Chi sono gli anarchici in Italia oggi?

Una lunga intervista a Cosimo Scarinzi storico esponente anarchico, che ci accompagna nel tentativo di conoscere più a fondo questa componente della sinistra, della quale non siamo parte, ma la cui legittimità e utilità per tutta la sinistra ci pare doveroso riaffermare in un momento in cui ignoranza da un lato e repressione dall'altro contribuscono a creare un clima di diffidenza nei suoi confronti. REDS. Ottobre 2001.


Cosa e' il movimento anarchico oggi in Italia? Sulla nostra rivista spesso ci dilunghiamo nel descrivere (dal nostro punto di vista) le varie componenti della sinistra italiana. Spesso pero' da queste analisi abbiamo lasciato fuori gli anarchici perché ci mancano le conoscenze sufficienti per dire qualcosa di utile. Ci aiuti a riempire questo vuoto? Ci sarebbe utile una sorta di "mappa" delle varie componenti anarchiche che ci sono in Italia.

Ritengo che sia opportuno fare una premessa. Si parla di movimento anarchico per, almeno, due ragioni:

*
gli anarchici tendono a preferire questa definizione ad altre come partito, organizzazione ecc. perché, nel corso del XX secolo, questi termini hanno assunto un significato preciso nel senso di organizzazione gerarchica di tipo, almeno nei paesi occidentale, parlamentare;

*
con il termine movimento anarchico si indica un assieme che comprende diversi gruppi, federazioni, individualità che, pur differenziandosi su diverse questioni, si riconoscono in alcuni principi generali e possono operare assieme, al di là delle appartenenze, su iniziative, campagne, mobilitazioni.


Per quanto la definizione "movimento anarchico" possa apparire vaga, ritengo evidente che non possa comprendere individui e gruppi che non si riconoscono nei principi fondanti dell'anarchismo e, in estrema sintesi, nella critica radicale alle gerarchie sociali e, di conseguenza, allo stato, al capitalismo, alle strutture di potere formali ed informali.
L'anarchismo, in altri termini, non è né una generica attitudine anticonformista né un altrettanto generica critica della burocrazia. Di conseguenza, ambienti come quello che si definisce anarcocapitalista, da una parte, o settori movimentisti della sinistra, dall'altra, non possono essere definiti anarchici almeno se le parole hanno un senso non perché qualcuno li escluda ma per le loro stesse scelte. Naturalmente si può parlare di un'area libertaria per indicare quelle componenti della sinistra che, senza accettare il programma anarchico e riconoscersi in quello che gli anarchici definiscono sovente "movimento specifico", manifestano simpatia per specifiche posizioni libertarie come la critica alla delega, la rivendicazione dell'autonomia sociale delle classi subalterne a fronte dei partiti, dei sindacati, dello stato, la libertà di sperimentazione e di ricerca sul terreno della prassi sociale.
Per evitare equivoci, io, e non sono il solo, guardo con grande interesse all'area libertaria e penso che la sensibilità libertaria non sia monopolio del movimento anarchico inteso in senso stretto. Per dirla tutta, lo stesso movimento anarchico non si deve pensare come un'avanguardia illuminata ma come un soggetto politico che verifica nel rapporto con le lotte sociali le proprie posizioni e fra questi momenti di verifica non è secondario quello con i movimenti e le aree culturali portatori di istanze libertarie.

Detto ciò, il movimento anarchico, propriamente detto, in Italia vede la presenza di:

*
la Federazione Anarchica Italiana (FAI) che edita il settimanale "Umanità Nova" e raccoglie un settore consistente del movimento. La FAI è quella che si definisce una "federazione di sintesi" perché prevede l'accettazione da parte dei suoi membri del "Programma Anarchico" scritto materialmente da Enrico Malatesta nel primo dopoguerra, alla fondazione della Unione Anarchica Italiana -UAI- (1) , e del patto associativo che regola le relazioni interne alla FAI ma riconosce che i deliberati congressuali sono impegnativi solo perché li accetta e riconosce al proprio interno una grande varietà di posizioni su problemi particolari. I militanti della FAI, sovente, appartengono a gruppi o coordinamenti anarchici locali che raccolgono anarchici federati e non federati o, anche, anarchici che appartengono ad altre federazioni. La FAI prende le sue decisioni nei periodici congressi o nei convegni che si svolgono più di frequente. Nei congressi la FAI da mandato a gruppi di compagni o a singoli di occuparsi di diverse commissioni di lavoro che seguono, appunto, particolari settori di intervento e cercano di coordinare l'attività dei compagni che agiscono sulle medesime questioni.
*
La Federazione dei Comunisti Anarchici (FdCA) che edita il giornale "Alternativa Libertaria". Si tratta di una federazione di affinità perché prevede che tutti i compagni siano tenuti ad applicare i deliberati congressuali ed è caratterizzata da una omogeneità interna rispetto alla FAI. La FdCA è il prodotto di una scissione della FAI determinatasi all'inizio degli anni '70 su diverse questioni, soprattutto la forma organizzativa e la politica sindacale. Attualmente i rapporti fra le due federazioni sono discreti anche se permangono differenze di stile di lavoro e di analisi politica.
*
La Federazione Anarchica Siciliana (FAS) che edita il giornale Sicilia Libertaria e raccoglie gran parte dei compagni, appunto, della Sicilia. I compagni siciliani della FAI aderiscono, a quanto ne so, alla FAS visto che non vi sono sostanziali differenze di sensibilità politica generale.
*
L'Unione Anarchica Italiana (UAI) che conosco poco e che raccoglie, a quanto ne so, soprattutto compagni dell'area lombarda. È evidente che questi compagni hanno ripreso la sigla di anteguerra.


In realtà, molti compagni che non appartengono ad alcuna delle federazioni che ho segnalato, militano in gruppi e coordinamenti locali o partecipano alla vita del movimento a titolo individuale. Si tratta di scelte che hanno molteplici ragioni e che non creano, a quanto ne so troppi problemi.
Se si pone l'accento non sulle appartenenze organizzative, che in campo anarchico mi sembrano pesare meno che in altre aree, ma sulle posizioni politiche generali, sui può tentare una schematizzazione, necessariamente sintetica, delle posizioni politiche che caratterizzano il movimento anarchico.
Mi permetto a questo proposito, di riportare, in nota (2), un brano tratto da un mio libro,"L'enigma della transizione - Conflitto sociale e progetto sovversivo" editato dalle Edizioni Zero in condotta di Milano nel novembre 2000.

Gli anni novanta hanno visto crescere in Italia due fenomeni non sempre legati tra loro, ma che comunque hanno contribuito in maniera decisiva a disegnare quella che è la sinistra oggi: i centri sociali e il sindacalismo di base. In qualche modo per la loro costante polemica verso il verticismo, la burocrazia, ecc; sono fenomeni vicini alla sensibilità anarchica. Ci spieghi qual e' stato il contributo che gli anarchici hanno dato a questi fenomeni, e perché pur apparendo chiaro persino a noi la consistenza certo non trascurabile di questo contributo, l'anarchismo come corrente politica non ha oggi al loro interno un grosso peso?

