C.1 Cosa determina i prezzi nel capitalismo?

I pro-capitalisti di solito sono d’accordo con quella che viene chiamata Teoria Soggettiva del Valore (TSV), come spiegato dalla gran parte dei libri di economia. Questo sistema economico viene denominato “marginalista”, per ragioni che andremo a spiegare.

In sostanza, la TSV sostiene che il valore di una comodità è determinato dalla sua utilità marginale al produttore e al consumatore. L’utilità marginale è il punto, su una scala di un individuo, nel quale il suo desiderio per un bene è appagato. Quindi il prezzo è il risultato di individuali, soggettive valutazioni nel mercato. Si può facilmente vedere come questa teoria potrebbe essere appetibile a quelli interessati alle libertà individuali.

Comunque, la TSV è un mito. Come molti dei miti contiene briciole di verità. Ma come spiegazione del come determinare il prezzo di una comodità, ha serie debolezze.

Il nocciolo di verità è che individui, gruppi compagnie, ecc. valutano veramente beni e li consumano/producono. La rata di consumo, per esempio, è basata sul valore di uso dei beni agli usufruenti (anche se quando qualcuno compra un prodotto è condizionato dai prezzi e delle considerazioni di entrata, come vedremo). Analogamente, la produzione è determinata dall’utilità del produttore a fornire nuovi beni. Il valore di uso di un bene è una valutazione altamente soggettiva, quindi varia da caso a caso tenendo conto dei gusti e bisogni di un individuo. Quindi ha un qualche effetto nel prezzo, come vedremo, ma come mezzo di determinazione del prezzo di un prodotto ignora le dinamiche dell’economia capitalistica e delle relazioni che si nascondono nel mercato. In effetti, la TSV tratta ogni comodità come opera d’arte, e questi prodotti di attività umana (grazie alla loro unicità) non sono comodità capitalistiche nel senso solito (non possono essere riprodotte e quindi il lavoro non può accrescere la loro quantità). Di conseguenza la TSV ignora la natura della produzione capitalistica. Di questo discuteremo nelle prossime sezioni.

Ovviammente, gli economisti moderni tentano di dipingere l’economia come una “scienza del libero prezzo”. Ovviamente, poche volte considerano che  di solito stanno dando per scontate strutture sociali esistenti e i dogmi economici costruiti intorno a loro e quindi li giustificano. Come Kropotin Indicò:

“Tutte le cosìddette leggi e teorie dell’economia politica in realtà non sono altro che affermazioni di questa natura:

Garantito che ci sono sempre in un paese una notevole quantità di persone che non possono sussistere un mese, o solo un giorno senza accettare le condizioni di lavoro imposte loro dallo Stato, o efferte loro da coloro che lo Stato riconosce come proprietari terrieri, di fabbriche, ferrovie, ecc.  allora i risultati saranno così e così.’

“Fino ad ora la politica economica delle classi medie è stata solo un racconto di cosa succede sotto le leggi appena menzionate – senza constatare distintamente le condizioni da sole. E poi, dopo aver descritto i fatti che appaiono nella nostra società sotto queste condizioni, le rappresentano a noi come rigide, inevitabili leggi economiche.”  [Kropotin’s Revolutionary Pamphlets, p. 179]

In altre parole, gli economisti prendono in considerazione gli aspetti politici e ed economici della società capitalistica (come diritti di proprietà, disuguaglianza, e così via) come validi e ci costruiscono teorie intorno. Il marginalismo, in effetti, prese il “politica” da “politica economica” supponendo giusta la società capitalistica con il suo sistema di classi, le sue gerarchie e disuguaglianze. Concentrandosi sulle scelte individuali loro isolano il contesto (il sistema sociale) nel quale queste decisioni vengono prese e da cosa furono influenzate. Infatti la TSV fu costruita mettendo in astratto certe scelte economiche e generando “leggi” applicabili per tutti gli individui, in tutte le società, in qualsiasi tempo. Questo significa che azioni concrete, non importa quando storicamente differenti, vengono trattati come espressioni universali dello stesso concetto. Quindi, nell’economia neoclassica, il lavoro stipendiato diventa lavoro, il capitale diventa mezzo di produzione, il processo lavorativo diventa una funzione produttiva, comportamento acquisito diventa natura umana. In questa maniera l’unicità della nostra società, cioè la sua base di lavoro salariato, viene ignorataa (“Il periodo attraverso il quale stiamo passando… si distingue da una speciale caratteristica – LE PAGHE.” [Proudhon, System of Economical Contradictions, p. 199]) e cosa è specifico al capitalismo è universalmente applicabile per tutti i tempi. Questa prospettiva non può che essere ideologica piuttosto che scientifica. Tentando di creare una teoria applicare universalmente loro nascondono il fatto che la teoria giustifica l’inuguaglianza tipica del capitalismo. Come afferma Edward Herman:

    “Nel 1849, l’economista inglese Nassau Senior rimproverò i difensori dei  sindacati e delle regolazioni sulla minima paga di esporre “economia dei             poveri”. Non gli venne mai in mente che lui e le sue conferenze stavano promuovendo l’”economia dei ricchi”; lui si considerò uno scienziato e un             portavoce di giusti principi. Questo autoinganno continuò e pervase maggior parte dell’economia fino al tempo della Rivoluzione Keynesiana degli anni     1930. L’economia Keynesiana, anche se fu usata come mezzo di servizio allo stato capitalista, era fastidiosa nel suo sottolineare l’instabilità del                 capitalismo, la tendenza verso la cronica disoccupazione, e il bisogno di sostanziale intervento governativo per mantere la sua viabilità. Con il                 risorgimento del capitalismo degli ultimi 50 anni le idee Keynesiane e il loro implicito richiamo per l’intervento sono state sotto attacco incessante e,         nella controrivoluzione intellettuale della Chicago School, l’economia tradizionale laissez-faire dei ricchi fu ristabilita come cuore dell’economia                 principale. [The economics of the Rich]

Herman continua a chiedere “perché gli economisti servono i ricchi?” e afferma che “per un motivo, i maggiori economisti sono fra i ricchi, e altri vogliono avanzare a simili altezze sociali. L’economista della Chicago School Gary Becker affermò che l’economia spiega molte azioni normalmente attribuite ad altre forze. Ovviamente lui non applicò mai questa idea all’economia come professione…” [Ibid.] Ci sono tante grandi consulazioni, ricerche, ecc. che creano una “’domanda effettiva’ che dovrebbe presupporre un’appropriata risorsa di offerta.” [Ibid.]

L’introduzione del marginalismo e la sua accettazione come “ortodosso” è servito, come serve ancora, a distrarre l’attenzione dalle domande più critiche sulla gente che lavora (per esempio, cosa va in produzione, come le relazioni di autorità influenzano la società e il posto di lavoro). Più che guardare a come le cose vengono prodotte, al conflitto generato nel processo di produzione e la generazione/divisione del surplus, il marginalismo ha preso cosa è prodotto come certo, come il posto di lavoro capitalista, la divisione del lavoro e le relazioni di autorità e così via.

Le teorie possono cercare la verità o servire interessi. Nell’ultima possibilità incorporeranno solamente concetti adatti a raggiungere gli scopi desiderati. Una teoria economica, per esempio, può sottolineare profitti, quantità di rendimento, ammontare di profitti e prezzi, e lasciar stare la lotta di classe, l’alienazione, la gerarchia e il vendere potere. Allora la teoria servirà ai capitalisti, e dato che loro pagano gli stipendi degli economisti e finanziano le loro università, anche gli economisti e i loro studenti ne trarranno beneficio.

L’analisi dell’equilibrio generale e il marginalismo sono fatte su misura per la classe dominante. Il marginalismo ignora le domande di produzione e si concentra sullo scambio. Afferma che ogni tentativo dei lavoratori di migliorare le condizioni (tramite, ad esempio, i sindacati) è controproducente, predica che “a lungo termine” ognuno stara meglio e quindi i problemi di oggi sono irrilevanti (e ogni tentativo di migliorarli è controproducente) e, ovviamente, i capitalisti sono autorizzati per avere i loro profitti, pagamenti di interessi e affitti. L’utilità di teorie come questa è scontato. Una teoria economica che giustifica la disuguaglianza, “dimostra” che i profitti, le paghe e gli interessi non sono sfruttatori e afferma che i potenti in economia con libero regno abbiamo più valore di uso (“utilità”) alla classe dominante più di quelli che non la hanno. Nel mercato delle idee, sono quelle che soddisfano le richieste e diventano intellettualmente “rispettabili”.

Ovviamente non tutti quelli che difendono il capitalismo sono ricchi (anche se molti vorrebbero diventarlo). Molti credono alle sue affermazioni che il capitalismo è basato sulla libertà, che i profitti, gli interessi e gli affitti rappresentano “meriti” per i servizi che si provvedono più che lo sfruttamento generato da posti di lavoro gerarchici e ingiustizia sociale. Comunque, prima di attaccare le questioni di profitti, affitti e interessi dobbiamo prima dire perché la TSV è sbagliata.

C.1.1 Cosa c’è che non va in questa teoria?

