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Il sistema carcerario in Europa

4. TEORIA E PENSIERO ABOLIZIONISTA


1. Il concetto del danno applicato alla pena detentiva

Tutte le misure alternative di cui si è parlato1 derivano dal movimento sviluppatosi negli anni '70-'80, che tende a limitare l'applicazione del sistema penale. Come si è detto esistono due teorie principali, ovvero quella che sostiene un annullamento delle origini dell'intervento penale e quella che sostiene un rimodellamento dell'intervento penale2. La prima teoria ha trovato applicazione appunto nelle varie forme modificative o alternative alla detenzione, la seconda invece è stata presa in considerazione solo per alcuni principi legati alla modalità di esecuzione dell'imprigionamento e non invece per quelli di carattere radicale, come ad esempio il modello proposto da Hulsman. Forse bisognerà aspettare ancora un po' di tempo, affinché la società in cui viviamo riesca a vedere in questi modelli non un'alternativa al carcere, ma un sistema alternativo alla punizione, come propongono gli abolizionisti.
La parola abolizionismo nasce in America nella lotta contro lo schiavismo; è stata poi utilizzata nella battaglia per l'abolizione della pena di morte e dell'ergastolo. Oggi qualifica un movimento sviluppatosi a partire dagli anni '70, quando in ogni paese europeo e non solo vi erano grandi lotte dei detenuti, inteso a realizzare una giustizia senza prigioni e più in generale una società che superi il concetto stesso di pena. Il crimine diviene un risultato dell'ordine sociale: "un problema pubblico da affrontare con soluzioni pubbliche"3, riconciliazione dunque e non pena.
Il punto di partenza degli abolizionisti consiste nel considerare fallimentare il sistema carcerario, basato sul concetto di punizione. Tutti gli abolizionisti, pur mettendo in risalto posizioni ed ideologie differenti, concordano su un punto fondamentale: il carcere produce sofferenza, infligge dolore. L'abolizionismo non è tuttavia una teoria rigida, basata su principi fermi ed inderogabili, è un movimento che pone in causa non una parte del sistema della giustizia penale, ma lo stesso sistema nel suo complesso. Più si studia il carcere, più si cerca di capire il reale funzionamento della prigione, più ci si rende conto che così, come è strutturato, non funziona come si vorrebbe. Non è solo una presa di posizione, è un dato di fatto. La maggior parte delle testimonianze delle persone che hanno avuto rapporti con il carcere, siano questi detenuti, ispettori, medici legali, famigliari di carcerati, sono molto simili. La vita in prigione rende ancora più malati, sia fisicamente che psichicamente; nessuno dopo aver trascorso un periodo rinchiuso, racconterà l'esperienza che ha vissuto come un momento di riflessione o di crescita. Disagio, rabbia, odio nei confronti delle persone che lo hanno giudicato, annientamento, frustrazione sessuale, questi sono i ricordi degli ex-detenuti. L'uomo rinchiuso non riesce più a pensare, a vedere un futuro, a credere nelle sue potenzialità, a sentirsi positivo. Non a caso quando una persona si sente particolarmente a disagio e male in una situazione, utilizza la frase: "mi sento come un animale in gabbia". Ecco questa è proprio la sensazione del recluso. L'opinione pubblica ritiene però che se una persona mantiene un comportamento corretto all'interno della società, non si troverà mai in questa situazione, viceversa se si trova in prigione è perché non ha avuto un comportamento adeguato, e quindi in un certo senso se l'è cercato, questo può essere vero, ma di sicuro emarginarlo dalla società non è la soluzione, è un rimedio semplice, veloce, pratico, ma che non risolve la situazione. Da questa analisi partono gli abolizionisti, che sostengono che non serva arginare il problema, ma affrontarlo e sradicarlo dalle origini. L'obiettivo dell'abolizionismo non è la riduzione dei conflitti, ma la loro soluzione. Da questo deriva che molte dispute possono essere rincociliate4, molte altre invece devono essere ricondotte alle cause sociali che le hanno prodotte.
Per poter spiegare in termini chiari le analisi che hanno portato a questo tipo di teoria, si cercherà di definire le funzioni della pena detentiva e gli elementi culturali radicati nel nostro pensiero che si oppongono all'abolizione delle pene e i motivi per cui fino ad oggi approcci di tipo punitivo non hanno portato i risultati sperati. Questo si ritiene sia molto utile per poter prendere in considerazione riforme e abolizioni del sistema penale5.
Il professor Ruggiero, docente di sociologia presso la Middlesex University di Londra, esponente dell'abolizionismo, prende in considerazione tre questioni:
1. funzioni della pena detentiva;
2. elementi culturali condivisi e radicati nel nostro modo di pensare che si oppongono all'abolizione delle pene;
3. strategie abolizioniste e contraddizioni che possono produrre.
Il carcere come tutte le organizzazioni, ha una serie di fini manifesti (presunti) e una serie di fini operativi (latenti).
I fini manifesti sono quelli di deterrenza o prevenzione individuale. Si pensa che attraverso la reclusione chi ha commesso un reato non ne commetta altri. Il carcere servirebbe dunque da ammonimento rivolto ai rei, affinché costoro non diventino recidivi. Tuttavia è noto che tale procedimento è fallimentare, tanto che la maggior parte delle persone che ha commesso un crimine, una volta fuori ne commette un altro.
Il condannato non analizza il proprio status, ma si trasforma in vittima di un arbitrio. In più, una volta in carcere, il risentimento contro l'autorità che lo ha giudicato, porta il reo a crearsi una serie di valori e di codici di comportamento che consentono di intensificare quella pena criminale che la punizione vorrebbe ostacolare.
Il detenuto, durante la sua permanenza in carcere, raffina le proprie tecniche, divenendo un vero esperto del crimine.
Per quanto riguarda il secondo fine manifesto della detenzione, Ruggiero sostiene che il carcere :" Costituisce un monito non già per chi ha commesso dei reati, ma per chi non ne ha , o non è ha ancora commessi".
Questa funzione dice, ha scarsa validità. Poiché i reati effettivamente retribuiti con la pena del carcere costituiscono solo lo 0,5% o l'1% della totalità dei reati commessi. Di conseguenza la maggior parte dei comportamenti ritenuti illegittimi, non viene punita. Pochi reati vengono denunciati, perseguiti e sanzionati con la pena custodiale; il che incoraggia a delinquere anziché scoraggiare il crimine.
Il terzo fine è considerato quello di esercitare con la pena una semplice retribuzione dei reati commessi. Questa funzione risale a idee di calcolo razionale, secondo cui ad un dato danno sociale, corrisponde un tot di pena da infliggere6. Ma anche questo è solo un fine manifesto, secondo l'autore, perché non risulta possibile quantificare un danno provocato e di conseguenza stabilire un corrispettivo in pena7.