Dei centri sociali so poco e preferisco non esprimermi. Per quanto riguarda il sindacalismo alternativo, direi che quest'esperienza non si sviluppa in un inframondo e che risente del clima politico e sociale generale come è normale che sia. Detto in altri termini, i militanti che animano l'esperienza dei sindacati alternativi sono, certamente, critici nei confronti dei sindacati di stato e, generalmente, almeno nella CUB, disincantati nei confronti dei partiti parlamentari ma la loro cultura politica di riferimento, nonostante la sensibilità antiburocratica alla quale spesso fai riferimento, è generalmente quella della sinistra così com'è nella sua componente maggioritaria e, cioè, della sinistra statalista. A questo proposito allego in nota alcune considerazioni (3).
Vi è una seconda notazione da fare, i militanti anarchici impegnati nel sindacalismo di base non vanno in giro con una fascia sulla fronte con dipinta la fiaccola dell'anarchia. Anzi, di norma, vivono fortemente l'impegno sindacale come una cosa seria e cercano, soprattutto, di praticare il metodo libertario nella militanza quotidiana.
Per fare un esempio concreto, nella CUB, il sindacato nel quale milito ci sono, a quanto ne so, visto che non li conosco tutti, oltre un centinaio di militanti anarchici intesi in senso proprio e molti di loro hanno responsabilità organizzative di vario tipo e tutti sono fortemente impegnati almeno a livello aziendale. Il fatto stesso che a questi compagni non sia venuto in mente di organizzarsi in corrente o di fare pressioni strane per occupare posizioni di "potere" è tipico della nostra componente.
Non ho un'idea della consistenza della componente anarchica negli altri sindacati di base ma ne conosco diversi che militano oltre che, ovviamente, nell'USI, nella Confederazione Cobas, nell'Unicobas ecc. e, di norma, vi sono buoni rapporti fra di noi.
Si deve considerare, inoltre, che c'è una rivista d'area, "Sindacalismo di Base" che ha oltre 300 abbonati fra i militanti dei sindacati di base, che ovviamente non tutti gli anarchici che fanno sindacato sono abbonati alla rivista e che non tutti la comprano, che non tutti gli abbonati ed i lettori sono anarchici e che, anzi, la maggioranza non lo è. L'interesse e, direi, l'apprezzamento per questa rivista segnalano che c'è un'attenzione al punto di vista libertario anche fra sindacalisti non anarchici.
La stessa "Umanità Nova" ha qualche centinaio di abbonati fra i militanti del sindacato di base e sicuramente dei lettori non abbonati e viene spesso utilizzata nel lavoro sindacale. Sulla diffusione nel sindacato di base di UN ho un'idea meno precisa di quella che ho riguardo a SdB ma, se guardo alle situazioni torinese e milanese che conosco meglio, verifico che viene letta, che suscita discussioni, che viene ripresa sulla stampa sindacale ecc.. Nulla di straordinario ma nemmeno l'irrilevanza che sembri adombrare.
Venendo alla domanda più generale che fai, il peso maggiore o minore dell'anarchismo in area sindacale, e negli stessi sindacati alternativi, non dipende o, almeno, non dipende principalmente dall'azione dei militanti anarchici ma dall'orientamento predominante a sinistra e quest'orientamento non prescinde dal clima sociale generale. In questa fase le componenti moderate o, al massimo, riformiste radicali, stataliste e welfariste sono fisiologicamente egemoni. Se non fosse così saremmo in una fase storica diversa da quella che, non per nostra scelta, viviamo.
Per quanto mi riguarda, posso aggiungere che ritengo sufficiente la rivendicazione e, soprattutto, la pratica dell'autonomia dai padroni, dai partiti e dallo stato mentre mi pare implausibile il pretendere che un sindacato sia antiparlamentare, antistatale ed anticapitalista e questo non perché io non lo desidererei ma perché dovrebbe esservi, perché si realizzasse questa situazione, una vera e propria mutazione della situazione sociale generale.

Gli anni novanta hanno visto sorgere in Italia un altro soggetto nuovo: il PRC, cui, come sai, siamo legati, seppur criticamente. Quando e' sorto questo partito aveva suscitato parecchie speranze e abbiamo conosciuto anche diversi anarchici che vi avevano aderito. Poi l'appeal del partito e' continuamente diminuito. Ci racconti qual e' il rapporto che le varie componenti dell'anarchismo hanno intrattenuto con questo partito?

Non vorrei sembrare dogmatico anche perché non ritengo di esserlo ma nessun anarchico ha mai aderito al PRC se al termine anarchico si da un significato non generico. Si tratterebbe, come mi pare evidente, di una contraddizione in termini. Il nostro rapporto con i socialisti parlamentari è stato definito in maniera chiara e definitiva alla fine degli anni '80 del XIX secolo. Che un fautore del parlamentarismo si definisca anarchico è possibile ma si tratterebbe di un problema suo. Se credessi al valore della psicoanalisi direi che si tratterebbe di un caso di schizofrenia. D'altro canto, se Montanelli si definiva anarchico perché negare questo piacere ad altri? È possibile che dei compagni abbiano cambiato di posizione politica e siano entrati nel PRC ma, per la verità, non ne ho mai sentito parlare. Eppure siamo un piccolo movimento, costituito da poche migliaia di compagni, e se dei casi del genere si fossero dati anche per un solo compagno, se ne sarebbe almeno discusso. Probabilmente nel PRC sono entrati compagni di sensibilità libertaria che non appartenevano o non appartenevano più da anni nel movimento specifico.
Per quanto, invece il rapporto fra movimento anarchico e PRC intesi come partiti distinti, direi che sono profondamente diversi rispetto a quelli che c'erano con il PCI e per molteplici ragioni. In primo luogo, il PRC è solo assai imperfettamente l'erede del PCI, non foss'altro che per la presenza al suo interno di molti militanti che vengono dalla nuova sinistra degli anni '70.
Nel PRC, indubbiamente, vi sono settori ampi che hanno elaborato una critica vera e seria al "comunismo storico novecentesco" e che sperimentano forme dell'azione politica e sociale diverse, in meglio, almeno a mio avviso, rispetto alla tradizione stalinotogliattiana.
In estrema sintesi, e non sono né il solo né il primo a dirlo, il PRC sembra spesso più simile ad un partito socialista di sinistra che ad un partito terzointernazionalista e questa sua caratteristica permette un rapporto più sciolto a livello locale, su singole iniziative ecc..
Infine, il PCI era, sempre, un avversario duro e, spesso, un nemico feroce mentre il PRC non lo è se non nel senso della differenza di posizioni politiche e spero che la dialettica fra anarchici e socialisti parlamentari del terzo millennio si sviluppi non nella forma dell'inimicizia radicale ma in quella del confronto delle posizioni politiche e delle proposte pratiche e del rispetto delle differenti posizioni.

Il sindacalismo di base e' nato per portare aria nuova nel fare sindacato, e spesso in vari momenti vi e' riuscito. Registriamo pero', pur in piccolo se proporzionato agli scempi delle direzioni maggioritarie delle organizzazioni di massa, tendenze non sempre nuovissime: ad esempio una certa tendenza al leaderismo, un forte settarismo, e dunque, un ritorno sotto altre forme dello spirito di delega. Sei d'accordo? Qualche antidoto?