Il primo problema con l’utilizzo dell’utile marginale nel determinare i prezzi è rappresentato dal fatto che esso conduce ad un ragionamento circolare. Si suppone, infatti, che i prezzi debbano misurare l’”utile marginale” dei prodotti di prima necessità, ma i consumatori hanno pur sempre bisogno di conoscere il prezzo in anticipo così da poter valutare come massimizzare al meglio la loro soddisfazione. Pertanto, la teoria soggettiva del valore “Ovviamente si basa sul ragionamento circolare. Anche se questa tenta di spiegare i prezzi, i prezzi sono necessari per spiegare l’utile marginale”. [Paul Mattick, Economics, Politics and the Age of Inflation, p.58] Infine, come Jevons (uno dei fondatori del marginalismo) riconosce, il prezzo di un prodotto appare come l’unica verifica che si ha riguardo all’effettivo vantaggio economico del prodotto per il produttore. Dato che l’utile marginale aveva lo scopo di spiegare proprio quei prezzi, il fallimento di questa teoria non potrebbe essere più clamoroso.

Secondariamente, consideriamo la definizione di prezzo d’equilibrio. Il prezzo d’equilibrio è quel prezzo per il quale la quantità domandata è precisamente uguale alla quantità fornita. Con questo tipo di prezzo non si ha incentivo né per le domande, né per le offerte al fine di modificare questo andamento.

Perché ciò accade? La teoria soggettiva non spiega veramente perché sia questo il prezzo di equilibrio, al contrario di altri. E ciò è possibile proprio perché questa teoria ignora la richiesta di una misura oggettiva su cui basare le valutazioni “soggettive” all’interno del mercato. Il consumatore o la consumatrice, quando fa acquisti, ha bisogno dei prezzi per distribuire il denaro, così da massimizzare al massimo il proprio “utile” (e, ovviamente, la consumatrice si trova ad avere a che fare direttamente con i prezzi sul mercato, la sola cosa che la teoria del valore marginale si suppone debba spiegare!). E come fa una ditta a sapere se sta guadagnando o no se non confronta i prezzi sul mercato con i costi di produzione dei prodotti che mette in commercio? Come disse Proudhon: “…se domanda e offerta da sole determinano un valore, come possiamo dire cosa sia un’eccedenza e cosa una sufficienza? Se né costi e né prezzi di mercato, né salari possono essere matematicamente determinati, com’è possibile concepire un surplus, un profitto?”.[System of Economical Contradictions, p.114] Questa misura oggettiva può essere solamente l’unico processo di produzione possibile con il capitalismo, produzione a scopo di lucro. Le implicazioni che comporta sono importanti quando si scopre cosa determina il prezzo nel capitalismo, come vedremo nella prossima sezione.

I primi marginalisti erano consci di questo problema e affermarono che il prezzo rifletteva l’utile al “margine” (Jevons, uno dei fondatori della teoria marginalista, affermava che “il grado finale dell’utile ne determina il valore”); ma cosa ha determinato la posizione del margine stesso? Questa (la posizione del margine) è fissata dalla quantità di offerta disponibile (“L’offerta determina il grado finale dell’utile” – Jevons). In altre parole, il prezzo dipende dall’utile marginale, che dipende dall’offerta, che a sua volta è dipendente dal costo di produzione. In pratica, tutto si basa su misure definitivamente oggettive (offerta o costo di produzione) piuttosto che su valutazioni soggettive! Questo non sorprende per niente, dato che prima che qualcun* possa consumare (“valutare soggettivamente”) qualcosa sul mercato, questo qualcosa deve prima essere prodotto. E’ il processo di produzione che ri-organizza intenti ed energie da forme meno utili ad altre (almeno per noi) più utili. Il che ci porta dritti indietro alla produzione e alle relazioni sociali che esistono in una data società – e i pericoli politici che s’incontrano nel definire valori (scambio) in termini di lavoro (vedi la prossima sezione). Dopotutto, un individuo non ha a che fare solamente con una data offerta sul mercato, ma anche con i prezzi, includendo persino i costi associati con la produzione e il relativo guadagno.

Dato che l’unica mira del marginalismo era di astrarsi lontano dalla produzione (al cui interno le relazioni di potere sono ben chiare) e concentrarsi sullo scambio (dove il potere lavora indirettamente), non sorprende che la prima teoria dell’utile marginale fu presto abbandonata. La continua discussione sull’”utile” nei libri di testo d’economia è di natura principalmente euristica. Prima di tutto, gli economisti neo-classici utilizzarono l’“utile” misurabile (cardinale) - cioè lo stesso “utile” per tutti - ma ciò causò problemi politici (poiché questo implicava che l’utile cardinale di un euro extra nelle mani di una persona povera avesse notevolmente più valore della perdita di un euro da parte di una persona ricca e questo giustificò ovviamente le politiche di re-distribuzione). Quando si prese coscienza di ciò (insieme all’ovvio fatto che l’utile cardinale fosse impossibile da mettere in pratica), l’utile divenne “ordinale” (l’utile divenne una cosa individuale e quindi non misurabile). In seguito, anche l’utile ordinale fu abbandonato perché le varie politiche interpersonali non erano confrontabili e quindi i prezzi oggettivi avrebbero benissimo potuto derivare da queste ultime (e questa principalmente fu l’argomentazione di Adam Smith, che lo portò a sviluppare una teoria del valore sul lavoro più che sull’utile, o valore d’uso). Con l’abbandono dell’utile “ordinale”, l’economia principale tralasciò persino di pensare in termini di preferenze individuali. Ciò significa che la moderna economia non possiede una vera e propria teoria sul valore e senza di essa, l’affermazione che i metodi del capitalismo faranno bene a tutti o che le sue produzioni soddisferanno le preferenze individuali non hanno alcun fondamento razionale.

La teoria dell’utile fu gradualmente spogliata di tutto il suo potere e ridotta da utile cardinale a ordinale e quindi, da utile ordinale a “preferenza rivelata”. Questa ritirata dall’utile cardinale (pura fantasia) ad utilità ordinale (distinzioni senza differenza) a “preferenze rivelate” (tautologia nuda e cruda – i consumatori massimizzano l’utilità totale come “rivelato” dalle strutture di spesa, o i consumatori massimizzano ciò che loro stessi massimizzano) fu una delle tante ritirate messe in atto da parecchie marginaliste una volta che le loro contraddizioni furono esposte alla luce di semplici ma penetranti domande.

Mentre esssi ignorano la teoria sull’“utile” del valore, la maggior parte delle economie principali accetta le nozioni di “competizione perfetta” e dell’ “equilibrio generale” walrasiano che già facevano parte di questa teoria. Il marginalismo cercò di mostrare come, usando le parole di Paul Ormerod: “…alla luce di alcuni presupposti, il sistema di libero mercato avrebbe portato ad un’allocazione di un dato insieme di risorse considerate in un certo e ristretto senso, ottimali dal punto di vista di ogni individuo e compagnia nell’ambito economico”. [The death of economics, p. 45] Questo è quanto dimostrò l’equilibrio generale walrasiano. In ogni modo, tali presupposti richiesero delle verifiche sul fatto di essere qualcosa di non-realistico (per minimizzare). Come ancora fa notare Ormerod:

    “…non si può enfatizzare in maniera così eccessiva il fatto che…il modello competitivo sia lungi dall’essere una rappresentazione razionale di cosa in         pratica sia l’economia occidentale …E’ una farsa. Il mondo non è costituito da, per esempio, un enorme numero di piccole industrie, nessuna delle quali     in grado di avere un certo controllo sul mercato…La teoria introdotta dalla rivoluzione marginalista si basava su una serie di postulati                             riguardanti il comportamento umano e il funzionamento dell’economia. Fu piuttosto un esperimento di puro pensiero, con una assai piccola :                     razionalizzazione empirica dei presupposti.”

Infatti, “il peso dell’evidenza” è “contro la validità del modello di generale equilibrio competitivo come rappresentazione plausibile della realtà”. [Op. Cit., p. 48, p. 62] Per esempio, oligopolio e competizione imperfetta sono state astratte da tutto ciò in modo tale che questa teoria non consenta di rispondere a domande interessanti, rivolte all’asimmetria dell’informazione sul potere di negoziazione tra agenti economici, che ciò sia dovuto o no alla misura, all’organizzazione o ancora a deficienze sociali o qualsiasi altra cosa. Nel mondo reale, l’oligopolio è cosa comune e l’asimmetria delle informazioni e del potere di negoziazione, è la norma. Astrarsi da queste cose significa presentare una visione economica agli antipodi della realtà quotidiana che le persone vivono e pertanto, si può solo proporre soluzioni che danneggiano coloro con un più debole potere di negoziazione e in possesso di informazione alcuna. Inoltre, il modello è posto all’interno di un ambiente senza tempo, con persone e compagnie che lavorano in un mondo in cui hanno una conoscenza e un livello di informazione perfetti riguardo all’andamento dei mercati. Un mondo senza futuro e quindi senza incertezze (ogni tentativo di includere il tempo e quindi incertezze, garantirebbe la perdita da parte di questo modello, della sua validità). Tale modello non può contare in pieno né in parte sulla realtà, perché gli agenti economici non conoscono veramente cose come i prezzi futuri, la futura accessibilità di beni, i rinnovamenti delle tecniche di produzione o le tipologie di mercato che si susseguiranno in futuro, ecc. Invece, per ottenere i suoi risultati – prove sulle reali condizioni d’equilibrio – il modello presuppone che coloro che si muovono in determinati ambiti economici, abbiano perfetta conoscenza almeno delle probabilità di tutte le possibili scappatoie per l’economia. La verità nella realtà di tutti i giorni è il contrario.

