dal sito: www.geocities.com/comunautilus/interventi/nonviolenza.htm

14-12-'01

Perché una scelta nonviolenta

Roberto Silvi

In Italia il dibattito sulla nonviolenza si è esteso a macchia d'olio, da quando il movimento antiglobalizzazione sembra averne fatto il suo strumento di battaglia. E questo è avvenuto in maniera tanto più naturale quanto più profondo e lacerante è stato, negli anni settanta il confronto sull'uso della violenza.

A parte la maldestraggine dei vari goffi tentativi di farne una bandiera da parte degli improvvisati o radicati leader del movimento quali Agnoletto o Casarini, il movimento, nella sua maggioranza, mi sembra decisamente orientato sull'uso di una nonviolenza attiva, non soggiogata alle regole del gioco e tutta tesa a imporre dei reali cambiamenti di rotta.

Sulle gesticolazioni 'mitopoietiche' delle tute bianche, già è stato detto molto per un verso dal mio amico Oreste Scalzone in varie occasioni e durante la teleconferenza che ha tenuto al DAMM di Napoli, e, in maniera precisa e come sempre pertinente, in un altro senso da Adriano Sofri nella polemica che lo ha visto confrontato a Casarini.

Quindi, messe da parte queste critiche che già sono state espresse sicuramente meglio di quanto possa fare io, mi interesserebbe dare il mio contributo a quanto si discute oggi proprio all'interno dei centri sociali o nei luoghi di associazione dove si vuole ancora 'cambiare la società', dove ancora le patenti disuguaglianze sociali sono vissute come ingiustizie, dove lo sviluppo basato sulla sola logica del profitto è visto con sospetto e se ne discutono le conseguenze negative sull'equilibrio ecologico mondiale, sui rapporti umani, sull'impoverimento crescente di ampie zone del pianeta e sulla mancanza di assistenza sanitaria nelle regioni più povere del mondo, dove ancora si discute di quali strumenti utilizzare per arrivare a cambiare tutto questo.

Io sono stato implicato nei movimenti della lotta armata degli anni '70 in Italia e ho collezionato anch'io i miei bravi anni di condanna per banda armata, quindi non vorrei che questa mia filippica a favore della nonviolenza e della disobbedienza civile fosse presa in maniera distorta. Già sento le orecchie fischiarmi per i commenti del tipo: "ci mancava solo lui, che diritto ha di parlare... ci poteva pensare prima... chissà che interessi ha... forse si vuole rifare una verginità."

Di verginità tardiva non ne ho bisogno, anche perché diffido di chi pensa di aver avuto sempre ragione. Di interessi personali non ne ho, visto che la mia pena me la sono scontata tutta senza chiedere niente a nessuno né rinnegare niente, e inoltre non ho mai brigato nei sottoboschi politici. Inoltre credo che nessuno più di chi abbia sparato possa sapere quanto può essere inutile, se non controproducente la sua azione.

Ho letto su Lo straniero (www.lostraniero.net) l'articolo recentemente pubblicato di Gorge Lakey: La spada che guarisce: una difesa della nonviolenza attiva.

Vi ho trovato un interesse particolare perché l'autore, uno statunitense impegnato da più di vent'anni nelle lotte nonviolente nel suo paese, pone subito in evidenza tre caratteristiche della nonviolenza così come la intende lui:

1 - il carattere attivo e non passivo di accettazione del presente

2 - il suo carattere pragmatico e tattico

3 - la forza di prefigurazione che una tale azione può avere.

Ecco, su questi tre punti credo ci possa essere l'adesione più ampia per un'accettazione laica della pratica nonviolenta.

E' difficile pensare che una pratica nonviolenta sia avulsa da una scelta anche morale, da un riconoscimento dell'altro: 'La nonviolenza - ha fatto notare Antonio Vigliante, parlando in un convegno del pensiero e dell'azione di Aldo Capitini - è una rivoluzione per tutti, che, come ogni rivoluzione, deve combattere contro alcuni, ma lo fa avendo costantemente presente il loro stesso bene. La premura per l'avversario è l'essenza della prassi rivoluzionaria nonviolenta, che la distingue da ogni altra concezione rivoluzionaria'.

Anche se al suo posto scegliamo il termine di disobbedienza civile, impiegato dal poeta e saggista H. D. Thoreau, alla fine del XIX secolo, e già ampiamente usato dalle tute bianche per identificare la loro pratica, secondo me, l'implicazione etica della scelta nonviolenta resta un punto cruciale con il quale è necessario misurarsi, perché non resti un non detto, un rimosso, che tuttavia è presente in ogni scelta.

Nell'intervento di Lakey, tuttavia, non c'è nessun accenno al valore etico di questa scelta, ma solo a quello tattico e alla redditività che queste azioni hanno rispetto alle scelte violente. Quindi può costituire una base di confronto anche per coloro che delle scelte etiche non vogliono sentir parlare.

Per uno come me che ha creduto che la realizzazione del comunismo avrebbe portato al cambiamento della società e che lo scontro violento con la borghesia, con l'apparato militare dello stato, fosse inevitabile, e ci si doveva preparare per poter vincere questo scontro, accettare questi argomenti può essere difficile, ma uno sguardo attento sulle esperienze del passato non può che portare alle conclusioni di G. Lakey.

La sua analisi è, infatti, molto convincente, e risulta chiaro quanto le mobilitazioni non violente per ottenere degli obiettivi di cambiamento fino al rovesciamento nel loro insieme di imperi che sembravano incrollabili, come l'Iran dello Scià di Persia o l'India inglese dei tempi di Ghandi, siano state più efficaci di tante mobilitazioni di guerriglia guerreggiata.

Restando all'esperienza italiana degli anni '70, mi sembra che serenamente possiamo dire che le maggiori conquiste, sul piano dei diritti civili e direttamente operai, siano state ottenute proprio in quel periodo e con i peggiori governi democristiani, Rumor, Fanfani, Andreotti, etc... Non è stata la 'presa del potere rivoluzionario' che ha garantito l'approvazione dello statuto dei lavoratori, degli aumenti salariali, delle leggi sull'aborto e il divorzio, dell'apertura dei manicomi o delle riforme delle carceri e della scuola, ma una formidabile mobilitazione di tutto il paese, a partire dalle fabbriche che hanno portato i livelli di profitto a zero fino a far temere ai padroni per la tenuta del loro stesso potere. È stata quella eccezionale stagione di lotte a trasformare fin dentro il suo DNA il tessuto sociale dell'intero paese.

In questo clima si è inserita l'illusione di poter rovesciare completamente il sistema, con la forza delle armi, dando corpo a teorie che solo in pochi casi, e non sempre in modo perfetto, hanno raggiunto risultati concreti (vedi Cuba), oppure facendo ricorso a schemi teorici riguardo allo scontro delle classi ancora ottocentesche.

È possibile oggi pensare di avere l'esercito che si schiera con le lotte operaie come ai tempi della Comune di Parigi, dove fu la Guardia Nazionale che condusse la rivolta, oggi che gli Stati si dotano esclusivamente di eserciti professionali? Possiamo ancora pensare al capovolgimento delle guerre imperialiste in guerre di classe come nell'ottobre russo del 1917? Credo di no, ma è inseguendo questi miti uniti all'esempio delle lotte in centro e sud america, che alcuni di noi hanno preso le armi.

Già negli anni '70 il dibattito era molto avanzato sul fatto che non si trattava tanto di conquistare il 'potere', le strutture di comando, lo stato, ma di dar vita a quel 'movimento che distrugge e supera lo stato di cose presenti' che è il comunismo. Già allora si metteva l'accento sul fatto che l'importante è attivare un movimento perenne nella società, che sappia partire dai propri bisogni e sappia battersi per trasformarli in diritti riconosciuti, e, laddove è necessario, anche per vie legislative. La forma dello stato che li riconosce è relativamente importante perché la sua natura sarà modificata dalla forza stessa dei movimenti.

A questo punto però ritorna la questione sul come raggiungere questi obbiettivi, e secondo me, almeno dal punto di vista puramente tattico, 'pragmatico', bisognerebbe ammettere che quanto affermato da G. Lakey costituisce il minimo fattore comune su cui convergere, e sposare, così, la nonviolenza come strumento di lotta.

Personalmente vorrei tuttavia sottolineare l'importanza del terzo punto che ho individuato nelle argomentazioni di G. Lakey e cioè la forza di prefigurazione che la lotta nonviolenta contiene in sé ed è capace di manifestare.

La pratica stessa di mezzi di lotta nonviolenta, dallo sciopero del lavoro a quello della fame, dalle occupazioni di case alle manifestazioni, dai sit-in alle marce dimostrative per la pace, etc..., può e deve risultare una denuncia di un mondo che soprattutto nel secolo scorso ha raggiunto livelli di ferocia inimmaginabili, tanto da rendere impossibile citare le atrocità avvenute senza incorrere nell'errore di dimenticarne la maggioranza. Voglio, tuttavia elencarne velocemente qualcuna delle più conosciute per evocarne l'orrore: i massacri delle due guerre mondiali con milioni di morti, il genocidio della Shoa, le bombe su Hiroschima e Nagasaki, i processi staliniani, i 30.000 morti causati dal colpo di stato in Argentina, quelli del Cile, in Rwanda, nel Kurdistan, le atrocità delle guerre in Yugoslavia, l'inestricabile e pazzesco conflitto mediorentiale, fino ad arrivare alla inaugurazione del nuovo millennio con la spettacolarizzazione dell'orrore con gli attentati in diretta a New York contro le Twin Towers.

Di fronte a quest'ultima manifestazione della violenza, ad esempio, è difficile sottrarsi alla pulsione immediata di solidarizzare con chi viene colpito in maniera così cieca. Come giustificare una strage così freddamente architettata per distruggere quante più vite umane possibili unicamente perché americane? Solo una mente guidata dal più feroce razzismo, ammantato di follia religiosa, può immaginare una cosa simile. Viene naturale allora pensare che una reazione è legittima, auspicabile, e che sia completamente fuori luogo una posizione invitante a volgere l'altra guancia. Solo che a reagire in questo caso è lo stato più potente del mondo, lo stato che ha fatto di tutto per raggiungere la posizione di leader mondiale dei sistemi capitalistici, non arretrando di fronte a nulla e rendendosi colpevole delle peggiori nefandezze, in nome della difesa della democrazia.

Anche se finora è giusto riconoscere che in due mesi di guerra e di combattimento, a quanto si sa, gli USA hanno fatto un numero di vittime largamente inferiore a quello fatto in un solo giorno da Bin Laden, assistiamo comunque a una lotta per la supremazia in uno scontro che passa sopra le nostre teste per interessi che è perfino difficile individuare sotto le ideologie 'democratiche' o dell'ottuso isterismo religioso.

Possiamo essere, e lo sono profondamente, solidali col popolo americano, ferito orribilmente e costretto ad un risveglio brutale dall'illusione dell'intoccabilità degli USA e dalla retorica della way of life americana. Ma come si fa a solidarizzare con Bush sapendo ciò che i governi degli USA hanno fatto finora nel mondo?

Lo potremmo fare come quando nei film western siamo dalla parte delle tute blu contro i cattivi sudisti, ancora schiavisti, ma lo facciamo dimenticandoci del genocidio degli indiani sul quale si è fondato l'intera struttura del nascente stato americano. O come quando assistiamo ad una partita di calcio e teniamo per la squadra del nostro paese senza pensare che fino al giorno prima abbiamo detto peste e corna del nostro paese e ci scordiamo del sistema commerciale che regge lo spettacolo calcistico.

In questo caso, restiamo esterni alla realtà, attori passivi di qualcosa che non abbiamo determinato noi e di cui accettiamo le dinamiche interne.

Mutatis mutandis, e mettendoci in una situazione enormemente più grave, non ci si può chiedere di schierarsi in un conflitto che ci sorpassa, e che è il punto di arrivo di sistemi portati all'estremo, di cui non condividiamo la natura, con da una parte la superpotenza americana, che pur difendendo una civiltà a noi più vicina, è l'espressione stessa dell'arroganza del capitale, e dall'altra un terrorismo odioso espressione di interressi misti dove i desideri di vendetta di un miliardario nostalgico della supremazia ottomana si coniuga con la disperazione di popoli diseredati sotto la bandiera unificante del fanatismo religioso e dell'antiamericanismo.

In questa scalata della follia, la pratica non violenta, allora, è già di per sé denuncia dello squilibrio esistente nel pianeta. È l'unico modo di sottrarsi a tutto questo e dichiarare la propria estraneità ontologica ad ogni moto di sopraffazione.

Se ciò che si vuole combattere è l'oppressione dell'uomo sull'uomo, questa è presente nello sfruttamento dei bambini nel lavoro nero e nella tratta delle nuove schiave sessuali, bianche o nere, nello sfruttamento in fabbrica e nell'oppressione delle donne, nelle violenze carnali e nelle coercizioni psicologiche, e il tipo di oppressione non è meno grave se ad esercitarlo sono soggetti diversi. La pena capitale è un orrore se praticata negli Stati Uniti o in Cina, gli attentati mortali sono ugualmente terribili se sono praticati dai kamikaze palestinesi o dai militanti dell'Eta.

Sono banalità che a quanto pare non sono mai ripetute abbastanza, come quella che il fine, lo faceva notare già A. Camus ne L'uomo in rivolta, non giustica i mezzi, ma li determina e viceversa sono questi ultimi a determinarlo.

Uno stato sorto sui massacri e sul sangue non eserciterà mai un governo libero e tollerante.

In che modo potrebbe avere credibilità una lotta di 'liberazione' che trascura l'oppressione interna esercitata sul proprio stesso popolo, ad esempio e in particolare, su quel 50% dell'umanità che sono le donne. Il burka, oggi è il più forte esempio di una guerra che si combatte anche in nome della liberazione di un popolo in cui la sorte delle donne e il loro ruolo rischia di essere sacrificato, ancora una volta, in nome delle ragioni superiori che riguardano l'interesse dei nuovi poteri da stabilire.

La prefigurazione di un modo diverso di intendere i rapporti umani si farà solo se nelle nostre pratiche di lotta faremo vivere già nel presente la nostra utopia.

La nonviolenza ci garantisce tutto questo: è una prassi, capace di metterci al riparo dalle semplificazioni autoritarie, anche le più intime, e ci costringe ad un confronto reale con l'altro.

Chiamarsi fuori dal balletto dell'orrido, che ci circonda in modo particolare in questo momento, dichiararsi estranei ad ogni forma di aggressione ed oppressione, è quanto di più urgente ci resta da fare.

Roberto Silvi

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DISOBBEDIRE NON BASTA

I malintesi della nonviolenza

Paolo Persichetti

Luglio 2002

" La nonviolenza oggi è la forma di mobilitazione

che il movimento assume come proprio paradigma,

sia per la convinzione del profondo intreccio

che deve esistere tra fini e mezzi,

sia perché oggi è l'unico strumento che ci permette di costruire,

in una realtà complessa, con forti poteri sovranazionali,

quel consenso necessario per modificare le regole del gioco

e per cambiare questa nostra società ".

Vittorio Agoletto, Il Manifesto 18 Luglio 2002

I tratti addolciti del viso tradivano la sua giovane età. Si era staccato dal gruppo e in una mano teneva una pietra che scagliò con tutta la sua forza contro un drappello d'uomini bardati con scudi e mazze, caschi e stivali, armi da fuoco alla cintola. Quasi appagato da quell'incosciente gesto di sfida, s'era voltato per riguadagnare le fila dei suoi compagni. Teneva larghe le braccia mentre le mani erano nude come in quella foto dell'anarchico diventata un manifesto, quando l'eco d'alcuni colpi di pistola risuonò nell'aria. I suoi compagni urlavano, mentre un poliziotto aveva freddamente preso la mira per fucilarlo alle spalle. In quel momento il suo sorriso si trasformò in una smorfia di dolore. Colpito alla schiena ma ancora incredulo continuò a camminare ma le sue falcate sembravano oramai passi di danza. Cadde sull'asfalto solo dopo aver compiuto una piroetta. Era il giugno del 2001, a Gotebörg. Il "movimento dei movimenti" solo per poco era scampato al suo primo morto. Un presagio maledetto che si avverò qualche settimana più tardi a Genova, in piazza Alimonda, dove un altro giovane, all'incirca della stessa età, venne ucciso da un coetaneo in divisa con un colpo in mezzo agli occhi. Carlo Giuliani la morte l'ha vista in faccia mentre gli altri manifestanti avevano avuto il tempo d'indietreggiare di fronte a quell'arma spianata. Forse era troppo tardi per fermarsi o forse non voleva arretrare, ma andare fino in fondo per impedire a quel braccio teso, armato e in divisa di Stato, di continuare la sua minaccia. Due colpi, una quiete irreale cadde d'improvviso sul campo di battaglia rotta poi da nuove grida, mentre il corpo di Carlo veniva oltraggiato dalle ruote del Defender dei carabinieri.

"Fiori velenosi venuti solo per sfasciare"1, non trovò migliore espressione una dirigente dell'organizzazione antimondialista ATTAC per liquidare i fatti di Gotebörg. Secca e adirata contro quella che ai suoi occhi sembrava una teppaglia neoluddista, madame Susan George, trovò più che normale che una pietra valesse un colpo di pistola tirato alle spalle. Autoconvocate, quelle orde d'insorti in cerca di sommosse non erano gradite. Disturbavano le ordinate kermes internazionali, i carnevali di strada, i convegni compunti dei professionisti dell'associazionismo, questa nuova burocrazia della società civile che pensa di poter fronteggiare gli irruenti spiriti animali del capitalismo ultraliberale pervenuto al suo stadio globale attraverso forme di regolazione economica, strumenti procedurali e regole etiche. Misure inadeguate quanto l'idea di poter fermare l'Oceano in tempesta con dei sacchetti di sabbia. Nello stesso periodo, un appello sottoscritto da intellettuali italiani e francesi, tra cui spiccavano le firme d'alcuni ex partecipanti ai movimenti politici degli anni Settanta, censurava le violenze e gli scontri di piazza, in modo particolre le brutalità commesse nei confronti di merci come "i cassonetti bruciati e le vetrine rotte". Costoro invocavano manifestazioni ordinate e ottennero nient'altro che le forze dell'ordine. Decisamente la storia non è intenzionata a smentire quell'adagio che vuole ogni tragedia ripresentarsi in farsa. Per nulla appagati da tanta stigmatizzazione etica prim'ancora che politica, prendiparola del Forum sociale genovese e leaders d'alcune componenti noglobal, sponsorizzati dai loro grandi elettori mediatici, lanciarono il ritornello infinito, e per giunta dopo un anno ancora non provato, degli infiltrati. Lo fecero a caldo, sopraffatti dal pregiudizio e da servile paura, quando il corpo straziato di Carlo Giuliani non aveva ancora un nome. Nei salotti volanti delle dirette RAI di prima serata che seguivano il G8 circolava ancora la voce che il giovane ucciso fosse uno spagnolo, di certo un basco, un black bloc in ogni caso. Gli invitati2, ancora accaldati per aver sfilato nei cortei del pomeriggio, attaccarono le forze di polizia colpevoli d'inerzia per aver lasciato devastare la città da bande di facinorosi vestiti di nero. Le forze dell'ordine avevano assalito i cortei quando questi sfilavano ancora lungo i percorsi autorizzati, in diversi punti della città i carabinieri avevano fatto uso d'armi da fuoco, in risposta gli acuti esponenti noglobal invece di pretendere meno forze dell'ordine invocavano più forza pubblica in piazza. Sollecitati con tanto ardore, il sabato successivo le forze di polizia eseguirono con zelo il loro mandato fin dentro alla Diaz. Immemore o forse ignaro che solo nei paesi dove vi è un controllo autoritario dello spazio pubblico le forze di polizia organizzano e svolgono il servizio d'ordine nei cortei, l'arrogante e mai pago presidente della LILA, Vittorio Agnoletto, pretendeva la tutela poliziesca per le sue sfilate nonviolente. Solo in tarda serata, sopraggiunta la notizia che quel manifestante deceduto altri non era che il figlio di un noto sindacalista della CGIL genovese, il "reprobo" Carlo Giuliani divenne finalmente un ragazzo da difendere, un imbarazzante martire da far proprio.

Le rughe del conflitto

Tornate le masse, riempite le piazze, anche il conflitto si è riaffacciato con le sue crudezze, le sue asperità e rugosità. In verità si è manifestato con un livello di violenza di piazza estremamente basso e dalle dimensioni sociali ristrette ma sufficienti per essere amplificato e rimbalzare sui media. Poco, molto poco, rispetto ad altre epoche o latitudini, a tal punto che si sarebbe potuto liquidare il fenomeno con alcune semplici domande : quante armi da fuoco si sono viste fino ad ora tra i manifestanti ? Chi ha invece fatto uso di armi ? Quante molotov sono state lanciate o trovate a Genova ? Trecentomila manifestanti e forse neanche una decina bottiglie incendiarie, per giunta di fortuna... Eppure fin da Seattle, le polemiche sulla violenza hanno accompagnato, ed in parte anche nutrito, i raduni anti G8, fornendo visibilità mediatica e capacità catalizzatrice al movimento antiglobalizzazione. Perché tanta ossessiva attenzione nei confronti di forme di violenza di strada a così bassa intensità ?