Non so se mi stimi troppo o se ti burli di me quando mi fai una domanda del genere. Credo, comunque, si possa agire in due modi:

*
Nella pratica sindacale applicando il metodo libertario (azione diretta, democrazia di base, libertà di confronto ecc.) nei modi che la situazione rende possibili e dimostrandone nei fatti e non sulla base di dichiarazione di principio la preferibilità. In particolare, bisogna rendere evidente che un processo di burocratizzazione ci rende non più forti ma più deboli perché solo l'autoattività delle masse e degli individui può dar vita ad un sindacato capace di ottenere risultati concreti. Come coniugare questa dimensione del conflitto con la necessaria efficienza organizzativa è un terreno di sperimentazione tutto da verificare. Se dovessi parlare solo della mia esperienza dovrei scrivere un libro e te/ve lo risparmio
*
Conducendo un'azione di orientamento culturale fra gli iscritti ed i militanti che, quasi sempre, hanno un'idea distorta, quando ce l'hanno, del sindacalismo libertario, , non ne conoscono le proposte, la tradizione ecc.. Io ho notato, almeno dove lavoro, che spesso i più sensibili su questi temi restano colpiti dalla ricchezza di proposte, esperienze, elaborazioni dell'area libertaria. Magari, poi, restano sulla loro posizione politico sindacale ma, almeno, sono interlocutori disponibili a ragionare su alcuni problemi.


Troviamo anarchici un po' in tutti i sindacati. C'è' l'USI ovviamente, tu sei nella CUB, conosciamo compagni anarchici nei Cobas e persino nella CGIL. Come mai questa distribuzione? Tra gli anarchici che dibattito c'è sulla "questione sindacale"?

In realtà diversi ottimi compagni sono anche nella CISL. Ne conosco di iscritti alla CISAL. Della UIL non so. Direi che vi sono diverse ragioni per questa differenziazione nella scelte sindacali:

*
Vi sono compagni che pensano che il sindacato sia per sua natura riformista e che, di conseguenza, se anche vale la pena di impegnarsi sul terreno sindacale non è opportuno farne l'asse del proprio intervento sociale . Lo stare nei sindacati di stato corrisponde all'esigenza di condurre un intervento locale o aziendale su posizioni critiche che non implicano la scelta di costruire un soggetto sindacale.
*
Altri compagni, partendo dalla stessa analisi, ritengono, invece, che sia possibile costruire una componente libertaria nei sindacati di stato. Si tratta, soprattutto, di compagni della FdCA (non tutti visto che alcuni di loro militano nei sindacati alternativi). L'idea di fondo è che, al di fuori di una fase rivoluzionaria, un sindacato sia necessariamente riformista e burocratico e che solo piccole organizzazioni possono evitare questo problema con la conseguenza che o muoiono o crescono e si integrano nella struttura sociale dominante.
*
Molti compagni, pur non ritenendo possibile lo svilupparsi ora di sindacati rivoluzionari, credono che un sindacalismo combattivo possa crescere e che gli anarchici possano dare un contributo a questo processo. Si tratta soprattutto di compagni della FAI o vicini alla FAI anche se diversi compagni della FAI militano o nei sindacati di stato e nell'USI.
*
Vi sono compagni che ritengono possibile la costruzione di una sindacato rivoluzionario e libertario e stanno nell'USI.
*
Molti compagni, infine, non ritengono di impegnarsi suyl terreno sindacale a partire da un giudizio radicalmente critico sul sindacalismo ma danno un ricco contributo di idee e di azione ai movimenti di lotta extrasindacali che si sviluppano nella società.


Su questi temi la discussione nel movimento specifico è stata vivace, oggi le varie scelte sono più stabilizzate che in passato ma si organizzano, almeno da parte della FAI, dell'FdCA, di vari gruppi nei quali si discute della questione sociale e dell'intervento libertario nelle lotte. La discussione è aperta sulla stampa, nelle liste di discussione su internet ecc.

E veniamo a Genova. Come sai una delle ragioni di questa intervista e' quella di contribuire a rompere, nel nostro piccolo, il cerchio impalpabile di diffidenza che e' cresciuta nei confronti degli anarchici all'interno del movimento antiglobalizzazione. Non lo facciamo per bontà ma perché e' interesse di tutti (o per lo meno di tutti coloro che lottano per il protagonismo della base) che non vi siano componenti escluse sulla base delle proprie idee. Si comincia con gli anarchici e non si sa poi con chi si finisce. Parlaci di come e' vissuto tra gli anarchici questo movimento, Genova e il dopo Genova.

Per la verità, abbiamo le spalle larghe e siamo in grado di reggere alla diffidenza di chiunque. In realtà, paradossalmente, gli anarchici a Genova sono stati coinvolti meno di altri settori del movimento negli scontri, almeno il 20 luglio, visto che erano per la maggior parte alla manifestazione dei sindacati di base dai quali hanno ricevuto ampie attestazioni di stima che ho verificato, recentemente, al Consiglio Nazionale della CUB che non è proprio un covo di estremisti. La scelta degli anarchici di evitare la trappola costituita dalla scelta fra violenza e logiche istituzionali, il fatto di lavorare sull'ipotesi "radicali e radicati" sui contenuti della mobilitazione, per lo sciopero dei sindacati di base è stata non sempre semplice da gestire ma io la rivendico come, per l'essenziale, corretta. Certamente il rapporto con i sindacati di base non è stato sempre lineare. Nel movimento specifico se ne è discusso e se ne discuterà e chi, come me, è contemporaneamente anarchico e sindacalista si trova impegnato in questa discussione, passami la battuta, su due fronti. È, infatti, evidente che non sempre vi era coincidenza fra le parole d'ordine e le scelte operative degli anarchici e quelle dei sindacati alternativi ma questo mi sembra normale. Mi riferisco, in particolare, ai rapporti della CUB con il Genoa Social Forum. Come ho già detto, non si può pretendere che i sindacati alternativi siano altro rispetto a quel che sono. Come anarchici, però, abbiamo il diritto di criticare le scelte dei sindacati nei quali, magari, militiamo e non sono mancate critiche serie ed argomentate, ad esempio, sulle pagine di "Umanità Nova".
Abbiamo, fra l'altro, trovato divertenti le strumentali lodi che il Ministro degli Interni e vari dirigenti della polizia hanno reso agli anarchici. Era evidente la loro logica: se un corteo "estremista" non è stato caricato questa è la prova che non vi era una volontà di scontro a tutti i costi da parte della polizia.
Immagino che, in realtà, tu ti riferisci al Blocco Nero quando parli di problemi che avremmo in quanto anarchici. A quanto ne so, ma posso sbagliare, il Blocco Nero, al di là di quello che effettivamente è, è stato costruito come mito mediatico ed è servito a molti, da destra e da sinistra, per scaricare addosso ad un'immagine le proprie responsabilità. Per la polizia, la destra ed il governo, è servito a presentare Genova come una città invasa dai barbari, per i dirigenti irresponsabili della sinistra che hanno blaterato sin troppo di sfondamenti della zona rossa, per presentarsi come pecorelle vittime dei cattivacci. Se qualcuno è interessato ad un approfondimento della questione può leggere il numero speciale che "Umanità Nova" ha dedicato quest'estate ai fatti di Genova.
Più in generale, che gli anarchici siano associati a componenti o a comportamenti "asociali" è, inutile illudersi, inevitabile. Credo, però, che le persone serie possano fare uno sforzo di conoscenza della nostra attività come, peraltro, state facendo voi.

In tutta Italia si vanno formando social forum. A noi, come diciamo in altra parte, non pare stiano partendo col piede giusto. L'impressione e' che siano calati dall'alto, e gestiti, seppur confusamente, dall'alto. Ci pare che le vecchie direzioni politiche (ognuna delle quali si e' "fatta i fatti propri" negli anni novanta) si ritrovino tutte insieme e che le loro divisioni ed ambizioni siano una specie di tappo per il movimento. In tutti i casi queste considerazioni critiche non ci sembrano una buona ragione per starne fuori: vi partecipa un sacco di gente nuova, con una forte voglia di partecipazione. Gli anarchici che fanno? Sono dentro, sono fuori?