In questo mondo perfetto, senza tempo, il capitalismo di “libero mercato” si dimostrerà essere un efficiente metodo di allocazione delle risorse e tutti i mercati saranno liberi da qualsiasi ostacolo. Almeno in parte, la Teoria Generale dell’Equilibrio appare come una risposta astratta ad una altrettanto astratta ma importante domanda: può un’economia basarsi solo sui segnali di prezzo dei mercati, in modo da poter disciplinare l’informazione? La risposta dell’equilibrio generale è chiara e definitiva – si può descrivere una tal economia attraverso queste proprietà. In ogni modo, con ciò, non è stata effettivamente descritta una vera e propria economia e visti i presupposti, un’economia di questo genere non potrebbe esistere. Si è cercato di risponderen ad una domanda teoretica utilizzando un certo grado di discernimento intellettuale, ma si tratta di una risposta che non ha niente a che vedere con la realtà. E questa di solito è denominata come “alta teoria” dell’equilibrio. Ovviamente, molti economisti trattano il mondo reale come un caso speciale.

La Teoria Generale dell’Equilibrio analizza uno stato economico che non si ha ragione di supporre che possa esistere o, per lo meno, possa non essere mai esistito. Di conseguenza, si tratta di un’astrazione che non ha un’applicabilità discernibile, né rilevanza nei confronti del mondo allo stato attuale. Affermare che essa possa aiutare a comprendere il mondo vero è quanto mai ridicolo. Dato che la maggioranza delle teorie economiche inizia con assiomi e presupposti, usando una metodologia deduttiva per arrivare a determinate conclusioni, la sua utilità nello scoprire come il mondo lavora, è limitata. All’inizio, come si vede nella sezione F.1.3, il metodo deduttivo nasce come metodo pre-scientifico. Secondariamente, gli assiomi e i presupposti possono essere considerati falsi (perché si possiedono prove empiriche trascurabili) e le conclusioni dei modelli deduttivi possono avere rilevanza solo per la struttura di questi modelli, che non hanno niente a che fare con la realtà economica. Mentre è vero che esistono alcuni problemi intellettuali del tutto immaginari per i quali il modello di equilibrio generale è predisposto in modo da procurare risposte ben precise (come del resto qualsiasi cosa potrebbe), in pratica ciò significa che se s’insistesse nell’analizzare un problema che non abbia equivalenti o soluzioni pratiche, allora potrebbe essere appropriato utilizzare un modello che a sua volta, non abbia applicazione alcuna nel mondo reale. I modelli forniti per rispondere a problemi immaginari saranno sempre poco adatti a risolvere i problemi pratici dell’economia nel mondo reale o anche dare qualche accenno su come il capitalismo lavori e si sviluppi. Per citare il noto economista di sinistra Nicholas Kaldor: “La teoria dell’equilibrio ha raggiunto lo stadio in cui il teorico puro ha dimostrato con successo (sebbene, forse, inavvertitamente) che le principali implicazioni di questa teoria non possono essere messe in pratica, ma non ha ancora ottenuto di passare il suo messaggio tra le mani dello scrittore di libri di testo e quindi nelle aule scolastiche.” Non ci si meraviglia quindi, che la sua “obiezione principale alla teoria dell’equilibrio generale non si basa sul fatto che essa sia astratta – tutta la teoria è astratta e così deve essere perché non ci possono essere analisi senza astrazione – ma che parta dal tipo sbagliato di astrazioni e quindi, da un ‘paradigma’ ingannevole…rispetto a come il mondo è in realtà; dà una falsa impressione della natura e della maniera in cui operano le forze economiche” . [The Essential Kaldor, p. 377 and p. 399]

Esiste una nozione neo-classica più realistica dell’equilibrio chiamata teoria dell’equilibrio “parziale” (sviluppata da Alfred Marshall). Il “tempo” è incluso dalla nozione d’equilibrio di Alfred Marshall esistente in differenti andamenti o corsi. I concetti più importanti di Marshall riguardano l’equilibrio a “lungo corso” e l’equilibrio a “breve corso”. In ogni caso, quest’altro rappresenta una semplice comparazione tra uno Stato statico (ideale) e un altro. Marshall analizzò i mercati “uno per volta” (da qui l’espressione “equilibrio parziale”) e “lasciando il resto immutato” – assumendo a priori che l’economia rimanente non fosse cambiata! Questa teoria confonde la comparazione delle posizioni d’equilibrio alternative possibili, con l’analisi di un processo che prosegue attraverso il tempo, cioè eventi storici introdotti in un quadro senza tempo. In altre parole il tempo, così come lo conosce il mondo, non esiste. Nel mondo reale, ogni aggiustamento necessita di un certo periodo per completarsi e altri eventi possono in qualche modo mutare quell’equilibrio. Il processo di movimento ha effetto sulla destinazione e quindi, non si ha qualcosa come una posizione d’equilibrio a lungo corso che esista indipendentemente dalla rotta seguita dall’economia. Le affermazioni di Marshall riguardo “un mercato alla volta” e “lasciare il resto immutato”, assicurano che il concetto di tempo rimanga estraneo all’equilibrio “parziale” così come all’equilibrio “generale”.

Così, tanta economia principale è basata su teorie che hanno poca o nessuna relazione con la realtà. Lo scopo della teoria dell’utile marginale era mostrare che il capitalismo fosse efficiente e che tutti ne potessero trarre beneficio (massimizzare l’utile, nel senso limitato imposto dall’attuale disponibilità di determinati beni sul mercato, ovviamente). Questo era quanto la competizione perfetta diceva di voler dimostrare. Ma la competizione perfetta è impossibile. E poiché la competizione perfetta è in sé un presupposto dell’utile marginale, dovremmo aspettarci che la teoria sarebbe dovuta essere abbandonata a questo punto. Invece, questa contraddizione fu prontamente nascosta sotto al tappeto.

Inoltre, come molte religioni, l’economia neo-classica non può essere testata scientificamente. Questo è dovuto al fatto che il modello di competizione perfetta non produce, in ogni caso, predizioni falsificabili. Come dicono Martin Hollis e Edward Nell:

    “La sola idea di testare l’analisi marginale appare, invero, assurda. Che cosa potrebbe mai rivelare un test? I risultati negativi dimostrano solo che il         mercato è difettoso. Possono essere date varie interpretazioni…Ma un’unica interpretazione non è possibile – in quanto l’analisi marginale può                 benissimo essere confutata…Generalizzando, le dichiarazioni dei marginalisti sull’effetto che, se le assunzioni sulla micro-economia positiva si                     avverassero allora per forza di cose accadrebbe questo e quello, sono da considerarsi solamente tautologia e le conseguenze semplicemente deduzioni         logiche del tutto personali…il loro modello non è verificabile"
. [Rational economic man, p. 34]

In altre parole, se una predizione marginalista non si avvera, tutto quello che possiamo ricavarne da un’eventuale verifica o test di mercato è che, semplicemente, non si era in presenza di perfetta competizione. La teoria non può essere smentita, non importa quante prove si posseggano contro di essa. Inoltre, ci sono altre tecniche utili a difendere l’ideologia neo-classica dalla prova empirica. Per esempio, l’economia neo-classica afferma che la produzione sia segnata da regolari diminuzioni di rendita su scala. Ogni prova scientifica che indichi diversamente, potrebbe essere rigettata affermando che la scala presa in considerazione non sia grande abbastanza – alla fine le rendite subiranno un decremento. Analogamente, la definizione “a lungo corso” può fare miracoli per l’ideologia. Solo nel caso che un tanto decantato buon risultato - ottenuto grazie ad una determinata linea di condotta economica - non si materializzasse per nessuno eccetto che per la classe dirigente, allora più che incolpare l’ideologia, la scala temporale può rappresentare una via d’uscita (nel lungo corso, le cose andranno al meglio – sfortunatamente per la maggioranza, il lungo corso non è ancora arrivato, ma lo farà; fino ad allora dovrete fare sacrifici per i vostri guadagni futuri …). Ovviamente, con questo tipo di “analisi” si può dimostrare qualsiasi cosa.