Forse una prima ragione la si può trovare nel ruolo assunto dai media, nel loro potere di decretare ciò che è accaduto e ciò che non è accaduto. Una dinamica perversa che tende a presentare o privilegiare come fatto avvenuto solo ciò che può essere venduto sotto forma di spettacolo sociale. Il G8 di Genova costituisce un esempio paradigmatico in proposito. La somma delle ragioni esterne (calcoli e attese politiche) e delle dinamiche interne all'informazione, proprie dell'evento mediatico, hanno prodotto un crescendo, una sorta di tam tam che ha soffiato lungamente sul fuoco, attizzando i rumori di rivolta. Genova doveva essere l'appuntamento della grande sommossa. Questo s'attendevano e volevano i media, quelli di sinistra per dare una spallata al governo di centrodestra appena insediato, quelli di destra per demonizzare l'avversario e legittimarsi dietro il riflesso repressivo della maggioranza silenziosa. Dopo Gotebörg nelle redazioni ci si era già preparati all'eventualità di nuove vittime, taluni per altro l'auspicavano politicamente. Le dirette televisive del primo pomeriggio di venerdi 20 trasudavano delusione per la scarsità degli episodi violenti da raccontare e mostrare. La manifestazione era ancora eccessivamente tranquilla. Un oceano di folla non valeva le vetrine di qualche banca. Solo più tardi, i corrispondenti hanno potuto finalmente appagare la loro sete di vampiri eccitati con le immagini sanguinolente, i fuochi e gli scontri. Dopo giorni e giorni di tam tam mediatico che chiamava alla rivolta, ripreso dalle farse della guerra comunicazionale dichiarata da alcuni gruppi (tute bianche), la trappola mediatica si è richiusa sul popolo degli ammutinati che si era raccolto nelle strade di Genova. L'icona del black bloc, emblema del bandito postmoderno, è stata marchiata col sigillo d'infamia dell'infiltrato e del provocatore. Lo spettacolo sociale dava vita ad una nuova telenovela infinita destinata a riproporre ad ogni futuro episodio una sorta di revisionismo storico in tempo reale.

Frattura ideologica e frattura sociale

Brevemente forse vale ricordare che i movimenti sociali sono sempre stati il prodotto di una convivenza obbligata, avvolte d'interesse, tra tendenze e approcci diversi. Pratiche più o meno nonviolente e condotte violente hanno coabitato ignorandosi o polemizzando, a volte persino confondendosi. A seconda delle circostanze, l'una è prevalsa sull'altra. Movimento di massa e forza d'urto; minaccia del numero e violenza dell'atto; forza delle ragioni e ragioni della forza; spessore e imponenza contro agilità, visibilità e incisività; guerra di posizione e guerra di movimento. Insomma, quando appare, un movimento sociale di massa rassomiglia ad un poliedro, forma geometrica dalle molteplici sfaccettature. Può accadere anche che ci siano movimenti omogenei o egemonizzati da alcune sue componenti, ma il più delle volte i movimenti emergono come "plurali", "molteplici", "variegati". Ora il fenomeno antiglobalizzazione si autodefinisce "movimento dei movimenti" e costitutivamente si ritiene attraversato dalla "contaminazione reciproca" delle sue componenti. Niente di più normale, dunque, che in questa fiera del molteplice vi siano dei settori (allo stato minoritari) che non escludono o privilegiano il ricorso a forme di violenza politica o d'azione illegale.

Pertanto la semplice violenza politica di strada, e prim'ancora l'idea stessa d'azione illegale, vengono maggioritariamente percepite dalle altre componenti come un tabù inviolabile. Esiste un nodo ideologico di fondo, egemone nel movimento antiglobal, che identifica la violenza come una risorsa illegittima e l'illegalità come una soglia difficilmente valicabile. Questa caratteristica ideologica è dovuta probabilmente alla sua attuale composizione sociale, predominano infatti le componenti cristiane e i ceti medi, le organizzazioni non (e para) governamentali, animate da approcci etici alla regolazione del capitalismo (economia solidale, finanza etica e previdenza sicura), oppure da pratiche procedurali (bilancio deliberativo), o ancora da organizzazioni sindacali del mondo agricolo e contadino, organismi politico-editoriali e settori istituzionali legati a posizioni sovraniste o fordiste della politica, dello Stato e dell'economia. La frattura ideologica e politica che si delinea attorno al problema dell'uso eventuale della violenza e dell'illegalità ripercorre la stessa frattura sociale che divide il nuovo mondo della precarietà, il popolo dei selvaggi delle periferie urbane, generato dal capitalismo postfordista, dai ceti medi o i gruppi sociali dotati di tutele sindacali e corporative che pensano di poter regolare la globalizzazione ultraliberale.

* * *

Siamo curiosi di capire meglio cosa racchiude questa cultura che si definisce "nonviolenta", ma che stenta a darsi una coerenza e un rigore forti. Dietro l'etichetta nonviolenta infatti si raccolgono posizioni ed argomenti fin troppo eterocliti che fanno pensare a volte ad un uso strumentale di questo labello positivo, sorta di appellazione DOC, legittimante agli occhi dei poteri costituiti. Quando il presidente della LILA (lega italiana per la lotta all'aids), membro di rilievo nazionale del movimento antiglobal, portavoce del mondo del volontariato, partigiano della nonviolenza, condanna gli attacchi contro le infrastrutture e le merci (cassonetti, vetrine di banche e società d'interim, supermercati, concessionarie auto...) con un'acrimonia tutta particolare, che si avvale di una stigmatizzazione etica che eccede la semplice censura politica, e poi sfila - senza esprimere riserve - in un corteo che inneggia a massacri di kamikaze contro una popolazione civile, qualche cosa in questa presunta cultura della "nonviolenza" non funziona. Che un cassonetto bruciato possa essere infinitamente più grave di un giubbetto imbottito di chiodi e d'esplosivo fatto conflaglare dentro un autobus o nel bel mezzo di un mercato popolare, non ci persuade.

In Italia, per diciannove anni, un'organizzazione combattente comunista, le Brigate Rosse, ha praticato la lotta armata, realizzando attentati mortali e ferimenti contro obiettivi statali, governativi o legati all'impresa e all'economia capitalista, subendo anche delle perdite. Questo gruppo ha teorizzato e messo in pratica il rifiuto sistematico del ricorso a strumenti d'attacco, come l'esplosivo, che rischiassero anche solo ipoteticamente di colpire nel mucchio, di ferire o uccidere involontariamente la popolazione civile. Per queste ragioni, essa ha sempre scelto di colpire in modo ravvicinato e con armi sicure i suoi obiettivi, mettendo ogni volta a repentaglio i suoi stessi militanti. Iper sanzionati dalla giustizia, gli uomini e le donne delle Brigate Rosse, come quelli e quelle d'altre organizzazioni dello stesso tipo, sono stati stigmatizzati e ultracriminalizzati, tra l'altro anche in nome della nonviolenza, da un tipo di personale politico che oggi invoca miriadi di giustificazioni e attenuanti per ridimensionare il reclutamento e poi l'invio di giovani "martiri" imbottiti di chiodi e tritolo, da parte di capi clan e notabili locali i quali risparmiano accuratamente i propri figli, per farsi esplodere tra la folla, spesso appartenente ai ceti più popolari.

Questa nonviolenza a geometria variabile, questa etica delle latitudini, merita d'essere verificata nella sua pertinenza etico-filosofica e socio-storica. Troppo spesso gli argomenti da essa sollevati sono sorretti solo da capovolgimenti di significati, da pregiudizi e malintesi e da una sospetta connivenza con l'idea di legalità.

Della nonviolenza come declinazione dell'Etica

Per sostenere le ragioni della nonviolenza alcuni autori ricorrono ad argomenti sorretti da quella che i testi definiscono etica della convinzione anteposta all'etica della responsabilità, entrambe fondate su logiche razionali ma che privilegiano fattori diversi: per esempio, la coincidenza dei mezzi col fine, di contro all'asimmetria dei mezzi dal risultato. Ragione morale contro ragione cinica insomma. Accade spesso, dunque, che il tema della nonviolenza venga affrontato sulla base di convinzioni etiche o religiose. Nella maggioranza dei casi, infatti, la pertinenza, o meglio la superiorità di questo metodo è affermata facendo un uso diretto di argomenti morali oppure lasciandosi ispirare da questi, ma pescando ragioni e tesi su un piano storico o pragmatico.

Altri autori però, resi più accorti nella scelta dei loro argomenti dalla fragilità delle dimostrazioni morali di fronte alle repliche dell'esperienza storica, privilegiano nuove strategie argomentative, preferendo ricorrere alla ragione strumentale, per spiegare come la nonviolenza si sia mostrata storicamente più efficace e per questo (dunque su una base puramente utilitarista) superiore. In fondo, lo stesso Gandhi usava dire che se posto di fronte al dilemma della scelta tra passività e attività violenta, avrebbe preferito la violenza poiché comunque questa restava una forma d'azione. E l'azione contro ogni passività era ai suoi occhi il bene superiore3 . Ed è vero che conquistata l'indipendenza, la nazione indiana non ebbe difficoltà a dotarsi di uno Stato con un esercito, una polizia, dei tribunali, delle prigioni. L'esperienza gandhiana si risolse in un incredibile paradosso, l'abile inversione dei termini propri all'etica della responsabilità: i mezzi al posto dei fini e i fini al posto dei mezzi. In luogo dei tradizionali metodi dettati da un utilitarismo pragmatico (che non escludono l'uso della forza), egli sostituì dei mezzi morali come la nonviolenza per dare spazio a dei fini che sopprimendo gli obbiettivi etici nonviolenti suscitavano la nascita di uno Stato, organismo che per definizione costitutiva esercita il monopolio della forza legittima. L'essenza della concezione gandhiana della politica si risolve in una sorta d'invito continuo all'azione, alla lotta contro la servitù volontaria. Quella gandhiana è stata un'etica suprema della mobilitazione, dell'agire, della sottrazione dell'uomo alla passività e alla remissione, a quella che si può definire come una vera e propria "malattia della volontà". In Gandhi c'è l'idea che l'essenza della dignità umana stia nel prendersi in carico, nello stringere tra le mani la propria vita e il proprio destino. L'uomo è in piedi solo quando sa camminare sulle proprie gambe e scegliere autonomamente la propria strada, altrimenti resta un mammifero supino. La lezione gandhiana traduceva a suo modo una tradizione filosofica che almeno dalla modernità vede iscritti pensatori della portata di Spinoza, Rousseau, La Boetie, Marx.

La nonviolenza, intesa come comportamento fuoriuscito da una pratica che s'ispira all'etica della convinzione, è posta di fronte ad una insormontabile contraddizione: l'assunto etico per avere validità intrinseca, ovvero per rispondere al criterio di coerenza interna, deve intendersi come assoluto. Esso non può trascegliere, adattarsi alle circostanze. Fu questo il grande dramma dei pacifisti nonviolenti del Novecento, in particolare di fronte alla seconda guerra mondiale. Molti alla fine raggiunsero, sulla base d'una scelta duramente meditata, le fila della Resistenza anti-nazifascista. Presero le armi insomma. Altri, restarono rigorosamente nonviolenti. Non vollero farsi coinvolgere dal conflitto, nemmeno di fronte alle nefandezze naziste, ai campi di concentramento. Molti di loro erano rimasti segnati da quel macello di carne umana che fu il primo conflitto mondiale. Avevano assistito a quell'orribile guerra, alle decimazioni decise dagli Stati maggiori contro le truppe insubordinate, agli assalti suicidi contro le linee nemiche. "Mai più !", s'erano detti. Les chemin des dames, in Francia, luogo mitico come da noi furono le alture del Carso, evoca immagini terribili d'uomini immersi nel fango intriso di sangue, dove orde di soldati venivano lanciati all'assalto e obbligati a calpestare i corpi dei propri compagni falciati dal fuoco nemico, per giorni e giorni, settimane intere. In Italia, le truppe venivano sospinte in avanti a suon di cannonate sulle retrovie, sparate non dal fuoco nemico ma da quello amico su ordine degli Alti comandi, mentre i carabinieri seguivano e arrestavano, fucilando sul campo chi rimaneva in trincea o s'imboscava nelle buche sotto i cadaveri. In Francia, a causa della loro scelta pacifista, molti militanti nonviolenti furono processati, comunque invisi perché sospettati di connivenza con la repubblica nazional-fascista di Vichy, che firmò l'armistizio e poi collaborò attivamente col nazismo.

Ora la nonviolenza etica, per le ragioni "predittive" che la caratterizzano (l'evocazione qui e ora, hic et nunc, della società che sarà domani), per la sua pretesa d'anticipare nei metodi una delle regole della società futura, dovrebbe condurre ad una rottura drastica, nettissima (non a caso Thoreau propugnava il rifiuto di pagare le tasse e l'obiezione di coscienza) con qualsiasi ordine costituito che esprimesse violenza, dunque innanzitutto con quell'organo che per definizione esercita la "violenza legittima", ovvero la coercizione legale, quale è lo Stato. Ogni atteggiamento che non fosse coerente con questa condotta verrebbe in qualche modo a trasgredire l'enunciato etico adeguando il proprio comportamento a ragioni d'opportunità inammissibili secondo i presupposti morali affermati. Il nonviolento non dovrebbe credere, ne tanto meno rispettare, i codici di procedura e i codici penali, i tribunali, la magistratura, per quello che esprimono e rappresentano: la legalità. E la legalità è per definizione l'esercizio procedurale di una dose (che s'accresce secondo le esigenze) di coercizione e violenza ritenuta necessaria alla regolazione sociale.

E se delle ragioni - anche comprensibili - d'opportunità vengono evocate, allora si abbandona il terreno dell'etica della convinzione per entrare in quello della responsabilità. Ovvero si sceglie di attuare una strategia i cui mezzi sono (nella fattispecie l'accettazione passiva di una violenza statuale sovrastante), per forza maggiore, non completamente conformi con i fini. Insomma, l'opzione nonviolenta diverrebbe una delle tante strategie dotate di tattiche duttili, fatte di compromessi, ragioni di circostanza, opportunità, ecc. In questo caso, poi, sarebbe ancora più sospetto un atteggiamento di censura netta della violenza esercitata da soggetti deboli, oppositori, contestatori, in ogni caso non appartenenti alle classi dominanti (detentrici del potere economico-finanziario e politico), senza un'eguale condanna aperta e un'azione di disobbedienza attiva e corrispettiva verso lo Stato. Non solo quando questi esercita materialmente violenza attiva, ma per il fatto stesso d'esistere in quanto istituzione. E se anche solo per brevità, tralasciamo il fatto che lo Stato sia quel grande Moloc che si è imposto grazie ad una violenza originaria potentissima e irresistibile che ha travolto le forme d'organizzazione sociale preesistenti, non si può non ricordare che lo Stato di diritto contemporaneo esprime tuttora quella che alcune teorie sociologiche chiamano la violenza simbolica. Ovvero: "quella violenza dolce, invisibile, sconosciuta come tale, scelta quanto subita" (Pierre Bourdieu, Le Sens pratique, Minuit, Parigi 1980). Una violenza mascherata che cela dietro una falsa naturalità gerarchie di valori, saperi, una somma d'ineguaglianze storicamente costruite che esprimono un rapporto di dominazione il più delle volte interiorizzato dai dominati.

Della nonviolenza come ragione pratica

La letteratura nonviolenta non risparmia argomenti in favore della possibilità d'affermare l'efficacia delle sue ragioni e dei suoi metodi sulla base d'un presupposto puramente " pragmatico ", ovvero l'analisi di pratiche storiche concrete, misurando " quali siano i mezzi che hanno maggiori possibilità di ridurre sofferenza, aumentare la giustizia e creare una nuova società "4. Terreno impervio, quasi improbo, quello delle pratiche concrete, accidentato da numerosi malintesi, confusioni ed equivoci storici, dovuti essenzialmente alla scarsa sistematicità del "pensiero nonviolento", al suo carattere spesso approssimato, poco aduso al rigore del concetto.

Una prima difficoltà sorge con i codici linguistici. Infatti, i riferimenti non sono affatto gli stessi tra i termini del dibattito che circola in Nord America e il dibattito Europeo. Testi della letteratura nonviolenta statunitense definiscono " metodi convenzionali " della lotta politica: le campagne elettorali, la propaganda politica, le azioni legali, le petizioni, la compilazione di lettere pubbliche, le attività di lobbing. Questi metodi sono ritenuti: altra cosa dall'azione nonviolenta, la quale definisce innanzitutto le " manifestazioni che hanno origine a livello popolare, quando le persone hanno bisogno d'agitazione di piazza per conseguire uno scopo"5. Questa definizione "a maglie larghe" sembra voler dire che l'azione nonviolenta si distingue dai metodi tradizionali perché non produce delega politica, non chiede mediazioni rappresentative ma si fonda sull'azione diretta, la partecipazione attiva dei soggetti popolari (e perché no delle classi medie ?); in secondo luogo, perché i requisiti di questa azione non tengono conto dei limiti imposti dal codice penale. Insomma, l'azione nonviolenta se ne infischia d'essere illegale. Se presa alla lettera, questa concezione della nonviolenza solleva numerosi problemi rispetto all'accezione che di essa viene fatta in Europa ed in modo particolare in Italia, dove i gruppi sedicenti nonviolenti fanno larga incetta di metodi "convenzionali", di deleghe e d'incoronazioni mediatiche e governamentali (vedi Genova), e confondono la nonviolenza con il rispetto pedissequo del codice penale.

Un secondo problema d'ordine storico sorge quando vengono citate alcune forme d'azione ritenute nonviolente: manifestazioni, sit-in (presidi), occupazioni e scioperi, boicottaggi 6. Ecco che una parte dell'arsenale più tradizionale delle pratiche esercitate nella storia del movimento operaio e dai gruppi politici a lui ispiratesi dal 1848 ad oggi (anarchici, socialisti, comunisti, di varia natura e credo, scuola, Internazionale - ma anche prima, si vedano i Luddisti, come spiega lo storico inglese Edward Thompson in, La formation de la classe ouvrière anglaise. Essi infatti non distruggevano solo i macchinari di fabbrica ma organizzavano scioperi, manifestazioni, praticando le prime forme d'agitazione politica operaia), diventano di colpo gli strumenti privilegiati dell'azione nonviolenta. Difficilmente si può contestare che queste forme di lotta appartengono al patrimonio genetico della cultura politica figlia del movimento operaio, il quale si è distinto storicamente dall'adesione teorica e pratica alla nonviolenza. Il movimento operaio è stato insurrezionale, rivoluzionario, violento, oppure riformista, legalista, istituzionale, ma solo marginalmente nonviolento (nonviolente, forse, possono essere ritenute le società filantropiche, o quelle fabiane e cartiste inglesi che si battevano per un riconoscimento dei diritti politici agli albori del movimento operaio, con strategie petizionarie. Strumenti che però la letteratura nonviolenta più radicale considera oggi convenzionali).

Le strade sono larghe, c'è posto per chiunque voglia condividere, gomito a gomito, i marciapiedi e le piazze, aderire o fare uso dello sciopero, delle occupazioni, dei presisdi ecc., ciò detto, però, è evidente che non può essere intrattenuta la confusione tra nonviolenza e semplice partecipazione a manifestazioni cosiddette "pacifiche", ovvero l'azione di massa, più o meno legale a seconda delle epoche e degli ordinamenti costituzionali. Una condotta condivisa trasversalmente dai più diversi orizzonti politici, sociali e religiosi. Se nonviolenza è sfilare legalmente e pacificamente lungo le strade, oppure occupare provvisoriamente delle piazze, previa autorizzazione fornita dalla questura, allora anche la manifestazione di Forza Italia del 19 novembre 2001, a Piazza del Popolo, era una iniziativa nonviolenta, al pari delle manifestazioni dei poliziotti francesi, che nello scorso dicembre hanno riempito le piazze rivendicando più soldi per le loro tasche e più prigione per gli altri cittadini. Qualunque manifestazione pacifica e legale, quelle attuate dalle forze di governo, come quelle dell'opposizione parlamentare, ovvero da forze politiche che non fanno minimamente cenno nei loro programmi, proclami e statuti, alla nonviolenza, che mai hanno contestato l'esercizio della violenza monopolistica da parte dello Stato e dei suoi apparati coercitivi, sarebbero l'espressione di pratiche nonviolente. Si arriverebbe al paradosso che si potrebbe manifestare in un modo ritenuto nonviolento l'adesione ed il sostegno ad una guerra. Evidentemente, in questo tipo di ragionamento, qualcosa non va !

Sciopero e nonviolenza

É un errore includere lo sciopero del lavoro come quello della fame nella lotta nonviolenta. E se il primo non è affatto ascrivibile come metodo peculiare alla tradizione nonviolenta, il secondo pur essendo una delle forme più identitarie delle condotte nonviolente, è ben lontano dall'essere un comportamento privo di violenza.