Condivido, nella sostanza, la vostra valutazione. A quanto mi risulta, di norma, i compagni hanno scelto di stare nel movimento contro la repressione e contro la guerra senza aderire ai vari social forum che, per la verità, sembrano più degli intergruppi egemonizzati dal PRC e dalla sinistra CGIL che altro. D'altro canto, queste aggregazioni esprimono una volontà unitaria del "popolo di sinistra" che non va disprezzata. Non va, insomma, assunta un'attitudine elitaria.

Un po' di pubblicità. Conosciamo la copiosa produzione anarchica di testi di carattere storico (studi sullo stesso movimento anarchico e non solo). Ci pare che non abbondino invece libri con riflessioni anarchiche sull'oggi. Se e' cosi' puoi spiegarne la ragione? Puoi dare delle indicazioni dei testi che ci sono in circolazione (titoli, case editrici, librerie dove reperirli, ecc.)?

Quando rilevi che gli anarchici hanno una passione inesausta per la storia non hai tutti i torti. Peraltro io condivido questa passione e me ne assumo la mia, limitata, parte di responsabilità. Credo si spieghi con l'esigenza di salvare una memoria ed un'identità che la vittoria, provvisoria, come sappiamo oggi, ma di lungo periodo, della sinistra statalista sembrava condannare all'estinzione. Gli anarchici sono, poi, degli appassionati del libro e le pubblicazioni di libri, giornali, opuscoli fioriscono.
Direi, anzi, che la ricerca storica di parte anarchica si è caratterizzata, negli ultimi anni, per un positivo salto di qualità, di rigore e di autorevolezza.

Segnalo solo, da questo punto di vista, l'ottima "Rivista Storica dell'Anarchismo" Editata dalle Edizioni della Biblioteca Franco Serantini, Largo Concetto Marchesi, 56124 Pisa , e mail bfspisa@tin.it . La BFS Edizioni pubblica anche la rivista di teoria politica "Collegmenti/Wobbly per l'organizzazione diretta di classe", alla quale collaboro, che può essere richiesta a Guido Barroero, Vico Condino 1/6, 16156 Genova Pegli o a collegamenti_wobbly@yahoo.it .
La BFS pubblica, certo, testi di carattere storico e riedizioni ben curate di vecchi testi teorici, non solo anarchici come quelli del teorico dell'operaismo Raniero Panzieri ma anche testi teorici nuovi come quelli, ottimi, di Diego Giachetti sulla rivolta di Corso Traiano a Torino, sulle lotte operaie in Fiat, sul '68, quelli di Alain Bihr (Dall'assalto al cielo all'alternativa) dei quali ha si è parlato su tutti i giornali di sinistra, di Gianfranco Marelli sul situazionismo, di Maurizio Antonioli sul sindacalismo, di Riccardo Bellofiore sul quadro economico ecc.. è interessante notare come le case editrici anarchiche pubblichino testi sia di anarchici che di non anarchici purché siano ritenuti interessanti.
La casa editrice della FAI è "Zero in Condotta" che pubblica materiale di attualità oltre che materiale storico. Solo io ho pubblicato per le Edizioni ZiC tre libri ("L'idra di Lerna - dall'autorganizzazione delle lotte all'autogestione sociale", "L'enigma della transizione - Conflitto sociale e progetto sovversivo", "Qui comincia l'avventura - Note sulla natura e sulle basi sociali della seconda repubblica" ma diversi altri compagni hanno scritto per ZiC testi di attualità politica. Penso, per fare un esempio a Salvo Vaccaro ed a Domenico Liguori.
Elèuthera, Via Rovetta 27, 20127 Milano e mail eleuthera@tin.it che pubblica molti libri interessanti fra i quali ricordo solo il recente libro sul rapporto fra anarchici ed ebrei.
In realtà, le case editrici anarchiche sono una dozzina e testi anarchici sono editati anche da case editrici commerciali. Escono, inoltre, diversi giornali e riviste, oltre a quelli già segnalati, come "Comunismo Libertario", "Germinal", "A Rivista Anarchica", "Libertaria" solo per fare alcuni esempi.
Se vi interessa potrei prepararvi una scheda sull'argomento.
In sintesi, probabilmente gli anarchici non riescono a fare conoscere in un ambiente sufficientemente vasto la loro produzione giornalistica e libraria, ma questo non mi pare un problema dei soli anarchici. La stampa libertaria raggiunge, comunque, alcune decine di migliaia di persone a meno di non immaginare che gli stesi tremila o quattromila lettori comprino tutto cosa che non è plausibile sia per i nostri limiti economici sia perché la stampa anarchica è fortemente differenziata al suo interno per stile, livello di approfondimento, linee politiche. Se si considera che il movimento anarchico ha una composizione essenzialmente proletaria in senso classico non si tratta di un risultato modestissimo.
Non manca una riflessione sull'oggi e sulle prospettive del domani che appare, forse, più sulla stampa periodica che sui libri ma che anche diversi libri testimoniano.

NOTE:

(1) La sigla FAI viene assunta nel secondo dopoguerra.

(2) Note sulla militanza. Capita a me come, credo, ad altri compagni di domandarmi come si spieghi il fatto che, in presenza di molte e dichiarate simpatie per una critica libertaria dell'esistente, simpatie che si spingono spesso sino all'esplicita dichiarazione di adesione all'anarchismo, il movimento anarchico, inteso come un assieme di militanti, resti una realtà relativamente modesta, dal punto di vista della consistenza quantitativa.
Al fine di evitare equivoci, non ritengo che la consistenza quantitativa del movimento anarchico tolga o aggiunga nulla alla condivisibilità dell'anarchismo come visione del mondo e, di conseguenza, non pongo il problema se l'anarchismo sia superato, smentito, in altri termini, falsificato.
Faccio un paragone solo apparentemente provocatorio: la verità di una rivelazione religiosa o la condivisibilità di una teoria scientifica non dipendono dal numero di coloro che l'accettano ma dalla possibilità di verificarle sulla base di criteri dichiarati e tali da rendere conto delle contraddizioni e delle potenzialità dell'ipotesi presa in considerazione.
L'anarchismo, come critica del potere, manterrebbe il suo senso e la sua condivisibilità anche se non vi fosse un solo militante anarchico e sarebbe suscettibile di critica teorica anche se gli anarchici militanti fossero milioni.
L'anarchismo al quale mi riferisco non è, di conseguenza, la teoria anarchica ma quello che si può definire l'anarchismo realmente esistente o, per semplicità, anarchismo storico.
Per restringere il campo della riflessione, ritengo opportuno fare un ulteriore considerazione.
Mi è capitato di notare che quando qualche esponente della cultura ufficiale si dichiara o viene definito anarchico provo un certo qual fastidio e che altrettanto avviene ad altri compagni.
L'esempio più noto, credo, di questo anarchismo della mutua è, in Italia, Indro Montanelli. Ritengo evidente che Montanelli si ritiene anarchico in quanto anticonformista e che, di conseguenza, il suo anarchismo consiste in uno stile letterario ed in un atteggiamento originale, almeno a suo parere. Visto che l'anticonformismo, di per sé, è un attributo che non si può negare a nessuno è evidente che lo sforzo che alcuni compagni fanno per denunciare la confusione fra anarchismo ed anticonformismo, reale o presunto, è lodevole ma condannato allo scacco. Che ci piaccia o meno, chiunque si ritenga o sia ritenuto originale potrà continuare a definirsi anarchico o sarà definito in questo modo e la cosa non farà gran danno se si prescinde dal fastidio che può provocarci .
Se, però, quello che ci interessa è il rapporto fra comportamenti e convincimenti che non sono genericamente anticonformisti ma, al contrario, determinano un'effettiva rottura con l'ordine dominante e la proposta, che fa l'anarchismo organizzato, di trasformarli in una militanza quotidiana, il problema è significativamente diverso.
Mi riferisco, quindi, allo scarto che, come ricordavo, cogliamo fra la crescita di interesse per la critica libertaria del capitalismo e dello stato in settori della sinistra sociale e l'attuale consistenza del movimento anarchico specifico.