Non ci si stupisce, quindi, che Nicholas Kaldor affermò quanto segue:

    “La teoria dell’equilibrio walrasiana [cioè generale] fu un sistema intellettuale altamente sviluppato, molto raffinato ed elaborato da economisti             matematici fin dalla Seconda Guerra Mondiale – un esperimento intellettuale…Ma non costituisce un’ipotesi scientifica, come la teoria della relatività     di Einstein o la legge gravitazionale di Newton, dato che le sue assunzioni base sono assiomatiche, non empiriche e non si sono proposti metodi                 attraverso i quali la validità o la rilevanza dei suoi risultati potessero essere esaminate. I suoi presupposti fanno riferimento alla realtà nelle sue                 implicazioni, ma questi non sono fondati su una diretta osservazione e secondo tutti i praticanti della teoria a ogni livello, esse non possono essere             contraddette da osservazioni o esperimenti.” [Op. Cit., p. 416]

Ad ogni modo il marginalismo, nonostante questi microscopici problemi, costituì un’utile funzione ideologica. Rimosse l’evidenza dello sfruttamento ad opera del sistema, giustificò la “libertà” data ai/alle grandi imprenditori/imprenditrici di operare come volessero, e rappresentò per i proprietari delle fabbriche un mondo in perfetta armonia : ecco perché essa viene generalmente accettata. In altre parole, giustificò la mentalità del “ciò che è profittevole è anche giusto” e rimosse dall’economia la politica e l’etica. Inoltre, la teoria della “competizione perfetta” (tralasciando il fatto che sia di impossibile applicazione), permise agli economisti di dipingere il capitalismo come ottimale ed efficiente al fine di soddisfare tutti i bisogni e i desideri individuali. Ciò è importante, perché senza il presupposto dell’equilibrio, le transazioni di mercato non necessiterebbero del profitto. Infatti, questo comporterebbe una sorta di tirannia del più fortunato nei confronti del meno fortunato, con la maggioranza costretta a scegliere il male minore tra una serie di tristi opzioni. Ovviamente, secondo le affermazioni dell’equilibrio, la realtà deve essere ignorata. Quindi, le economie capitalistiche stanno tra l’incudine e il martello.

Dopotutto, il mondo presupposto dall’economia neo-classica non è quello in cui viviamo veramente e quindi applicare la teoria appare sia erroneo sia (solitamente) disastroso (almeno per i non abbienti).

Certi economisti a favore dell’economia capitalista di “libero mercato” (come quelli della “scuola austriaca” di destra) rifiutano completamente la nozione di equilibrio e abbracciano un modello dinamico di capitalismo. Anche se è di gran lunga più realistico della tipica teoria neo-classica, questo metodo abbandona la possibilità di dimostrare che i prodotti di mercato siano in ogni caso una realizzazione delle preferenze individuali per espressione delle loro stesse interazioni. Non si ha modo di stabilire l’agente stabilizzatore nel complesso dell’attività imprenditoriale o il suo presunto vantaggio economico. Infatti, l’attività imprenditoriale tende a disgregare i mercati (in particolare i mercati costituiti da forza lavoro) portandoli in qualche maniera lontano dall’equilibrio (cioè il pieno utilizzo di risorse accessibili) piuttosto che avvicinarli. In altre parole, simili processi dinamici porterebbero ad una vera e propria divergenza anziché a una convergenza di comportamento e di conseguenza, si otterrebbe un incremento della disoccupazione, una riduzione nella qualità della possibilità di scelta disponibile da cui massimizzare il proprio “utile” e così via. Un sistema dinamico non necessita di autocorrezione, particolarmente nell’ambito del mercato del lavoro, nemmeno mostra segni di autoequilibrio (cioè l’essere soggetto al ciclo affaristico). Ironicamente, gli/le economist* di questa scuola spesso sostengono che mentre l’equilibrio non possa essere ottenuto, il mercato del lavoro sperimenterà un completo impiego sotto l’egida del “libero mercato” o del “capitalismo puro”. Che questa condizione manifesti equilibrio, pare non susciti il minimo interesse. Così, troviamo Von Hayek, per esempio, il quale sostiene che: “…a causa della disoccupazione…si verifica una deviazione dei prezzi e dei salari dalla loro posizione di equilibrio che si stabilizzerebbe da sé con libero mercato e moneta stabile” e che: “…la deviazione dei prezzi attuali dalla posizione di equilibrio…è la causa dell’impossibilità di vendere parte del lavoro fornito”. [New Studies, p. 201] Pertanto, assistiamo al solito abbraccio tra teoria dell’equilibrio al fine di difendere il capitalismo contro il male che esso stesso crea, persino da coloro che affermano di saperne di più. Si tratta forse di un tipico caso di espediente politico che consentirebbe ai sostenitori ideologici del capitalismo di libero mercato di attaccare le nozioni di equilibrio una volta che contrastino nettamente con la realtà, anche se pur sempre in grado di rientrare in questa sorta di equilibrio durante l’attacco, come i sindacati, i programmi di (Stato) sociale e altri schemi che sostengono di voler aiutare la classe lavoratrice contro i soprusi del mercato capitalista?

Quest* sostenitori/sostenitrici del capitalismo esaltano la “libertà” – la libertà degli individui di decidere con la propria testa. E chi può negare il fatto che gli individui, quando liberi di scegliere, possano optare di decidere al meglio per se stess*? Comunque, quello che tutto questo agognare per la libertà individuale ignora, è il fatto che il capitalismo spesso riduca le possibilità di scegliere tra due (o più) mali per via delle disuguaglianze che esso stesso crea (perciò, ci riferiamo alla qualità delle decisioni per noi disponibili). Le lavoratrici che accettano un impiego sottopagato e in nero, in questo modo effettivamente “massimizzano” il loro “utile” – dopotutto, quest’eventualità è sempre meglio che morire di fame – ma solo un/una ideolog* accecat* dalle economie capitalistiche potrà pensare che queste lavoratrici siano libere o che le loro decisioni vengano prese grazie a costrizioni di carattere economico. In altre parole, l’idealizzazione della libertà attraverso il mercato, ignora completamente il fatto che questa libertà possa essere, per un gran numero di persone, parecchio limitata nella sua capacità di comprensione. Per di più, la libertà associata al capitalismo, per quanto il mercato vada avanti, diventa poco più importante della libertà di scegliere il proprio padrone. In tutto e per tutto, questa difesa del capitalismo non tiene conto dell’esistenza di disuguaglianze economiche (e quindi disuguaglianze di potere) che infrangono la libertà e le opportunità di altr* (se ne discute in maniera più approfondita nella sezione F.3.1). Disuguaglianze sociali garantiscono solamente che il popolo finisca col “volere ciò che ottiene” invece che “ottenere ciò che vuole”, semplicemente perché deve adeguare le sue aspettative e il suo comportamento in modo da rientrare perfettamente in scopi e metodi determinati dalle concentrazioni di potere economico. In particolare, questo è il caso tipico riscontrabile nel mercato del lavoro, in cui chi si occupa di vendere forza lavoro, si trova in svantaggio rispetto a chi compra forza lavoro per via della disoccupazione (vedi le sezioni B.4.3; C.7 e F.10.2).

Tutto questo ci porta ad un altro problema associato al marginalismo, cioè la distribuzione delle risorse all’interno della società. La domanda di mercato viene spesso discussa in termini di gusti personali, non dal punto di vista della distribuzione del potere d’acquisto, richiesto allo scopo di soddisfare i gusti di ciascun*. Così, come metodo di determinazione dei prezzi, l’utile marginale non tiene conto delle differenze insite nel potere d’acquisto ed esistenti presso i vari individui, ma presume circa una sorta di finzione legalizzata nell’associare, idealmente, corporazioni e persone fisiche (la distribuzione del reddito viene considerata quasi come un regalo). Chi possiede molto denaro potrà massimizzare le proprie soddisfazioni assai più semplicemente di chi, al contrario, di denaro ne possiede poco. E poi, di sicuro, queste persone facoltose potrebbero sempre dare una mano a quelle più povere. Se, come asseriscono molt* liberist* di destra, capitalismo è uguale a “un euro – un voto”, appare ovvio come questi loro valori possano essere riflessi nell’ambito del mercato. E’ per questo che gli economisti ortodossi partono dal comodo presupposto di una “dovuta distribuzione di reddito”, quando cercano di mostrare al meglio che il mercato si basi principalmente sull’allocazione delle risorse.

In pratica, per il capitalismo, non è questione di “utile” e di com’è massimizzato, piuttosto è questione di utile “effettivo” (solitamente chiamata “domanda effettiva”) – ovvero, l’utile impastato con il denaro. Il mercato capitalista (o meglio, la classe dirigente in un simile sistema) posiziona determinati valori (prezzi) sulle cose secondo un’effettiva domanda di queste ultime. La “domanda effettiva” corrisponde ai desideri della gente valutati dalla loro capacità di permetterseli. Per questo, il mercato considera i desideri delle persone benestanti assai più importanti di quelli dei meno abbienti. Quindi, il capitalismo c’inchioda alla propensione al consumo, facendo in modo che si renda impossibile soddisfare l’”utile” di coloro che hanno maggior bisogno a favore di quei pochi che invece godono di buona salute e possono spendere. Ciò non significa che non si possa venir incontro alle necessità dei più (solitamente, ma non sempre, anche questi sono di un certo livello), piuttosto indica che per ogni data risorsa, chi possiede più denaro taglia fuori chi ne possiede meno – senza curarsi del costo umano. Come disse l’economista Von Hayek, schierato a favore del libero mercato capitalista: “L’ordine spontaneo prodotto dal mercato, non garantisce che ciò che interessa all’opinione pubblica come bisogni primari abbia sempre la precedenza rispetto a quelli considerati secondari o meno importanti”. [The essential Hayek, p.258] Questa è giusto una comoda maniera di riferirsi al processo per cui i/le miliardari/e siano in grado di costruire sempre nuove ville mentre migliaia di senzatetto vivono in vere e proprie baraccopoli, nutrano i loro animali domestici con cibi succulenti e raffinati mentre tanti Esseri Umani muoiono di fame o quando il cosiddetto agri-business procuri grana ai mercati esteri mentre i nullatenenti crepano di stenti (vedi anche sezione I.4.5). Non c’è bisogno di aggiungere che le economie marginaliste giustificano il potere del mercato e i suoi risultati.

