diverse. Se l’audience globale è scontata per il lavoro di Indymedia, è del tutto ignorata dal prodotto dei “registi italiani”, da quello di Ferrario, e di molti altri considerati ma non analizzati in queste pagine .
D’altra parte, nei lavori nazionali sono invece presenti fili, filamenti e gabbie della storia politica italiana. Sotto traccia, vengono in luce i vecchi movimenti sociali e gli ombrosi confini con gli estremismi; il tema ossessivo della violenza (ossessivo per chi la praticava, per chi la criticava, per chi la rappresentava o l’ha fatto negli anni seguenti) come motivo precipitante della crisi dei movimenti; le trame della repressione e il riemergere del rimosso (la violenza omicida dello Stato e degli apparati di sicurezza); la ricerca delle prove per chiarire gli eventi deformati dal potere e dalle sue emanazioni. Questa pesante eredità si è riproposta come ossessione in molte analisi e commenti politici. Viceversa, essa poteva forse diventare un patrimonio comune all’intero movimento globale, dal momento che si stanno sperimentando forme convergenti di repressione del dissenso ovunque il movimento si manifesti, da Seattle in poi (Andretta et aliae 2002). Questa allerta della memoria, assai legata alla storia italiana, ha però agito in modo differente sulle persone e sui gruppi, a seconda della loro età e del loro coinvolgimento nella militanza. C’è chi vi ha visto la continuità degli apparati repressivi di Stato; chi vi ha letto una discontinuità con la gestione dell’ordine pubblico, orientato verso l’indifferenziazione tra operazioni militari di ordine pubblico internazionale e operazioni militarizzate di polizia (Negri, in AA.VV. 2002; anche De Giorgi, ivi). Continuità e discontinuità sono riapparse anche nelle letture dei fatti genovesi interne al movimento. La storia successiva, contro ogni tentativo o desiderio di leggerla o rivolgerla al passato, è stata unica e singolare, espansiva potente e pacifica, assai più vicina e sorella alle vicende degli altri movimenti globali del pianeta che non ai cicli patiti e scelti dai movimenti italiani dei ’70. Nel campo della produzione visuale, il tema della violenza – soprattutto quella subita – non è riuscito tuttavia a scrollarsi di dosso il riflesso di altre stagioni di movimento; ha semplicemente riorientato, dopo una breve boccata d’aria, i cineasti e i videoperatori (come d’altra parte un buon numero di intellettuali, operatori dei media, politici di professione) sulle ferite italiane e sulla coazione a ripetere il discorso e la rappresentazione del conflitto sociale di alcuni decenni fa. Naturalmente, non tutti i prodotti video hanno imposto sul presente rappresentazioni sorpassate; è chiaro che il crinale tra immagini passate e future è stato tracciato, oltreché dalla soggettività e dall’intelligenza degli operatori, da alcune condizioni facilitanti: l’internità al movimento e alle reti videoattivistiche, uno sguardo transnazionale e non eurocentrico, l’appartenenza alla giovane generazione, la trasversalità in relazione ai discorsi e all’uso della tecnologia. Queste condizioni aprono una nuova dimensione della contestazione, proprio a partire da quella all’ideologia che ha decretato la morte dell’antagonismo sociale, e “là risiede uno dei compiti della critica <postmoderna> dell’ideologia: designare gli elementi all’interno di un ordine sociale esistente che, sotto forma di <finzione>, cioè di narrazioni <utopiche> delle alternative storiche possibili ma non realizzate, indicano la valenza antagonista del sistema e sono di conseguenza capaci di <estraniarci> dall’ovvietà della sua identità stabilita” (Zizek 2002a, p. 50). Questi aspetti ed esperienze dell’immaginazione di Genova, mischiate in diverse combinazioni, hanno reso visualmente l’impossibilità di far derivare il presente dei movimenti dal loro passato, e le une dalle altre sia le forme di comando sia le soggettività antagoniste.

 

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