Le ragioni dell'attuale simpatia nei confronti della tradizione e della proposta libertaria sono, credo, evidenti:

- il crollo del blocco a capitalismo di stato e le modalità di questa stessa implosione sono stati una smentita difficilmente contestabile non solo della pretesa del bolscevismo di aver realizzato una fuoriuscita in senso progressivo dal modo di produzione capitalistico ma anche della presunta efficacia della proposta organizzativa del bolscevismo stesso come modello eguale e contrario rispetto alla struttura capitalistica e statale. La relativa facilità dell'integrazione dell'apparato dei vari stati-partito "comunisti", per non parlare dei partiti postcomunisti occidentali, rispetto all'area del capitalismo di mercato comporta una doppia sconfitta per il bolscevismo che si è dimostrato incapace di realizzare una qualche forma di socialismo, per un verso, e di essere concorrenziale rispetto al blocco occidentale, per l'altro;

- i cugini concorrenti dei bolscevichi, i socialdemocratici, ottengono una vittoria apparente nello scontro che li ha opposti per decenni ma, nel contempo, risulta evidente non solo l'inefficacia della loro proposta di fuoriuscire dolcemente dal modo di produzione capitalistico attraverso una serie di graduali riforme ma anche l'incapacità di attenuarne gli effetti più distruttivi per quel che riguarda le condizioni di vita delle classi subalterne. Se di riformismo si parla oggi, si tratta di un riformismo al contrario che sposta, attraverso l'uso spregiudicato della macchina statale, risorse dalle classi subalterne a quelle dominanti, dai lavoratori alle imprese;

- in questo contesto, la componente libertaria della nuova sinistra sviluppatasi negli anni '60 e '70, componente che si è concretizzata in comportamenti, stili di vita, tensioni antiburocratiche più che in una precisa proposta politica, può, almeno parzialmente, emanciparsi dalla subalternità alla sinistra statalista che l'ha, in gran parte, caratterizzata in passato. In altri termini, sembrerebbe possibile il passaggio da un generico ma interessante libertarismo che si è concretizzato nella rivendicazione di forme di democrazia diretta e di organizzazione non burocratica della militanza, nell'affermarsi di una sensibilità per la libertà sessuale, l'emancipazione femminile, la difesa dei diritti delle minoranze etniche e delle culture subalterne, la definizione di un rapporto non distruttivo con l'ambiente ecc., ad una esplicita individuazione del comunismo libertario come proposta politica alla quale riferirsi;

- elementi interessanti, dal nostro punto di vista, potrebbero rinvenirsi anche nell'antistatalismo generico che anima movimenti antifiscali ed antiburocratici attualmente egemonizzati da forze di destra. L'insopportabilità del controllo burocratico sulla vita quotidiana delle classi subalterne, lo scontento per la crescente pressione fiscale sui salari, l'esigenza di valorizzare le realtà produttive e sociali locali contro i grandi centri di potere statali, finanziari, industriali, potrebbero dare nuovo alimento alla pratica ed alla proposta anarchica nella misura in cui si riuscisse a spezzare l'egemonia della piccola impresa e dei ceti medi in rivolta antifiscale su consistenti settori del lavoro salariato.

Sulla base di quanto si è sinora affermato è legittima la domanda del perché il movimento anarchico specifico gioca un ruolo inferiore a quello che parrebbe possibile in un contesto apparentemente favorevole. Come limitato e personale contributo a questo lavoro, proporrò una domanda che ritengo semplice e radicale.

Supponendo che gli anarchici, come coloro che si rifanno ad altre visioni del mondo, siano il prodotto di precise dinamiche storico sociali, credo si possa affermare che un anarchico sia un individuo che si caratterizza per l'intreccio fra una rivolta, impegnativa e significativa dal punto di vista personale, contro l'ordine sociale esistente e l'incontro con la tradizione dell'anarchismo così come se la trova di fronte sia nella forma di una serie di elaborazioni teoriche che in quella di proposte di azione politica e sociale.
è opportuno ricordare che non vi è una tradizione dell'anarchismo ma un assieme di proposte e di elaborazioni a volte fra di loro differenti altre volte esplicitamente contrastanti.
In estrema e discutibile sintesi si può affermare che vi sono, se si prescinde dalle posizioni intermedie che possono essere infinite, almeno tre filoni dell'anarchismo meritevoli di attenzione:

- quello che ritiene possibile e desiderabile una società fondata sull'autogoverno dei produttori associati e che possiamo definire, di conseguenza, comunista;

- quello che pone l'accento sulla rivendicazione più ampia della libertà individuale prescindendo dai caratteri di classe delle forze alle quali si riferisce e da una proposta di rottura radicale con l'esistente;

- quello che individua nella rivolta immediata contro l'esistente e nell'affermazione di uno stile di vita conseguente a questa rivolta i caratteri di un anarchismo che non rimanda ad un domani la sua realizzazione.

Ritengo che il filone dell'anarchismo più internamente coerente sia il primo: la critica radicale del potere statale e della proprietà privata dei mezzi di produzione e la conseguente lotta per la realizzazione del comunismo libertario.
D'altro canto, ritengo evidente, che proprio questa posizione è la più problematica dal punto di vista della militanza.
Infatti la posizione che possiamo definire umanista o liberale comporta più che altro la pratica di un'attività di carattere culturale e di propaganda della critica alla società attuale. La posizione che possiamo definire esistenziale implica la costruzione di ambiti ove vivere la propria quotidianità alternativa senza che sia essenziale la partecipazione alla lotta delle classi subalterne che è, anzi, di norma, esclusa. Ancora una volta, ricordo che mi riferisco a modelli puri di azione che non corrispondono necessariamente alla pratica effettiva dei compagni che si riconoscono in uno dei due filoni ai quali ho fatto cenno.
L'anarchismo di coloro che ritengono centrale la lotta fra le classi e che si propongono la realizzazione del comunismo libertario si traduce necessariamente, a mio parere, nel condurre un'azione metodica che si articola su diversi piani:

- la critica teorica dell'attuale ordine sociale, critica che non si riduce alla rivendicazione di una tradizione ma che, fondandosi sulle conquiste che da questa tradizione ci vengono tramandate, si propone di utilizzare tutte le conoscenze che lo sviluppo della scienza della produzione, nella loro forma capitalistica ed autoritaria, e della prassi delle classi subalterne ci pongono a disposizione per rendere più efficace la lotta anticapitalistica ed antistatale;

- la partecipazione, nelle forme che la situazione che ci troviamo di fronte, rende possibili alle lotte sociali, sindacali, culturali che le classi subalterne conducono e lo sforzo di rendere queste lotte più ampie, meglio coordinate, più radicali;

- la costruzione di ambiti di collaborazione e di confronto fra compagni che, condividendo lo stesso programma generale, agiscono in contesti immediati diversi e con diverse modalità di azione al fine di rafforzare la nostra azione, valorizzare le esperienze particolari, garantirci reciproca solidarietà ecc..