Riassumendo, le economie di tipo neo-classico mostrano la loro inclinazione verso un sistema irreale che si traduce in asserzioni riguardo il mondo in cui viviamo dal momento che parecchie persone accettano il fatto che la realtà rifletta il modello (anziché il contrario come dovrebbe essere, ovviamente questo non vale per la teoria neo-classica). Per di più, peggio, le decisioni sulla linea di condotta da adottare in materia economica, verrebbero promulgate in base ad un modello per nulla attinente con la realtà – con conseguenti risultati disastrosi (per esempio, ascesa e crollo del monetarismo, vedi sezione C.8). Ancora, tutto questo giustifica (quando non ignora) le strutture gerarchiche e le grandi disuguaglianze nella ricchezza e nel potere all’interno della società, una vera e propria beffa ai danni della libertà individuale (per ulteriori dettagli vedi sezione F.3.1). Vengono avvantaggiati gli interessi di coloro che possiedono denaro e potere nella società moderna così come si aspira a un sistema commerciale distruttore di anime e globalmente inquinante, deprecando completamente l’importanza dell’estetica, dell’umanistico e quindi, dei fattori propriamente umani nel prendere decisioni di carattere economico. L’intuizione sul fatto che debba venire prima la gente rispetto al profitto (non importa se debba addirittura sostituirlo), rende bene l’idea. Partendo da una falsa premessa, il marginalismo conclude negando i suoi stessi ideali stabiliti in principio – piuttosto che essere l’economia della libertà individuale, si trasforma in restrizioni giustificate e negazione della libertà.

Quindi, se la Teoria Generale dell’Equilibrio è fallace, cosa determina i prezzi? Ovviamente, per farla breve, i prezzi sono pesantemente influenzati da domanda e offerta. Se la domanda eccede l’offerta, i prezzi salgono e vice versa. Questo realismo pragmatico, comunque, non fuga nessun dubbio. La risposta si trova nella produzione e nelle relazioni sociali create al suo interno. Ma di questo se ne discute meglio nella prossima sezione.

C.1.2  Quindi, cosa determina il prezzo? 

La chiave per la comprensione dei prezzi sta nel capire che la produzione in un sistema capitalistico si esplica in base al suo “Scopo primario...in modo da incrementare i profitti dei capitalisti.” [Peter Kropotkin, Kropotkin’s Revolutionary Pamphlets, p. 55] In altre parole, il profitto è la forza motrice del capitalismo. Una volta presa coscienza di questo aspetto e delle sue eventuali implicazioni, la determinazione del prezzo appare semplice e le dinamiche del sistema capitalista divengono più chiare. Il prezzo di un prodotto capitalista tenderà maggiormente al suo costo di produzione nell’ambito di un libero mercato, essendo il prezzo di produzione ottenuto dalla somma del costo di produzione più la probabilità dell’indice di profitto (probabilità dell’indice di profitto che, dovremmo far notare, dipende dalle rispettive capacità di introduzione sul mercato, vedi più in basso). 

Consumatori/consumatrici, nel fare la spesa, si confrontano con vari prezzi e varie offerte. Il prezzo determina la domanda, che è basata sul valore d’uso del prodotto nei confronti della consumatrice e delle rispettive situazioni finanziarie. Nel caso l’offerta eccedesse la domanda, la prima si ridurrà (anche nell’eventualità che le industrie riducano la produzione o addirittura chiudano o ancora decidano di spostare i loro capitali altrove, su mercati più vantaggiosi dal punto di vista del profitto) fino a che non verrà raggiunto un adeguato livello del tasso di profitto (sebbene ci sentiamo di sottolineare il fatto che le decisioni sugli investimenti siano difficili da far muovere in senso contrario e ciò significa che la mobilità può essere ridotta causando problemi di assestamento – come la disoccupazione – nell’ambito dell’economia). Il tasso di profitto equivale all’ammontare del profitto diviso dal totale del capitale investito (cioè capitale costante – nel contesto della produzione – e capitale variabile – salari e schiavitù). Se il dato prezzo genera verso l’alto livelli di profitto (e quindi tassi di profitto), allora si cercherà di spostare il capitale da aree povere ad aree potenzialmente ricche e in grado di produrre profitto, aumentando l’offerta e la competizione, riducendo, perciò, il prezzo fino a che un livello del tasso di profitto verrà nuovamente prodotto (noi seguitiamo ad insistere si prova a fare una cosa del genere, in quanto parecchi mercati possiedono ampie barriere da penetrare che in qualche modo limitano la mobilità di capitali e consentono al grosso giro d’affari di sfondare il tetto dei tassi di profitto – vedi sezione C.4). Quindi, se il prezzo all’interno della domanda risulta eccedere l’offerta, questo può causare un incremento del prezzo a breve termine e questi profitti extra fanno da segnale di partenza ad altr* capitalist* al fine di potersi muovere all’interno del mercato. L’offerta di un prodotto tenderà a stabilizzarsi a qualsiasi livello in cui ci sarà domanda per questo stesso prodotto e al prezzo che determina i livelli del tasso di profitto (considerando questo livello dipendente dal “grado di monopolio” interno al mercato – vedi sezione C.5). Questo livello di profitto indica che i fornitori non sono incentivati a spostare capitali dentro o fuori il mercato. Ogni cambiamento di questo livello in un livello a lungo termine, dipende dai cambiamenti effettuati sul prezzo di produzione del bene (prezzi di produzione più bassi, significano profitti più elevati che, a loro volta, indicano ad altr* capitalist* che il dato mercato può essere fonte di guadagno e terreno fertile per nuovi investimenti). 

Come si può vedere, questa teoria (spesso chiamata la Teoria del Valore del Lavoro - o più semplicemente LTV) non nega che i consumatori valutino soggettivamente i beni e che questa valutazione possa avere effetti a breve termine sul prezzo (il quale determina offerta e domanda). Molt* economist* del giro grosso, considerat* “liberist*” di destra, affermano che la teoria del valore del lavoro esenti automaticamente la domanda dalla determinazione del prezzo. Un buon esempio è rappresentato dalla “torta di fango” – se questa necessita della stessa quantità di lavoro utile a produrre una torta di mele, si domandano, avrà allora sicuramente lo stesso valore (prezzo)? Queste affermazioni sono del tutto incongruenti, in quanto la LTV si basa su offerta e domanda e cerca di spiegare le dinamiche dei prezzi e così riconosce (o piuttosto, si basa sul fatto accertato) che questi individui prendano le loro decisioni basandosi sui loro bisogni soggettivi (per dirla con Proudhon: “L’utile è la condizione necessaria per lo scambio.” [System of economical contradictions, p. 77] Ciò che la LTV cerca di spiegare è il prezzo (quindi, il valore di scambio) e un prodotto può avere un valore di scambio solo se altr* lo desiderano (oppure se per loro rappresenta un valore d’uso e dunque cercano di scambiare denaro o beni contro di esso). Pertanto, l’esempio della “torta di fango” non è altro che un comune argomento da persone terra-terra – la “torta di fango” non ha alcun valore di scambio in quanto non possiede nessun valore d’uso per le persone e non è soggetta a scambio. In altre parole, se un prodotto non può esser scambiato, vuol dire che non ha un suo valore di scambio (quindi, non ha nessun prezzo). Come disse Proudhon, “niente è scambiabile se non possiede utilità alcuna.” [Op.Cit., p. 85] 

La cosiddetta LTV si basa sul principio per cui senza lavoro niente possa essere prodotto e inoltre, sostiene il fatto che si debba produrre qualcosa certamente prima di poterla scambiare (altrimenti la si può rubare, come nel caso delle terre). Così come l’utile (cioè valore d’uso) di un prodotto non può essere misurato, il lavoro appare come la base stessa del valore (di scambio). La LTV si basa sui bisogni effettivi della produzione e riconosce il ruolo-chiave giocato dal lavoro (direttamente e indirettamente) nell’ambito della creazione di beni di consumo. Comunque, ciò non significa che il valore esista indipendentemente dalla domanda. Lungi da questo – come abbiamo visto, in modo da avere un valore di scambio, una merce deve necessariamente essere desiderata da qualcun* altr* oltre che dal suo creatore (o dal/dalla capitalist* che stipendia il creatore di questa merce), deve appunto, possedere un valore d’uso per essi (in altre parole, viene valutato soggettivamente da questi individui). Pertanto, i/le lavoratori/lavoratrici producono ciò che possiede un valore (d’uso) come determinato dalla domanda e i costi di produzione inclusi nel creare questo valore d’uso agevolano la determinazione del prezzo (il suo valore di scambio) assieme al livello di profitto ottenibile. 