Per quanto riguarda i fini latenti, Ruggiero sostiene che ognuno di noi potrebbe fornire un proprio elenco a seconda delle ideologie e delle metodologie di pensiero.
L'autore prende invece in considerazione la società in generale, affermando che il carcere è: "Uno strumento di rassicurazione che la società rivolge su se stessa. Le istituzioni penali, in questa prospettiva, servono a rafforzare la coesione tra le persone che non violano le leggi, tra coloro che esprimono già consenso nei confronti del sistema. Il carcere segnala semplicemente che vi sono alcuni comportamenti che la maggioranza non tollera, e la pena rafforza. Insomma il carcere non serve ai detenuti, ma alla riproduzione morale di chi sostiene il sistema"8.
Secondo altre ipotesi, il carcere risponde invece ad una logica amico-nemico, si rivolge ai ribelli, agli antagonisti con l'intenzione di distruggerli. Si risponde alla violenza con la violenza.
Passando ora al secondo punto, Ruggiero analizza gli elementi culturali che si oppongono all'abolizione della pena. Emergono due nozioni fondamentali nella società: una di vendetta ed una di scambio. La prima manifesta il bisogno per la società di purificarsi e di tracciare un confine preciso tra condotte accettabili e non. La scelta del capro espiatorio non porta solo alla scelta tra il puro e l'impuro, ma utilizza dei rituali di condanna verso chi perde e di celebrazione verso chi vince. Questo tipo di vendetta rende le istituzioni tanto più vendicative, quanto maggiore è la disuguaglianza tra vincenti e perdenti. Questo tipo di pensiero riguarda ogni ideologia. In una logica rivoluzionaria si potrebbe sostenere "fuori i proletari, dentro i borghesi, o dentro i potenti e i politici corrotti".
La radicale nozione di vendetta, in tutte le versioni, sia quella ufficiale che quella rivoluzionaria, costituisce un serio ostacolo allo sviluppo del pensiero abolizionista.
Bisogna prendere in considerazione invece, il pensiero idealista di Kant e Hegel, per comprendere la nozione di scambio, dice Ruggiero. Nel pensiero idealista, i detenuti non vanno riabilitati, non vanno usati come strumenti, ma trattati come soggetti. Non si possono utilizzare i detenuti in vista della loro risocializzazione. Hegel radicalizza l'idea di punizione elaborata da Kant: i rei hanno diritto ad essere puniti, in quanto con la punizione vengono onorati come soggetti pensanti, come esseri razionali. Ogni idea di retribuzione deriva da simili filosofie idealiste. La retribuzione penale si impone quando gli scambi e i commerci si affermano in maniera irreversibile, quando si rende necessario stabilire dei principi di condotta nelle relazioni tra creditori e debitori. Infliggere pene ai detenuti, secondo questa concezione, significa salvaguardare l'integrità dello scambio commerciale e la logica che lo sottende.
Per quanto riguarda infine il terzo punto, nella prospettiva abolizionista, le vittime di reato vengono collocate al centro del sistema di giustizia, dice Ruggiero. Tra gli esperimenti condotti, ci sono quelli che prevedono l'incontro tra vittime e rei9, in modo che entrambi abbandonino il loro status e si confrontino con la situazione che hanno vissuto. Questo ha portato, in molte situazioni, ad una certa rassicurazione tra le vittime, le quali hanno potuto dare un volto alle loro paure e provocare tra i rei una consapevolezza del danno inflitto.
In diversi paesi europei si è utilizzata questa strategia di incontro tra vittima e rei. Spesso i due protagonisti scoprono di avere interessi comuni, di avere lo stesso retroterra sociale e culturale. In altri casi tutto questo non è possibile, dice Ruggiero: "Come possono una banca e un rapinatore avere un retroterra sociale comune e individuare strategie che appaghino entrambi? La condizione dei due è asimmetrica, dunque vi sarà un vincitore e un vinto. Allora, quando le situazioni problematiche sono il segno di conflitti di questa portata, vanno ricondotti nel seno della società alla quale appartengono. Questi conflitti non si risolvono con la criminologia, e ancor meno con la vittimologia".
Ricondurre il conflitto alla causa che lo ho generato quindi, senza però dimenticare che il crimine è un conflitto la cui gravità è soggettiva, dipende infatti dal rapporto che ognuno di noi ha con i propri beni10 e da come reagisce nei confronti di chi lo ha in qualche modo turbato. Oltre alla sofferenza soggettiva avvertita da chi si trova nella situazione di vittima, ci sono gli effetti prodotti da chi crea il conflitto. Facendo perno su questo punto gli abolizionisti sostengono che le vittime rivestono nella società un ruolo ideale, ovvero esistono soltanto come soggetti che subiscono, senza concedere loro il potere di autodefinirsi. Le pratiche di risoluzione dei conflitti proposte dagli abolizionisti si sviluppano su questo punto, rendere la vittima reale, e non più semplice oggetto di tutela istituzionale. Il tal caso si creerebbe un rapporto tra i due soggetti in causa, dove entrambi svolgerebbero un ruolo di attori.
Naturalmente gli abolizionisti si rendono conto che per riuscire ad attuare un sistema di questo tipo c'è bisogno di una grande campagna educativa nella quale si spieghi in termini chiari e precisi perché il carcere deve essere abolito. Il primo impatto infatti risulta molto forte, l'opinione comune considera la chiusura delle prigioni come un'azione folle. Proprio per questo si sottolinea che l'abolizionismo è un metodo, non un programma immediatamente attuabile, è una critica al sistema penale esistente, che propone un sistema diverso basato su nuovi valori. Alcuni autori hanno cercato di definire una griglia di partenza per poter attuare un sistema di questo tipo. Costoro la definiscono una "piattaforma di ispirazione abolizionista"11:
1) primo elemento di metodo, scegliere un campo di indagine, non cercare solo pena e sanzione, ma trasformare la pena in una politica sociale e non più strumento di retribuzione di un delitto o sinonimo di deterrenza;
2) rendere meno importanti tutte quelle figure professionali che alimentano l'intero apparato della giustizia, a favore di psicologi, assistenti sociali, educatori, che possono essere collocati vicino al contesto sociale del reo;
3) istituire centri di assistenza e consulenza legale permanenti, in cui gli imputati stessi possono capire e valutare le leggi che sono state applicate; invece di mettersi nelle mani di avvocati spesso molto dispendiosi e inseriti nel circuito della giustizia, che purtroppo fa arricchire diverse categorie professionali a discapito dei detenuti o grazie ai detenuti;
4) impedire la costruzione di nuove prigioni, per non continuare ad alimentare l'azienda carcere, e utilizzare il denaro "risparmiato", per promuovere sistemi di aiuto per i detenuti rimessi in libertà;
5) cercare di eliminare tutte le forme estreme di potere, come la pena dell'ergastolo o la pena a tempo indeterminato.