Questa complessa attività, la militanza in una parola, prevede l'assunzione di compiti, responsabilità, impegni che proseguono nel tempo e che non corrispondono necessariamente ai nostri interessi immediati.
D'altro canto, la rivolta soggettiva contro l'istituito parte, in primo luogo, dal rifiuto di sacrificare la nostra vita concreta a regole, impegni, obblighi che ci vengono imposti dalle gerarchie dominanti e che sono interiorizzati nel senso comune delle classi subalterne sotto la forma del ricatto morale consistente nell'idea che noi avremmo dei precisi doveri verso la società, il lavoro, l'autorità. Questo dovere si concretizza in stili di vita e mentalità che sono forze storiche che solo un materialista volgare può concepire come realtà spirituali o sovrastrutturali visto che le mentalità sono forze materiali.
Il rifiuto di sottostare al ricatto morale dominante è una condizione necessaria anche se non sufficiente dell'assunzione dell'anarchismo come punto di vista sulla società.
Questo rifiuto si lega all'affermazione della propria volontà di godere pienamente della propria vita senza altri vincoli che non siano gli accordi che liberamente accettiamo, accordi precisi e determinati e non impegni per la vita o che, comunque, eccedano quanto esplicitamente ci si è impegnati fare o a non fare.
La militanza realmente esistente, d'altro canto, non risponde ai caratteri dell'accordo reiterato ogni volta che si decide un'azione comune.
Per fare un esempio banale ma utile: perché un giornale esca tutte le settimane non è pensabile che sia affidato alla buona volontà dei redattori ed alla loro disponibilità ad occuparsene nei ritagli di tempo e secondo il loro piacere immediato.
Piaccia o meno, la militanza, anche quella anarchica ed, anzi, in particolare quella anarchica, richiede un impegno lontanissimo dall'idea corrente di spontaneità per un motivo che non viene, a mio parere, valutato sempre a fondo.
L'adesione, per fare un paragone, ad un partito parlamentare non prevede affatto un significativo impegno personale da parte dell'iscritto al partito stesso visto che il finanziamento è garantito dallo stato e da contributi privati legati ai favori che il partito può garantire ai finanziatori, l'attività corrente è affidata a funzionari pagati a questo scopo, c'è un evidente scambio fra assunzione di responsabilità da una parte e carriera e potere dall'altra. Se anche un partito parlamentare riesce a suscitare militanza dal basso ne fa, comunque, una risorsa magari importante ma secondaria a fronte di quelle che gli sono garantite per via istituzionale. Basta, a questo proposito, leggere il bilancio dei partiti per rilevare quanto incassano dallo stato e quanto dal tesseramento o da altre entrate derivanti da militanza e ricordare che il bilancio è inattendibile perché nasconde finanziamenti illegittimi o, comunque, segreti.
Paradossalmente, insomma, un'organizzazione gerarchica chiede ai suoi subalterni un impegno limitato e preciso anche se fa pesare su di loro meccanismi di ricatto sia materiale (sanzioni) che morali. Questo carattere del potere è tanto più vero quanto più è estesa la burocratizzazione della società che produce individui abituati a delegare ad una struttura compiti sempre più vasti.
Un'organizzazione che si pretende rivoluzionaria, in genere, e quella anarchica, in particolare, vive invece solo dell'attività dei militanti e tende a richiedere, implicitamente, un impegno notevole sia dal punto di vista della quantità che da quello della flessibilità, della capacità di adattamento, delle competenze necessarie.
Risulta difficile tenere assieme l'affermazione del diritto al piacere nella sua immediatezza con l'efficacia dell'azione militante necessariamente strutturata sulla base della definizione di obiettivi immediati, intermedi e a lunga scadenza.
Il principio del piacere e della piena libertà individuale, affermato esplicitamente, rischia, ad essere buoni, di essere negato nei fatti con l'effetto di determinare una sorta di scissione fra militanti che assumono l'impegno politico come propria attività predominante e simpatizzanti che danno un contributo sporadico e casuale al lavoro collettivo.
Questa considerazione vale, a maggior ragione, per compagni che, avendo rotto con le organizzazioni autoritarie della sinistra statalista, sono particolarmente sensibili alla timore di vivere dinamiche simili, soprattutto se si tratta di militanti di base che in queste strutture hanno dato un serio impegno quotidiano, a quelle che hanno criticato nel corso della loro evoluzione verso posizioni libertarie.

Proverò a definire questo paradosso in forma schematica:

- le ragioni del rifiuto dell'ordine sociale gerarchico e capitalistico sono, in prima istanza, etiche. Lo sfruttamento ed il potere appaiono ingiusti a partire dalle contraddizioni interne al discorso dominante: lo stato non si occupa affatto del bene comune come pretende e l'impresa esercita sui lavoratori un dispotismo che contraddice la sua pretesa di operare sulla base di uno scambio eguale fra lavoro e salario. Di conseguenza la critica radicale del capitalismo e del dominio prende le mosse dalle contraddizioni interne dell'autorappresentazione dell'attuale società;

- la critica del riformismo e dello statalismo di sinistra non è che la prosecuzione coerente di questo rifiuto, Appare, infatti, evidente che le forme di organizzazione e di azione che vengono proposte dai partiti e dai sindacati istituzionali si modellano sulle relazioni sociali dominanti e ne riproducono la logica interna con l'effetto di favorire l'integrazione delle classi subalterne nell'attuale ordine sociale in cambio, nella migliore delle ipotesi, di conquiste immediate decisamente limitate;

- una prassi sovversiva afferma, d'altro canto, l'esigenza di spezzare immediatamente l'ordine del mondo a partire dalla condizione immediata del soggetto concreto che la sperimenta. Il sabotaggio della produzione, la destabilizzazione del potere sia sui luoghi di lavoro che nella società, la denuncia e la ridicolizzazione delle pretese delle istituzioni sono il punto di partenza di ogni proposta sovversiva. Queste pratiche sono tali da non richiedere l'adesione ad un programma politico e sociale ed, anzi, si danno nella condizione quotidiana dei proletari come scelte possibili, soddisfacenti, efficaci a prescindere da qualsiasi discorso che pretenda un valore sociale generale;

- se, insomma, una scelta sovversiva ha una precondizione etica, una prassi sovversiva ha una base ludica ed estetica e non vi è affatto coincidenza necessaria fra le due. Al contrario, il fatto che le pratiche quotidiane di resistenza al dominio siano diffuse a prescindere da ogni azione politica, sociale e sindacale volontaria è una risorsa potenziale per ogni progetto di trasformazione dell'ordine del mondo ma, se ne è una condizione necessaria, non è sufficiente;

- una valutazione realistica e disincantata dei caratteri della trasgressione quotidiana e, come dire, fisiologica nei confronti dell'ordine produttivo e sociale esistente ci conduce alla conclusione che se non le sono necessari convincimenti politici generali di carattere rivoluzionario per manifestarsi non produce affatto in maniera altrettanto necessaria un'identità rivoluzionaria. Un lavoratore salariato può praticare l'assenteismo o un giovane uno stile di vita trasgressivo senza che ne derivi nulla di diverso dall'assenteismo o dalla trasgressione;