Lo sciopero del lavoro nella sua essenza è un'azione d'insubordinazione profonda, di confronto brutale tra rapporti di forza che sovente esula tutte le forme e le procedure: incrociare le braccia, tutti insieme, per bloccare la produzione delle merci padronali. Lo sciopero è un attacco durissimo alla proprietà, all'essenza della valorizzazione del capitale, poiché intacca le merci nel cuore della loro produzione mettendone in gioco la sopravvivenza. Proprio per questo la reazione padronale è stata sempre ferrea, senza risparmio di mezzi repressivi: venivano organizzate le serrate, reclutati i crumiri, organizzate le provocazioni di uomini di mano prezzolati, sollecitato l'invio della polizia, dell'esercito, lo scatenamento della magistratura. Gli operai allora furono costretti a difendere il loro sciopero, per non essere sconfitti prima di cominciare. Lo dovettero difendere conquistando l'autonomia gestionale e dunque politica delle società di mutuo soccorso, che erano nate, con Bismarck in Germania ed il secondo impero in Francia, come cinghie di trasmissione dirette del controllo statale sulla condizione operaia, attraverso la presidenza d'ufficio attribuita a commissari di polizia o a notabili fedeli. Nacquero poi i picchetti (ovvero il fatto d'impedire ai non scioperanti con l'intimidazione del numero, la presenza e la forza fisica, di entrare nei luoghi di lavoro. Infrazione prevista dal codice penale), le occupazioni (invasione per mezzo d'effrazione, intimidazione e forza fisica di proprietà altrui. Infrazione sanzionata dal codice penale), i boicottaggi e i sabotaggi (distruzione di beni e proprietà altrui. Infrazione perseguita dal codice penale), attorno ai quali per quasi due secoli si sono svolte lotte durissime, drammatiche, intrise di sangue, prigione e miseria, anche quando lo sciopero è infine divenuto un diritto tutelato costituzionalmente. Lo sciopero è stato e resta tutt'ora (seppur con attenuazioni, modalità e impieghi differenti) lo strumento comune a tutte le anime del movimento operaio, ma in particolare lo sciopero generale è stato un riferimento quasi mitico che ha alimentato gli universi ideologici più ribelli, contestatari e rivoluzionari : si pensi alla pratica divenuta a volte mito, dello "sciopero insurrezionale", l'elemento che doveva innescare "l'ora x", l'assalto finale (le officine Putilov nel 1917, quelle Fiat nel 1943), il connubio tra violenza insurrezionale e sciopero generale propugnato dal socialista George Sorel, autore del famoso libro, Grève générale et violence.

Lo sciopero della fame, poi, è semplicemente una forma di violenza mutata di segno, non più aggressiva ma autoagressiva. E' autofagia del corpo che comincia a nutrirsi dei grassi residui, i grassi bruni e poi di quelli che avvolgono gli organi vitali. Lo sciopero della fame è l'essenza ultima della vita nuda in rivolta, stadio finale d'un ammasso di carni messo ai margini, d'una esistenza ridotta a semplice carcassa che pur vedendosi dimagrire riesce ancora a sentirsi pesante. Chiuso ogni spazio alla parola e all'azione, resta il corpo nudo da mettere in gioco. Parola e azione agiscono in una comunità, entrano in rete, ma quando non c'è più possibilità di relazione, il corpo divorandosi diventa uno strumento di parola, forma ultima ed estrema d'insubordinazione. Lo sciopero della fame è accettabile quando a praticarla sono individui ridotti alla loro carcassa, prigionieri o schiavi in nude celle sotto sorveglianza, ma diventa una strategia del ricatto, moralmente disprezzabile, quando è impiegato demagogicamente da deputati e portaborse sotto i riflettori dei media. Altra cosa sono poi i digiuni propri della tradizione ascetica e spiritualista, iscritta nella cultura di molte religioni rivelate o senza theos, percorsi di purificazione intima, di testimonianza individuale, d'autismo politico o d'anoressia sociale. Una "bulimia dell'anima" che odia il proprio corpo, lo trova sudicio e vuole liberarsene, elevandosi dalla sostanza terrena oppure fondendosi col resto della materia naturale. Questa "fuga da se stessi" è difficilmente conciliabile con i parametri della razionalità politica Occidentale, in ogni caso è solo demagogia fatta col corpo voler iscrivere la natura asociale dei digiuni purificatori nelle pratiche della lotta politica che conosciamo e pratichiamo, o addirittura in quella del ceto politico-istituzionale.

La nonviolenza nella storia: un bilancio

Due sono gli episodi storici di maggiore importanza che appartengono alle fondamenta della cultura e dell'immaginario nonviolento:

Il primo è legato alla nascita della nazione indiana. Incontestabilmente l'episodio storico dove maggiore è stata la presenza della strategia nonviolenta. Non c'è qui lo spazio per svolgere un'analisi storica appropiata, ma quantomeno vanno fatte alcune osservazioni che ci consigliano d'usare delle cautele di fronte al mito fondatore (tipico di ogni nazionalismo) della nazione indiana. Se l'icona di Gandhi gioca il ruolo di grande padre (espressione saliente di quella che Max Weber chiamava " legittimità carismatica ", potere simbolico magnetico del profeta che può essere ben più lungimirante e equo del demos, ma certo non è sinonimo di potere democratico rappresentativo, partecipativo o diretto...), la nonviolenza è un mito delle origini. Mito lontano e assai paradossale per un paese che da allora non ha finito d'essere straziato da miriadi di conflitti nazional-religiosi e massacri indicibili (secessione del Pakistan e guerra latente perpetua ai suoi confini, rivolta Sik, irredentismo del Kashimir, guerra del Bangladesh), fino al punto di dotarsi della bomba atomica. La strategia Gandhiana si è potuta avvalere del fatto che il partito del Congresso condivideva parte della gestione del potere coloniale inglese. Seppur subalterna, l'elite indiana aveva posti di comando nell'amministrazione. Ciò ha senza dubbio favorito lo sviluppo di una strategia di lotta per l'indipendenza che procedesse per vie interne, appoggiandosi a forme organizzate di non collaborazione. Gandhi elaborò una strategia adattata ad un'India troppo povera e inferiore tecnologicamente per affrontare una guerra guerreggiata. Il ricorso all'imponenza del numero contro l'esigua minoranza dei colonizzatori doveva permettere la cacciata del ceto degli amministratori e degli affaristi che gestivano l'impero coloniale e le sue truppe. La forza del numero aveva margini per incidere nel negoziato avanzato dall'elite indiana anglofona, espressione d'un emergente capitalismo autoctono. Il contesto internazionale favorì la decolonizzazione, sostituita da un nuovo assetto più moderno dell'economia mondiale. La decolonizzazione inglese, francese, portoghese è un processo storico che s'avvia dopo la seconda guerra mondiale sotto l'emergere del nuovo binomio delle potenze mondiali fuoriuscito vincitore dal conflitto: USA e URSS. Gli inglesi s'eclissano dietro l'emergere del nuovo assetto dell'imperialismo economico statunitense. Il ruolo giocato dall'Unione Sovietica, limitrofa e divenuta l'alleato di riferimento dell'India nella regione, ebbe un peso importante. Il tipo di rivendicazione avanzata, ovvero l'edificazione nazionale (mal riuscita per altro), contribuì alla praticabilità della strategia nonviolenta. In effetti, se all'interno delle forze indipendentiste indiane fosse sorto un movimento d'ispirazione socialista, capace d'organizzare le masse contadine attorno alla rivendicazione dell'espropriazione dei latifondi, difficilmente avremmo ricordato l'epopea indiana come una lotta nonviolenta. E quanto fosse fragile, e per nulla predittiva, quella strategia, lo dimostrano i tragici avvenimenti successivi: partiti gli Inglesi scoppiò la guerra civile, seguita dalla guerra di secessione con i mussulmani (che diede vita al Pachistan), segnata da massacri religiosi ignominiosi e dall'assassinio dello stesso Gandhi. La sopravvivenza della società castale è una ulteriore conferma del fallimento della esperienza nonviolenta, mostratasi incapace d'edificare quei nuovi rapporti umani e sociali, fondati sulla riconoscenza dell'altro, ch'essa prefigura e dunque sul superamento d'una società suddivisa gerarchicamente dalla nascita e compartimentata in modo stagno. Paradossalmente la nonviolenza sembra aver contribuito, contro i suoi stessi intenti, ad accrescere quel sentimento d'acquiescenza e di passività che ha rafforzato la percezione della naturalità delle caste e minato l'opportunità d'una rivolta mossa dalla difesa della dignità umana.

L'altro esempio è fornito dalla stagione di lotte per i diritti civili negli USA. Nel caso delle lotte patrocinate dal pastore (anche lui ucciso) Luther king, vi è il desiderio d'iscriversi in una comunità nazionale riconosciuta dai rivendicatori (i neri) ma che pertanto li esclude. Insomma l'obiettivo spiega anche il metodo rivendicativo: pacifista, integrazionista, con una violazione a bassa intensità della legalità, fatto di possenti episodi d'insubordinazione sociale di massa, boicottaggio e schermaglia giuridica. La battaglia si limitava ad abolire l'apartheid per entrare a pieno titolo nella società ambita, non per cambiarla dalle fondamenta. E forse, la battaglia per i diritti civili è stato il solo terreno di lotta politica possibile, in un contesto animato dalla "guerra fredda" esterna che trovava il suo corrispettivo interno nella guerra civile camuffata contro il comunismo, che fu il maccartismo. I limiti di questa battaglia, il fatto che essa sia rimasta incompiuta, sono riconosciuti anche nella letteratura nonviolenta, che non esita a evocare "il razzismo che imperversa ancora" e l'assenza di "vittorie rilevanti"7. L'affermazione dell'eguaglianza formale non ha trovato un suo corrispettivo nell'eguaglianza reale tra le diverse comunità. Le classi sociali in possesso di un minore capitale economico e culturale si trovano ancora maggioritariamente nella comunità nera e in quella ispanica. La battaglia per i diritti civili è servita da volano per l'ascesa e l'allargamento della società dei consumi alle nuovi classi medie nere. Negli anni 70, le politiche economiche keynesiane hanno visto nell'integrazione della comunità nera le potenzialità per un nuovo allargamento dei consumi interni e dunque della domanda. L'affirmative action, è stata la traduzione legislativa delle lotte per i diritti civili, attraverso l'introduzione del principio di discriminazione positiva. In effetti, delle popolazioni danneggiate storicamente da pratiche sociali, culturali e istituzionali, discriminatorie e segregazioniste, vedevano riconosciuto il loro diritto al risarcimento, attraverso delle norme che introducevano procedure privilegiate, quote prestabilite, trattamenti specifici, che favorissero la piena integrazione ed il rapido recupero dell'handicap sociale subito. Questa strategia, abbandonata successivamente con l'arrivo della reaganomics, permise l'emergere di una classe media nera, di una nuova borghesia black. Paradossalmente, il gretto spirito comunitario ha più tardi introdotto la proliferazione delle identità comunitarie, presunte o reali (occorreva infatti essere riconosciuti come appartenenti ad una comunità vittimizzata per poter usufruire dei vantaggi dell'affirmative act), suscitando la rivalità tra comunità svantaggiate. In particolare si è insediato una sorta d'oligopolio che tende ad escludere le nuove comunità meno favorite, a non riconoscerle in quanto tali, per evitare di ridurre i vantaggi dovuti alla posizione di rendita offerta dalle pratiche di discriminazione positiva. In realtà, I limiti della battaglia per i diritti civili non sono dovuti alle forme di lotta impiegate ma ai presupposti teorici che le muovevano, ai limiti politici e culturali, alla gestione ispirata da gruppi religiosi cristiani, al loro carattere prettamente morale.

Nel corso degli anni 80 e 90, si sono sviluppate in Europa importanti lotte per i sans-papiers, attorno ai quali si sono raccolte gran parte delle famiglie politiche della sinistra, senza che emergessero divisioni sulle forme di lotta. Anzi, i gruppi più radicali, caratterizzati da una maggiore propensione alla violenza, si sono distinti tra quelli più accanitamente conseguenti nelle azioni d'appoggio ai clandestini, ai boicottaggi, alle occupazioni di luoghi, uffici amministrativi, centri di ritenzione e aeroporti, dove venivano realizzate le espulsioni (che nel lessico attuale verrebbero definite di disobbedienza, ma che all'epoca erano ancora percepite come pratiche tradizionali di lotta sociale). Al contrario, molti gruppi "nonviolenti" si sono caratterizzati per il fatto di limitare la loro azione al solo ricorso a procedure legali. Si palesa il dubbio che dietro l'ideologia della nonviolenza si celi, in realtà e sempre più, il tabù della legalità.

La nonviolenza attribuita : ovvero l'invenzione del successo della pratica nonviolenta

Gli esempi storici finora affrontati sono pertinenti. Si può discutere della loro portata, dei loro risultati effettivi: la vittoria della borghesia nazionale in India, accompagnata dalla costruzione di una società ultraviolenta e polarizzata socialmente; o ancora, l'emergenza d'una classe media nera negli USA che vede i suoi diritti rispettati, contrariamente a quanto avviene per il resto dei neri e degli ispanici di condizione proletaria o sottoproletaria. Si può dibattere della portata universale di queste lotte, ovvero del loro valore paradigmatico, della esportabilità o meno dei loro metodi oltre che dei loro contenuti (che abbiamo visto essere, gli uni e gli altri, assai modesti), ma incontestabilmente queste esperienze appartengono al patrimonio storico e culturale della tradizione che si definisce pacifista e nonviolenta.

Grossi problemi sopravvengono, invece, quando per dare forza al proprio discorso la letteratura nonviolenta cerca esempi storici altrove: nella rivoluzione komeinista che ha cacciato la scia di Persia in Iran, per esempio, oppure nella recente sconfitta di Slobodan Milosevic in Serbia, o ancora nella cacciata del dittatore Marcos dalle Filippine, tra gli zapatisti in Chiapas, con Solidarnosc in Polonia. O ancora quando addirittura si prova a spiegare l'arrivo al poter dell'ANC in Sud Africa con una presunta adesione ad una opzione politica nonviolenta, o quando si cita l'arrivo al potere del populista Chavez in Venezuela. Stranamente però, tra i diversi eventi evocati c'è un solo episodio che viene sistematicamente dimenticato: la "rivoluzione dei garofani" del 1975 in Portogallo. Forse perché quell'evento fu realizzato da militari, da comunisti che avevano applicato una strategia "entrista" nell'esercito, infiltrandolo, conquistando gran parte dei suoi quadri intermedi fino a decretare il giorno dell'insurrezione, del colpo di Stato. Un complotto rivelatosi incruento, viste le condizioni di decomposizione della società coloniale che caratterizzava il Portogallo dell'epoca. Non si sparò nemmeno un colpo di fucile, anzi i soldati sfilarono acclamati dalla popolazione con dei garofani infilati nelle canne delle loro armi, a dimostrazione che dei militanti rivoluzionari, dotati di un esercito, armati di una cultura che disdegna la nonviolenza, possono ritrovarsi vincitori senza bisogno di sparare un colpo. L'esatto contrario dell'India. A riprova del fatto che la natura violenta o nonviolenta di un evento dipende meno dalle convinzioni e dalle intenzioni dei soggetti che s'affrontano che dalle condizioni storiche che si presentano.

Per evocare in modo pertinente il contributo eventuale fornito dalla nonviolenza in episodi storici di sollevaione nazionale, lotta per l'indipendenza o in cambiamenti di regime, occorre quantomeno la compresenza di due elementi:

1) la presenza d'attori che teorizzino e pratichino in forma magioritaria questa strategia. Tale circostanza è riscontrabile solo in India e negli Usa degli anni 60. Nelle altre circostanze citate, non vi è un solo movimento che abbia giocato un ruolo politico importante, che possa ritenersi nonviolento. Vi sono forze politiche, gruppi di pressione, blocchi sociali, partiti religiosi, eserciti guerriglieri, che grazie a contesti particolari in alcuni casi sono riusciti a conquistare il potere senza il bisogno d'organizzarsi violentemente (e certo non per edificare una società nonviolenta), ma usufruendo dell'appoggio o della neutralità di polizia e forze armate o del sostegno internazionale d'altri Stati ;

2) la realizzazione degli esiti prefigurati dalla strategia nonviolenta, ovvero la presenza di relazioni sociali nuove, fondate sul riconoscimento dell'altro, sulla parità e la simmetria reciproca. Insomma, la disparizione di rapporti sorretti da forme di dominazione e prevaricazione di natura sociale, economica, politica, sessuale, culturale, religiosa.

In nessuno degli esempi sopra citati si sono presentate queste condizioni. Per comprendere quanto è avvenuto risulta più utile fare ricorso a concetti come quello di "implosione" (crollo interno o implosione geopolitica) di di "moto sociale".

In Iran il regime dello Scia s'è decomposto sotto la spinta complessa di movimenti di massa interni, nei quali v'erano milizie armate e gruppi che praticavano attentati. Queste forze percepivano la modernizzazione autoritaria dello Scia come la cappa plumbea imposta dalla colonizzazione Occidentale e in particolare dagli USA sulla società. Il tutto è avvenuto in un tremendo bagno di sangue, con l'avvio immediato della guerra civile tra islamisti e gruppi della sinistra, poi sconfitti e costretti alle prigioni e all'esilio. Per non parlare della guerra decennale con l'Irak e degli effetti iperviolenti sul medio Oriente e sull'Europa dovuti alla diffusione del fondamentalismo schiita, solo recentemente scavalcato da quello di scuola walabita legato al fondamentalismo saudita. Milosevic ha perso le elezioni, non è stato scacciato da gruppi nonviolenti. Anzi, gruppi paramilitari hanno attaccato il parlamento dandolo alla fiamme nei giorni in cui il presidente serbo rifiutava di riconoscere il risultato elettorale. La destra nazionalista, che tanta parte ha avuto nella guerra in Bosnia e in Kosovo è sempre lì. La neutralità dell'esercito non va confusa con l'improvviso sbocciare d'una stagione nonviolenta. Le Filippine di Marcos, divenuto inviso all'establishement USA, sono state il teatro di scontri di piazza con spargimento di sangue. Assembramenti di popolazione, moti, manifestazioni e scioperi, insomma un conflitto a media intensità violenta non è sinonimo della migliore nonviolenza, che per altro nessuno reclamava. Gli zapatisti sono un esercito armato che il 1 gennaio 1994 ha dato vita ad una insurrezione con numerosi morti. Marcos porta un passamontagna per significare il suo status di combattente clandestino e gira armato di M16, non è il miglior esempio da invocare come icona della nonviolenza. Solidarnosc era un potentissimo sindacato-partito (finanziato con enormi risorse dall'Occidente) che raccoglieva nel suo seno la quasi totalità dell'opposizione al regime socialista polacco. Anche se ha praticato in prevalenza forme " pacifiche " di lotta, il suo programma politico non era nonviolento e tantomeno gli obiettivi realizzati (tra cui l'entrata nella Nato). Nel suo seno v'era di tutto, dagli ultraliberali, ai populisti cattolici, dai fondamentalisti religiosi, ai gruppi d'estrema destra, ai monarchici, con tracce persino di qualche " democratico ". L'ANC non ha mai introdotto nel suo programma la nonviolenza, ha semplicemente rinunciato alla lotta armata quando, durante l'epoca Gorbacev, si erano create le condizioni di una trattativa seria che prevedeva la liberazione di Mandela e l'avvio di un processo di superamento de l'apartheid, cioè quando l'essenziale del suo programma stava per compiersi. L'abbandono della lotta armata da parte di alcuni movimenti ha sempre corrisposto ad un passaggio a forme di lotta politiche di tipo tradizionale, ovvero legale, non certo nonviolento. È il caso dell'Ira irlandese, che ha rinunciato gradualmente alle armi quando, attraverso la sua ala legale, è pervenuta ad ottenere importanti obiettivi politici (e soprattutto si sono ridotti i finanziamenti della comunità irlandese residente negli Stati Uniti). Chavez è un ex paracadutista divenuto leader populista negli anni 90 dopo aver essere stato incarcerato per un tentato golpe. Di fronte alla perdita di credibilità della classe politica corrotta, ammantato della sua aureola di eroe, ha vinto le elezioni. Non è un bell'esempio di nonviolenza. Sarebbe come dire che Berlusconi è un nonviolento perché grazie alle sue televisioni usa metodi pacifici di persuasione e con questi ha ottenuto il consenso degli elettori.

Violenza o nonviolenza ? La virtù inesistente del modello unico

Il problema sollevato dal dilemma violenza/nonviolenza sta, in realtà, nel aver mal posto fin dall'inizio i termini del dibattito tra forme di lotta, trasformandole da strumenti, quali esse sono, in rivelatori ideologici, in mezzi intrinsecamente dotati di fini. È questo il rischio inevitabile che si incorre quando la politica è declinata sulla base di un credo etico, quando l'azione si risolve in una messa in forma della morale, qualunque essa sia. In fondo, da questo punto di vista quei pacifisti che a Genova alzavano le mani in segno di resa davanti alla polizia non sono diversi dai militanti del black bloc, che devastano sistematicamente dei simboli del capitalismo, tutto sommato secondari e irrilevanti, senza porsi minimamente l'idea di comunicare, alleare, allargare il fronte e costruire consenso attorno a se. Queste due realtà, solo in apparenza opposte, sono l'espressione di una condotta simettrica dettata dal rapporto puramente etico col proprio agire. Ne deriva una forma di psicorigidità, un'autoreferenzialità estrema che mette in avanti la propria purezza, la propria coerenza, una sorta d'autocompiacimento estetico, l'accordo ossessivamente necessario, e in ultima analisi il solo che conta sempre, tra mezzi e fini che finisce per fare del fine un mezzo. La realtà non conta, il contesto storico, l'analisi dei processi vengono ignorati. La politica è uno specchio in cui rimirare la propria limpida nettezza. Pretesto per " esprimere semplicemente se stessi " come fa l'artista nel corso di una performance. Ciò che è veramente decisivo è il proprio comportamento, la propria perfettibilità etica. È il mondo che deve modellarsi al proprio credo. Si tratta di una purezza totalitaria, intollerante, chiusa, ben altra cosa della contaminazione tanto decantata. La nonviolenza (come l'iperviolenza contro le merci ma non le persone. Quelli del blocco nero sono in questo altamente etici) da esercizio di virtù diventa esternazione del vizio, un desiderio di sublime che fa " peccare d'autocompiacimento ", nutrendo i pacifisti d'una saccente autosufficienza che li porta a considerarsi " più giusti e virtuosi degli altri " e dunque " refrattari al dibattito onesto e pragmatico " a tal punto d'accomodarsi in una " ideologia morale che possa evitar loro un'aperta considerazione delle alternative ". L'importante è testimoniare, testimoniare se stessi in pratiche che sempre più si riducono ad " atti ritualizzati, infrazioni garbate, ad una minimizzazione estrema del rischio"8. In questo senso è pertinente l'espressione impiegata da Ward Churchill nel suo libro intitolato: " Pacifismo come patologia " della volontà.