2. Le diverse correnti del pensiero abolizionista

All'interno dell'abolizionismo emergono diversi autori appartenenti a ideologie differenti, si possono distinguere una componente cristiana, rappresentata da Louk Hulsman, una marxista-materialista classica, rappresentata da Thomas Mathiesen, e una libertaria, rappresentata da Nils Christie. Queste tre correnti si trovano però concordi su un punto fondamentale: mettono in discussione non il crimine, ma il sistema della giustizia criminale, nel suo insieme12. Gli abolizionisti si pongono dunque come obiettivo non solo l'eliminazione della prigione, ma anche di tutto l'apparato giudiziario che alimenta la giustizia criminale, quindi i tribunali, le professioni di avvocato, giudice, eccetera. E' importante sottolineare questa posizione, poiché caratterizza quello che viene definito abolizionismo penale radicale, per distinguerlo da due diverse, seppur vicine teorie. La prima, più conosciuta in Italia, ripresa dal movimento "Liberarsi dalla necessità del carcere"13, critica e si oppone solo all'istituzione carceraria e alle altre istituzioni penali di tipo segregativo. Tale posizione è definita di abolizionismo istituzionale. La seconda è quella che cerca di ridurre al minimo l'intervento penal-giuridico, posizione che viene definita di riduzionismo penale14. Ovviamente queste due posizioni rientrano in quella più generica di abolizionismo penale radicale, pur non appoggiandone completamente la modalità di esecuzione, dato che sostengono che tale modello non sia applicabile alle grandi comunità in cui emergono difficili conflitti.
Analizziamo adesso i diversi autori dell'abolizionismo penale radicale.


Louk Hulsman

Louk Hulsman: "padre mi chiese il piccolo Lodewyk, quando aveva cinque anni: c'è gente veramente cattiva?". "Non so, ma non ne ho mai incontrata". Oggi ventotto anni più tardi, posso ancora dire che non ho incontrato nessuno di cui io sia incline a dire, dopo aver stabilito un vero contatto: è un uomo cattivo (15).
Louk Hulsman.


Louk Hulsman ha 78 anni e per decenni, come docente di diritto penale, è stato consigliere del Ministero della Giustizia olandese. Proprio il suo "imparare dall'esperienza" lo ha portato ad essere uno dei massimi esponenti del movimento abolizionista.
Per Louk, come lo chiamano amichevolmente tutti quelli che difendono o contestano la sua teoria, l'abolizionismo è un'evidenza.
Egli è giunto a questa certezza non attraverso una rivelazione religiosa né un pensiero deduttivo ed aristotelico, ma gradualmente anche attraverso un percorso individuale interiore. Partendo dai suoi studi giuridici ed integrandoli con lo studio delle scienze sociali, si è accorto, durante un'analisi sempre più critica ed attenta, che il sistema penale per cui aveva lottato e che continuava a tramandare agli studenti universitari non funziona mai, salvo casi eccezionali, come richiedono quei principi che pretendono di legittimarlo.
Dalle scienze sociali egli ha appreso che il "sapere scientifico passa sempre, in ultima istanza, attraverso il vissuto collettivo e non può in nessun caso sostituirlo; questo porta ad un non-senso del sistema penale dal quale il vissuto soggettivo è abolito" (16).
Da quando è nato il carcere è iniziato il discorso sul fallimento del carcere. Il ricorso al carcere ha continuato però ad aumentare.
Si pensi ad un vocabolario senza le parole delitto, crimine, reato, criminale, delinquente, criminologia....
Ma cambiare vocabolario non basta, la riforma dev'essere istituzionale.


