E.7 Può il consumismo etico fermare la crisi ecologica?

No. In effetti, potrebbe solo peggiorarla creando nuovi mercati e quindi incrementandone la crescita. Comunque, per evitare equivoci, noi riconosciamo il fatto che usare materiali grezzi riciclabili o rinnovabili, ridurre il consumo e comprare prodotti e tecnologie “amici dell’ambiente” sia molto importante, ovviamente saremmo gli ultimi a sminuire queste cose. Ma tali misure sono di uso molto limitato contro i veri problemi ecologici che andiamo a fronteggiare. Al massimo, in questo modo, si può ritardare e non prevenire la definitiva distruzione della base ecologica del pianeta da parte del capitalismo.

Il consumismo “verde” è l’unica cosa che il sistema ci offre di fronte alla crescente crisi ecologica. Di solito si limita a propinarci abili campagne pubblicitarie da parte di grosse corporazioni coinvolte nell’inquinamento al fine di lanciare al pubblico veloci misure di pronto-soccorso tramite utilizzo di alcuni materiali riciclati o incentivando la sottoscrizione a fondi per la salvaguardia ambientale, prontamente presentati nel nome della “cura dell’ambiente”, mentre a telecamere spente, l’inquinamento e il divoramento di risorse non-rinnovabili prosegue. Si preoccupano anche di “riverniciarsi di verde”, mostrando come le compagnie, generosamente, finanziano le campagne di pubbliche relazioni colorandole di “verde” senza però andare a intaccare le loro personali politiche “nere”, cioè inquinanti!

Ciò significa che prodotti e compagnie in apparenza “verdi” in realtà non lo siano. Molte imprese ingaggiano costose ditte di pubbliche relazioni per produrre pubblicità che dipinga una falsa immagine di esse come amiche dell’ambiente (cioè, si danno una "verniciatura di verde”). Questo indica una debolezza delle economie di mercato – ostacolano(o anche distorcono) le informazioni utili ai/alle consumatori/consumatrici per poter decidere saggiamente. Il mercato non fornisce abbastanza informazioni per i consumatori così che possano determinare se un prodotto sia effettivamente verde o meno – il mercato dà loro giusto prezzi e pubblicità. Le consumatrici devono affidarsi ad altre fonti, molte delle quali sono giornali e organizzazioni minori e quindi difficili da reperire per trovare informazioni accurate, per controbilanciare il potere e la persuasione della pubblicità e il lavoro degli esperti di pubbliche relazioni (vedi capitolo sul greenwashing chiamato “Silencing Spring” nel Toxic Sludge is Good for You! di John Stauber and Sheldon Rampton per un buon sommario sull’uso delle ditte di pubbliche relazioni).

Anche ditte apparentemente amiche dell’ambiente come “The Body Shop” possono mostrare una falsa immagine di ciò che fanno. Per esempio, il giornalista Jon Entine investigò su questa ditta nel 1994 e scoprì che solo una minuscola frazione dei suoi ingredienti veniva da Trade Not Aid (un programma che, si diceva, stesse aiutando i Paesi in via di sviluppo). Entine scoprì inoltre, che la compagnia usò molti additivi scaduti e scarti di magazzino pieni di petrolchimici non rinnovabili, così come ingredienti testati sugli animali. Quando contattò la compagnia, questa subito ingaggiò una ditta di pubbliche relazioni per combattere la storia di Entine, il quale ricevette anche minacce di azioni legali [John Stauber and Sheldon Rampton, Toxic Sludge is Good for You!, pp. 74-5] Questo mette in luce i pericoli dell’affidarsi al consumismo per risolvere i problemi ecologici. Come afferma Entine:

    “The Body Shop è una corporazione con privilegi e poteri nella società come tutte le altre. E come tutte le altre corporazioni crea prodotti non                 sostenibili, incoraggia il consumismo, usa materiali non rinnovabili, assume grosse ditte di PR e studi legali ed esagera riguardo la sua linea di condotta     ambientalista. Se vogliamo davvero addivenire ad una società sostenibile, è di importanza vitale che ci si circondi di istituzioni…le quali siano                     realmente sostenibili. The Body Shop ha ingannato il pubblico cercando di far credere che fossero molto più impegnati nello sviluppo sostenibile di             quanto, in realtà, non avvenisse. Dovremmo... quanto prima…trattare come meritano The Body Shop e le altre ditte che rivendicano di essere ciò che         non sono” [citato da John Stauber e Sheldon Rampton, Toxic Sludge is good for you!, p. 76]


Il consumismo “verde” viene ostacolato dalla natura stessa del mercato – come il mercato riduce tutto al mero prezzo e in questo modo nasconde le informazioni richieste per decidere in maniera saggia su cosa sia più opportuno consumare. Per di più, è in grado di poter essere utilizzato in modo da compiere maggiori danni grazie all’uso delle pubbliche relazioni per dipingere una falsa immagine delle compagnie e delle loro attività a tema ambientale. Anche considerando che le compagnie siano oneste nei loro intenti e minimizzando i loro danni ambientali, non si può affrontare la causa fondamentale della crisi ecologica dall’interno del principio di “crescita o morte” tipico del capitalismo (imprese cosiddette “verdi” necessitano di incrementare il loro margine di profitto, accumulare capitali e espandersi) e nemmeno si può indirizzare il ruolo pernicioso giocato dalla pubblicità o la carenza di controllo pubblico sulla produzione e sull’investimento sotto il capitalismo. Pertanto, appare come una soluzione del tutto inadeguata.

Andrew Watson riassume così il consumismo “verde” in maniera assai eloquente:

    “…il consumismo verde, il quale non è altro se non un cinico tentativo di mantenere i margini di profitto, non rappresenta una sfida all’accumulazione     eco-cida capitalistica, ma in realtà la agevola aprendo giusto un altro mercato. Tutti i prodotti, non importa se ‘verdi’, generano inquinamento,                 utilizzano risorse ed energia e causano delle infiltrazioni nell’ambiente. Questo non accadrebbe in una società in cui la produzione venisse                         razionalmente  pianificata, ma in una economia esponenzialmente in espansione, la produzione, anche se ‘verde’, con ogni eventualità distruggerebbe         l’ambiente terrestre. Gli aerosol ‘amici dell’ozono’, per esempio, continuano a contenere altri additivi nocivi; creano inquinamento durante la                     fabbricazione, durante il loro uso, una volta che ci si disfà di essi e utilizzano enormi quantità di risorse e energia. Di sicuro, fino ad oggi, è stata data         grande rilevanza alla pretenziosità ‘verde’ di parecchie compagnie, presentandole con una accettabile e rassicurante immagine a tinte ‘verdi’ ma con         assai poca, quando non addirittura nessuna, sostanza.  Il mercato viene presentato come il salvatore dell’ambiente. La cura dell’ambiente viene                 adattata e trasformata in autentico supporto ideologico al capitalismo. Anziché accrescere la presa di coscienza delle cause della crisi ecologica, il             consumismo ‘verde’ altro non fa se non mistificarle. La soluzione viene presentata come atto individuale piuttosto che come azione collettiva da parte     di individui impegnat* a lottare per un cambiamento sociale. Le corporazioni si fanno grasse risate lungo la strada che le porta alle banche” [From red     to green, pp. 9-10]

Il consumismo “verde” per sua vocazione, non può sfidare la natura di “crescita o morte” del capitalismo. Persino compagnie “verdi” necessitano di ottenere profitti e quindi devono espandersi in modo da poter sopravvivere nel mercato. Il consumismo “etico”, come l’investimento “etico”, è pur sempre basato sull’ottenimento di profitti, l’estrazione del valore del surplus da altri. Questo appare arduo da definire “etico” perché non appare proprio in grado di fronteggiare la disuguaglianza nello scambio che si nasconde nel cuore del capitalismo e nemmeno appare capace di fronteggiare le relazioni di natura autoritaria che ne derivano.