L'errore sta nel pensare che esista un modello unico e virtuoso, assoluto, di lotta che possa essere valido comunque e dovunque, a seconda delle latitudini e delle epoche (come pensavano le Brigate Rosse o altre organizzazioni comuniste combattenti). In questo senso, nonviolenti e violentisti s'equivalgono. Gorge Lakey ribadisce una ovvietà quando ricorda che " la violenza non è il marchio della radicalità o del fervore rivoluzionario perché è usata costantemente per gli scopi più disparati "9. Infatti, filosofi come Michael Walzer, partigiano della teoria della " guerra giusta " (Guerres justes et injustes, Belin, Parigi 1999) spostano il dibattito sul piano della legittimità e dell'illegittimità delle ragioni che la motivano. Non esiste una forma prefigurativa, un metodo che possa riassumere in se il fine, il modello di società futura. E se è questa l'ambizione che riassume la pratica nonviolenta, occorre riconoscere il suo sistematico fallimento storico. Di contro, è possibile pensare alla nonviolenza come ad un ulteriore risorsa da poter impiegare in circostanze e contesti che facciano di questo strumento un'arma opportuna. La scelta delle forme di lotta è questione complessa e articolata da affrontare secondo i momenti e le condizioni storiche. La migliore delle strategie è quella fondata sulla scelta ponderata delle tattiche più opportune ed efficaci a seconda delle esigenze e dei compiti politici. Senza preclusione alcuna. Ciò detto, non si può ignorare che sul piano storico l'uso della forza, con il suo ampio ventaglio di sfumature, dalle più sottili alle più intense, s'è mostrata sovente una risorsa decisiva. Stati, nazioni, popoli, regimi produttivi, ordini sociali, sistemi di dominio, rivoluzioni liberatrici, si sono succeduti e confrontati attraverso scontri il più delle volte senza mezzi termini. La storia è una immensa valle ricoperta di ossa, scriveva Hegel. Occorre pensare a dispositivi di riduzione della violenza, a forme che ne riducano il più possibile il ricorso, che ne attenuino la portata, che ne canalizzino le forme, ma non si può esulare da un confronto realista con questo problema.

La proposta nonviolenta e il suo inadeguato contributo alla critica del potere

Una delle ragioni forti poste a fondamento della scelta nonviolenta è la rinuncia ad esercitare forme di potere. La nonviolenza più radicale e integrale, rivendica la sua totale asimmetria rispetto all'esercizio del potere. Essa non si pretende un contropotere ma, rifiutando ogni forma di simmetria e concorrenza, si vuole altro dalla logica del potere stesso. Secondo i suoi sostenitori, attraverso il metodo nonviolento si otterrebbe con successo il passaggio dal potere esercitato " su " (dominazione), al potere esercitato " con " (cooperazione con gli altri) oppure al potere " dall'interno " (forza psicologica e spirituale)10. Ma il ricorso ad un brillante escamotage sintattico non risolve il dilemma del potere, la natura della sua origine. Anche un potere che fuoriesce solamente dal l'interno, e che con altri linguaggi potremmo chiamare fine dell'acquiescenza, termine della dominazione introiettata, presa di coscienza, emancipazione, fuoriuscita dall'alienazione, conquista della coscienza per se, assunzione del principio d'autonomia, non sorge per semplice germinazione spontanea, ma è frutto d'un incontro con l'esterno, con l'altro da se. E questo processo di scambio non è esente dal rischio di subire condizionamenti imposti da forme sublimali di potere: il potere simbolico, il potere carismatico, forme di legittimazione che captano la volontà ben più del corpo, grazie all'ineguaglianza economica, alla dissimetria delle competenze e dei saperi, che stabiliscono differenze e gerarchie. Non è sufficiente sostituire delle particelle grammaticali per risolvere l'inevitabile momento del contrasto, della contrapposizione tra poteri diversi. Come evitare di soccombere, quando un'azione fondata sul potere "dall'interno" o dal potere "con", incontra nel suo cammino l'ostacolo del potere esercitato "su" e dunque contro ? Che fare quando il rapporto di forza si fa fisico e chi sta lottando non vuole semplicemente testimoniare se stesso, ma innanzitutto non vuole soccombere? " Non collaborare " è la premessa dell'azione, non il suo esito. Disobbedire è solo il primo passo di un lungo percorso, è ancora un momento reattivo sprovvisto d'autonomia. Disobbedire non basta.

Nonviolenza o legalitarismo ?

In occidente l'impiego più consistente della nonviolenza è rivendicato dai cristiani che guardano alle persecuzioni dei loro primi adepti come ad un momento fondatore della pratica nonviolenta. Il "martirio" di Massimiliano, il primo obiettore di coscienza, e da loro percepito come un glorioso esempio. Non abbiamo qui lo spazio sufficiente per indagare la reale pertinenza della nozione passiva di martirio con quella attiva di nonviolenza. Certo è che questa sovrapposizione la dice lunga sui sottintesi culturali che le differenti accezioni della nonviolenza racchiudono. La concezione sacrificale del martirio, dietro la sofferenza terrena della sua prova, racchiude una compiaciuta idea di piacere masochista suscitata dalla prospettiva dal trapasso definitivo nel regno dei cieli. Subire e soffrire, più che un atto fisico di resistenza umana, è una prova di solidità religiosa, un atto di fede intimamente sorretto da un segreto piacere perverso. Anche se la storia della Chiesa come dei movimenti religiosi riformatori e protestanti, oltre che la testimonianza delle sacre scritture, della teologia e del diritto canonico, rappresentano delle fonti ambivalenti per la tradizione nonviolenta, l'intreccio tra ideologia e pratiche nonviolente con la cultura religiosa resta un fatto avverato. Lo è a tal punto che la distinzione introdotta da Lutero tra la violenza individuale, da condannare, e quella statale o collettiva, da accettare per l'interesse della comunità, resta a tutt'oggi il vero nucleo concettuale che ispira l'essenza della cultura nonviolenta. Ovvero un'ideologia che doma l'autonomia degli individui, li priva del loro libero arbitrio sottomettendoli alla legge del monopolio statale.

A origini illustri e lontane l'atteggiamento di molta parte dei nonviolenti italiani, i quali piuttosto che rivolgere il loro impegno verso la delegittimazione di quei poteri forti che possono avvalersi della protezione e dell'esercizio della violenza legittima, privilegiano lo zelo discriminatorio nei confronti di chi, lottando contro quei poteri, ricorre a strategie diverse. In effetti, troppo spesso in Italia viene chiamata nonviolenza un tipo di cultura politica che si è costruita sul rifiuto della violenza politica dei movimenti sociali sovversivi degli anni 70. Il rigetto della violenza contro il potere, violenza venuta dal basso, ha segnato questa cultura addomesticata sbilanciandola verso un atteggiamento fin troppo compiacente con le istituzioni, titolari di quella violenza legittima esercitata dall'alto. In questo modo s'è radicata l'idea che legalità e la nonviolenza fossero, in fondo, la stessa cosa o comunque ch'esse si trovassero dalla stessa parte dello schieramento. Un malizioso malinteso che ha fatto della nonviolenza e del pacifismo un comportamento subalterno, domesticato, fondamentalmente acquiescente all'ordine costituito.

È questo il grande "malinteso" che egemonizza la nonviolenza italiana e che fa di molti pacifisti dei pacificati o dei pacificatori. Spetta ai militanti più sinceri e autentici di questa corrente risolverlo.

Paolo Persichetti

 

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Lettera di Adriano Sofri a Fausto Bertinotti pubblicata

dall'Unità domenica 2 novembre 2003

 

Caro Fausto Bertinotti,

non ti sembri indiscreta la mia proposta di discutere alla buona che cosa significhi al giorno d'oggi il nome: comunismo. Succede che le parole siano costrette a trascinare una magra esistenza postuma, nell'universale abitudine a credere di sapere che cosa significhino, e a non parlarne più. Vera o no, era un bel caso di umor nero la notizia dell'altro giorno sulla decisione del Cremlino di cambiare la cravatta alla mummia di Lenin. A suo tempo io feci un vasto e sentito uso della parola: comunismo. Tu lo fai ancora, benchè l'idea che il comunismo vada rifondato alluda, accanto a una inclinazione conservatrice, alla constatazione di un affondamento. Oggi la sinistra subisce le sue divisioni, invece di metterle a frutto o tenerle a bada. A volte se ne rallegra, perchè il settarismo ha radici profonde, e perchè la rendita di posizione, grande o piccola, conviene a chi vivacchi contento del suo gruzzolo: magari dicendo di voler cambiare il mondo dalle fondamenta, e tenendo aperto il suo botteghino. Ci vuol altro per fare i conti coi mali del mondo. Altro anche dalla tradizionale devozione -verbale almeno- all'unità eccetera. Ci vuole un'alleanza enorme, poco meno che della specie. I newglobal alludono a volte a questa confederazione universale; e d'altra parte spesso ospitano aggressivi ritorni di faziosità, di settarismo, di narcisismo. Ora fra te e me c'è una influente differenza, perchè io faccio i conti solo con me stesso mentre tu rendi conto a una comunità militante di cui sei responsabile. Ma, dentro questi limiti, possiamo forse discutere costruttivamente. Lo spunto mi è venuto da una tua intervista a Franco Cangini della Nazione, e piuttosto dal titolo -che forse sollecita dolcemente, come succede ai titoli, la tua intenzione: "Bertinotti: 'Lo ammetto, il comunismo ha fallito'." Non intendo legarti a un'intervista, tanto più che non ho un fine polemico. Provo a dire molto elementarmente che cosa penso. C'è un comunismo come aspirazione all'uguaglianza fra gli esseri umani, e all'armonia con la natura -più esattamente, al ripristino di una uguaglianza originaria dalla quale la storia non avrebbe fatto che allontanarci. Questa utopica accezione di comunismo è destinata a non realizzarsi mai e a risorgere sempre, con la potenza di un sogno. Di questo comunismo si può parlare, come già si fece dell'anarchismo, come di una infanzia del movimento che mira a rendere il mondo più giusto. Con l'avvertenza che in passato la maturità di quella infanzia, generosa e ingenua, era additata in un socialismo (o comunismo) come scienza, sul modello delle scienze naturali, pretesa foriera di errori madornali nell'interpretazione del mondo, e di disastri micidiali nella sua trasformazione.

Alla prova del potere, conquistato in Russia e tentato nel resto dell'Europa alla fine della Prima Guerra, il comunismo si caratterizzò come una tecnica della presa del potere (anche quella "scientifica": le fasi della crisi sociale, la trasformazione della guerra fra gli Stati in guerra civile, il dualismo di potere, lo sciopero generale e l'insurrezione ecc.), e come una concezione della transizione di sistema che sacrificava la libertà (dilazionandola) all'uguaglianza. Non credo che si possa ancora dare gran credito all'idea che l'abbandono dell'espansione mondiale della rivoluzione e la ritirata verso il socialismo in un paese solo spieghino la supposta degenerazione del comunismo, come tu sembri ripetere. Comunque, il comunismo al potere, e la sua espansione per via solo raramente rivoluzionaria (soprattutto in Cina) e piuttosto per via statalista e militarista, come nella costellazione di satelliti europeo-centrale e orientale, si è definito, per antitesi al capitalismo, accantonando la questione della libertà civile e personale, e mettendo al centro la conduzione collettivistica. Il comunismo era ormai la proprietà statale dei mezzi di produzione, il primato (morale, per giunta) dell'industria pesante e l'economia pianificata. Già la formula leniniana -di emergenza, certo, nessuno ha ceduto allo spirito dell'emergenza quanto i comunisti al potere- secondo cui il comunismo era il Soviet più l'elettrificazione, mostrava la corda. Che in questa versione non avesse più niente del sogno originario di una società di liberi e uguali, benchè potesse ancora travolgere i cuori di poveri e sfruttati grazie alla potenza di simboli e propaganda, è evidente. Restavano Stalingrado, e Stalin. Anche che il comunismo non avesse più a che fare con la sopravvivenza della denominazione nel Pci, al costo della famosa doppiezza e della protratta dipendenza dall'Urss, è giudizio sul quale ci metteremo facilmente d'accordo, credo. Il nome restava, a buon diritto, come il crocifisso nell'aula di Ofena, in un paese scristianizzato. Quando noi, estremisti della fine degli anni '60 e dei '70, riparlammo di comunismo, lo facemmo in due modi, ambedue di fiato corto. In un caso, riesumando la tradizione minoritaria ed eretica (eretica almeno perchè sconfitta e perseguitata a morte) del movimento operaio, e immaginando una forma di democrazia consiliare un po' libresca, un po' moralista, assai anacronistica. In un altro caso, si scelse il realismo antiutopico della citazione marxiana secondo cui il comunismo "è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente". Suona bene, ma, mutato in slogan, è una metafisica provvidenziale, o, piuttosto, una tautologia. Il movimento reale è il movimento reale come una rosa è una rosa, comunque sia, e non abolisce lo stato delle cose, lo modifica, e resta da vedere come. La predilezione per quello slogan mostrava l'incapacità di definire il comunismo, se non attraverso se stesso. La formula sul "movimento reale che abolisce lo stato di cose presente" è una dichiarazione di rinuncia. Lo storicismo più banale dichiarava razionale la realtà, lo slogan sul movimento reale dichiara razionale la sua abolizione... Dopo l'inaridimento della nuova sinistra, e poi il crollo dell'impero sovietico, il comunismo è rimasto, stalinismi e marxismi-leninismi a parte, come una bandiera di fedeltà morale o sentimentale, nella testata del Manifesto, o nel titolo di partiti come il tuo, o nell'orgoglio di persone che non accettano di cedere a un anticomunismo maramaldo o ignorante. Stimabile sentimento, che però accantonava sia l'eventualità che la fede nel comunismo si traducesse in un'esistenza personale comunista, sia la corrispondenza con una peculiare idea di società. Tu oggi dici che "in realtà, il comunismo non è stato mai messo in pratica": è quello che dicevano quelli come me quando ci riprovarono, sul serio, trentacinque anni fa, più o meno. Ancora un piccolo sforzo -psicologico, essenzialmente- e dirai che "in realtà il comunismo non può essere messo in pratica": il che non gli toglie affatto dignità, anzi.

Se oggi il comunismo è un'aspirazione o una nostalgia o una bandiera di coerenza, ma non un'idea di società nè un processo che vi conduca, la questione vera si sposta sulla struttura logica (e psicologica e morale) di cui l'opposizione fra comunismo e capitalismo era espressione. Il comunismo rivoluzionario era infatti il rovesciamento del capitalismo. A sua volta, per così dire, il capitalismo (e la sua forma politica ideale, la democrazia liberale) ha bisogno del comunismo per esistere come un sistema organico e preferibile. L' esaurimento del comunismo può mettere in mostra la degradazione del capitalismo da "sistema" all'enorme guazzabuglio cui è approdata una storia del genere umano sospinta dal caso, dalla violenza, dall'inerzia e dall'imprevedibilità. Enorme guazzabuglio che la potenza degli interessi parziali e la miopia delle scelte e abitudini culturali hanno condotto alle soglie della rovina universale. Si è riluttanti ad ammettere un paesaggio così disordinato e ignobile, e a rinunciare a un'aspirazione all'antagonismo e all'alterità. A differenza dal comunismo, il capitalismo non è fallito se non nel senso di essersi annullato, diventando tutto. Così, non importa che l'altro mondo possibile, quando non significhi un mondo migliore, o meno peggiore, ma un mondo rifatto dalle fondamenta, quando cioè conservi una tensione alla palingenesi, prenda o no il nome di comunismo: quello che conta è la durata o la reviviscenza di una metafisica antagonista e dicotomica. Nel "movimento dei movimenti" coabitano ambedue le spinte. Tu, che vi hai visto -con sincerità e generosità, del resto: non ho alcuna ragione per dubitarne- la fausta occasione per rigenerare un pensiero e una condotta politica ereditata e asfittica, una trasfusione di sangue, una specie, lasciami dire così, di colpo di fortuna in extremis -o oltre- per uscire dal deserto, ti impegni tuttavia a fomentarne la tensione antagonista. Ma antagonismo a che cosa? Al capitalismo? E dunque continuando a riconoscervi una razionalità (sia pure iniqua) di sistema? E in nome di quale sistema alternativo? Ricavo da quello che dici che la categoria che definisce il mondo cui opporsi dalle fondamenta sia diventato il liberismo. Ma occorre una gran forzatura a mettere sullo stesso piano il liberismo, e a maggior ragione il liberalismo (come fai nell'intervista citata), e il comunismo: nella teoria, e soprattutto nella pratica, dal momento che per regalare al capitalismo contemporaneo una fedeltà coerente e rigorosa al liberismo bisogna essere ben prodighi. E' un'illusione deformante che il liberismo costituisca il nemico sistematico da battere, secondo un'aggiornata dicotomia liberismo-antiliberismo (protezionismo è parola che non si userebbe volentieri). Ma il liberismo è spesso un'ideologia, corvéable à merci. Già oggi si vende male. "La differenza -dici- è che io ammetto la sconfitta del comunismo storico, mentre loro negano quella del liberalismo". Ma con il "comunismo storico" è l'idea di rivoluzione, dell'altro mondo, del mondo nuovo, che è fallita: mentre l'eventualità di un grado maggiore di libertà e di giustizia ha a che fare con la modificazione del guazzabuglio vigente. Vuol dire di volta in volta correre ai ripari, soccorrere, correggere, riformare, anche secondo un disegno di conversione radicale di modi di pensiero e di esistenza materiale. Anzi, senza una simile conversione è spacciato il pianeta, non qualche suo continente, nè qualche sua classe. Ma a condizione di rinunciare alla palingenesi rivoluzionaria, perchè almeno questo è provato, che l'inerzia delle cose accumulate lungo i millenni tiene ostaggi il pianeta e la società in un equilibrio assurdo ma così delicato che a maneggiarlo bruscamente si rischia il disastro. Il giudizio discriminante, oggi, riguarda l'intollerabile iniquità del mondo, e la suicida corsa alla sua distruzione. Bisogna separare la diagnosi e la prognosi radicale dalla terapia duttile, la malattia mortale dalla medicina dolce -una contraddizione in termini, in apparenza almeno. Ma il vincolo fra diagnosi radicale e metodi rivoluzionari destina alla rovina. Fa riuscire l'operazione -ammesso che riesca- e crepare il paziente.

Lasciami proporre un'ultima osservazione sulla ragione profonda del tuo, e non solo tuo, attaccamento alla logica dell'alterità: è un desiderio di assolutezza. Mi rifaccio a una appassionata lettera personale che avesti la gentilezza di scrivermi all'indomani della guerra in Iraq. Mi spiegavi come il passaggio dall'imperialismo all'impero avesse comportato il passaggio dalla solidarietà con le lotte antimperialiste alle pratiche della nonviolenza e della disobbedienza. La coppia guerra-terrorismo, dicevi, "non lascia più alla violenza alcuna possibilità di essere liberatrice". E' vero, ma era già vero. Ci siamo arrivati, per strade diverse, in date diverse, quando ci siamo arrivati. Soprattutto, la Rivelazione deve lasciarci ammettere che non ci sono così limpidamente "loro", quelli della coppia guerra-terrorismo, e "noi", quelli della nonviolenza e della pace. L'antagonismo fra guerra e pace offre una solida frontiera: ma poi bisogna metter fine alle guerre, soccorrere i pericolanti, far rispettare il diritto la libertà e la dignità, avere una polizia, un codice e un tribunale. E non barattare ancora una volta, a tempi scaduti, l'amore per la libertà con il ripudio dell'ingiustizia: che fu il destino dei comunismi storici, con l'effetto di decapitare con un colpo solo libertà e giustizia.

Adriano Sofri

 

 

Risposta di Fausto Bertinotti ad Adriano Sofri pubblicata

dall'Unità domenica 9 novembre 2003

Caro Sofri,

ti sono sinceramente grato per la sollecitazione offerta dalla tua impegnativa lettera. Essa mi induce ad un confronto e ad una riflessione su questioni di fondo e di definizione della politica. Mi indica l'esigenza, con la quale concordo pienamente, di uscire dalla politica politicante che segna tanta parte del nostro tempo, di evitare il pragmatismo o la riduzione dei grandi pensieri nei sentieri solitari dei percorsi individuali.

Chiedere conto del perché un partito si definisce comunista -anche se questa domanda viene avanzata per sostenere la necessità di abbandonare questa definizione - sottolinea comunque la volontà di fare una discussione impegnativa sulla società in cui viviamo. Eludere la domanda significherebbe accettare quell'impoverimento della politica al quale ha così tanto contribuito coloro chi ha abbandonato l'idea della trasformazione sociale accettando la miseria dell'esistente.