Hulsman, già all'inizio degli anni 70, ha iniziato a dimostrare la sua teoria del "non-senso " del sistema penale utilizzando ricerche sperimentali basate su dati forniti dalla giurisprudenza e dalla sociologia. Una delle ricerche più interessanti fu quella del "sentensing", del trovare cioè un modello di riferimento generalizzabile affinchè i giudici potessero pronunciare una "sentenza giusta" (17). I dati che vennero inseriti nel computer e poi elaborati attraverso i vari parametri furono quelli riconosciuti da giuristi, criminologi e sociologi di vari stati. Essi divisero il tipo di delitto, la proporzione fra pena e delitto, l'intervento del sistema sociale, la sussidiarietà del sistema penale, le informazioni oggettive sugli imputati. L'obiettivo e la richiesta che venivano fatti al computer erano di fornire, in termini giuridici e sociali, quale fosse la pena giusta.
Il risultato che appariva sempre al professore ed ai suoi allievi esterefatti, era che, qualsiasi fossero gli ingredienti e gli incroci fatti fra di loro, il computer rispondeva sempre : NESSUNA PENA.
Le griglie di interpretazione erano cioè troppo riduttive per poter applicare una pena che corrispondesse veramente all'azione fatta ed ai danni subiti dalla vittima.
Tutte le ricerche svolte portavano sempre di più Hulsman alla conclusione che il sistema penale rispondeva non ad un bisogno di giustizia oggettivo (che, come tale, si forniva di strumenti oggettivi) ma ad uno degli infiniti sistemi astratti che gli uomini si sono da sempre costruiti e continuano a costruirsi per sentirsi al sicuro da "quell'altro" che non è controllabile o consono a quel tipo di società in quel momento. Proprio da questo punto emerge la necessità di definire allora chi sono i cosiddetti buoni e chi i cattivi. Tale suddivisione risulta molto semplicistica, e non corretta, esiste infatti un gruppo cospicuo di persone, come i poliziotti, i giudici, i legislatori, i quali sostengono fermamente che attraverso le leggi e le istituzioni che le concretizzano, si raggiunga un'armonia sociale. Dunque costoro rappresentano il bene, l'ordine; al contrario i delinquenti sono visti come gente a parte, anormali sociali, e dunque il male. E' per questo che, pur cambiando le esigenze della società, il sistema di sicurezza rimane, ancora per molto tempo, lo stesso. In quest'ottica, l'autore pensa che non ci sia differenza fra le risposte di giustizia che noi chiediamo al nostro attuale sistema penale e quelle che i romani o gli antichi in generale od alcune tribù di aborigeni ancora ora chiedono al volo degli uccelli o alle viscere degli animali sacrificati.
Le risposte cioè dipendono da segni che non corrispondono alle vere domande fatte.
La teorizzazione della depenalizzazione è passata attraverso una sorta di evoluzione interiore che Hulsman esprime con il concetto di solidarietà, come mutuo aiuto per ogni forma di vita che implica sempre un senso di solidarietà, anche se non è bandita né l'aggressività né il rifiuto attivo per certe situazioni o eventi. Per questo è molto consapevole che la sua posizione potrebbe rimanere solitaria, ma mai, in tutta la sua vita, ha smesso di sperare in una "conversione collettiva" sull'argomento. La sua teoria non è pacifista, anzi, egli rivendica una parte di lotta armata avuta personalmente durante la resistenza; quello che viene rifiutato è la riduzione degli "avversari" a forme di sistemazione sociale. Il suo modo di pensare e quindi di agire è diverso a seconda che "la diversità dell'altro" sia vissuta personalmente, ma non ancora riconosciuta, o come danno per altri. Nel primo caso egli crede nel convincimento al cambiamento e quindi nel consenso del diverso; nel secondo egli riconosce un conflitto in cui interverrà anche violentemente tenendo sempre presente che l'avversario è un uomo come lui.
Per entrare un po' più nel concreto sulla contestazione di questo sistema penale e per non etichettare Hulsman come romantico irrealista, bisogna sottolineare che egli parla di abolire l'attuale sistema penale solo per i reati della cosiddetta "delinquenza comune" lasciando fuori i reati legati alla criminalità politica, economica ed organizzata. Questi eventi non sono esclusi dalla sua teoria, ma richiederebbero un adattamento specifico, che renderebbe pesante la presentazione del suo modello (18).