In aggiunta, siccome il capitalismo è un sistema mondiale, le compagnie possono produrre e vendere i loro prodotti “non-verdi” e generalmente, merci dannose dappertutto. Molti dei prodotti e attività professionali bandite o boicottate nei Paesi sviluppati, vengono vendute e usate nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo. Per esempio, il famoso Agent Orange (usato dagli americani come defoliante nelle foreste del Viet Nam durante la guerra) è largamente usato come erbicida nel Terzo Mondo ed essendo DDT, l’Agent Orange contiene uno dei componenti più tossici che siano conosciuti dall’Umanità, responsabile di migliaia di bambin* nati* con malformazioni in Viet Nam. La Ciba-Geigy continua a vendere l’Enterovioform (un farmaco che causa cecità e paralisi in almeno 10.000 giapponesi che ne fanno uso) in quei Paesi che lo consentono. La Ciba-Geigy, comunque, ha anche spruzzato sulla pelle nuda di alcun* bambin* egizian*, un pesticida chiamato Galecron, giusto per testarne il livello di sicurezza. La compagnia ha dichiarato in un secondo momento, di essersi profondamente rammaricata di aver utilizzato quest* bambin* come volontari/e. Molte compagnie si sono trasferite in Paesi in via di sviluppo per sfuggire alle rigide leggi in materia di inquinamento e regolamentazione del lavoro salariato dei Paesi del Primo Mondo.

E nemmeno è sufficiente la domanda posta dal consumismo “verde” sul perché siano le elites dominanti interne al capitalismo che decidono cosa produrre e in che modo. Dal momento che queste elites sono mosse da considerazioni in base al profitto, se inquinare appare, allora, altrettanto profittevole, si avrà solo altro inquinamento. Per di più, il consumismo “verde” non rappresenta una vera e propria sfida al principio capitalista (essenziale) di consumare per il solo gusto  di consumare e non può nemmeno venire a patti con il fatto che la “domanda” venga creata, tramite largo accordo, dai “fornitori” stessi e specificamente da agenzie pubblicitarie che utilizzano 1 pacchetto di tecniche in modo da poter manipolare i gusti del pubblico così come vengono usate le loro pezze finanziarie in modo da poter garantire che le storie “negative” (cioè vere) circa i meriti ambientalisti di alcune compagnie, non salgano a galla nel bel mezzo della grande e popolare diffusione mediatica.

Siccome il consumismo etico è interamente basato su soluzioni di mercato contro la crisi ecologica, esso appare dunque, persino incapace di arrivare a riconoscere le radici di tale crisi, come la natura nebulizzante della società di mercato e le relazioni sociali che ne vengono generate. Individui completamente atomizzati, nebulizzati (“solisti”) non possono cambiare il mondo e “votandosi” al mercato difficilmente ridurrebbero la loro atomizzazione. Come dice Murray Bookchin: “Tragicamente, questi milioni [di ‘solisti/soliste’] hanno ammainato la bandiera del loro potere sociale, dunque, le loro personalità reali, lasciando campo libero a politici e burocrati che vivono in un nexus di comando e obbedienza in cui ci si aspetta da loro che continuino a giocare i ruoli ad ess* assegnati e nient’altro. Ebbene, questa è precisamente la causa immediata della crisi ecologica del nostro tempo – una causa cha ha le sue radici storiche nella società di mercato che ci ingloba…” [Toward an ecological society, p. 8]

Fino a che il mercato non verrà smantellato, soluzioni come il consumismo etico potranno giusto venir paragonate al combattere una foresta in fiamme con una pistola da acqua. Questo tipo di soluzioni sono destinate a fallire perché promuovono risposte individuali a problemi sociali, problemi che per via della loro stessa natura richiedono azioni collettive; cercano solo di occuparsi dei sintomi anziché focalizzarsi sulla principale causa dei problemi, in primo luogo.