Né basta, a mio parere, per rispondere alle tue importanti domande, la sottolineatura che noi non parliamo di comunismo ma di "rifondazione comunista". E la parola "rifondazione" dice della impossibilità stessa di una continuità e della necessità di ricostruire dalle fondamenta. Ma, anche perciò, non basta. Noi che ci definiamo comunisti abbiamo il dovere di dire in che direzione intendiamo muoverci e quale sia il senso della nostra ricerca. Le risposte possono essere incomplete, ma devono essere date. Vale per noi in questo momento della storia il verso di Montale: "Non domandarci la formula che il mondo possa aprirti/ sì qualche storta sillaba e secca come un ramo/ codesto solo oggi possiamo dirti/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo."

Vorrei però fare una premessa. Quel a cui assistiamo in questi anni é un cambiamento del mondo, della sua organizzazione sociale e politica, dei rapporti sociali ed economici talmente forte che nessuna grande cultura del '900 può resistere senza una ridefinizione. Pensiamo alla parola riformismo. Essa ha assunto un significato così vasto, potrei dire multiuso, da potere essere rivendicato da destra e da sinistra e da potere assumere i significati più diversi. Oggi, per fare un esempio, si parla di riforma delle pensioni, sia per dire che vanno tagliate, sia che vanno difese o migliorate. Lo stesso vale per i suoi significati generali.

Eppure il riformismo é stata una idea precisa del movimento operaio del '900. I riformisti per un lungo periodo hanno avuto lo stesso obiettivo dei rivoluzionari, il socialismo, ma pensavano di perseguirlo in altri modi e con una gradualità. Anche quando abbandonano l'idea socialista mantengono l'idea di eguaglianza e sottolineano il riferimento alla classe operaia quale soggetto principale della trasformazione sociale. Ancora Brandt -ricordiamolo- diceva che la socialdemocrazia non é l'officina di riparazione del capitalismo.

Oggi questa idea di riformismo é travolta, cooptata nel pensiero unico, sussunta e fagogitata dalla idea di modernizzazione. E tutto questo é stato possibile anche perché é mancata una ricerca e una elaborazione che qualificasse diversamente il riformismo, lo ridefinisse come progetto politico non omologabile alla modernizzazione.

Ecco, su un diverso ordine di problemi, un compito simile a quello cui avrebbero dovuto assolvere i riformisti tocca a noi, a chi pensa che il termine comunista abbia e possa avere un uso nella politica del nostro tempo.

In questo quadro, la richiesta di fare i conti con il nostro passato, col passato di comunisti, non solo é legittima, ma scaturisce proprio dall'esigenza di ridefinirci comunisti nell'oggi e quindi nasce da un'analisi critica della società contemporanea. Se il comunismo fosse un cane morto, se fosse inscindibilmente legato ad un'epoca storica passata, se fosse figlio dello sviluppo industriale e non del capitalismo, se fosse consegnato nel ciclo fordista, non avremmo motivo di esaminare così spietatamente, lucidamente quello che c'é dietro di noi. O meglio lo faremmo, ma solo per un interesse tutto storico. Se invece nella società che ci circonda rintracciamo, come rintracciamo, problemi e bisogni che hanno a che fare con quelli proposti dalla nascita del comunismo, allora fare i conti con la nostra storia diventa necessario per sapere che cosa é vivo e che cosa é morto, per poter di nuovo porre - se non risolvere - il problema della società futura. L'Angelus novus non é solo una metafora della modernità, ma del proletariato. Esso guarda le macerie e si rivolge al futuro. In quella torsione del corpo sta il suo messaggio e il suo avvenire.

La possibilità che il comunismo sia più di una bandiera o di una nostalgia sta quindi proprio nell'analisi della società in cui viviamo. Nella tua lettera c'é un'affermazione che mi convince pienamente. Tu dici che siamo in una fase dello sviluppo che ci ha condotto "vicino alle soglie della rovina universale". E' vero, siamo proprio di fronte ad una crisi di civiltà. Basterebbe avere a mente la terribile tenaglia nella quale oggi il pianeta é stretto per saperlo. La guerra preventiva è entrata nel nostro tempo e lo sconvolge fino a plasmarlo. E' una guerra infinita e indefinita che l'impero promuove e alimenta per ricostituirsi quando è manifesta la sua incapacità di governare il mondo col consenso. E' la guerra della globalizzazione della crisi. La guerra favorisce l'estensione del terrorismo che porta alla guerra che a sua volta genera nuovo terrorismo. Siamo di fronte ad una crisi che ha caratteristiche terribili e devastanti per l'umanità. Da cosa é generata questa crisi? A mio parere proprio dalla natura di questa modernizzazione. Essa non si é rivelata, come qualcuno ha voluto credere, come l'avvento del regno della libertà dopo la caduta del muro, né il luogo della crescita e del progresso. Questa globalizzazione ha provocato un fatto inedito nella storia dell'umanità. La separazione dell'innovazione dal progresso sociale e civile , della tecnologia dal miglioramento delle condizioni di vita, della scienza dalle possibilità di avanzamento per l'umanità e per la natura.

Tu chiami tutto questo "guazzabuglio" e alludi a qualcosa di confuso, di irrazionale nel quale il capitalismo ha estinto se stesso, ad un caos che domina le nostre esistenze e ci avvicina alla rovina del pianeta. Ma questo é il punto. E' davvero così? Possiamo parlare davvero di caos o in tutto questo c'é una ratio, una necessità indotta dai rapporti sociali? Insomma c'é un ordine che produce questa crisi di civiltà? C'è una logica in questa follia? A mio parere sì e basta guardare ai passaggi di questa ultima fase della nostra storia per rendersene conto.

Quando finisce il ciclo fordista e keinesiano e crolla l'intero sistema dei paesi dell'est si sviluppa un mutamento di fondo che possiamo definire una rivoluzione capitalistica restauratrice. In essa il dominio della scienza e della tecnica é assoluto. A questo tutti sono sottoposti in una catena e in una consequenzialità che arriva alla manipolazione del gene. In nome di questo dominio avanza e si afferma l'idea di poter abbattere ogni barriera culturale, nazionale, religiosa e di fare del lavoro la variabile dipendente dell'intero sistema. In questa modernizzazione la nozione di sfruttamento si dilata oltre i confini del 900, alle persone e alla natura. Sfruttamento allargato, che coinvolge soggetti sociali, individui, ambiente, che va al di là di ogni limite mai immaginato. Esso si raggiunge prima attuando una vera e propria operazione egemonica, poi imponendo l'ordine della guerra. Prima promettendo progresso, benessere, nuova libertà, cioè un mondo finalmente migliore per tutti dopo la caduta del muro e il dispiegarsi dell'innovazione. Poi, di fronte all'impossibilità di raggiungere questi obiettivi, c'è una rapida e violenta conversione: la guerra come unico modo per imporre a tutto il pianeta una modernizzazione violenta, squilibrante, distruttiva ma , nell'apparenza che prendono i processi dominanti, senza alternativa.

Lo sviluppo non si realizza, i progetti saltano per aria da molti punti, compreso uno imprevedibile. Una gran parte delle popolazioni del pianeta rifiuta di essere inclusa nell'ordine globale, non accetta i modelli che si vuole imporre, rifiuta la nuova civilizzazione.

E' evidente allora che sotto quel caos o quel guazzabuglio, dietro quel disordine c'è in realtà un ordine. E' l'ordine dell'impresa e del mercato. Non siamo, come tu dici, fuori dal capitalismo che ha ammazzato se stesso, ma al contrario di fronte ad un nuovo paradigma capitalistico. Non siamo di fronte alla scomparsa, ma ad una iperestensione del capitalismo. Non siamo di fronte ad una evaporazione del potere politico che governa questi processi, ma alla costruzione di un nuovo ordine mondiale. Non siamo di fronte ad una nuova scienza. La mucca pazza non é il frutto del caos, ma di uno sfruttamento che arriva alla natura, la modifica e la può distruggere. Esso é così assolutizzato che persino alcune certezze del movimento operaio vengono messe in discussione, in alcuni casi spazzate via come quella del progresso legato allo sviluppo delle forze produttive.

Quello che tu chiami caos insomma, é il prodotto di una instabilità e precarietà determinata dalla contraddizione che questo stesso sviluppo produce e che non é in grado di governare appunto se non attraverso il disordine e la guerra, con le conseguenze di crisi di civiltà che abbiamo sotto gli occhi.

In questo quadro il liberismo non é la categoria astratta che ci consente una alterità, che - come tu dici - ci da la realtà a cui opporci di opporci. Esso é, come la guerra, la cultura politica e la politica sottesa alla natura profonda di questa globalizzazione capitalistica, cioè quella più funzionale ad essa, incurante delle tesi che l'hanno inspirata.

A questo quadro già in sè drammatico aggiungo un elemento. Di fronte a questo caos o a questa crisi di civiltà, la catastrofe é fra le cose possibili. E' possibile cioè che l'umanità non sia in grado di opporsi a questo processo che porterebbe ad un esito catastrofico. E non vedo, non immagino alcuna possibilità catartica, alcuna possibilità cioè di una soluzione salvifica e liberatrice, che nasca meccanicamente da un possibile crollo di civiltà. Sarebbe, al contrario, l'avverarsi dell'altra profezia di Marx, quella secondo la quale la mancata costruzione di un'altra società darebbe luogo alla rovina di entrambe le classi in lotta. Semmai si potrebbe pensare che è proprio nel nostro tempo , il tempo della globalizzazione, che cova l'alternativa tra il socialismo e la barbarie.

E qui che nasce per noi la questione del comunismo o del comunismo oggi. Il problema é grande, così grande che tu stesso lo riassumi in un interrogativo di civiltà che ti fa chiamare in causa il movimento newglobal, la sua aspirazione all'alterità e al nuovo mondo possibile. Chiediamoci: perché il movimento new global é così cresciuto? Perché ha intuito quel che anche tu pensi, cioè che deve formarsi una nuova alleanza, l'alleanza della specie. Solo che per il movimento questa per potersi affermare non può essere indistinta , ma deve fondarsi sulla critica e sulla contestazione di massa a questo modello sociale e di sviluppo. Deve cioè opporsi a questa modernizzazione capitalistica, deve costruire l'antagonismo a quello che tu vedi come un guazzabuglio e che per me, come per il movimento, é la globalizzazione. Questo movimento ha un progetto. Questo movimento ha già in atto una contesa con questa modernizzazione capitalistica, di questa contesa esso vive.

E' vero esso non parte dalla contestazione del modo di produzione capitalistico per arrivare a vederne le contraddizioni che genera sulla società e sulla natura. Il movimento fa un processo inverso. Parte da queste contraddizioni ma arriva a disvelarne le cause di fondo. Il progetto di nuovo comunismo può rinascere da qui. E può discutere a partire da qui quel che può accettare e ciò che deve rifiutare del 900. E la politica, la politica di chi vuole il cambiamento, non può che cominciare da qui. Dalla individuazione della assolutizzazione del profitto come causa principale della devastazione. Dalla necessità di una trascendimento della società capitalistica al fine di evitare la barbarie.

Per noi parlare di comunismo significa parlare di idee, culture, processi e soggetti assai diversi da quelli che hanno caratterizzato il 900. In questo secolo grande e terribile l'idea di comunismo è stata legata ad una sorta di ineluttabilità, ad una attesa messianica. Su questa attesa e su queste certezze si è fondata la strategia, si è puntato alla conquista del potere e alla costruzione delle società postrivoluzionarie attraverso l'assolutizzazione dello stato. Il proletariato si "è fatto" partito organizzando il potere. Il comunismo reale è stato tutto ciò, ma il movimento operaio è stato anche molto altro.

Oggi noi parliamo di processo aperto e indefinito. Un processo nel quale vediamo i problemi irrisolti, ma non pretendiamo di dare una risposta ora, non pretendiamo di costruire organicamente e scientificamente una strategia per sempre e inequivocabilmente vincente. Parliamo di processualità, non di una ineluttabilità. Siamo consapevoli del fatto che non è detto che ciò proponiamo diventi "storia". Ci serve un ritorno a Marx, al Marx più radicale nella critica alla politica e nell'idea di cambiamento e di liberazione della persona. E affidiamo la risposta ai processi, se ci si intende, alla lotta di classe, più che alle definizioni. Eccetto che su un punto, sul quale invece sentiamo di dover cominciare a rispondere da subito, quello del soggetto rivoluzionario. Il 900 ha visto nel proletariato il centro dell'ingresso delle masse nella politica. Oggi occorre un ridefinizione. Nel movimento c'è un annuncio di questa soggettività, ma é appunto un annuncio, soltanto l'indicazione di una pista di ricerca. Il profilo del nuovo proletariato non ci viene semplicemente dalla sua collocazione sociologica nel processo produttivo, che pure vede una radicale mutazione nella composizione e nel modo di essere del mondo del lavoro, ma nella costruzione dell'antagonismo, all'interno di un processo che tende a formare una nuova soggettività critica e una nuova critica dell'economia.

E il movimento dei movimenti assume pienamente la processualità della costruzione. Esso da più importanza alla critica all'esistente rispetto alla definizione del modello finale. E' anche questo un fatto nuovo. Questo atteggiamento consente la liberazione da quel compromesso che nel 900 il movimento operaio aveva pattuito con lo sviluppo, con la scienza e con la tecnica. Consente una radicalità più libera anche se più a rischio perché meno indirizzata. Consente, infine, di oltrepassare davvero senza remore, senza nostalgie e senza finzioni il 9OO dicendo ciò che in esso é vivo e ciò che é morto e quali problemi irrisolti ci consegna.

Il secolo appena passato é stato sul versante della trasformazione della società capitalistica essenzialmente tre cose: il socialismo reale, i movimenti di massa e le teorie e la cultura del movimento operaio. Il primo é morto. Le altre due, se pure duramente provate dalla sconfitta non solo sono vive ma, oggi, sono interrogate dal movimento dei movimenti. So bene che esse sono vissute sovente interconnesse nella risultante della storia delle masse. E so pure che i tragici errori, e persino i crimini, accumulati nella nostra storia non sono da esse facilmente espungibili senza determinare vuoti drammatici nell'immaginazione di un futuro liberato e senza che si ponga al comunismo un gigantesco problema irrisolto, quello della transizione. I movimenti di massa e la cultura del movimento operaio non sono però un abbaglio e tanto meno un errore della storia che si può cancellare con facilità. Ma la rinnovata critica all'economia capitalista della globalizzazione e alla sua organizzazione sociale e politica per prospettare il loro trascendimento chiede l'incontro del movimento con l'uscita da sinistra dal 900. Ed ecco, caro Sofri che siamo arrivati al punto: l'eguaglianza e l'aspirazione ad essa mai dismessa da milioni di donne e di uomini. Questo alla fine è il nodo da affrontare. Questo é il problema che la politica deve risolvere se non si vuole rivelare servile al potere costituito e -quel che é peggio- ad una organizzazione della società che si propone come eterna e eternamente in grado di organizzare lo sfruttamento e l'alienazione mentre può scavare la fossa all'intera umanità. Non saprei come chiamare questo compito se non comunismo. Spero di essere riuscito a dirti perché, secondo me, esso non risponda solo ad un dover essere e non rappresenti solo un utopia, ma possa costituire il fondamento di un lavoro politico. Grazie

 

Fausto Bertinotti

 

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da Carta, 13/11/2003

Lettera aperta di Marco Revelli a Fausto Bertinotti

C aro Fausto,

devo dirti che, pur condividendo integralmente il contenuto della tua intervista, mi è dispiaciuto - e mi ha provocato una certa amarezza - il modo con cui mi hai tirato in ballo su Repubblica di domenica 2 novembre. Da te mi sarei aspettato che almeno andassi a leggere il testo completo delle mie dichiarazioni su l'Avvenire anziché fermarti alle due righe citate da D'Avanzo [sempre su Repubblica], prima di fare i riferimenti "postali" che hai fatto. Avresti potuto constatare che lì dicevo esattamente le cose che pensi tu:

1] Che questo movimento è del tutto estraneo alle logiche e alle complicità con la lotta armata. Che non ha senso parlare come fanno i media di un qualche rapporto, sia pur minimo, tra Br e "no global", per ragioni anagrafiche, culturali, esistenziali prima ancora che politiche ["Frequento le assemblee dei no-global, conosco il loro linguaggio: non ho mai sentito non dico un elogio, ma neanche una giustificazione delle strategie terroristiche": cito da quell'intervista letteralmente, e per maggior chiarezza te ne mando in allegato anche una copia]; e - a proposito di Segio - aggiungevo di non aver alcun elemento per "avallarne" le ipotesi di infiltrazione o fiancheggiamento occulto [occorrerebbe avere un apparato di intelligence per ciò, e nessuno di noi semplici cittadini ne è in grado]. Dunque, nessun errore di indirizzo, per usare la tua espressione.

2] Aggiungevo però anche di essere d'accordo con Segio quando dice "che è mancata una seria riflessione nel movimento e nella sinistra", sul tema della violenza e più in generale su una concezione della politica come "espressione della forza". E, per non essere frainteso, precisavo di non credere che questo "ritardo" fosse dovuto a pelose ragioni di "omertà". Dunque, se non sbaglio, esattamente ciò che tu metti al centro della tua intervista su "Repubblica". O no?

3] Introducevo poi una terza cosa, e cioè che se una critica può essere mossa al movimento [nome che non mi piace perché non dà conto della sua natura d'arcipelago, articolata ed eterogenea, ma che ormai i media usano, identificandolo con Disobbedienti, Cobas, Rifondazione, un po' di Cgil e di correntone Ds, ecc.], questa è di non aver posto al centro della propria attenzione l'opzione per la non violenza. Di non aver fatto - per riprendere il titolo della mia intervista incriminata sull'Avvenire - "una scelta netta per la non-violenza come strumento politico".

Qui, ti assicuro, l'indirizzo era preciso, e la volontà di far giungere il messaggio più che meditata. Perché credo [e in questo mi sembri del tutto consonante anche tu] che sia finito il tempo delle mediazioni o delle reticenze su questo tema. Che sia il momento di ridiscutere a fondo il rapporto tra mezzi e fini. Che non ci si possa più accontentare della convergenza sui fini, che tutti bene o male condividiamo, e su cui il dibattito si fa stucchevole; ma sia venuto piuttosto il momento di affrontare la questione dei mezzi, del tipo di strumenti e di pratiche con cui perseguire quei fini.

Non possiamo più accontentarci della vecchia idea del movimento operaio novecentesco che i mezzi siano, per così dire, "neutrali". Che si giudichino solo in base alla loro efficacia. Che siano tanto più accettabili anzi doverosi quanto più avvicinano il momento del successo [della vittoria, della presa del potere, del danno massimo inferto all'avversario]. Pensare così significa assumere fino in fondo la logica della Tecnica, su cui il capitalismo è vincente. È il modo con cui quella logica si impadronisce anche dei suoi avversari, e li piega alle proprie ragioni. Credo che si debba dire, oggi, chiaramente, che quel nuovo mondo che noi riteniamo possibile può essere costruito solo con mezzi che non ne neghino le ragioni di fondo, la natura stessa: con mezzi, cioè, che non solo combattano la violenza altrui, ma che la escludano dal nostro orizzonte. Con mezzi, appunto, non-violenti.

Credo anche che sia venuto il momento di dire con tutta la chiarezza di cui siamo capaci che oggi - e sottolineo oggi , non ieri, non nel "secolo breve", non nel 1943 o nel 1935 -; oggi, nell'epoca dello "spazio imperiale", delle "guerre umanitarie", delle invasioni e dei bombardamenti motivati con la diffusione della democrazia e della "libertà"; oggi, nel mondo globale in cui siamo precipitati, la forma più estrema dell'antagonismo, quella davvero irriducibile e non mediabile, è l'azione "non-violenta". Perché è l'unica non assimilabile all'agire dell'avversario. Quella che marca anche nei comportamenti quotidiani, nei minimi gesti, la diversità dai Bush, dai Blair, dai Berlusconi, dai bin Laden, dai Saddam Hussein, e via mostrizzando... E porta incisa nel proprio essere la diversità del progetto che persegue.

la parabola delle avanguardie

Quella, d'altra parte, che non si piega a compromessi [pur praticando l'arte della mediazione], che non ne deve accettare, anzi che non ne può accettare senza trasformarsi in altro da sé. E quindi che reca in sé una cifra di intransigenza che è stata di tutte le avanguardie rivoluzionarie al loro nascere ma che in tutte si è purtroppo spenta nel corso dell'azione, man mano che essa paradossalmente trionfava, fino a rovesciarsi nel proprio contrario al momento [rari momenti] del trionfo, proprio in conseguenza della retroazione dei mezzi "di potenza" impiegati in dosi sempre maggiori.

Oggi possiamo davvero presentarci [innanzitutto davanti a noi stessi] come radicalmente "altri" rispetto a quelli che stanno condannando a morte l'umanità e il pianeta, e che per questo combattiamo, solo se incarniamo un tipo di agire radicalmente e qualitativamente "altro" rispetto a loro. Incominciando, appunto, dai mezzi che usiamo. Oggi, ne sono convinto, si può essere tanto più radicali nel progetto e nell'agire, quanto più si è indiscutibilmente e strategicamente "non violenti" nelle pratiche e negli strumenti utilizzati.

Occorre uno scatto in più

Ecco perché credo che non sia sufficiente la condanna della violenza [in genere di quella degli altri, siano essi i nemici esterni, i Bush, Sharon, Blair, ecc., o quelli "interni", br, lottarmatisti, black bloc, ecc., sugli uni più esplicita, sugli altri magari un po' più reticente ma in genere più o meno ritualmente recitata]. Che occorra uno scatto in più, in positivo, verso l'assunzione strategica e discriminante della non-violenza.