Non una sostituzione del sistema penale, non soluzioni di ricambio, non un nuovo linguaggio, ma una logica diversa dove un determinato comportamento (es. l'omosessualità, la prostituzione, l'uso di droghe), possa cessare d'essere un crimine senza che nessuna struttura coercitiva debba sostituirsi al precedente sistema penale.
E per corroborare il suo pensiero, egli fa riferimento, ancora una volta, alla storia passata sottolineando che soltanto pochi decenni fa alcuni atti erano considerati criminali ( es. l'aborto) ed hanno creato non pochi traumi sociali, potendo la società civile dare loro solo risposte punitive e quindi repressive, mentre adesso che sono stati "decriminalizzati" si cercano soluzioni diverse, più soluzioni: questo non significa che i comportamenti decriminalizzati abbiano smesso di creare problemi, ma si è cominciato a leggerli ed affrontarli in modo più complesso ed articolato.
Soltanto uscendo dal penale si può analizzare la risposta più efficace in quel particolare contesto ed abbandonare il modello che è diventato inefficace. Questo modo di pensare che è considerato "normale" nella nostra quotidianità, qualsiasi sia la gravità dell'azione, è impossibile nel sistema penale perché uno dei cardini è appunto la gravità dell'atto.
Ma se i conflitti esistono (e Hulsman è il primo ad ammetterlo), se i conflitti creano danni anche gravissimi alle singole persone ed alla società, quale potrebbe essere una diversa griglia di lettura che tenesse conto della situazione reale, dell'intento di nuocere, del danno provocato e delle conseguenze sociali?
Il nostro autore sottolinea, con grande fermezza e tranquillità, che nessun uomo né di fede né di diritto, potrebbe dire in anticipo quale sarebbe la griglia "corretta" per risolvere quella situazione, perché ogni griglia deve tenere conto di quei particolari problemi e delle persone in causa in quel momento. Questo ridare alle persone il controllo dei propri conflitti è il punto di partenza reale e concreto proposto dal grande teorico. Per far capire meglio la varietà delle modalità di gestione di alcune situazioni problematiche, senza dover ricorrere alla consueta struttura socio-statale, Hulsman ricorre ad una parabola: "Cinque studenti vivono insieme. A un certo punto, uno di essi si avventa sul televisore e lo manda in frantumi; rompe anche un po' di piatti. Come reagiranno i suoi compagni? Nessuno di
loro è contento, ovviamente. Ma ognuno, analizzando l'evento a modo suo può adottare un diverso atteggiamento. Lo studente numero 2, furente, dichiara che non vuole più vivere con il primo, e chiede di cacciarlo via; lo studente numero 3 dichiara: "non ha che da comperare un nuovo televisore e altri piatti, che paghi". Lo studente numero 4, assai traumatizzato da quanto è appena successo, esclama: "è sicuramente malato, bisogna trovare un medico che lo curi, farlo vedere da uno psichiatra, eccetera". L'ultimo infine sussurra: "noi crediamo di intenderci bene, ma qualcosa non deve funzionare nella nostra comunità se un tale gesto si è reso possibile...Facciamo tutti quanti un esame di coscienza". C'è qui tutta la gamma di reazioni possibili di fronte ad un dato evento, quando esso è attribuito ad una persona: il modello punitivo, compensativo, terapeutico, conciliatorio....Se si restituisse alle persone direttamente coinvolte il controllo dei propri conflitti, si vedrebbero spesso applicate, accanto alla reazione punitiva, altri modelli di controllo sociale, misure sanitarie, educative, di assistenza psicologica, di riparazione..."19. Il fatto di chiamare reato un atteggiamento problematico, significa per Hulsman, escludere in partenza le altre possibili interpretazioni e limitarsi quindi al solo modello punitivo.
Qual è la forza del suo pensiero? Il suo ottimismo? La sua bontà? L'età avanzata ed il minor rapporto con le violenze del mondo? Semplicemente, dati alla mano, aver verificato che questo sistema penale, anche nelle sue forme più repressive e disumane, non ha mai impedito né soppresso la criminalità.