Ancora, la LTV include l’elemento di verità della teoria “soggettiva” proprio nello stesso istante in cui demolisce i suoi miti. Per cui la STV, alla fine, stabilisce giusto che “...i prezzi siano determinati dall’utile marginale; utile marginale che viene misurato dai prezzi. I prezzi...sono né più né meno che prezzi. I marginalisti, una volta iniziata la loro ricerca nel campo della soggettività, procedono camminando in circolo...”. [Allan Engler, Apostles of Greed, p. 27] La LTV, d’altro canto, si basa sul fatto oggettivo della produzione e dei costi (definitivamente espressa in tempo-lavoro) che ne derivano (“L’assoluto valore di una cosa, dunque, è costituito dal suo costo in tempo e spesa...” [Proudhon, What is property?, p. 145]). Le variazioni all’interno dell’offerta e della domanda (cioè nei prezzi di mercato) oscillano lungo questo “valore assoluto” (detto anche prezzo di produzione) e quindi è il costo di produzione di un bene che alla fine regola il suo prezzo, non l’offerta e nemmeno la domanda (che solo temporaneamente influiscono sul suo prezzo di mercato). 

Mentre la cosiddetta STV è comoda per poter descrivere il prezzo delle opere d’arte (e dovremmo notare che anche la LTV può provvedere ad una spiegazione in questo senso), esiste un piccolo punto in cui una teoria economica ignora la natura di gran parte dell’attività economica all’interno della società. Quello che la teoria del valore del lavoro spiega, riguarda ciò che sta al di sotto della domanda e dell’offerta, cosa effettivamente determina il prezzo sotto il capitalismo. Essa riconosce l’oggettività dei vari prezzi e offerte che consumatori e consumatrici si trovano a fronteggiare e indicano in che modo il consumo (“valutazioni soggettive”) influisca sui loro stessi movimenti quotidiani. Spiega perché un certo bene vende ad un determinato prezzo invece che ad un altro – qualcosa che la teoria soggettiva non fa veramente. Per quale motivo coloro che propongono un’offerta di beni dovrebbero “alterare il loro comportamento” all’interno del mercato se quest’ultimo è puramente  basato su “valutazioni soggettive”? Ci deve pur essere un’indicazione oggettiva che guidi le loro azioni e tutto questo si può ritrovare dentro la realtà della produzione nel capitalismo. Citando ancora Proudhon: “Se offerta e domanda da sole determinano un valore, in che modo possiamo noi affermare cosa sia un eccesso e cosa una sufficienza? Se né costi, né prezzi di mercato e né salari possono essere matematicamente determinati, com’è possibile concepire un surplus, un profitto?” [System of economical contraddictions, p. 114] Pertanto, “...dire...che offerta e domanda siano la legge dell’offerta e della domanda, non è una spiegazione della pratica generale, bensì un’autentica dichiarazione di assurdità.” [Op. Cit., p. 91] Così, la teoria del valore del lavoro riflette assai più accuratamente la realtà dei fatti: ossìa, dimostra che che per un normale bene, i prezzi esistono, così come nell’offerta, già prima che intervengano le valutazioni soggettive e inoltre, che il capitalismo sia basato sulla produzione di profitto piuttosto che su un’astratta soddisfazione delle reali necessità dei consumatori. 

Si potrebbe anche dire che questa teoria dei “prezzi di produzione” assomigli molto alla teoria neo-classica dell’”equilibrio parziale”. Per certi versi questo può esser vero. Marshall basilarmente sintetizzò questa teoria sia dalla teoria dell’utile marginale che dalla vecchia teoria dei “costi di produzione” a cui J.S. Mills si ispirò per la formulazione della LTV. Comunque, le differenze sono notevoli. Prima di tutto, la LTV non entra in ragionamenti circolari associati a tentativi di estrapolare l’utile dal prezzo come si è indicato più in alto. Secondo, afferma che pigione, profitto ed interesse rappresentino lavoro insoluto da parte dei/delle lavoratori/lavoratrici piuttosto che un “ritorno” nei confronti dei padroni per il solo fatto di esser tali. Terzo, si tratta di un sistema dinamico i cui prezzi di produzione sono soggetti a mutamenti nel momento in cui si prendono decisioni di carattere economico. Quarto, si può facilmente rigettare l’idea di una “competizione perfetta” e dare resoconto di un’economia costellata da barriere da attraversare e difficile da riversarci decisioni sugli investimenti. E, infine, i mercati del lavoro non necessitano di particolare chiarezza durante la cosidetta grande corsa verso il profitto. Dato che le economie moderne hanno smesso di cercare di misurare l’utile, significa che in pratica (e non secondo retorica), il modello di teoria neo-classica ha rigettato la teoria dell’utile marginale ritornando, basilarmente, al classico approccio (LTV), ma con differenze importanti che distruggono le versioni primarie del suo lato critico e dalla sua natura dinamica. 

Non c’è bisogno di aggiungere che la LTV assolutamente non ignora beni di una certo valore esistenti in natura come gemme, cibi esotici e acqua. La Natura rappresenta una vasta fonte di risorse di valori d’uso di cui l’Umanità deve fare utilizzo in modo da poter produrre altri, differenti, valori d’uso. O se meglio vi aggrada: la Terra e il lavoro sono rispettivamente madre e padre della ricchezza. A volte si afferma che la teoria del valore del lavoro implichi che beni naturali di un certo valore non dovrebbero avere un prezzo in quanto non si ha necessità di impiegare lavoro per produrli. Questo è, propriamente, falso. Per esempio, alle gemme grezze si può sicuramente dare un valore in quanto si mette in opera una grande mole di lavoro per trovarle. Se trovarle fosse così semplice come per la sabbia, le suddette gemme sarebbero particolarmente economiche. Allo stesso modo, i cibi esotici e/o la selvaggina così come l’acqua, posseggono un valore basato sulla quantità di lavoro impiegata per trovarle, raccoglierle, trasformarle all’interno di una data area (per esempio, l’acqua in zone particolarmente aride varà un valore superiore rispetto ad una zona ricca di laghi). 

La stessa logica si può applicare anche ad altri beni naturali. Se virtualmente non si fa alcuno sforzo per ottenere questi beni - come l’aria – dunque dovrebbero avere un piccolissimo, se non addirittura nullo, valore di scambio. Comunque, più ci si sforza di trovare, raccogliere, purificare e poi eventualmente trasformare questi beni naturali in modo da poterli utilizzare, maggiore valore di scambio avranno in relazione alle altre merci (cioè, i loro prezzi di produzione saranno più elevati, cosa che porterà ovviamente, a un più alto prezzo di mercato). 

Il tentativo di ignorare la produzione implica che la STV scaturisce dal desiderio di nascondere la natura sfruttatrice del capitalismo. Concentrandosi sulla valutazione “soggettiva” degli individui, questi ultimi sono astratti dalla reale attività economica (produzione) così che la risorsa del profitto e del potere all’interno dell’economia possa essere ignorata. La sezione C.2 (“Da dove vengono i profitti?”) indica perché lo sfruttamento nell’ambito del lavoro di produzione sia fonte di profitto e non vera e propria attività di mercato. 

Di sicuro, coloro a favore del capitalismo diranno che la teoria del valore del lavoro non sia mai stata universalmente accettata all’interno della grande economia. Verissimo; ma questo difficilmente dimostra che questa teoria possa essere effettivamente sbagliata. Dopotutto, sarebbe stato assai semplice “provare” che persino la teoria democratica fosse “sbagliata” nella Germania nazista, semplicemente perché non era universalmente accettata dai molti letterati e leaders politici del tempo. Sotto il capitalismo, più e più cose vengono trasformate in beni da sfruttare – incluse le teorie economiche e i lavori per gli/le economist*. Presa, ad esempio, una data scelta tra una teoria che affermi che profitto, interessi e pigioni equivalgano, per forza di cose, a lavoro insoluto (leggi: sfruttamento) e una teoria basata sul fatto che esistano validi “ritorni” economici dovuti al buon servizio, su quale delle due pensate che i ricchi investirebbero? 

Questo riguarda il caso della teoria del valore del lavoro. Dai tempi di Adam Smith ad oggi, i radicali hanno utilizzato la LTV per criticare il capitalismo. Gli economisti classici (Adam Smith e David Ricardo compresi i loro seguaci come J.S. Mill) sostenevano che, alla lunga, i beni sarebbero stati scambiati in proporzione al lavoro svolto per poterli produrre. Pertanto, lo scambio di beni avrebbe beneficiato tutte le parti coinvolte nella produzione in quanto ciascun* avrebbe ricevuto un ammontare equivalente in base al lavoro svolto. In realtà, tutto ciò lasciò che la natura e la fonte dei profitti del capitalismo fossero soggette ad accesi dibattiti, cosa che presto si propagò presso tutta la classe operaia. Assai prima che Karl Marx (la persona più associata alla LTV) scrivesse la sua famosa (quanto infame) opera Il Capitale, i socialisti ricardiani come Robert Owen o William Thompson insieme ad anarchici come Proudhon, erano soliti usare la LTV in modo da presentare una vera e propria critica al capitalismo, esponendolo come una cosa fondata esclusivamente sullo sfruttamento (lavoratori e lavoratrici, in effetti, non ricevono un salario equivalente al valore del bene prodotto e pertanto appare chiaro come il capitalismo non sia proprio costruito su di un  commercio equo). Negli USA, Henry George era solito attaccare la proprietà privata terriera. Quando comparvero le prime economie di stampo marginalista, ci si impadronì di questo attacco in maniera da poter annientare alla nascita la sua influenza radicale. Curiosamente, i seguaci di Henry George sostenevano che l’economia neo-classica si sviluppò principalmente come reazione alle sue idee e influenze (vedi The Corruption of Economics di Mason Gaffney e Fred Harrison). 