Ho trovato tracce di questi segnali nella tua riflessione più recente. Ma non dirmi che questo è un patrimonio acquisito nel cosiddetto movimento. Nemmeno nelle componenti a noi più vicine. Nemmeno, vorrei dire, in noi stessi, nelle nostre identità personali ancora divise tra i due secoli in cui ci è toccato di vivere [mi è molto piaciuto il tuo riferimento alla Battaglia di Algeri]. È un passaggio che va costruito, con fatica, forse anche con dolore. Mettendo in conto strappi, lacerazioni, cadute.

E qui forse tra noi due c'è quella differenza che già nella nostra conversazione su "Oltre il Novecento" per Carta era emersa, di ruoli, di responsabilità: tu, "politico" - weberianamente incatenato all'"etica dei risultati", costretto a pensare agli effetti che le tue parole produrranno nella realtà qui e ora, nelle tue file stesse, nelle alleanze, nelle prossime settimane, nelle prossime scadenze politiche di movimento e di organizzazione. Io "free lance" del tutto libero da ciò, padrone di sproloquiare tenendo come orizzonte il futuro anteriore e ignorando la durezza vischiosa del presente, saltando le tappe tattiche, leggendo magari le notizie - come diceva un matto in un dibattito torinese - "sul Corriere della Sera di dopodomani", avendo già archiviato come obsoleti   quello di oggi e di domani.

Forse per questo io avverto più di quanto non mi pare faccia tu, l'urgenza di fare chiarezza, ad ogni costo, anche a costo di essere fraintesi, a costo di rompere equilibri e di strappare. Credo che bisogna andare giù duri oggi, e tagliare ogni possibile equivoco alla radice sulla questione della "non violenza senza se e senza ma", perché il tempo è spaventosamente stretto, e si deve fare in fretta, e siamo disperatamente lontani da un livello anche solo accettabile di dibattito.

Quando leggo certe interviste, quando sento le cose dette anche in questi giorni, rozze, assurde, disumane, questa logica parossistica dell'"amico-nemico" portata fino alla struttura del linguaggio; questa autoreferenzialità torpida e assoluta, di piccoli capi che parlano solo per i propri accoliti, nel chiuso delle proprie file e dei propri santuari blindati, senza neppure sapere quali linguaggi "altri" usino quelli che sono fuori, e sono tanti, e sarebbero con noi se solo offrissimo un'immagine meno ottusa e terrifica, quando leggo questo mi cascano le braccia.

Tu fai bene a usare l'esempio della donna incinta per misurare la legittimazione di una piazza. Perfetto. Ma ci sono anche piazze verbali, luoghi del confronto pubblico, appunto agorà. Hai visto anche tu Repubblica nei giorni precedenti alla tua intervista: chi può stare nella stessa piazza ad ascoltare senza scappare ululando? Dobbiamo crescere in fretta, se vogliamo fare qualcosa di serio per questo mondo sempre più "impossibile".

E forse davvero questo ci può aiutare a ridurre le nostre distanze "funzionali".

Può darsi davvero che la velocità del tempo storico che ci trascina, finisca nonostante tutto per avvicinare i nostri due ruoli e le nostre diverse "temporalità". Per costringerci a misurarci con le stesse cose, dal momento che "dopodomani" è già ieri, e il pericolo che la logica della guerra riempia del tutto lo spazio imperiale è qui, nella quotidianità, come è qui la morte del pianeta, il tempo che impazzisce insieme ai governanti del mondo, i poli che si sciolgono [quello artico e quello antartico, non i nostri miseri moncherini di vita politica] come neve al sole, l'aria che manca e l'acqua che costerà come petrolio.

L'arcipelago dei movimenti

L'arcipelago dei movimenti è l'unico, fragile ma esteso ben oltre i confini delle nostre acciaccate culture politiche, punto d'appoggio su cui immaginare di sollevarci da questa caduta. È un bene troppo prezioso per lasciarlo in balia della chiacchiera televisiva e dei giochi feroci della politique politicienne .

Mi piacerebbe ragionare pacatamente con te su questo inedito "che fare?". Ti ho appena spedito un libro dal titolo pessimistico - "La politica perduta" -, in realtà più ottimista di quanto possa sembrare, perché suggerisce una linea di ricostruzione dell'idea di politica oltre il naufragio di quella che chiamo la "politica dei moderni", il paradigma che da Hobbes a Lenin ha dominato il percorso della modernità. Vogliamo usarlo come "occasione" per ricominciare a "cercare insieme" comunicando? Ne sarei felice.

Per intanto un affettuoso saluto con l'amicizia   di sempre

Marco Revelli

 

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Risposta di Fausto Bertinotti a Marco Revelli pubblicata sul n. 43 di Carta del 27 novembre 2003

Caro Marco,

è vero, spesso i tempi della politica e l'esposizione mediatica vincono sulle buone ragioni. Ma non c'è fretta, né consuetudine al commento quotidiano a ciò che appare dai quotidiani che possa giustificare un mancato approfondimento: commentare una tua frase stralciata dal suo contesto è una superficialità di cui mi scuso.

Ma possiamo utilizzare positivamente questo episodio e vederne il lato positivo. Esso ci consente di proseguire un dialogo e di verificare una profonda consonanza.

C'è un punto che ci unisce ed è un punto centrale del ragionamento di entrambi: in questo tempo e in questo spazio la non violenza è la condizione essenziale per portare alla luce e far vivere la radicalità di una critica alla società contemporanea.

La critica che oggi possiamo fare a questo capitalismo in questa parte del mondo può prendere corpo e forma, può far nascere nuove relazioni sociali, può diventare critica al potere, può esprimersi in forme di autogoverno solo all'interno di una idea non violenta del mondo e dei rapporti umani.

Il motivo lo abbiamo ben presente entrambi. C'è una nuova organizzazione bipolare del monopolio della violenza in cui guerra e il terrorismo si alimentano reciprocamente. E non c'è alcuno spazio fra i due se non è uno spazio realmente e completamente alternativo, se non esprime il rifiuto radicale di entrambi nei fini e nei mezzi.

E' vero, c'è stato un tempo nella nostra storia i cui i mezzi potevano essere autonomi dai fini. E' vero che questa autonomia ha portato a terribili e catastrofiche conseguenze, ma quei mezzi allora - in un altro tempo - hanno prodotto un cambiamento, hanno modificato il sistema di potere, hanno fatto pensare che il mondo poteva cambiare. Oggi quegli stessi mezzi sono del tutto inefficaci e non hanno alcuna possibilità. Non riescono a produrre neppure nell'immaginario un'alternativa di società. Essi riconducono inevitabilmente ad uno dei due poli della spirale che può distruggere il mondo.

Se questa tenaglia non viene spezzata le conseguenze saranno ancora più drammatiche. Potremmo nei prossimi mesi addirittura assistere ad una cancellazione della politica intesa come possibilità di intervenire sul mondo e di trasformarlo. Se ci sarà, come appare possibile, una guerra di religione, la politica sarà del tutto oscurata da un durissimo conflitto di civiltà. Unici protagonisti di questa contesa saranno appunto la guerra e il terrorismo, che si autoelegeranno a punti di riferimento di intere aree del mondo e che arbitrariamente si proporranno come rappresentanti dei popoli di questo conflitto di civiltà.

Oggi anche in Italia viviamo una grande difficoltà. La pietas per i morti di Nassiriya, il dolore e la tragedia che tutti sentiamo sta diventando la legittimazione di una scelta per la guerra, la impossibilità per le forze politiche e per gran parte della popolazione di metterla in discussione.

L'attentato alla sinagoga di Istanbul che è venuto qualche giorno dopo è apparso come un moltiplicatore drammatico, un segnale ancora più inquietante sia per chi è stato colpito - gli ebrei, la sinagoga - sia perché ha messo in luce che le potenze distruttrici sono effettivamente due, che il terrorismo ha una potenza devastatrice né secondaria né sottovalutabile.

Io credo, noi crediamo, che non si possa rispondere ad una violenza devastante espressione di un progetto imperiale, con un'altra violenza che accomuna nella dimensione del nemico le forze che producono l'oppressione e l'insieme della società in cui queste forze agiscono. Si tratta di due progetti di violenza e di oppressione che, in concorso fra di loro, portano alla guerra di civiltà , allo scacco della politica e persino alla distruzione dell'umanità.

Ci si sottrae a questo meccanismo solo con la non violenza, solo dicendo no a questo conflitto di civiltà. Solo se siamo convinti che la non violenza è l'unico modo per costruire davvero l'alternativa di società.

Una grande lezione in questo senso ci è venuta dal movimento femminista, dal suo rifiuto della violenza del patriarcato, dalla negazione della divisione fra mezzi e fini della politica. E oggi una grande insegnamento ci viene dal movimento dei movimenti che segna una discontinuità con le culture prevalenti nel movimento operaio e opera una rottura a mio parere di grande importanza.

Credo che non ti sfugga, caro Marco, quanto sia importante ai fini della costruzione di una cultura e di una pratica politica non violenta l'assenza in questo movimento del problema della conquista del potere. Questa assenza estirpa alla radice una modalità di comportamento di tanta parte del 900. Così come credo ti sia chiara la connotazione tutta autenticamente pacifista della risposta del movimento alla terribile violenza di Genova. Tutto questo oggi ci consente di aprire una discussione importante, che però parte già da una reale diversità con il passato.

In poche e semplici parole credo che non si debbano confondere le posizioni di alcune realtà organizzate e di alcune leadership che pure hanno indubbiamente contribuito con l'introduzione e valorizzazione delle differenze alla crescita del movimento con il movimento stesso. Nelle prime - hai ragione - ci sono delle resistenze a questo confronto e quindi è giusto dire che va aperto un dibattito di fondo. Ma il movimento ha già fatto la sua scelta, l'ha fatta nei comportamenti di massa, nella sua prassi.

C'è un ultimo punto che mi preme chiarire in questo nostro dialogo. La scelta non violenta non è solo parte di una cultura politica. Essa deriva da una analisi dell'attuale contesa che divide il mondo. Sia nella guerra preventiva dell'amministrazione Bush sia nel terrorismo si può scorgere un disegno politico regressivo, si può intravedere un modello di società distruttivo delle persone e della libertà. Sia Bush, sia i terroristi sono pericolosi non solo perché violenti, ma perché portatori di una idea di società che confligge con le istanze di cambiamento, con la prospettiva di un altro possibile mondo.

Per questo penso che la non violenza che opponiamo a questa violenza debba avere una valenza ed una forma politica. Possiamo pensare per il futuro ad un neutralismo attivo nei confronti di entrambi? Possiamo continuare su questo punto un dialogo fra noi e con altri?

Fausto Bertinotti

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LA GUERRA E' ORRORE

Venezia, sabato 13 dicembre 2003

Aula Magna IUAV - Architettura

 

Conclusioni di Fausto Bertinotti

 

Non è certo difficile comprendere e sottolineare il valore di

un'iniziativa di Rifondazione comunista sulle Foibe. E non mi

meraviglierò se essa susciterà discussioni e contrasti. Per

noi la ricerca storica è obbligatoria ed è, in qualche modo,

indistinguibile dalla battaglia politica quotidiana e dalle

nostre passioni politiche. E' inutile, infatti, nascondere il fatto

che in una ricerca storica condotta da militanti e da un

partito, entra in discussione tutto quello che ci anima, il

nostro spirito migliore. E dobbiamo lealmente riconoscerlo.

Questa ricerca è dunque collocata dentro un processo

politico e di costruzione di una cultura politica. Un processo

che Rifondazione ha iniziato da tempo e che riguarda il suo

modo d'essere, la sua identità e la sua collocazione sulla

scena politica. In poche parole la ricerca storica che noi

vogliamo fare, anche parlando delle Foibe, non è neutrale o

innocente. E quindi, naturalmente e giustamente, essa

deborderà sull'attualità politica, sugli atti che faremo, su chi

siamo e chi vogliamo essere.

Senza attutire i dissensi, dunque, è per me comunque

importante che venga declinato e condiviso il punto di

partenza della nostra ricerca. E' del tutto evidente che c'è,

ed è forte, un contrasto con i nostri avversari, con la cultura

politica che essi esprimono, e con le forze che li

organizzano. Sarò su questo punto molto chiaro. Noi ci

fondiamo sulla negazione di ogni legittimazione del

fascismo, sull'analisi critica della sua storia e anche di ciò

che di esso continua, sotto traccia, a corrompere il tessuto

sociale e culturale del paese.

IL NOSTRO ANTIFASCISMO

Questo è un asse fondamentale della nostra fondazione. Noi

siamo e rimaniamo radicalmente antifascisti. Di quella

esperienza e di quella storia rifiutiamo la connotazione di

fondo per come si è manifestata in tempi solo relativamente

lontani e come si manifesta, magari in forme diverse, più

ambigue, oggi. E' questo -lo ripeto- un elemento necessario

alla nostra fondazione. Riteniamo che l'antifascismo vada

vissuto, attivato e proclamato.

Chiarito e proclamato questo punto dobbiamo fare i conti

con noi stessi e farci una domanda. Come si fa ad estirpare

il fascismo e i fascismi dalla storia dell'umanità? E' questo il

quesito a cui rispondere per fare davvero i conti con noi

stessi.

Il nostro antifascismo non è un omaggio alla storia -

anch'esso importante sia chiaro - , non è il ricordo annuale

del 25 aprile. E' molto di più. E' la convinzione della attualità

dell'antifascismo. E' la convinzione che esso sia l'unica

religione civile del paese, l'unica capace di costruire una

convivenza civile. Esso è il quadro necessario in cui

esercitare il contrasto ed il conflitto fra chi accetta lo stato di

cose esistenti e chi vuole cambiare la società. L'antifascismo

è un elemento fondamentale della civiltà di un popolo. "L'ora

e sempre resistenza" di Calamandrei non è un urlo o una

testimonianza. Essa manifesta pienamente la cultura di un

popolo. Una cultura avversa alla colonizzazione da parte

delle maggioranze e ad una propensione alla esportazione

delle civiltà che va sorvegliata e messa sotto controllo

altrimenti rischia di dominare e di dominarti.

E' questo uno dei motivi per cui, nel percorrere la storia del

nostro Paese, non possiamo che militare dalla parte della

critica ad ogni forma di patriottismo e ad una ogni forma di

violenza, ammantata di patriottismo, che conduce alla

guerra. Una critica, questa, che possiamo manifestare in

maniera sommessa e composta anche rispetto a quegli

elementi estetizzanti di patriottismo che si vedono dalle

nostre parti, quand'anche indotte dallo stesso Presidente

della Repubblica.

Teniamoci lontani, insomma, teniamoci lontani attraverso

una forma di rifiuto, da ogni elemento di nazionalismo

ovunque praticato.

L'INGANNO DEL REVISIONISMO STORICO

E' questo bagaglio culturale che ci consente di rifiutare

attivamente quel fenomeno assai rilevante, che ha preso il

nome di "revisionismo storico". Quel fenomeno che riguarda

l'Italia, molti partiti e molti intellettuali, ma che riguarda

anche l'Europa e che può essere riassunto in questo modo.

C'è anche del bene nel fascismo e c'è un pò di male nella

resistenza. I due fatti storici si equivalgono o quasi. E una

sorta di buonsensismo ammantato di presunta neutralità e di

molte citazioni mette insieme fascismo e resistenza per

negarli entrambi in nome di una posizione terza non meglio

specificata. In realtà quel revisionismo non è innocente. E' il

tentativo di demolire appunto la possibilità di fare

dell'antifascismo la costante religione civile di questo Paese.

E' il tentativo di tirare una riga nella storia del Paese al di là

della quale c'è la cancellazione di ogni ideologia, di ogni

pensiero forte e la riduzione della politica a variante interna

del dominio del mercato dell'impresa. In poche parole il

revisionismo priva la politica della possibilità di progettare

una società diversa.

GLI AVVERSARI DI OGGI

Antifascismo, come religione civile e rifiuto dell'inganno del

revisionismo storico. Qui siamo collocati e da qui partiamo.

Ma questa collocazione, insisto, che è fondamentale nella

lotta politica culturale nel Paese, non ci aiuta a dire come ne

diventiamo protagonisti nel futuro. Non ci aiuta a questo

neppure la denuncia pure necessaria dei crimini del

fascismo. Ci sono molti fra di noi che su una questione così

scottante e così drammatica come quella delle Foibe si

azzuffano su una questione di numeri. Badate che ogni

elemento di comparazione che facciamo con il fascismo e

con le sue violenze non ci rende più forti. Ci immeschinisce

e riduce la forza dirompente e alternativa dell'antifascismo.

Se la differenza tra noi e il fascismo è solo di grado; se ci

limitiamo, a dire: loro ne hanno uccisi mille e noi solo cento,

la differenza fra noi diventa irrilevante. Noi siamo antifascisti

perché siamo fondamentalmente diversi. Lo siamo nella

visione del mondo, della società, delle donne e degli uomini.

Non è una questione di grado o di numeri.

La denuncia dei crimini del fascismo può diventare un

elemento fuorviante, se non addirittura negativo, se

attraverso di essa si tende ad evitare di fare i conti con la

nostra storia e ci mette sostanzialmente sullo stesso piano.

Il lavoro sulla memoria e sulla storia è fondamentale. Il

problema delle radici è vitale per immaginare il futuro per

tutti. Per una comunità, per un popolo, per una formazione

politica, per una cultura. Ma lo studio delle radici, l'uso della

memoria, oltre che della storia, non può ridursi a rassicurare

la tua identità e la tua esistenza. La storia non è una cuccia

calda dentro cui sei al riparo dalle intemperie del tuo tempo.

Anche perché gli avversari cambiano. Cambiano anche

quando resta il mondo dominato da una formazione

economico sociale capitalistica. Non è vero che ogni

stagione ti mette di fronte agli stessi avversari e agli

stessi problemi. Anzi. Per questo non esistono

rassicurazioni nella storia.

Oggi, battere il fascismo -parlo del fascismo come lo

abbiamo conosciuto alcuni decenni fa, non parlo delle

politiche fascistizzanti, o degli elementi fascistoidi che

persistono- battere quel fascismo è fin troppo facile. E'

capace perfino Fini. E' chiaro il punto? Il nostro avversario di

oggi non è il fascismo, cosa che appunto ci indurrebbe a

gridare ancora una volta quelle colpe che i loro stessi eredi

non sono in grado di contestare. I nostri avversari oggi, in

questa fase della storia, sono la guerra e il terrorismo. Il

mondo in cui viviamo, il mondo capitalistico in cui viviamo,

che è il risultato di una rivoluzione capitalistica restauratrice,

che chiamiamo globalizzazione, non è più in grado di

governare il consenso. Da qui prende corpo una vera e

propria crisi di civiltà che può risolversi in catastrofe. E,

quando affermo questo, ci tengo anche a precisare che non

è detto che la catastrofe possa risolversi automaticamente in

comunismo.

Questa coppia guerra-terrorismo che sequestra

monopolisticamente la violenza, questa realtà, ci mette di

fronte ad un problema assolutamente inedito. Noi non

possiamo pensare di battere questa violenza monopolizzata

con la guerra. La violenza, in ogni sua variante, quale che

sia il giudizio morale, risulta inefficace perché viene

riassorbita dalla guerra o viene riassorbita dal terrorismo

mettendo fuorigioco la politica. Questa coppia costringe a

ripensare la nostra storia per trovare le forze e i modi per

batterla. È una lotta di civiltà, è una lotta nella quale lo

stesso importante problema della trasformazione prende

corpo in modo inedito. Oggi, di fronte alla possibilità di una

catastrofe dell'umanità, siamo obbligati ad indagare sulla

violenza, sul suo ruolo nella storia, sul suo ruolo oggi o nel

futuro dell'umanità.

LA RESISTENZA ALLA VIOLENZA

E da dove partiamo? E' stato affermato che "con Auschwitz

Dio è morto". Un modo di dire non solo per i credenti, che

non è più immaginabile una violenza come quella. Poi c'è

stata Hiroshima, la violenza di chi ha vinto contro il nazismo.

Un passaggio drammatico, terribile. La violenza per battere

la morte produce altra morte. Era legittima Hiroshima?

Potremmo rispondere di sì perché meno distruttiva di

Auschwitz e del nazismo. Perché il nazismo è

intrinsecamente distruzione, sistematica oppressione e

violenza generalizzata. Auschwitz è la sua cattedrale e la

realtà. E' il genocidio.

Hiroshima no. Questa differenza c'è e conta. Hiroshima non

aveva come fine l'annientamento. Era un modo terribile e

violento di opporsi ad esso. Ma non basta fermarsi a questo.

Andiamo avanti. Che cosa determina nei vincitori

Hiroshima? Come agisce nelle culture di fondo? Cosa

produce? E ancora, noi -nel senso di movimento operaioche

non siamo né Auschwitz né Hiroshima, in quel contesto

siamo stati angeli ? Noi, intesi come soggetti della storia,

siamo stati contaminati da quella violenza? E oggi l'esigenza

del balzo per combattere un mondo organizzato sulla guerra

e sul terrorismo, non ci chiede di estirpare anche la violenza

che è entrata in noi e dalla quale siamo stati contaminati da

parte di un avversario dominante nella storia del mondo?

Credo abbia ragione un grande intellettuale come Walter

Benjamin quando dice: rapportiamoci col passato con il

balzo di tigre, torniamo indietro per scattare di nuovo in

avanti verso il futuro. E allora, nelle tracce di resistenza alla

violenza in nome della liberazione noi dobbiamo attingere

per compiere questo salto.

Su questo, è vero, dobbiamo pensare e ragionare di più.