- a questa contraddizione le correnti deterministe del movimento operaio hanno dato una risposta suggestiva ma fallace. Le lotte immediate dei subalterni vengono interpretate come tradeunionismo o sindacalismo, incapace di per sé di andare oltre una difesa delle condizioni immediate dei soggetti coinvolti. Le possibilità di una cambiamento radicale dell'esistente vengono affidate alle crisi interne al modo di produzione capitalistico, crisi che un soggetto politico (il partito) può trasformare in un cambiamento rivoluzionario, Il determinismo della premessa si rovescia in una particolare forma di volontarismo politico. Il partito, infatti, avrebbe la consapevolezza generale dei termini della questione sociale e opererebbe nel senso della storia e, sarebbe, in questo senso, detentore di una scienza della necessità nel mentre vorrebbe fortemente l'abbattimento dell'ordine costituito. Questa volontà, percepita come il carattere costitutivo di un partito rivoluzionario contraddice l'impianto determinista che la legittima come vincente. Il "materialismo" dei deterministi si rivela, in fondo, come una teoria metafisica, simile, senza averne l'eleganza ed il carattere suggestivo, alle rivelazioni religiose che pongono l'adeguarsi alla volontà di Dio come realizzazione della libertà;

- in questo modello riappare, anche in un altro senso, una vera e propria metafisica. Vi sarebbe infatti una separazione radicale fra concreto agire del proletariato e suo ruolo storico e fra teoria delle leggi generali della società (dell'essere sociale del capitale e della classe) e fenomenologia del conflitto sociale. In realtà il modello in questione non fa, sul piano pratico, che reintrodurre nel movimento operaio la divisione sociale del lavoro fra dirigenti e diretti, fra lavoro intellettuale e manuale, mentre, sul piano teorico, ci si trova di fronte ad un pensiero regressivo a fronte dello stesso modello delle scienze fisiche e sociali affermatosi nel secolo passato;

- dal punto di vista anarchico il modello al quale ho appena fatto cenno non è, di norma, accettato, proprio per i suoi caratteri intrinsecamente autoritari. Per la verità vi sono compagni che ne utilizzano una variabile, come dire, depotenziata che consiste nell'affidare al soggetto politico non una funzione di direzione nei confronti della classe ma una di orientamento, dal punto di vista teorico, e di assunzione dei livelli più alti dello scontro politico, dal punto di vista pratico. In altri termini, viene separata la parte distruttiva dello scontro politico, affidata all'organizzazione specifica, e quella costruttiva che viene affidata agli organismi di autogoverno proletario;

- più interessante e produttiva mi sembra essere l'ipotesi di coloro che vedono nella concreta condizione proletaria l'emergere di contraddizioni profonde che si manifestano in pratiche quotidiane di resistenza e di conflitto in forme assai diversificate che vanno dal sabotaggio individuale allo sciopero, dalla costruzione di reti informali di relazioni antisistemiche allo sviluppo di strutture organizzate di lotta di tipo politico, culturale e sindacale. Anche questo modello di interpretazione del conflitto di classe, al quale sono decisamente più vicino, non risolve a pieno la questione del carattere specifico della militanza politica che, con ogni evidenza, non è il prodotto immediato del conflitto di classe e della condizione salariata;

- i compagni, infatti, non solo non sono necessariamente dei proletari ma anche quando lo sono si aggregano sulla base di esigenze che non discendono immediatamente dalla loro collocazione produttiva e sociale. L'esigenza di sviluppare una critica teorica generale della società, di confrontarsi nel merito, di vivere relazioni immediate di solidarietà, mutuo appoggio, definizione di un'identità caratterizza il movimento anarchico specifico e non può essere ridotta, anche se deve essere posta in relazione con, al conflitto sociale. Dal punto di vista empirico ne consegue che il movimento specifico tende ad apparire più come una comunità politico/sociale che come un partito d'avanguardia o un aggregato sociale espressione immediata di settori della working class;

- da questa condizione nasce una teoria della separatezza, rispetto all'ordine sociale dominante, del movimento anarchico assunto, appunto, come comunità relativamente omogenea di soggetti umani trasgressivi rispetto all'ordine sociale esistente. Per ragioni storiche sufficientemente note, il fallimento delle rivoluzioni del secolo che volge alla fine, questa attitudine sembra ragionevolmente soddisfacente e più adeguata di altre a rendere conto dell'effettiva pratica del movimento anarchico realmente esistente;

- la relativa egemonia nel movimento di componenti e di sensibilità etico-estetiche a fronte di quelle che pongono l'attenzione sulla prassi politico sociale non è, quindi, come credono alcuni, il prodotto di chissà quale travisamento della retta dottrina ma un effetto dell'adattamento del movimento alle difficili condizioni di sopravvivenza al quale la contingenza storica lo ha costretto. Le tensioni fra le diverse sensibilità che derivano da questa egemonia sono, a ben vedere e di norma, poco produttive e raramente vanno alla radice dei problemi;

- una militanza di tipo politico sociale volta esplicitamente a mettere in discussione l'ordine del mondo può essere proposta, se vogliamo evitare il ricatto morale, solo dimostrandone il carattere efficace, interessante, non sacrificale.

In estrema sintesi, o la militanza si costruisce come una prassi sociale capace di soddisfare un bisogno individuale e collettivo di crescita intellettuale e di costruzione di relazioni soddisfacenti o è condannata ad essere una condizione non di minoranza, inevitabile, ma minoritaria ed interstiziale, il che, almeno a mio parere, è evitabile.
Ma questa costruzione implica l'accettazione dei caratteri propri della militanza come progettazione consapevole di un'azione collettiva volta ad un obiettivo di profilo alto qual'è non solo la rivoluzione sociale ma, sin da oggi, un'azione efficace volta a trasformare l'ordine del mondo.
Tornando alle contraddizioni sulle quali ponevo l'accento all'inizio di questo capitolo, ritengo che la dimensione militante si fondi, più o meno consapevolmente, sul rifiuto della "naturale" adesione all'ordine dominante nel mondo e, nel contempo, come superamento delle forme naturali, immediate, spontanee di tragressione rispetto all'istituito. Superamento che non significa negazione ma capacità di assunzione della dimensione trasgressiva della condizione proletaria in una prospettiva che non si risolve nella trasgressione stessa.
Un rivoluzionario, paradossalmente, si caratterizza per l'identificazione nelle virtù "borghesi" (collocazione delle proprie azioni quotidiane in una dimensione progettuale, controllo dell'istintualità, affidabilità ecc.) e, nel contempo, ne vede i limiti ed i pericoli e l'essere il prodotto della necessità storica. L'assunzione delle virtù borghesi risponde ad un carattere di fondo del nostro progetto: la consapevole rivendicazione del carattere storico ed artificiale del comunismo libertario .
Una società superiore, infatti, non è affatto il ritorno ad un immaginario stato di natura ma l'affermarsi della capacità della specie di governare la propria sorte e dell'individuo di emanciparsi all'interno di questo processo collettivo. Nulla di meno spontaneo e naturale e nulla di più affascinante.