Pertanto, come si è notato più sopra, le economie marginaliste furono sequestrate, in maniera del tutto incurante dei loro meriti in quanto scienza, semplicemente perché portarono fuori la politica dall’economia politica. Con il sorgere dei movimenti socialisti e le critiche di Owen, Thompson, Proudhon e molti altri, la teoria del valore del lavoro venne considerata troppo politicizzata e pericolosa. Il capitalismo non poteva ancora a lungo esser visto come una cosa basata sullo scambio con lavoro equivalente. Piuttosto, avrebbe dovuto basarsi sullo scambio di beni equivalenti. Ma, come indicato (nell’ultima sezione) la nozione di bene equivalente venne prontamente abbandonata mentre le super-strutture costruite al di sopra di essa divennero le basi dell’economia capitalista. E senza la teoria del valore, l’economia capitalista non potè provare che il capitalismo effettivamente sfociasse in armonia, soddisfazione di bisogni e desideri individuali, giustizia in cambio di efficiente allocazione delle risorse. 

Un’ultima annotazione. Dobbiamo sottolineare che non tutt* gli/le anarchici/anarchiche supportarono la LTV. Kropotkin, per esempio, non era affatto d’accordo. Egli considerava l’utilizzo socialista della LTV come un impossessarsi de “le definizioni metafisiche degli economisti accademici” per poter criticare il capitalismo usando le sue stesse definizioni e dunque, come le economie capitalistiche, tutto ciò appariva tutt’altro che scientifico [Evolution and Environment, p. 92]. Comunque, il suo rifiuto riguardo la LTV non implicava il fatto che Kropotkin non considerasse il capitalismo come uno sfruttatore. Lungi da questo! Come tutt* gli/le anarchici/anarchiche, Kropotkin attaccò la “appropriazione della produzione di lavoro umano da parte dei  possessori di capitali”, vedendo le radici di questo nel fatto che “milioni di uomini [e donne] non hanno letteralmente nulla di che poter vivere, almeno finché venderanno la loro forza lavoro e la loro intelligenza a un prezzo tale da poter avvantaggiare solamente i capitalisti e il loro maggior ‘valore di surplus’ possibile...”. [Op. Cit., p. 106] Discuteremo del profitto in maniera più ampia e dettagliata nella sezione C.2 (Da dove vengono i profitti?). 

Il rifiuto da parte di Kropotkin riguardo la LTV è basato sul fatto che, internamente al capitalismo “il valore tra scambio e lavoro necessario non risulta proporzionale tra di essie pertanto “il lavoro non rappresenta nessuna misura del valore [Op. Cit., p. 91] Tutto ciò è, ovviamente, vero sotto l’egida del capitalismo. Come Proudhon (e Marx) sostenevano, sotto il capitalismo (possibile grazie alla disponibilità di profitti, pigioni e interessi) i prezzi potrebbero non essere proporzionali alla media di lavoro richiesto per produrre un bene (“Dovunque il lavoro non sia stato socialistizzato – ovvero, dovunque il valore non sia stato sinteticamente determinato – esistono irregolarità e disonestà nello scambio.” [Proudhon, Op. Cit., p. 128]). Solo quando il tasso di profitto sarà pari allo zero i prezzi rifletteranno ciò che effettivamente rappresenta il valore del lavoro (il quale, ovviamente, è ciò che Proudhon e Tucker desideravano – “Il socialismo...estende [“che il lavoro sia la vera misura del prezzo”] la sua funzione di descrizione della società così come dovrebbe essere e la riscoperta del significato di fare ciò che realmente andrebbe fatto.” [Tucker, The Individualist Anarchists, p. 79]). Quindi, Kropotkin dice bene quando afferma che “sotto il sistema capitalistico, il valore di scambio non viene più misurato dall’ammontare di lavoro necessario” [Op. Cit., p. 91] 

Comunque, questo non significa che la LTV sia irrilevante ai fini di un’analisi dell’economia capitalista. Anzi, si sostiene che sotto il capitalismo il lavoro sia, essenzialmente, il regolatore del prezzo non la sua unità di misura. “L’ idea che finora sia stata presa in considerazione  una misura del valore” sostenne Proudhon, “...è dunque inesatto; l’oggetto della nostra diatriba non è lo standard del valore, come spesso e così stupidamente è stato detto, bensì la legge che regola le proporzioni dei vari prodotti ai fini del benessere sociale; per cui dalla conoscenza di questa legge dipendono ascesa e crollo dei prezzi.” [System of Economical Contradictions, p. 94] Quindi, gli argomenti di Kropotkin non sottostimano affatto la LTV. Strappato via tutto quel bagaglio metafisico che parecchi (in particolare marxisti) hanno piazzato sopra la LTV (e giustamente attaccato come anti-scientifico da Kropotkin), questa rimane un essenziale e metodologico strumento, come metodo investigativo sugli aspetti-chiave del capitalismo – cioè lavoro salariato e conflitti associati con esso nel punto di produzione ad un alto livello di astrazione. Pertanto, si tratta di uno strumento e allo stesso tempo, di un valore esplicativo ma anche di una categoria esplicativa, una volontà di comprensione delle dinamiche del capitalismo. 

Perciò, piuttosto che essere una cruda idea riguardo il fatto che il “valore di scambio” possa giusto livellare i prezzi, la LTV rappresenta principalmente una volontà di analisi. Questo può assumere una certa importanza nell’utilizzo che possiamo farne durante la “produzione dei prezzi” invece che nell’ambito di un valore (di scambio) utile alla descrizione di come debba effettivamente lavorare la suddetta teoria. La LTV focalizza l’analisi sul processo di produzione e dunque indirizza correttamente la nostra indagine su come in realtà agisca il capitalismo durante le fasi di produzione sino alle relazioni con l’autorità sul posto di lavoro, la lotta con chi controlla i processi di produzione e come il surplus prodotto dai/dalle lavoratori/lavoratrici viene suddiviso (cioè quanto effettivamente rimane nelle tasche di coloro che producono direttamente e di quanto, invece, si appropriano i capitalisti). Sostenere che i prezzi subiscano una deviazione dai valori e quindi, che la LTV sia fuori moda, indica che esiste una confusione tra il ruolo esplicativo della LTV e l’attuale mondo costituito da prezzi e profitti. La LTV ci ricorda che la produzione viene prima di ogni cosa e dunque di come sia alla base dello scambio e che, di rimando, ciò che accade nel punto di produzione influenza poi direttamente ciò che accade durante lo scambio ultimo. Decrementando il lavoro diretto e indiretto richiesto per la produzione, il costo del prezzo di un bene subirà un decremento a sua volta e quindi si ridurrà il suo stesso prezzo di produzione. Così, ascesa e crollo di prezzi e profitti saranno il risultato del cambio nelle relazioni dei valori (cioè nel lavoro oggettivo i costi di produzione – di lavoro – valore del tempo) e pertanto, l’utilizzo della LTV come strumento esplicativo appare più che valido. 

In altre parole, la teoria del valore del lavoro è semplicemente un buon mezzo di analisi euristica che offre una visuale dall’interno di come i prezzi vengono formati invece che presentarceli direttamente così come sono. In pratica, i prezzi di produzione dipendono dai salari e tutto ciò riflette il valore del cosiddetto tempo-lavoro piuttosto che essere propriamente un valore del tempo-lavoro. 

Perciò Kropotkin era nel giusto – su di un punto. La sua critica alla LTV è corretta per ciò che concerne quelle versioni in cui si ha il dato prezzo di “equilibrio” equivalente il valore (scambio) di una merce. Faceva bene a sottolineare che sotto il capitalismo questo accade raramente. Si intende dire che il nostro uso della LTV è semplicemente quello di strumento esplicativo, un metodo di osservazione degli aspetti-chiave del capitalismo – cioè i processi di produzione che portano alla creazione di cose/oggetti che hanno un certo valore d’uso per gli/le altr* e vengono dunque scambiati. Il processo di produzione viene per primo e dobbiamo quindi partire da lì se vogliamo davvero comprendere le dinamiche del capitalismo. Non fare una cosa del genere, come fa ad esempio la STV, porterà la nostra analisi sino ad un vicolo cieco e così saremmo portati ad ignorare l’aspetto fondamentale del capitalismo: il lavoro salariato, le strutture autoritarie nell’ambito produttivo e lo sfruttamento del lavoro che genera oppressione. 

Gli argomenti di Kropotkin riflettono la prospettiva dei “prezzi di produzione” trattata più in alto, mentre ci si concentra sui prezzi invece che sui “valori”. Noi rifiutiamo l’astrazione di carattere metafisico spesso associata con la LTV, concentrandoci invece sul fenomeno reale e concreto rappresentato dai prezzi, dai profitti, lotta di classe e così via. Una tale prospettiva facilita largamente la critica al capitalismo in merito a ciò che accade nel mondo reale piuttosto che nei meandri dell’astrazione. Come si discute nella sezione H.2.2, le concentrazioni di Marx sul valore (cioè i livelli astratti di analisi) fanno in modo che egli arrivi ad ignorare il ruolo che la lotta di classe gioca all’interno del capitalismo e il suo effetto sui profitti (con pessimi risultati per la sua teoria e il movimento che da essa ha tratto ispirazione).