Dobbiamo ragionare e ricercare di più su quello che è già

stato fatto nella nostra storia per liberarci dalla violenza

perché, la mia impressione è che spesso questo tipo di

analisi è stata ignorata preferendo altri filoni di ricerca.

C'è una faccia meno nota della resistenza, di quella

resistenza di cui sono cantate le gesta eroiche, vittoriose e

combattenti. Un lato che è rimasto in ombra, che è quello

delle relazioni quotidiane, del tentativo di sottrarsi ad una

violenza che pareva insormontabile. Questa dimensione

c'era, anche se mi guarderei bene dal dire che era

prevaricante rispetto a quella del conflitto, di un conflitto

drammatico e tragico. Ma pensiamo a Cesare Pavese, ai

passaggi nei suoi libri che riguardano il momento della

resistenza, il suo orrore per la morte e per il sangue. C'era

un ritrarsi, un senso di inadeguatezza, un timore. Pure era

un partigiano. Pensiamo ad un uomo cui siamo stati molto

legati, a Luigi Pintor e al suo libro Servabo. Quando è sul

punto di prendere le armi contro i fascisti, lo fa, ma nel

compiere quel gesto ne sente l'orrore. Ecco vorrei che qui ci

fermassimo a riflettere. Non sto dicendo che in quel

momento, in quei momenti così terribili, non si doveva

premere il grilletto. Sto dicendo un'altra cosa. Sto dicendo

che non dobbiamo mettere sullo stesso piano quello che è e

che si sente come dovere di fronte alla storia e il tuo essere

umano, la tua umanità, politica e culturale. Che una distanza

critica va presa, con coraggio. Che la tua umanità va

salvaguardata. Quasi per anticipare, in quell'atto di

resistenza, una liberazione che nel momento di premere il

grilletto è impossibile, ma domani può avverarsi.

Pensiamo ancora alla Repubblica d'Ossola. Sono di quelle

parti quindi ho sentito tante volte i partigiani raccontare le

loro storie quando sono entrato nella Camera del Lavoro e

avevo 22 o 23 anni a Novara. Ricordo i capi della Camera

del Lavoro, erano carichi di storia, mi sembravano vecchi e

avevano quarant'anni, ma sembravano venire da un altro

mondo. C'era anche chi si chiamava ancora "comandante" e

raccontava molte di quelle storie della resistenza. Lui le

raccontava, ma c'era chi preferiva il silenzio, chi preferiva

non parlarne più. Ricordo uno splendido comandante

partigiano Gino Vermicelli. Lui non raccontava quasi non

volesse essere riattraversato dalla violenza a cui era stato

costretto, quasi temesse che parlare di quella guerra che

aveva fatto e per cui era diventato famoso lo riportasse a

quel clima, a quella violenza.

Ma insieme a quelli che non raccontavano c'era chi amava

parlarne, che raccontava magari con piglio guerriero quanti

ne aveva sterminati fisicamente e come. Dico questo per

arrivare ad una conclusione evidente. Anche i partigiani,

come tutti, hanno sensibilità diverse, umanità diverse. Esse

sono racchiuse in una storia collettiva naturalmente. Ma in

questa storia collettiva possiamo trovare molti momenti,

molte indicazioni di una distanza dalla violenza, di un

pensiero che la respingeva, di un sentimento di pudore

rispetto a gesti considerati eroici, di un tentativo di costruire

altro da quello che si era stati costretti a compiere. Mi colpiva

il fatto che Vigorelli, diventato Ministro di giustizia, poche

settimane dopo che i fascisti gli avevano ucciso il figlio, si

era battuto sistematicamente perché non ci fosse alcuna

condanna a morte. Noi, noi allora giovani, eravamo

affascinati da entrambi gli atteggiamenti, da quelli

guerreschi, eroici, di chi raccontava ancora con orgoglio

quelle gesta e da quelli più silenziosi esplicitamente o

implicitamente critici non nei confronti di quei gesti, ma di

quella violenza che continuava a vivere in una cornice

guerresca. Ma in realtà sul lato non militare di quella

resistenza non si è indagato abbastanza. Abbiamo preferito

fare un'operazione di "angelizzazione" della nostra parte.

Sfidati dalla brutalità del fascismo e dalla sua violenza,

abbiamo preferito pensare che un'alternativa umana ad

esso fosse già compiuta dopo esserci liberati da quel

terribile evento. Questa retorica e questa angelizzazione

non ci hanno aiutato ad indagare nella nostra storia per

ricavarne risultati per il futuro. Hanno invece fatto sì che da

un lato disperdessimo le lezioni più straordinarie che dentro

quel percorso potevano annunciare il futuro, e, dall'altro, che

negassimo le violenze della nostra storia e della nostra

parte.

LE FOIBE

Parliamo delle Foibe, dell'oggetto di questo convegno. Noi

oggi facciamo una cosa impegnativa. Mettiamo insieme

conoscenze diverse, storie diverse e naturalmente non ci

possiamo sottrarre ad un'analisi del caso. Sapendo bene

che dai conti con questa storia deriva un risultato politico,

una conseguenza per noi, per quello che vogliamo essere.

Partiamo dal fatto. Mi pare che su di esso non esistano

grandi differenze. Le Foibe sono state un fenomeno

drammatico che ha investito la Venezia Giulia nella

transizione tra guerra e dopo guerra e che ha una specificità

insieme politica e etnica. In esse si cumula un groviglio, un

concentrato di violenza che parla un linguaggio più

generale. Mi pare che non ci siano dubbi sul carattere

paradigmatico di quella tragedia e di quella violenza.

Quando parliamo delle Foibe i numeri non servono a nulla. I

numeri sono muti, non servono a capire fino in fondo la

natura del fenomeno. Perché da tanti anni proprio sui numeri

c'è una violenta diatriba? E' evidente. Se si fa una

manipolazione verso l'alto e si parla di 350.000 vittime delle

Foibe si accredita la tesi che si è di fronte ad un genocidio,

un genocidio nazionale. Al contrario la manipolazione verso

il basso tende a configurare l'idea che in quelle fosse

c'erano solo fascisti colpevoli che con metodi, sia pure

discutibili, hanno avuto la loro punizione storica.

Io penso che in una ricostruzione storica avvertita, si

configuri un fenomeno che non è riportabile né al genocidio

né alla giusta punizione di qualche rigurgito fascista. Noi

siamo stati di fronte ad un fenomeno di violenza concentrata

che colpisce soprattutto le aree di Trieste e di Gorizia nel 43

e nel 45, e che in entrambi i casi si manifesta nel crollo di

una struttura di potere, di oppressione nel tentativo di

sostituire a questo sistema oppressivo che crolla un nuovo

ordine. Il trapasso cruento di potere tra regimi contrapposti

dà luogo ad una violenza che va indagata per quello che è

e che, secondo me, è il frutto di alcune componenti.

La prima su cui insistono molto le tesi giustificazioniste parla

di una sorta di furore popolare, una specie di riscatto da una

lunga storia di violenze, un'imitazione delle violenze subite.

Non è la prima volta che questo accade nella storia. Vorrei

ricordare che nella prefazione ad uno dei più straordinari libri

scritti contro il colonialismo, il libro di Franz Fanon "I dannati

della terra", uno dei più grandi intellettuali europei, secondo

me del dopo guerra, Jean Paul Sartre avanza una tesi da cui

io, all'epoca, ho sentito tutto il grande fascino e che oggi vivo

come aberrante. La tesi in altre parole secondo cui il colono

non può esistere, non può ricostruire la sua identità se non

con la uccisione del colonizzatore. E si parla proprio

dell'uccisione, dell'omicidio per costruire su quello

l'esistenza dell'oppresso. Nel caso delle Foibe siamo vicini a

questa tesi. Chi ha subito l'onta, l'onta di quella distruzione,

la rovescia contro l'avversario storico. Ma, francamente,

accanto a questo furore popolare io non riesco a non vedere

anche una volontà politica organizzata, legata ad una storica

idea di conquista del potere, di costruzione dello Stato

attraverso l'annientamento dei nemici.

Non si tratta di un'idea perseguita in parti isolate del mondo.

Faccio notare che gran parte della storia delle costruzioni

statuali del movimento operaio nel 900 è passata attraverso

l'idea della distruzione fisica del nemico.

Se questa interpretazione ha un qualche fondamento io

penso che noi dobbiamo avere il coraggio non solo, come

stiamo facendo, di dire la verità, ma -e su questo punto

insisto- di non trovare alcun elemento di giustificazione

nell'orrore che gli oppressori avevano realizzato

precedentemente per giustificare l'orrore che vi fu dopo.

Lo dico e lo chiedo non in nome di una tensione verso la

verità, ma in nome di qualcosa di ugualmente se non più

importante: una diversa idea della politica e della lotta di

liberazione.

DUE ORRORI: GUERRA E TERRORISMO

Questo nostro incontro è titolato: "La guerra è orrore". Vorrei

che ci pensassimo. L'orrore per la guerra contiene un

elemento importantissimo per la riforma della nostra cultura

politica, perché ci aiuta a capire il passato e il presente. Io

non credo, e sono in disaccordo con chi tra noi invece lo

pensa, che si possa pensare che il terrorismo è giustificato

dalla guerra.

Io non penso che in un mondo che si tenta di governare

attraverso la guerra preventiva, e cioè una guerra infinita e

indefinita, il terrorismo acquisti una sua legittimità. Sono

totalmente avverso a questa idea. Il terrorismo è

espressione di una strategia che si contrappone, in questo

caso, alla guerra o a chi occupa un paese in nome della

guerra, attraverso le manifestazioni di ciò che viene definito

terrore. Organizza il conflitto e la distruzione su obiettivi

sociali e civili del paese. Questo è il terrorismo. Una

soggettività politica precisa, non una derivazione, non la

conseguenza spontanea e pulita alla guerra. C'è chi fa la

guerra e dall'altra parte si costituisce una potenza

simmetrica con un progetto politico proprio che possiamo

leggere anche su internet. Questo progetto politico recluta

delle forze, organizza delle resistenze, stabilisce una

strategia di lotta e la attua.

Entrambi questi soggetti politici, il governo imperiale e il

governo terrorista, non sono, secondo me, solo repellenti

perché uccidono, producono morte e distruzione, sono

repellenti perché disegnano e prefigurano una società nella

quale noi non vorremmo vivere. Questo è il punto.

Oggi i mezzi sono inscindibili dai fini, sono due facce della

stessa medaglia. Chi ragiona così non è un patriota. Ebbene

non me ne importa niente. Non è, non sono un patriota.

Voglio cambiare il mondo, che è altra cosa dalla guerra, ma

anche dal terrorismo. E non ho nulla da spartire con

entrambi perché penso che non ne condivido né il metodo

né il fine, anzi, addirittura penso che il terrorismo e la guerra

comandano un processo con il quale si tende ad escludere

le masse dalla politica. Essi chiedono la cancellazione della

politica come progetto, come soggettività organizzata, come

partecipazione delle classi, delle masse, dei popoli, delle

persone. Non voglio avere nulla a che fare con entrambi

perché gli uni, dentro la Casa Bianca, e gli altri, dentro non

so quale luogo, pretendono di decidere le sorti dell'umanità

e dei popoli dal loro luogo di comando. Non è vero che il

terrorismo parla in nome di popoli oppressi. Mai è esistito un

luogo della strategia così separato dai paesi, dai popoli e

dalle masse come questo. Esso è un avversario storico non

solo nostro, ma dell'umanità. La guerra e il terrorismo, sono

due soggetti politici, non è vero che il secondo è un derivato

della prima. Come si contrastano? Con la pace. Con un

popolo della pace.

Allora, se è così, e per me è così, non posso non

riesaminare anche la mia storia, la mia grande ma anche

terribile storia. Bertold Brecht dice tante cose, ma mi

soffermo su due. Dice: "Beati i popoli che non hanno

bisogno di eroi". E poi: "Noi che abbiamo voluto il mondo

della gentilezza non abbiamo potuto essere gentili". Quindi

abbiamo preferito essere eroi. Capisco entrambi le frasi di

Brecht ma quale noi dobbiamo privilegiare oggi, qui e ora?

"Non abbiamo potuto essere gentili" o "beati i popoli che non

hanno bisogno di eroi"? Io penso che per ragioni che

riguardano la città futura, noi non possiamo che scegliere la

seconda: "beati i popoli che non hanno bisogno di eroi" e

comportarci di conseguenza.

QUEL CHE NON HA FUNZIONATO

Se è così allora bisogna vedere anche che cosa non ha

funzionato in noi, perché poi ci ritroviamo con questa guerra

e con questo terrorismo. Io credo, che nel 900 noi abbiamo

perso. Ha perso la nostra gente, la nostra storia, la nostra

cultura politica. Nel 900, il secolo in cui si è realizzata il più

grande tentativo di scalata al cielo e di ascesa delle masse

nella politica, e il tentativo del proletariato di superare la

società capitalistica, cioè la società dello sfruttamento e

dell'alienazione, noi abbiamo perso. La partita nel 900 si è

conclusa con una sconfitta. E' solo colpa dell'avversario?

Guardate che se diciamo così andiamo a casa, chiudiamo la

porta e buttiamo la chiave. Se l'avversario è indefinitamente

più forte di noi è inutile continuare a parlare. Se invece la

storia si fa anche con i "se" allora si può cercare di capire

dove abbiamo accumulato degli errori che hanno contribuito

alla sconfitta.

La proposta che facciamo non è una nostra invenzione.

Mentre la globalizzazione pareva vincere, il pensiero unico

aveva il dominio totale del mondo e noi eravamo una

minoranza sparuta di resistenti, è nato un movimento di

critica alla globalizzazione che ha attraversato il mondo da

Seattle, a Genova, a Firenze e che è diventato il movimento

della pace. La storia è ricominciata, ed è ricominciata così.

Si è trovata una forma di contestazione di massa,

tendenzialmente non violenta al dominio della

globalizzazione capitalista e alla guerra.

Ma allora in quel 900 nella nostra storia c'era anche

qualcosa che non funzionava? Siamo così sicuri che era

proprio necessario massacrarli quelli di Kronstad? Siamo

così sicuri che per salvare il nuovo stato post rivoluzionario

andavano massacrati? E siamo così sicuri che per difendere

la rivoluzione bisognava costruire degli stati autoritari?

Siamo sicuri che lo stalinismo fosse proprio la risposta

necessaria a quella fase? E che il mantenimento delle tracce

dello stalinismo che si sono da lì irradiate non siano state un

elemento, invece, di corrompimento drammatico

dell'alternativa possibile e necessaria del comunismo al

capitalismo? E siamo così convinti che il gulag o non

esistevano oppure erano solo un modo per tenere a freno gli

egoismi di popolazioni che non capivano il comunismo?

Oppure invece era una modalità attraverso la quale una idea

nata per liberare si rovesciava nel suo contrario in un regime

oppressivo?

Quando parliamo di gulag parliamo di 20 milioni di persone

sterminate, di cui la metà comunisti. Vorrei che qualche

brivido ci attraversasse.

Ma al di là dei numeri terribili quello che è successo, quello

dolente, molto sofferto, in cui diceva: "Questo mio popolo è

proprio spogliato di tutto. Non può muoversi, non può

lavorare, non può costruire. Dipende dallo Stato israeliano,

se gli viene aperto il passaggio, se gli viene aperta l'acqua,

se gli viene aperto il lavoro. Ma adesso c'è una cosa ancora

più terribile. La barbarie dell'oppressione dei coloni,

dell'esercito israeliano, ha imbarbarito anche una parte della

mia reazione, della reazione della mia gente. Quella

tensione barbarica entra anche in qualche misura dentro di

me".

Questo punto di osservazione non è un atto di nobiltà. E'

una lucida analisi politica. Senza estirpare da noi questo

elemento di penetrazione dell'avversario, del suo linguaggio,

della sua logica, della sua cultura non vinciamo e rischiamo

di assomigliargli troppo. Troppo. E in questo caso, qualora

anche vincessimo saremmo in realtà in larga misura figli di

quella storia che è il contrario di una storia di liberazione e

di emancipazione.

E poi c'è un elemento che riguarda noi, che riguarda la

nostra storia, l'idea cioè che le Foibe ci possono capitare

addosso non solo per imbarbarimento indotto

dall'avversario, ma perché nessuna cultura forte è immune

dalla propensione fondamentalista. Tanto più pensiamo di

avere un'idea del mondo, tanto più è radicata l'idea di

alternativa, di diversità, di un altro mondo possibile, tanto più

è alto il rischio che si possa accedere alla scorciatoia

fondamentalistica di imporre con ogni mezzo questo esito.

E' in questo modo che chi pensa di dover esportare una

civiltà fa la guerra.

Vorrei poter dire anche ai compagni più avversi a questa

linea di ricerca, che come vedete non è vero che noi

vogliamo disfarci del passato, ma vogliamo scegliere un lato

del nostro passato contro un altro ed esaltarlo al punto da

farlo diventare una pratica sociale, politica e culturale.

Nessuno di noi propone di ricominciare da capo. Noi

proponiamo, sulla base dell'analisi secondo cui il capitalismo

sterminio significa che qualche cosa non ha funzionato o

no? Oppure si è trattato di una perversione orientale,

cadendo la quale tutto può tornare al posto giusto? O non

dobbiamo pensare invece che c'è un rapporto tra Kronstadt,

il gulag e qualche cosa che ha a che fare anche con le

nostre storie e magari con le Foibe? Non parlo di un rapporto

meccanico, ma di una cultura che consentiva l'idea di un

esercizio del potere e una idea dell'avversario come nemico

da fronteggiare, appunto, in termini prevalentemente

militari?

So che alcuni fanno una similitudine fra i campi di sterminio

e i gulag, fra nazismo e comunismo. Non funziona. Il

nazismo è un sistema costruito per l'oppressione, che nasce

e vive sull'oppressione e si esaurisce nell'oppressione di

classe, di Stato, di etnia, sistematicamente e

organicamente. Auschwitz è il suo paradigma. Il gulag non è

il paradigma del comunismo, il gulag è la manifestazione

estrema di una contraddizione che il comunismo si è portata

nella pancia e che è determinata da una idea del potere e da

una idea della violenza. Su questa idea del potere e su

questa idea della violenza noi dobbiamo fare una revisione

coraggiosa.

E' questo, io credo, il passaggio che noi siamo chiamati a

fare, non per essere meno comunisti, ma semplicemente

per cercare di essere comunisti.

RIFIUTIAMO LA BARBARIE DEL NEMICO

Ora se guardiamo a ciò di cui stiamo discutendo possiamo

affermare due cose. La prima riguarda il condizionamento

esterno del nostro avversario, quanto la natura del nostro

avversario incide su di noi. Tema oggi attualissimo. A me ha

fatto molta impressione l'articolo di un dirigente palestinese

che stimo molto, Ali Rashid, che in un momento

particolarmente drammatico in cui Hamas aveva compiuto

uno dei molti attentati terroristici ha scritto un articolo

oggi, porta la guerra come il temporale porta la pioggia, di

sottrarci non solo alla guerra, ma alla cultura della guerra,

alla cultura del potere che è connessa a quella della guerra.

E' un potere gerarchizzato, onnipotente quello a cui viene

delegata la sorte della partita. Noi pensiamo che la partita la

debbano giocare le moltitudini, le masse e le classi, non lo

stato maggiore. Questo è il punto chiave. Se c'è uno stato

maggiore c'è un regime possibile di guerra.

Allora, quelle che appaiono culture deboli e soggetti deboli,

noi dovremo saperlo per nostra storia, sono i portatori del

futuro. Perché la classe operaia è il soggetto del

cambiamento se non perché esprime la realtà dello

sfruttamento e dell'alienazione? E non riposa su di essa la

possibilità, attraverso la rivolta e la rivoluzione, della

liberazione? Ma se è così non c'è già, nell'antropologia

marxiana il rovesciamento del forte con il debole, perciò noi

siamo forti se siamo deboli, noi siamo egemonici se siamo in

grado di valorizzare le diversità? Ma perché la periferia

diventi il centro bisogna che la radicalità sia iscritta in una

pratica di non violenza. Il massimo di radicalità oggi si può

esprimere solo con la non violenza, altrimenti retrocede

immediatamente a braccio armato e si inserisce nella

dialettica guerra-terrorismo. Diventa la fine della politica. Se

oggi facessimo quella scelta, se fosse in qualche modo

compresa nelle nostre possibilità, sarebbe la devastazione

nostra, del campo e della politica.

Ieri era una tragedia e per questo possiamo ragionarci al fine

di poterla estirpare dalla nostra storia valorizzando invece gli

altri elementi che sono descritti nella storia partigiana, della

resistenza, della costruzione delle comunità e poi, via via,

della grande ascesa delle lotte di massa, della nascita del

femminismo.

Se oggi dovessimo accettare la violenza essa

ammazzerebbe soprattutto noi. Per questo, io credo, noi

dobbiamo liberarcene facendo i conti interamente con la

nostra storia.

