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Convegno di Zurigo


Intervento di Rosaria Biondi (Opera, maggio 1999)

Sono Rosaria Biondi, sono una detenuta politica in carcere da 20 anni "a tempo pieno", non esco in permesso, non sono in semilibertà perché non chiedo i benefici premiali della Legge Gozzini rispetto alla quale faccio obiezione di coscienza.

Ho letto il libro di Vincenzo e per dirne ciò che ne penso uso le parole di un altro nostro amico: "È il libro che avrei voluto scrivere se ne fossi stato capace". Pertanto questa mia lettera vuol essere una testimonianza in più dal carcere.

Io penso che le tematiche abolizioniste debbano misurarsi in Italia con la politica giustizialista e carcerista che, da ultimo, sta conducendo il governo di sinistra, che su questo terreno non ha operato nessuna rottura con le politiche di altri governi. Anzi, sta dando una forte accelerazione al dilagare senza limiti del sistema penale, osando molto più di qualsiasi altro governo del passato. E non c'è nessuna opposizione. Questo non da oggi, se ormai sono anni che tutte le tensioni sociali, d'emergenza in emergenza, vengono affrontate esclusivamente in termini giudiziari e penali. Non vi è nessuna opposizione perché al massimo viene criticato questo o quel particolare aspetto delle decisioni prese, ma è la logica del sistema penale che non viene mai messa in discussione, e così non solo non si riesce a determinare un cambiamento di questo stato di cose, ma si finisce con l'esserne passivamente partecipi. Si diventa portatori della cultura del giudizio e della condanna che sta trasformando tutta la società in un'enorme prigione.

Abolizionismo significa per me aprire dei varchi in questo muro, che è anche ma non soltanto il muro che ho davanti.
Altri muri sono quelli di una società che imprigiona e che si va imprigionando. Uomini e donne che si chiudono ed escludono, che si tengono sotto controllo, che diventano giudice e poliziotto dell'altro, del diverso, del non uguale che è da punire, da chiudere e far scomparire da qualche parte, per la propria sicurezza, o piuttosto per il proprio egoismo.

In 22 milioni partono per le ferie pasquali, mentre c'è la guerra, qui e non dall'altra parte del mondo. Mi sono chiesta, ma come hanno paura di tutto e non hanno paura della guerra? Eh no, perché anche questa guerra ha le caratteristiche di una condanna penale. Non fa né paura né orrore perché segue questa logica. Il giudizio e la punizione sono diventati i valori dominanti, l'importante è condannare ed eseguire la condanna, senza chiedersi né se si poteva fare diversamente né cosa ne sarà del condannato, quali gli esiti della condanna. L'altro semplicemente scompare. Così in guerra e così in carcere.

Non c'è indifferenza nel popolo dei vacanzieri pasquali, c'è complicità e questo tipo di complicità è l'orrore in più di questa guerra. Complici si va in massa coi bambini intorno alle basi NATO ad ammirare i poliziotti internazionali che entrano in azione, e si fa un picnic.
Si è giunti alla forma più estrema di delega, s'è perso il senso della vita - la propria e quella degli altri - il senso delle cose.

Forse potevano bastare 2 mila persone che si offrissero come scudi umani in Serbia e in Kosovo per inceppare il meccanismo, rompendo la complicità, rischiando, mettendosi in gioco.
Si manifesta in migliaia contro il razzismo a favore degli immigrati, ma i clandestini continuano a essere clandestini, i lager d'accoglienza pieni, e gli immigrati in generale non se la passano tanto bene. Con un maggiore coinvolgimento, se ognuno dei manifestanti si portasse a casa un clandestino, di clandestini non ce ne sarebbero più e i lager sarebbero inutili.

Qualche mese fa il neo-ministro comunista della giustizia aveva proclamato, quale irrinunciabile principio di civiltà, l'abolizione dell'ergastolo. Nella prima (e finora ultima) fase della discussione parlamentare i 28 anni della proposta di legge sono sembrati davvero troppo pochi, e l'accordo è stato trovato per 30-33 anni, Quel dibattito è stato allucinante: si parlava della vita delle persone e sembrava che nessuno si rendesse conto di cosa sono 30 anni di vita, e 20 e 10 anni. Dopo 10 anni chi è uguale a se stesso di 10 anni prima? Oppure è solo qui dentro che il tempo è, gli anni sono e sono lunghi e sono tanti, sempre e tutti?
Peggio ancora del dibattito parlamentare è stato ed è il silenzio assoluto che c'è stato fuori del parlamento. Nessuno dell'abolizione dell'ergastolo ha sentito la necessità morale di farne una battaglia, non c'è stato e non c'è non dico un movimento, ma nemmeno un sussulto.
E intanto il governo di sinistra va anche oltre quello che la destra ha mai osato fare. Vuole innalzare spaventosamente le pene per scippi e furti. I 30 mila che fino a qualche mese fa (in un raptus passeggero di garantismo) si diceva che nemmeno dovrebbero stare in carcere (trattandosi di detenuti condannati per reati minori, quali appunto scippi, furti e piccolo spaccio), ora quei 30 mila sono destinati a diventare 60 mila.
La porta blindata della cella di fronte a quella dove sono io è chiusa da diversi giorni, chiusa e sigillata. La donna che era mia "dirimpettaia" si è ammazzata, il giorno dopo il processo d'appello: le avevano comminato altri due anni di carcere, mentre era a fine pena secondo la precedente condanna. Due anni di troppo, impossibili, insostenibili, irragionevoli (in effetti quale la loro ragione?). Così ho pensato, sentendo del nuovo "pacchetto giustizia" del governo, che ci sarebbe da inserire un altro provvedimento: l'istituzione di un'impresa di pompe funebri accanto al portone di ogni carcere. Non è una macabra battuta a effetto, da qui dentro vivi e vedi una realtà che si avvita su una terribile spirale destinata soltanto a peggiorare. In pochi mesi ho visto ammazzarsi tre donne (in tutto siamo in 50), Qualche bustina di roba, qualche rapina impropria, queste le ragioni della loro detenzione.