C.1.3 Cos’altro influenza i livelli di prezzo?  

Come indicato nell’ultima sezione, il prezzo di un bene capitalistico è, a lungo termine, uguale al suo prezzo di produzione, il quale di rimando, determina offerta e domanda. Se offerta e domanda subiscono un cambio -- cosa certamente possibile in quanto i valori dei/delle consumatori/trici mutano e nuovi intenti di produzione vengono creati mentre quelli ormai considerati vecchi cessano di esistere – queste avranno un effetto a breve termine sui prezzi, ma il prezzo medio di produzione rimane pur sempre il prezzo attorno al quale un bene capitalistico viene poi venduto. Pertanto esso rappresenta il costo di produzione che definitivamente regola il prezzo di un bene propriamente detto. In altre parole: “ le relazioni di mercato sono governate dalle relazioni di produzione”. [Paul Mattick, Economic Crisis and Crisis Theory, p. 51]

Per dirla con Proudhon: 

“Quindi il valore varia e la legge del valore è immutabile, o meglio, se il valore è suscettibile a variazioni, questo è possibile perché viene governato da una legge il cui principio è essenzialmente incostante, cioé il lavoro misurato dal tempo.” [Op. Cit., p. 100] 

Comunque, l’ammontare di tempo e sforzo speso nel produrre un particolare bene non funge da fattore essenziale nella determinazione del suo prezzo di mercato. Ciò che maggiormente conta è il costo (inclusa la quantità di tempo-lavoro) che occorre in media per produrre questo tipo di bene nel momento in cui il lavoro venga portato avanti con un’intensità media, con strumenti e attrezzature d’uso tipici e supportati da livelli di abilità produttiva media. La produzione di beni che permette a tali standards di precipitare, per esempio tramite uso di tecnologie obsolete o intensità lavorativa al di sotto della media necessaria, non permette certamente al venditore/trice di aumentare il prezzo del bene così da compensare questo livello di produzione inefficiente, perché il suo prezzo è sempre determinato dal mercato che si basa su condizioni medie (e dunque, su costi medi) di produzione, oltre che sulla media dei livelli di profitto richiesta per poter andare incontro al tasso di profitto del capitale investito. D’altra parte, l’utilizzo di metodi di produzione più efficienti della media generale – per esempio, che consentano una produzione di beni maggiore attraverso minor quantitativo di lavoro impiegato – possono fare in modo che i/le venditori/trici raccolgano maggiori profitti e/o minore sarà il prezzo, più bassa sarà la media e dunque si otterrebbe una possibilità di catturare un numero maggiore di quote di mercato che, eventualmente, forzerebbero altri/e produttori/trici ad adottare la medesima tecnologia per poter sopravvivere, oltre che più bassi prezzi di produzione sul mercato inerente questo particolare tipo di bene. In questo modo se ne evince che la riduzione del tempo-lavoro si trasforma in un ridotto valore di scambio (e quindi di prezzo), mostrando, in questo modo, la funzione regolatrice del tempo-lavoro (e indicando anche l’inutilità della LTV come strumento metodologico). 

Allo stesso modo, la LTV provvede anche ad una spiegazione del perché le risorse comuni all’interno di un’area assumano maggior valore per alcuni (ad esempio, il prezzo dell’acqua per una persona che si trovi in mezzo a un deserto sarebbe di gran lunga più alto rispetto a una persona che viva accanto a un fiume). Per capirci: chi possiede un certo quantitativo d’acqua nel mezzo di un deserto, può decidere di far pagare anche un prezzo straordinariamente elevato a coloro che fanno richiesta di quest’acqua, semplicemente perché si tratta di un bene raro e l’ammontare di lavoro richiesto per trovare una risorsa alternativa sarebbe troppo alto (per ora non faremo considerazioni riguardo il tipo di etica sul caro-prezzi imposto alla gente, come fanno le economie marginaliste che ritraggono queste tipologie di situazioni – che in parecchi classificano intuitivamente come sfruttamento – come “scambio equo”). Ma se è vero che questa specie di eccesso nei profitti può essere mantenuto per lunghi periodi, allora potrebbe nascere la tentazione in altri di aumentare la competizione. Se una costante domanda d’acqua esiste in una data regione, dunque la competizione abbasserebbe il prezzo di quest’acqua verso un prezzo medio richiesto per poterla rendere disponibile (e questo spiega perché i/le capitalist* desiderino ridurre la competizione tramite l’uso di leggi sul copyright – il brevetto privato d’esclusiva - , autorizzazioni e così via; vedi la sezione B.3.2 – o reclamino anche l’incremento della “stazza” delle compagnie, delle quote di mercato e di potere, vedi la sezione C.4). 

Riassumendo, così com’è dato, il costo di produzione di un bene può solo indicare se un certo prodotto venga “valutato” in maniera adeguata dai/dalle consumatori/trici al fine di garantire e giustificare l’incremento produttivo. Ciò significa che “il capitale si sposta da posizioni relativamente stagnanti verso le industrie in fase di rapido sviluppo...Il profitto extra, in eccesso rispetto al profitto medio conquistato a un dato livello di prezzo, scompare di nuovo, comunque, grazie all’influsso di capitale spostato da industrie povere di profitti a industrie con ampissimi margini di profitto”, incrementando così l’offerta, riducendo i prezzi e di conseguenza anche i profitti. [Paul Mattick, Op. Cit., p. 49] 

Questo processo d’investimento di capitali e la risultante competizione, rappresentano il significato attraverso il quale i prezzi di mercato tendono verso i prezzi di produzione in un dato mercato. Il profitto e le realtà dei processi di produzione sono le chiavi utili alla comprensione dei prezzi e di come questi influiscano (e di come vengano essi stessi influenzati) su domanda e offerta. 

In conclusione, dobbiamo sottolineare il fatto che affermare che i prezzi di mercato tendano verso la produzione non significa affatto suggerire che il capitalismo sia propriamente equilibrato. Lungi da tutto ciò. Il capitalismo è sempre instabile, in quanto “fuoriuscite dalla competizione capitalistica, per intensificare lo sfruttamento,...le relazioni di produzione [sono] in uno stato di trasformazione continua che si manifesta attraverso varie mutazioni dei prezzi di un relativo bene sul mercato. Pertanto, il mercato appare in costante disequilibrio sebbene con diversi gradi di serietà, per poi fare in modo che si riprenda, tramite il suo occasionale approccio a un certo stato d’equilibrio, l’illusione di una vera e propria tendenza alla stabilità.” [Paul Mattick, Op. Cit., p. 51] 

Quindi, l’innovazione dovuta alla lotta di classe, la competizione o la creazione di nuovi mercati, hanno un importante effetto sui prezzi di mercato. Ciò è possibile perché le innovazioni cambiano i costi di produzione di un bene o creano nuovi mercati con ampi margini di profitto. Mentre l’equilibrio potrebbe anche non essere messo in pratica, questo non cambia il fatto che il prezzo determini la domanda in quanto consumatori/trici si rapportano giornalmente ai prezzi (solitamente) come a un dato valore oggettivo mentre fanno la spesa e prendono decisioni in base a questi prezzi in modo da soddisfare i loro bisogni soggettivi. Così, la LTV riconosce che il capitalismo sia un sistema duraturo, con un futuro incerto (influenzato da svariati fattori, inclusa la lotta di classe) e per sua vera natura, dinamico. In aggiunta, al contrario del neo-classico prezzo di “equilibrio a lunga durata”, la LTV non sostiene affatto che i mercati del lavoro si libereranno o che un cambiamento in un particolare mercato avrà effetto su altri. Piuttosto, il mercato del lavoro potrebbe assistere a un’estensiva disoccupazione in quanto questo aiuterebbe a mantenere i livelli di profitto attraverso la disciplina – tramite la minaccia del licenziamento – sul posto di lavoro (vedi sezione C.7). Nemmeno si sostiene, comunque, che il capitalismo si stabilizzerà. Come la storia del “capitalismo allo stato attuale” ha mostrato, la disoccupazione è sempre tra noi e il ciclo affaristico continua ad esistere (nelle economie neo-classiche questo tipo di cose non accadono perché la teoria presume che tutti i mercati siano liberi e che la recessione sia sempre possibile). 

In più, la LTV indica la fonte d’instabilità – cioé “l’idea contradditoria del valore, così chiaramente esibita dall’inevitabile distinzione tra valore utile e valore di scambio.” [Proudhon, Op. Cit., p. 84] Questo, particolarmente, è il caso del lavoro in quanto il valore di scambio del lavoro (il suo costo, ad esempio i salari) è diverso dal suo valore d’uso (ovvero ciò che effettivamente si produce durante l’arco di una giornata lavorativa). Come viene commentato nella prossima sezione, la differenza tra valore d’uso del lavoro (il suo prodotto) e il suo valore di scambio (il suo salario) rappresentano la fonte del profitto capitalistico (indicheremo nella sezione C.7 in che modo questa distinzione influenzi il ciclo affaristico – per esempio, l’instabilità in economia).