(3) Capita da qualche tempo di leggere sui giornali della sinistra appelli elettorali per questo o quel candidato (solitamente presentatosi nelle liste del PRC) firmati da una serie di militanti di diversi sindacati di base ognuno dei quali indica il sindacato di appartenenza e, in qualche caso, il ruolo che svolge nel sindacato stesso.
Sul piano formale non si pone, ovviamente, alcun problema. La pratica di votare e, soprattutto. di invitare a votare per qualcuno è ampiamente diffusa e irridere al fatto che questa pratica non coinvolga solo intellettuali di professione, cantanti e registi, sarebbe, nella sostanza, errato e nulla aggiungerebbe alla nostra critica del parlamentarismo.
Può, però, valere la pena di sviluppare alcune riflessioni su di una forma non del tutto nuova ma interessante di parlamentarismo.
Come è noto, il tradizionale partito parlamentare di massa ha sempre cercato di presentare in lista, oltre ai classici personaggi di spicco, esponenti di associazioni, sindacati, movimenti vari al fine, assolutamente ovvio, di raccogliere voti in settori di elettorato diversi da quelli tradizionalmente fedeli al partito. A questo fine, visto che non sempre queste persone aderivano al partito stesso, era nata la figura dell'indipendente. L'universo degli indipendenti non è, ovviamente, omogeneo e può essere diviso, come si è già rilevato, in almeno due gruppi:
- l'uomo di successo (imprenditore, cantante, attore, professore universitario, professionista ecc.) "prestato alla politica";
- il rappresentante di un gruppo di pressione che ha un rapporto di scambio con il partito nella cui lista si presenta.
Parlando di "rapporto di scambio" non ci si riferisce necessariamente a qualcosa di scandaloso, a clientele ed a pratiche di corruzione. Può trattarsi semplicemente, di un accordo, più o meno formalizzato, fra un soggetto sociale istituzionale ed un partito del tipo: io ti porto un pacchetto di voti e tu mi garantisci la tutela di alcuni particolari interessi, meglio ancora se questa tutela è affidata ad uomini direttamente espressi dall'associazione. È un fatto che questo rapporto dimostra l'infondatezza della classica opposizione fra "società civile" e "classe politica" visto che la società civile, che è, per chi lo avesse dimenticato, la borghesia o, comunque, la società civile capitalistica, tutto è tranne che estranea alla gestione della macchina statale.
Con la crisi del partito di massa il ruolo della società civile e dei gruppi di pressione che la costituiscono è cresciuto a scapito dell'apparato del partito con l'effetto di trasformare i partiti stessi in collettori di interessi particolari tenuti insieme dalla leadership carismatica dei dirigenti e dal controllo dei flussi di spesa dello stato (essenzialmente da questo controllo anche se non va sottovalutato il ruolo dell'immaginario collettivo nella nobilitazione delle pratiche quotidiane del sistema dei partiti).
Se consideriamo, inoltre, che mentre i classici partiti di massa si sono, diciamo così, asciugati dal punto di vista del radicamento e della militanza mentre i sindacati di stato hanno mantenuto una struttura corposa e capillare, si comprende che le relazioni fra partiti e sindacati sono significativamente cambiati: la CGIL fa certamente, nella maggioranza, riferimento ai DS ma certo l'apparato della CGlL ha un rapporto ben diverso con i DS stessi rispetto a quello che aveva con il PCI mentre la CISL, più per sorte che per scelta, si trova liberata dalla sua tradizionale sponda politica democristiana al punto che Sergio D'Antoni sta cercando di crearla di nuovo con l'esperimento di Democrazia Europea.
Questa deriva non ha risparmiato il PRC e si intreccia con il fatto che questo partito, in presenza di un ridimensionarsi della componente cossuttiana, sembra sempre più un circo equestre e sempre meno il classico apparato stalino togliattiano dal quale ha preso le mosse. Le diverse componenti della sinistra non istituzionale, semi istituzionale e decisamente istituzionale che fanno riferimento al PRC convivono in una problematica convergenza e definiscono, di volta in volta, una linea generale del partito che deve tenere assieme esigenze contrastanti. Basta, a questo proposito, pensare alle ultime scelte elettorali.
Sul piano sindacale, come è noto, il PRC punta essenzialmente su due interlocutori diversi:
- la sinistra CGIL;
- il sindacalismo alternativo e, all'interno di quest'area, soprattutto sulla Confederazione Cobas.
Naturalmente iscritti e militanti del PRC sono iscritti e attivi anche in altri soggetti sindacali istituzionali o alternativi ma basta sfogliare "Liberazione" per comprendere quali sono le scelte tattiche, non parlerei di strategia, del PRC.
È mia opinione che, per fare un esempio abbastanza noto, la recente iscrizione di Giorgio Cremaschi al PRC non vada interpretata come il passaggio di un settore della sinistra CGIL a questo partito ma, al contrario, come una scelta che garantisce la potente sinistra sindacale torinese rispetto alle scelte del partito di riferimento. Basta, a questo proposito, considerare il radicamento sociale della sinistra sindacale a fronte di quella del partito di riferimento e, soprattutto, le risorse delle quali dispone in termini di distacchi per rendersi conto dei diversi pesi specifici dei soggetti dei quali ragioniamo.
Considerazioni analoghe si possono fare per l'area del sindacalismo alternativo i cui gruppi dirigenti e, per la verità, il cui tessuto militante fa riferimento in misura significativa alla sinistra parlamentare senza accettarne necessariamente un ruolo di direzione ed, anzi, guardandola con un certo disincanto, maggiore o minore a seconda delle organizzazioni e degli individui ma evidente.
Non vi è in questa sede lo spazio per trattare delle ragioni programmatiche e strutturali di questo rapporto che pure meriterebbero un approfondimento. In estrema sintesi, basta tenere presente che, sul piano politico culturale, è forte, come lascito della vecchia sinistra statalista, l'idea che si debba puntare su di un rilancio del welfare e di forme di democrazia sociale e, su quello strutturale, che ogni organizzazione tende a produrre un apparato che si pone, consapevolmente o meno, come primo obiettivo la propria sopravvivenza.
Gli appelli, dai quali abbiamo preso le mosse per questo articolo, appaiono, a questo punto, come espressione, in piccolo, di un processo sociale generale: il tentativo di darsi una sponda istituzionale diretta attraverso candidati d'area.
Questa sponda, oggi, si trova soprattutto nella sinistra (sarebbe meglio dire le sinistre) del PRC ma non sono mancate interlocuzioni con i Verdi. In futuro la situazione potrebbe cambiare.
Le ricadute di questo parlamentarismo strumentale nell'area del sindacalismo di base sono evidenti:
- se si punta ad avere dei rappresentanti eletti (bisogna tenere conto del fatto che gli eletti possono esservi, realisticamente, solo nelle elezioni locali) , i gruppi sindacali devono scegliere i candidati sui quali puntare ed evitare che il voto d'area si disperda su troppi candidati mentre ai partiti interessa avere il maggior numero possibile di candidati che portino voti e non siano eletti;
- di conseguenza, vi è una lotta di potere nei sindacati per scegliere i candidati o almeno per impedire una concorrenza eccessiva;
- queste operazioni si svolgono, necessariamente, al di fuori del controllo della base che viene manipolata dai fautori del neoparlamentarismo;
- chi controlla i rapporti con gli eletti controlla risorse che gli danno potere nell'organizzazione sindacale.
Sarebbe interessante rileggere alcune pagine che Armando Borghi ha dedicato al semiparlamentarismo di settori del sindacalismo d''azione diretta dell'Italia giolittiana per rendersi conto del fatto che non si tratta di problemi del tutto nuovi anche se, questo viene da sé, prendono forme specifiche e determinate.
Oggi, ritengo che l'essenziale sia sviluppare una critica puntuale del parlamentarismo e, soprattutto, dei meccanismo sociali che ne costituiscono il fondamento: la burocratizzazione del movimento operaio e lo sviluppo, in forme apparentemente nuovo, di pratiche gerarchiche nella sua strutturazione, per un verso, la deriva verso ipotesi neoriformiste, per l'altro.