"L'orizzonte mi sembra molto fosco", non sono parole mie ma dell'ex direttore generale delle carceri, appena silurato dal ministro. L'orizzonte cui si riferisce è la situazione all'interno delle carceri per come si prospetta secondo la politica ministeriale e governativa di incremento delle carcerazioni e della sicurezza in carcere.

Ancora una volta, davanti a queste prospettive e a una realtà già drammatica, non c'è stata nessuna reazione che abbia il senso del coinvolgimento, del sentire che la pena dell'altro è anche la propria pena, che la non libertà dell'altro è anche la propria pena, che la non libertà dell'altro è la propria non libertà.
Liberarsi dalla necessità del giudizio e farsi piuttosto garante dell'altro, non più complice dell'altrui condanna. È questo, secondo me, il senso concreto dell'abolizionismo e da qui è possibile partire.

Ciò che succede nelle carceri italiane non è un mistero, i numeri si conoscono, ma non fanno scandalo. E così il numero dei detenuti aumenta costantemente e aumentano gli ergastoli, che sono realmente infiniti e non virtuali - cosa poi ci sarà di virtuale in 20-25-30 anni di galera e di vita? -; ci sono i dannati del 41bis che di proroga in proroga è diventato eterno; ci sono 7 mila detenuti in regime di "alta sorveglianza"; ci sono le condanne a morte non comminate ma che tacitamente si consumano nelle prigioni e vengono chiamate suicidi; ci sono i malati di AIDS e i malati gravi che qualche volta fanno in tempo a uscire per andare a morire; ci sono i detenuti super pericolosi a vita che non vengono liberati neppure per morire.
La vita in carcere è normata dalla Legge Gozzini, che è la legge della premialità e della discriminazione, un sistema di premi invece che di diritti. Di fatto in carcere si vive un quarto grado di giudizio, lungo quanto è lunga la condanna (nel caso dell'ergastolo è perciò infinito). In questo stato di giudizio permanente, che non prevede difesa e appello, la vita delle persone viene stritolata; in una condizione di ricatto quotidiano la libertà resta una lontana illusione, la pena aggravata dallo svilimento della dignità delle persone.
Solo una minoranza riesce a uscire districandosi tra premi e penalità, in un labirinto di specchi deformanti dove ci si perde - si perde se stessi - e dove tutto dipende dal caso. Dipende dal carcere dove sei finito, da come la pensano direttore, educatori, giudici ecc.; dipende dal fatto se riesci simpatico e sai presentarti bene a chi ancora ti giudicherà e deciderà della tua vita. E poi ci vuole un sostegno fuori, altrimenti dove vai in permesso oppure a lavorare?

Io penso che guardando a una prospettiva abolizionista siano tante le battaglie da fare perché sempre di meno si ricorra al carcere. E penso a obiettivi concreti: la legalizzazione delle droghe, l'abolizione dell'ergastolo, l'abbassamento e non l'innalzamento delle pene, automatismi e non premialità nel regime carcerario. Ma soprattutto penso che questi obiettivi per essere veramente concreti, per poter essere raggiunti, debbano essere vissuti con spirito diverso, bisogna che chi è libero metta in gioco qualcosa di sé, altrimenti si resta spettatori impotenti e complici.

La "madre di tutte le emergenze" è stata la "lotta al terrorismo", il centro del vortice emergenziale che è diventato la normalità del sistema penale ad avvolgere tutto e tutti.

Io penso che per parlare di abolizionismo in Italia, e agire in questo senso, non si possa prescindere dalla questione dei detenuti politici.
Su quella prima emergenza si è costruito il sistema delle emergenze continue, il sistema della soluzione giudiziaria per ogni evento sociale. Se quella prima pietra non viene rimossa non si potrà mettere in discussione tutto il resto.
In questi anni quella pietra è diventata un macigno che pare inamovibile. E questo perché la soluzione è stata delegata al Palazzo e alla politica. Così ci si è occupati di varie questioni della politica: di equilibri e tatticismi, di convenienza del momento (ma il momento conveniente non c'è mai), di formule giuridiche. Ci si è occupati della soluzione politica ma non dei detenuti politici: il problema dovremmo essere noi e non l'astrazione di una soluzione politica. Si resterà nell'astrazione, e perciò nel nulla di fatto, fin quando questa non sarà la battaglia del coinvolgimento di chi è libero nel destino di chi libero non è; finché non si sentirà come un macigno l'essere complici dell'altrui condanna.

Io potrei uscire dal carcere chiedendo i benefici premiali, così come hanno fatto tanti altri. Le tante "soluzioni individuali" sono diventate la soluzione per una storia sociale e politica che tutto è stato tranne che un "fatto individuale". Io non voglio che le mie idee, i miei torti e le mie ragioni - di ieri e di oggi - siano merce di scambio per la libertà. Difendo la mia libertà di coscienza e la mia dignità rifiutando una libertà premiata, sottraendomi al ricatto del premio.
Ma se chi è libero impegnasse la sua parola di persona libera (e perciò la sua parola non sarebbe premiata), se si facesse garante per me e per altri come me, il sistema del premio verrebbe spezzato e saremmo più liberi tutti, nella realtà e nelle coscienze.

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