Nils Christie

Nils Christie è norvegese, professore di criminologia all'Università di Oslo e presidente del Consiglio di ricerca scandinava sulla criminologia.
Anche lui parte dalla considerazione che imporre sofferenze legali significa infliggere punizioni come pene. Tuttavia si mostra favorevole ad obiettivi intermedi come il riduzionismo dell'intervento penale e l'abolizionismo istituzionale. L'autore, come gli altri abolizionisti20, sostiene che il sistema penale si è dimostrato inadeguato nei confronti degli scopi utilitaristici che si è prefissato. Christie prende in considerazione le due funzioni principali della pena: la correzione e la deterrenza. La prima è risultata fallimentare dato che il tasso di criminalità continua a salire21 e non si sono verificati miglioramenti nel tasso di recidiva; viene fatta una dura critica antiutilitarista del modello correzionale (rieducazione del condannato), come dimostrano anche diversi saggi filosofici e di criminologia22. La seconda funzione, ovvero quella di deterrenza, nasce dal bisogno di una prevenzione generale e convive spesso con la teoria correzionale e rappresenta insieme a questa il risultato di un pensiero razionale e utilitaristico. In tutti i casi si tratta di sofferenze inflitte per raggiungere uno scopo: ottenere una modifica nel comportamento. Ma come si è visto all'inizio del capitolo, questo scopo non si verifica nella realtà, infatti la maggior parte delle persone che ha commesso un crimine, una volta fuori ne commette un altro23, oltre a raffinare le proprie tecniche criminali durante la permanenza in prigione. L'autore trova una spiegazione sostenendo che le modalità di punizione cui siamo abituati sono molto più facili da gestire rispetto all'attuazione di pratiche sociali24, in tal modo però la sofferenza legalmente inflitta riceve una legittimazione scientifica. Prevale l'idea del "è giusto che sia così, perché è stato deciso dalla legge". Lo scopo di deterrenza viene giudicato a priori come indiscutibile, senza soffermarsi a pensare che ci sarebbero atteggiamenti più proficui, sia per la società che per il reo. A questo punto Christie cerca di definire alcune condizioni per abbassare il livello delle pene inflitte.
La conoscenza, elemento essenziale affinché le parti possano venire in contatto direttamente, da ciò ne deriverebbe una tolleranza per la diversità, un'accettazione dei modi di essere; questo può risultare più semplice nelle piccole comunità, come quelle norvegesi in cui vive l'autore, ma potrebbe essere esteso anche a comunità più ampie con un background storico e culturale forte, in cui la punizione risulterebbe una risposta troppo semplice.
Il potere, chi lo detiene può infliggere castighi. Ha potere chi obbliga altri a fare ciò che vuole lui, il giudice, anche se inconsciamente, è investito di questo ruolo; in più è protetto dai simboli della giustizia e in realtà le sentenze che pronuncia sono già state decise altrove, egli si limita ad eseguire il compito di punire. Infatti infliggere castighi o pene è tanto più facile quanto più lontano risulta la vittima della sofferenza.
La vulnerabilità, modalità per controllare il potere, cioè rendere vulnerabili coloro che lo detengono. Questo procedimento consiste nel creare delle condizioni simili fra coloro che controllano e coloro che sono controllati, quindi eguaglianza di condizioni, di requisiti e vicinanza fisica. L'autore ha in mente i vecchi poliziotti di quartiere, che tutti conoscevano, con cui avevano rapporti di amicizia, di cui conoscevano la famiglia e così via. La mancanza di vulnerabilità porta infatti spesso al classico binomio buoni cattivi, dove le due parti non interagiscono, ma si combattono.
Ora sorge spontanea la domanda sul perché allora la società continui a fondarsi su principi penali pressoché errati, quando i fatti dimostrano che gli scopi di un atteggiamento punitivo non hanno dato i risultati sperati. La risposta degli abolizionisti è immediata, la società vuole vedere un esito del conflitto, solo attraverso una determinata quantità di sofferenza inflitta. Vi è una necessità di vendetta, unico modo in cui la vittima si può sentire partecipe del conflitto: "Faccio a lui, con strumenti legali, quello che l'altro ha fatto a me". Proprio a questo riguardo Christie sostiene che gli stati nazionali rappresentano un pericolo nel loro approccio penale verso i cittadini25. L'autore prende in considerazione il diritto penale come elemento centrale della sua analisi. Il diritto penale distribuisce dolore per far fronte ad atteggiamenti indesiderati; tuttavia ci sono altre risposte, diverse da quelle penali. Grandi differenze emergono anche tra gli stati moderni nella quantità e nelle forme di pena. Christie sostiene che uno stato con grande attività nell'ambito penale, non possa che produrre pericolo per i cittadini, certo di più rispetto ad uno stato con poche attività penali. Egli porta come esempio la Russia con un milione di detenuti e gli USA, con 1,7 milioni di detenuti: entrambi hanno quasi raggiunto l'un percento di popolazione adulta detenuta. Molti sono giovani uomini, il 20% negli USA è nero o ispanico. Quindi egli dice con malvagia ironia che "se appartieni ad una di queste categorie e ti trovi negli Stati Uniti o in Russia, allora sei nel serio pericolo di essere punito dallo stato"26. Viceversa porta come esempio le prigioni svedesi, in cui la normalità è definita dalla presenza di 50-100 detenuti27. Qui risulta ancora possibile instaurare rapporti tra detenuti e sorveglianti. Nei grandi sistemi invece, la possibilità di creare "mostri", è notevole.
Dunque maggior presenza dello stato, maggior possibilità di punizione; minor presenza dello stato, minor punizione; tanto più lo stato è forte, tanto più è presente un sistema punitivo. Ma la critica di Christie va oltre, egli dice dello stato di New York: " In aggiunta ai più di 1,5 miliardi di dollari spesi per costruire le strutture penitenziarie, le prigioni costano oggi al nord del paese circa 425 milioni di dollari annui in stipendi e spese operative. Ciò significa un sussidio annuo per le regioni superiore ai 1000 dollari pro capite. L'impatto economico delle carceri va oltre i finanziamenti stanziati e i servizi locali acquistati. Le prigioni sono istituzioni a uso intensivo del lavoro che offrono posti di lavoro tutto l'anno. Sono a prova di recessione, di solito si espandono durante i periodi difficili. E non inquinano, un fattore importante nelle aree rurali dove altre forme di sviluppo sono spesso bloccate dagli ambientalisti. Le prigioni hanno portato un'entrata stabile a quelle regioni abituate ad un'economia stagionale e incerta"28.
Gli stati pericolosi sono considerati dall'autore quelli in cui vi è una incarcerazione di massa, ovvero dove si è mandati in prigione per qualche grammo di droga o per una rissa fra ubriachi; tutto ciò porta ad uniformare il crimine con il pericolo e tutti quelli che li commettono vengono etichettati come individui pericolosi29.
Un modo per risolvere la situazione è fare pressione sullo stato affinché modifichi il concetto di crimine e cercare alternative al castigo che garantiscano l'espressione dei valori sociali. Il modo miglior per intraprendere questo cammino consiste nel ridurre al massimo la severità delle pene: a) in caso di dubbio ci si astenga dal far soffrire; b) si infligga la minor pena possibile; c) si cerchino alternative al castigo e non castighi alternativi30.


Thomas Mathiesen

"Perché il carcere?" - si chiede in modo quasi ossessivo Mathiesen- "dal momento che il carcere è una delle più grandi e distruttive istituzioni della società moderna?".
E l'obiettivo del suo studiare, del suo scrivere, del suo teorizzare è proprio il cercare la dimostrazione del suo teorema.
Thomas Mathiesen è professore di sociologia del diritto presso l'università di Oslo e direttore dell'istituto di ricerca sociale della medesima università.
Il suo abolizionismo non è sinonimo di correzione o di ristrutturazione del sistema penale, così come sostengono anche gli altri rappresentanti significativi dell'abolizionismo, ma consiste nell'abolizione del carcere passando attraverso il depotenziamento, attraverso cioè un'inversione di tendenza dell'enorme aumento del numero di detenuti negli ultimi trent'anni.
L'autore, che inizialmente aveva fissato una data ideale per l'abolizione delle misure restrittive nel 2010, pone sempre questa data, ma per un obiettivo più concreto: il dimezzamento dei detenuti, la prevenzione nella comunità e lo sguardo attento alle vittime31.
Egli fa un'analisi molto dettagliata degli argomenti che hanno portato la società odierna a giustificare, anzi ad incrementare il carcere, analizzandoli, scardinandoli e contestandoli criticamente ad uno ad uno. In questo modo risponde negativamente ad ogni possibile argomentazione rivolta alla difesa del carcere. Il suo discorso risulta essere più analitico di quello utilizzato dagli autori precedenti. Egli crea quasi un trattato, in cui partendo dall'ipotesi istituzionale generale, arriva a dimostrare la negatività del sistema.
La finalità del carcere, come analizzato più volte in questa ricerca e dall'autore stesso, è vista come difesa sociale o come retribuzione32. Secondo Mathiesen, le teorie che indicano il carcere come difesa sociale, considerano la pena come mezzo per difendere la società da chi delinque. In che modo? Prevenendo. La prevenzione deve essere diretta al singolo, già condannato, affinché non commetta altri reati ed alla popolazione in generale per non avere la tentazione di delinquere.

PREVENZIONE
AL SINGOLO
RIABILITAZIONE

Figura n.6: Come funziona il sistema penale basato sul concetto di difesa sociale.


Come è possibile raggiungere questi obiettivi? Con la riabilitazione individuale, con la deterrenza, e con la neutralizzazione collettiva, che però l'autore ritiene non siano difendibili poiché non hanno mai ottenuto un risultato positivo come prevenzione, anzi hanno alimentato la recidiva e creato inoltre una patologia psichiatrica33.
Il motivo dell'insuccesso della riabilitazione viene imputato al fatto che il soggetto a cui si deve restituire la dignità e i diritti precedenti dovrebbe intervenire attivamente in questo processo, cosa che non succede perché il reo non viene riabilitato per riscattare la sua integrità di essere sociale, ma la sua rieducazione è un mero strumento di difesa per la società.
Una lunga permanenza in carcere, infatti fa identificare ed adeguare il detenuto non con la società esterna da cui è stato allontanato e separato, ma con la struttura e i valori carcerari della devianza che diventeranno dominanti anche quando il soggetto rientrerà nella società34.
Il secondo scopo che si prefigge il sistema penale, ovvero la deterrenza, si basa sul concetto di esempio e common sense, il carcere deve servire come elemento dissuasore del crimine, si ha paura di finire "tra quattro mura", dunque ci si comporta bene. Mathiesen mette in discussione il concetto su cui è basata la deterrenza, cioè la generalizzazione della propria esperienza agli altri, sostenendo che più si ha a che fare con gruppi sociali che presentano un alto tasso di criminalità, meno è efficace la paura della prigione, che invece diventa significativa nei gruppi che non ne hanno bisogno. Questo è dato dal fatto che la cultura carceraria si basa sul principio per cui il detenuto "rifiuta coloro che lo rifiutano". Entra in un circolo vizioso per cui la recidiva assume il valore di vendetta nei confronti del sistema penale, si intraprende una forma di sfida tra criminale o soggetto deviante e istituzione carceraria, in cui la violenza è l'unica modalità comunicativa.
L'autore non limita il suo intervento ad una analisi spietata del carcere che conclude con l'indifendibilità del carcere stesso, ma espone anche un piano concreto di intervento per l'abolizione dello stesso nel breve e nel lungo periodo. Non dimenticando però di sottolineare, con una interpretazione politica le reali funzioni del carcere.
Depurativa, per allontanare e dimenticare gli elementi improduttivi della società, diversiva per distogliere l'attenzione dei cittadini dalle azioni veramente pericolose (produzioni che devastano l'ambiente, impiego della forza lavoro in forme nocive alla salute commesse da coloro che detengono il potere), simbolicaper evidenziare, attraverso la stigmatizzazione atemporale di pochi, la non pericolosità dei molti35.
Il progetto, che inizialmente vedeva l'abolizione del carcere nel 2010, l'anno dell'abolizione del piano di energia nucleare in Svezia, considera ancora questa data come data simbolica. Per dimezzare il numero dei detenuti attraverso la diminuzione del massimo delle pene, Mathiesen propone la chiusura della maggior parte delle carceri, il trasferimento dei costi di detenzione alla prevenzione nella comunità (posti di lavoro per i giovani, maggior interesse da parte dei servizi sociali per i minorenni a rischio, organizzazione di centri di ritrovo per adulti e bambini delle classi più disagiate). Egli prevede anche un rimborso simbolico per le vittime del crimine ed una umanizzazione delle rimanenti carceri per gli individui veramente pericolosi.
In questo modo si sposterebbe l'attenzione dall'autore del reato e dalla pena detentiva alla vittima del reato intervenendo con un aiuto reale, adeguato (anche come risarcimento pecuniario) e simbolico (come riparazione del danno morale subitoattraverso il ricorso alla comprensione collettiva ed al pagamento di trattamenti terapeutici scelti dalla vittima stessa).
La concentrazione sulla vittima e l'aiuto concesso a seconda dei danni subiti, senza dimenticare chi ha commesso il reato, potrebbero entrare a far parte della campagna di opinione ed informazione sulla legislazione e sulla politica penitenziaria per l'intera società. Diventerebbe una società portata alla compassione piuttosto che alla punizione e quindi più morale.


1 Per quanto riguarda le misure alternative si veda cap. 3.
2 Vedi cap.1, par.5.
3 Gallo E., Ruggiero V., Il carcere immateriale, ed Sonda, Torino 1989.
4 Si veda per quanto riguarda il concetto di riconciliazione il modello proposto da Hulsman nel cap.1, par5.
5 Per questa parte riguardante la funzione della pena detentiva, è stato utilizzato un intervento inedito del professor Ruggiero, titolare della cattedra di sociologia dell'università presso la Middlesex University di Londra, durante la conferenza sull'abolizione del sistema penale, tenutasi a Zurigo nel 1999.
6 Per la teoria retributiva della pena si veda il cap.1, par. 4.
7 Ruggiero fa riferimento ai danni sociali non quantificabili, come gli omicidi bianchi, l'inquinamento, la devastazione.
8 Ruggiero V., intervento alla conferenza di Zurigo, op. cit..
9 Per il rapporto vittima-reo, si veda il modello nord-americano, trattato nel cap.1, par. 5.
10 Per quanto riguarda i conflitti legati all'espropriazione.
11 Gallo E., Ruggiero V., op.cit., pp.134-137.
12 Vedi appendice, con intervista a V. Ruggiero.
13 Movimento nato a Trieste, proposto da un gruppo di psichiatri democratici .
14 Pavarini M., introduzione a Abolire le pene?, di N. Christie, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984.
15 Bernart de Célis J., Hulsman L., Pene perdute, il sistema penale messo in discussione, Edizioni Colibrì, Torino 2001.
16Op. cit. .
17Op. cit., p. 59.
18 Vedi per quanto riguarda il modello da applicare una volta eliminato il sistema penale, cap.1, par. 5.
19Op. cit., pp. 93-94.
20 Vedi cap. 4, par. 1.
21 Vedi la composizione e numerosità della popolazione carceraria nei diversi paesi europei, cap. 2, par. 5.
22 Vedi cap. 1, par 5, le tendenze neoclassiche.
23 Vedi cap. 4, par. 1.
24 N. Christie, Abolire le pene?, op. cit., pp. 47-48.

25 Christie N., Stati Pericolosi, appendice al libro di Brown A. Pratt J., Dangerous Offenders, London 2000.
26Ibidem.
27 La prigione più grande in Norvegia ospita 350 detenuti.
28 N. Christie, Appendice al libro di Brown e Pratt, op. cit.,pp. 135.
29 Particolare al riguardo risulta la teoria studiata da Loic Wacquant, ricercatore presso il Centre de sociologie européenne del Collège de France, e docente all'università della California di Berkeley, collaboratore da vari anni di "Le Monde diplomatique". Nel suo libro, Parola d'ordine: tolleranza zero, Feltrinelli, Milano, 2000, sostiene che la politica penitenziaria intrapresa dagli Stati Uniti negli ultimi due decenni, sia il segno di un "declino dello stato economico, diminuzione dello stato sociale e glorificazione dello stato penale". L'autore sostiene che vi sia una correlazione tra il diritto al lavoro e la riaffermazione del diritto alla sicurezza. Secondo lui infatti il sistema penale contribuisce direttamente alla regolazione del mercato del lavoro, con un effetto duplice: da una parte comprime il livello di disoccupazione, sottraendo in un solo colpo alcuni milioni di individui alla "popolazione in cerca di lavoro", dall'altra incrementa l'occupazione nell'ambito dei beni e servizi carcerari. Egli afferma che a partire dagli anni novanta le prigioni hanno abbassato il tasso di disoccupazione di due punti. Questo secondo Wacquant ha portato 1) crescita smodata della popolazione carceraria negli USA, quadruplicata negli ultimi 20 anni. I detenuti oggi sono quasi 2 milioni; 2) estensione continua della tutela giudiziaria, attraverso le condanne con condizionale o libertà su cauzione, che grava su 6 milioni di americani, alimentando così quello che egli chiama la nuova era del panottismo; 3) aumento dei mezzi a disposizione delle amministrazioni penitenziarie, divenute il terzo datore di lavoro del paese con più di 600.000 addetti, con conseguenza di tagli notevoli a disposizione di servizi sociali, sanitari ed educativi; 4) progressivo aumento di neri reclusi, che ormai costituiscono la maggioranza tra i detenuti. La critica che Wacquant muove nei confronti di Giuliani, sindaco di New York, da cui ha preso ironicamente spunto per il titolo del suo libro, è proprio l'aver intrapreso una politica di "pulizia di classe" dello spazio pubblico, perseguita attraverso la cacciata dalle strade dei miserabili, spesso immigrati, creando una "impresa di sicurezza".
30 N. Christie, Abolire le pene?, op. cit., pp.33.
31 Mathiesen T., Perché il carcere?, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996.
32 Vedi cap.1, par. 4 e 5.
33 Mathiesen T., op. cit., p. 82.
34Ibidem.
35 Mathiesen T., op. cit., p. 81.

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