Fausto Bertinotti

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da La Repubblica del 27-12-'03

Condanna dei gulag, non violenza assoluta: la lunga marcia del segretario di Rifondazione

Dal proletariato ai no global la Bad Godesberg di Bertinotti

In articoli e convegni l´allontanamento dal solco della tradizione comunista

Il segretario nega ogni volontà di abiura, ma recide i legami con l´ideologia

La "scoperta" delle foibe: "Anche da parte dei giusti, soppressione di umanità"

di GOFFREDO DE MARCHIS

 

ROMA - Anche abbandonare una storia, rimanere comunisti di nome ed esserlo sempre meno di fatto, è una lunga marcia. E lenta, e problematica, a volte noiosa nello sforzo di essere una cosa seria, non una "svolta" da annunciare in tv e basta. Fausto Bertinotti scrive, risponde, puntualizza, corregge spostando sempre un po´ più in alto l´asticella, magari solo di qualche centimetro alla volta ma a lui sembra l´unico modo per saltarla davvero. Niente abiure, nel frattempo continuiamo a dirci comunisti, avverte. Si può? Lui dice di sì, declinando in maniera nuova il concetto, la storia, contagiandola con la realtà. È una Bad Godesberg allungata, una corsa a tappe, non uno sprint, che si arricchisce ogni giorno di ragionamenti, lettere, interviste, convegni, di tante "svolte". È il "confronto delle idee" nel solco dell´unica parte della tradizione comunista, quella intellettuale, che il segretario di Prc ha deciso di salvare. Ovviamente il comunismo è stato qualcosa di più del confronto delle idee. È stato culto, ideologia, "religione", si è fatto tragicamente Stato per milioni di uomini. E qui il segretario di Rifondazione non ha dubbi: la statua deve lentamente ma inesorabilmente venire giù.

In questi ultimi due anni, Rifondazione ha scattato alcune nuove fotografie della storia comunista condannando il massacro di Kronstadt e i gulag, "15-20 milioni di persone sterminate". Cancellando dal suo Statuto i richiami allo stato leninista e agli insegnamenti di Gramsci. Rileggendo la Resistenza "per lavorare sui nostri errori". Scoprendo le foibe e ammettendo che sono state per tanto tempo "minimizzate". Impegnandosi quindi a sciogliere il legame con il ?900 e scegliendo l´adesione a una logica totalmente non-violenta della politica. Non caso Bertinotti ha "ripudiato" gli episodi più cruenti della storia comunista. L´approdo è quello del pacifismo assoluto, è il suo indirizzo offerto ai movimenti, alla piazza, ai no global.

Durante il cammino, la domanda è sempre stata la stessa: bene, allora siete pronti a cambiare nome, ad abbandonare la "ragione sociale" comunista? Anche la risposta di Bertinotti è rimasta uguale: "Noi siamo comunisti". Ma con mille punti interrogativi, critici, problematici. Non quelli del secolo scorso. Oggi il comunismo di Bertinotti è un "processo aperto e indefinito", come ha scritto in una lunga lettera di risposta a Adriano Sofri sull´Unità. Una definizione di per sé rivoluzionaria visto che il comunismo non aveva niente di indefinito, era regola, disciplina, autoritarismo. Basta rileggere, 64 anni dopo, Buio a mezzogiorno di Koestler. Se è così, se il comunista di oggi dev´essere tanto diverso da quello di ieri per stare nel mondo del terzo millennio, Sofri chiede al segretario di Prc se sia giusto usare la falce e martello solo come bandiera o nostalgia. Bertinotti parla di nuovi obbiettivi, di un cambio di soggetto politico dal proletariato al "movimento dei movimenti". Ma alla fine allarga le braccia: "Non saprei come chiamare questo compito se non comunismo".

Eppure sempre di più di comunista Bertinotti lascia che nella vicenda di Prc rimanga soltanto il nome. Viene reciso il cordone ombelicale con l´ideologia, con il "grande cambiamento promesso" nel nome del quale il comunismo ha perpetrato i suoi "orrori". Nell´intervista a Repubblica sul dibattito aperto da Sergio Segio a proposito delle possibili infiltrazioni Br nel movimento, Bertinotti ha usato le forbici della memoria: "Non mi appartiene più il Brecht che diceva: Vogliamo un mondo gentile ma per averlo non possiamo essere gentili". Oggi la scelta non può essere altra che respingere ogni atto di violenza". Dopo quelle parole ha aperto un confronto con Marco Revelli e Paolo Mieli sui rapporti tra comunismo e violenza politica. E ha rialzato l´asticella organizzando a metà dicembre a Venezia un convegno sulle foibe, "minimizzate", esempio di come anche "dalla parte dei giusti c´è stata oppressione e soppressione di umanità", l´occasione per "estirpare la violenza entrata in noi". Quell´appuntamento ha celebrato anche rivisitazione di alcuni passaggi che il comunismo italiano aveva trasformato in bandiere indelebili. "C´è stata un´angelizzazione della Resistenza. Sarà pure un problema se Pavese scrive del suo orrore per il sangue e Pintor ci racconta del ribrezzo per le armi", ha detto a Venezia il leader di Prc. E lì ha unito gulag, lotta di liberazione italiana, il massacro di migliaia di italiani per mano dei partigiani fedeli a Tito, per condannarli, per "non giustificarli". Lo ha fatto nel nome dell´anticomunismo? No, lo ha fatto perché è "comunista davvero".

Il travaglio personale e collettivo è accompagnato da una prudente ed elaborata "operazione politica", il lento avvicinarsi ai movimenti, soggetto politico che "non ha niente a che vedere con la storia del ?900", diffidente verso i partiti, verso il Palazzo, verso il passato compreso quello comunista che fu più partito di tutti fino a trasformarsi in partito-stato. Nel collegamento con la piazza l´iconografia comunista appare dunque un peso e quello spazio lasciato libero dall´uscita di scena di Sergio Cofferati candidato a Bologna va guidato con parole d´ordine chiare (la non violenza) ma con il massimo di apertura e indefinitezza. La prossima tappa è dietro l´angolo: il 10 e l´11 a Berlino Rifondazione, i comunisti francesi, gli spagnoli di Izquierda unida e il Pds tedesco firmano un protocollo d´intesa per le elezioni europee. Si presenteranno con i loro simboli ma sotto l´insegna di "partiti della sinistra alternativa". Dopo il crollo della statua, vacilla anche la targa, il richiamo al comunismo.

la Repubblica

27 dicembre 2003

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da Liberazione 28-12-'03

 

non-violenza

Ricordiamoci di Turati e Jaurés

Caro Curzi, noto che va per la maggiore nel nostro partito una nuova ideologia, l'ideologia della nonviolenza, secondo cui d'ora in poi in ogni circostanza storica che si presenterà ed in ogni luogo della Terra si deve rifiutare l'uso della forza e della violenza, e addirittura si devono bandire dal lessico politico termini come battaglia, guerra di posizione, tattica, strategia schieramento, lotta etc. etc., un vero e proprio pacifismo assoluto. Mi auguro che il nostro partito abbia ancora una coscienza comunista sufficientemente salda da saper rigettare questa visione schematica ed antistorica. Dobbiamo forse ricordare che il riformista Turati, nell'Inno dei Lavoratori, scriveva "guerra al regno della guerra" e che J. Jaurés (anche lui socialista) diceva che il capitalismo porta con sé la guerra come le nuvole portano con sé la tempesta? Naturalmente, qui ed ora (oggi come oggi, in Italia ed in Europa), il terreno di lotta è quello democratico e non violento, ma ad es. in Iraq è diverso e dobbiamo sempre essere preparati al peggio (se dovesse tornare il fascismo...).

Pablo Genova Pavia

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da Liberazione 30-12-'03

 

Quell'articolo di "Repubblica"

su comunismo e rifondazione

Caro direttore, sono rimasto sconcertato dall'articolo apparso su "La Repubblica" di sabato 27 dicembre ("Dal proletariato ai no global, la Bad Godesberg di Bertinotti") e ancor più sconcertato dal fatto che "Liberazione", il giorno dopo (28 dicembre). abbia ripubblicato lo stesso articolo senza un filo di commento. Goffredo De Marchis, l'autore dell'articolo, è abile nel far emergere la sua verità: e cioè che il Prc avrebbe intrapreso una sua "lunga marcia" per fuoriuscire dal comunismo ("Sempre di più di comunista Bertinotti lascia che nella vicenda di Prc rimanga soltanto il nome"). Sono affermazioni pesantissime, secondo le quali i militanti e gli elettori del Prc non si troverebbero di fronte ad un cambiamento di linea politica, ma di fronte ad un avanzato processo di cancellazione della natura politica e teorica del loro partito, e cioè di fronte ad un nuovo tentativo di superamento, in Italia, del Partito comunista. A questa "elaborazione" de "La Repubblica" (che già svolse un ruolo centrale nella cancellazione del Pci) occorreva rispondere, denunciando la strumentalizzazione che sale ancora una volta dalle pagine di una testata anticomunista. Quando si ripropone un articolo così pesante di un'altra testata, senza decodificarlo e criticarlo, si rischia di inviare ai propri lettori un messaggio oggettivo, che è, tradizionalmente, questo: "è un articolo importante, che vi proponiamo per farvi riflettere". Poiché sono convinto che non è questo il messaggio che "Liberazione" voleva inviare, sono anche convinto che sia stato fatto solo un errore nel pubblicarlo così nudo e crudo. Un errore che però va corretto, rispondendo chiaramente a De Marchis e, per la verità, anche a tutti i compagni e le compagne sconcertati e inquietati.

Fosco Giannini

 

Caro Sandro, devo dirti che fa un certo effetto rileggere il giorno dopo sulle colonne del giornale del partito l'articolo di Repubblica su "la lunga marcia del segretario di Rifondazione", dove viene attribuito a Fausto Bertinotti l'impegno defatigante e anche un po' noioso di "rimanere comunista di nome e di esserlo sempre meno di fatto". L'approdo di un comunismo del terzo millennio che sfuma in un processo aperto e indefinito, segnato dal lento avvicinamento ai movimenti, e verso il pacifismo assoluto... Immagino che i commenti e forse la replica dell'interessato verranno i prossimi giorni. Non credo che si tratti di una questione personale di Fausto, ma della descrizione deformata e tradotta nel politichese imperante, di una questione che riguarda tutto il partito e le sue scelte congressuali e post congressuali. Nella sostanza si tratta né più né meno della rifondazione per cui è sorto il nostro partito, con l'apporto fin dall'inizio di forze politiche e intellettuali che non avevano aspettato la caduta del muro per esprimere una critica profonda e radicale del socialismo reale. E non mi riferisco solo a chi si richiamava esplicitamente alle tradizioni eretiche del comunismo novecentesco, ma anche alle esperienze di provenienza sessantottina, alle culture maturate nel crogiuolo che è stata la sinistra sindacale negli anni sessanta e settanta, all'elaborazione innovativa di settori della sinistra comunista e socialista italiana, da Lelio Basso ad Aldo Natoli, da Pietro Ingrao al "manifesto", al dissenso di matrice cristiana. Anzi c'è da meravigliarsi, in un certo senso, che sotto l'urgenza delle esigenze di una politica di resistenza, un progetto di ripensamento radicale dell'eredità novecentesca e di progettazione innovativa di un nuovo pensiero comunista abbia tardato a decollare e a uscire dall'ambito di elaborazioni puramente intellettuali. Certamente è stato il movimento dei movimenti che ha creato le condizioni e fatto emergere la necessità di un ripensamento complessivo non più rinviabile. Ed è certamente merito di Rifondazione oggi, del suo ultimo congresso, e del suo segretario, di aver posto questo ripensamento come un atto politico concreto da perseguire non solo in Italia, ma a livello internazionale, almeno nell'orizzonte di una sinistra alternativa europea di cui si avverte drammaticamente la necessità e la mancanza...

Domenico Jervolino

 

A noi l'articolo di De Marchis è parso interessante: non un testo "veritiero" o "condivisibile", ma appunto un documento giornalistico sul Prc e le sue scelte attuali, che valeva la pena di far conoscere anche ai nostri lettori. Com'era ovvio, "La Repubblica" ha fornito la sua interpretazione di parte, nella quale non si distingue tra "abiura" (magari con annesso cambiamento di nome) e "rifondazione" di nuova cultura comunista - forse neppure si capisce la differenza. Dovevamo corredare l'articolo di una presa di distanza? Specificare che non si trattava, da parte nostra, di una "assunzione" acritica? Ma il testo conteneva alcune affermazioni di Fausto Bertinotti che non davano adito ad alcun dubbio sulla qualità, il senso e la portata del percorso che il Prc ha intrapreso, del resto da molti anni. Anche per questo abbiamo evitato un'operazione che sarebbe suonata pesantemente pedagogica, e ci siamo fidati delle autonome capacità critiche dei nostri compagni e dei nostri lettori. Cogliamo l'occasione per ribadire che "Liberazione" spesso pubblica (o ripubblica) testi di un certo interesse politico, analitico o giornalistico, che sono da noi condivisi solo parzialmente: non solo in omaggio a principi liberali e pluralisti, ma al dato di fatto che il mondo (compreso quello di sinistra) "è molto più grande di quanto non ne contenga la nostra filosofia".

(a. c. e r. g.)

 

da Liberazione 31-12-'03

 

comunismo

 

Perché dovremmo ripudiarlo?

Caro direttore, l'articolo di De Marchis su "Repubblica" risulta davvero interessante, alla luce del dibattito suscitato nel partito. Chi scrive, anche per questioni anagrafiche, non ha mai amato, né intende ravvedersi nel futuro, le forme estreme di "comunismo realizzato", condivido quindi il tentativo di una riflessione critica su una storia complessa e controversa, alla quale tuttavia ritengo indispensabile richiamarsi per progettare un futuro possibile per il nostro partito. Ad onor del vero, senza allargare molto gli orizzonti, già nella storia del Pci non sono mancati, a vario titolo, le riflessioni autocritiche su quel lungo evolversi storico, che inizia con la degenerazione della Rivoluzione del '17. Dal memoriale di Yalta al Berlinguer del dopo golpe polacco, ci sono ampie tracce in questo senso; il problema segue dunque altre logiche, che vanno analizzate in altre forme. Le critiche di quanti ripugnano l'idea stessa del comunismo come ipotesi da concretizzare in qualsiasi luogo o modo, poggiano su un assoluto senso di omertà storico, in nome di un presunto divenire delle libertà borghesi, che si astrae dai processi storici. Potremmo discutere all'infinito sui comunismi ortodossi od eretici, ma pur riflettendoci a lungo non sono ancora giunto a darmi una risposta: perché dovremmo ripudiare, a priori, sic et simpliciter forme di impostazione e di organizzazione che hanno mosso nel concreto milioni di persone, in nome di forme "eretiche" che hanno il solo "merito" di essere inverificabili sul piano della concretezza?

Angelo Broccolo Cosenza

 

Chi sono

i comunisti

Caro direttore, tante compagne e tanti compagni hanno fermamente creduto in un partito comunista ed hanno fortemente voluto che un soggetto politico comunista continuasse ad esistere in Italia. Non un soggetto radical-movimentista, ma una forza politica che perseguisse l'obiettivo del partito di massa. Questo è ciò che ha motivato quanti, con fatica, con tenacia, con passione politica hanno in questi anni lavorato alla crescita del partito della Rifondazione comunista; rifondazione, appunto, di un partito comunista che si inserisse nella tradizione comunista, che ne criticasse gli errori, che avesse la capacità di separare "il bambino dall'acqua sporca", di riconoscere comunque in quel bambino la forza rivoluzionaria capace di sovvertire lo stato di cose presente. Un partito fatto anche di memoria del sacrificio dei compagni.

Raffaele Sforza Barletta (Ba)

 

Evitiamo rischi

di regressione

Caro compagno Curzi, è scontato che i nostri avversari politici, compresa la "sinistra anticomunista", ed in particolare De Marchis sulla "Repubblica", svisino le nostre posizioni. Ma la questione è: si tratta di una vera mistificazione? La condanna del "comunismo novecentesco" come cumulo di "errori ed orrori" è una meschina contraffazione di De Marchis? A me pare che, nella migliore delle ipotesi, i suddetti avversari sfruttino debolezze ed ambiguità, o piuttosto concessioni deologiche, che purtroppo non sono affatto "inventate". Domenico Jervolino scrive che "la rifondazione da cui è sorto il nostro partito" sarebbe poggiata su di "una critica profonda e radicale del socialismo reale". Ben venga una tale critica, se basata su fondamenta scientifiche, e quindi sulla distinzione tra processi di transizione postcapitalistica, pur contraddittori, e "democrazia" borghese-imperialista. Ma se si tratta di contrapporre l'interclassismo "personalista" della "dottrina sociale cristiana" (condannato dagli stessi preti operai francesi), anche in versione "di sinistra", al marxismo ed al leninismo, allora non siamo più sulla lunghezza d'onda di un effettivo sviluppo del marxismo "sulle proprie basi", ma piuttosto sulla china di una regressione premarxista, verso il proudhonismo od il "vero socialismo" etico e cristianeggiante.

Fernando Visentin via e-mail

 

 

da Liberazione 3-1-'04

 

 

"Dal proletariato ai no global: la Bad Godesberg di Bertinotti". Così era titolato un ampio servizio sulla "lunga marcia del segretario di Rifondazione" pubblicato il 27 dicembre scorso da "la Repubblica" a firma Goffredo de Marchis, e da noi offerto all'attenzione dei nostri lettori, senza commento, il giorno dopo. E' bastato questo per spingere militanti e simpatizzanti di "Rifondazione" a riversare sul fax e nella email di "Liberazione" decine e decine di lettere incentrate sul "comunismo" e sull'identità del Prc. Riteniamo giusto e utile, a cominciare da oggi, pubblicarle, nella certezza di contribuire alla necessaria trasparenza e all'auspicabile arricchimento di un dibattito di importanza capitale. Non solo per Rifondazione, ma per il movimento e per tutta la sinistra.

a. c e r. g.

 

Non attestarsi

in comode certezze

Caro Sandro, cara Rina, ho trovato molto interessante il fatto che un giornale come "la Repubblica" ritenga di dare spazio al dibattito politico del nostro partito sui temi del comunismo e della rifondazione. L'articolo di De Marchis al di là dell'interpretazione circa la lunga marcia del segretario, riconosce implicitamente il ruolo che il nostro partito sta svolgendo in un contesto che molto al di là del partito stesso e persino del territorio nazionale e riconosce altresì il bisogno che esiste a sinistra di un tale riferimento. Parliamo cioè della capacità di essere comunisti ridando attualità a questo termine, nell'obiettivo storico della trasformazione della società capitalista e facendo i conti con la nostra storia: un processo di rifondazione, appunto. Anche nel merito di quanto dice e scrive il segretario vi possono essere opinioni diverse, osservazioni, modalità diverse di affrontare le questioni, e io pure ne ho, ma ciò non toglie nulla alle responsabilità che ci dobbiamo sentire addosso se non vogliamo attestarci in comode quanto controproducenti certezze. In ogni caso, considero importante la scelta di "Liberazione" di pubblicare interviste e articoli di altri quotidiani che parlino di noi. Mi colpiscono molto, perciò, lettere come quelle di Fosco Giannini e Domenico Jervolino che vi criticano per non aver "dato i voti" all'articolo di De Marchis. Non sono d'accordo con loro: da una parte perché in questo caso una eventuale "operazione pedagogica" sarebbe stata piuttosto invadente, e dall'altra perché mi chiedo se la critica non contenga altro. Se dietro questo bisogno di rassicurazioni non vi sia anche un affidamento al nostro giornale di compiti che stanno altrove. Fermo restando il ruolo determinante di Liberazione nella vita del partito, penso però non possa essere anche sostitutivo di un grande dibattito politico e culturale che invece si deve sviluppare nel partito, che coinvolga gli iscritti e che abbia un seguito nelle politiche concrete delle federazioni, dei circoli, ecc. e non solo oggetto di convegni del segretario.

Graziella Mascia

 

Bisogno di comunismo:

oggi più che mai

Caro direttore, penso che la ricerca di un giudizio critico nei confronti del passato, non debba necessariamente indurci a rinnegare il percorso del Comunismo, ma anzi deve diventare un terreno fertile su cui far crescere la pianta della speranza della libertà e della solidarietà che sono i veri fondamenti della teoria comunista e nello stesso tempo le uniche aspirazioni di quell'ideologia marxista-leninista che si contrappone al sistema capitalistico e disturba i manovratori del liberismo più sfrenato. Oggi più che mai si avverte un bisogno di Comunismo che ci possa condurre, di fatto, ad un mondo migliore.

Pasquale Placanica (Rc)

 

La "lunga marcia"

non è un mistero

Caro direttore, secondo me l'autore dell'articolo, pur non essendo comunista, propone comunque ai lettori del suo quotidiano una chiave di lettura dignitosa e tutto sommato veritiera del cammino intellettuale e storico da lungo tempo intrapreso dal segretario di Rifondazione. Che questa "lunga marcia" sia in corso non mi sembra un mistero inconfessabile, ma piuttosto un segno forte di grande onestà intellettuale, tanto più significativa, in quanto si continua a mantenere vivi gli ideali di giustizia, pace e uguaglianza che perseguiamo da sempre. Sono però cambiate le situazioni storiche e i contesti operativi per cui è necessaria oggi una gestione programmatica moderna e coraggiosa che, in qualche circostanza, può essere giudicata, dall'immancabile "Catone censore" in agguato, di stampo revisionista.

Francesco Sarli Roma

 

Illusorio tagliare

le radici

Caro Curzi, il compagno Broccolo, su "Liberazione" di oggi, dichiara di condividere un tentativo di riflessione critica sulla Nostra storia e ricorda che già il Pci, dal memoriale di Yalta al Berlinguer dell'ombrello Nato e alla "fine della spinta propulsiva dell'Ottobre" ci furono tentativi in tal senso. Io vorrei ricordare, soprattutto ai compagni che vissero quell'esperienza in prima persona, che Rifondazione è nata proprio in contrapposizione a tali politiche che trovarono nella svolta della Bolognina il loro momento culminante. Quanto fosse illusorio pensare di uscire dalle difficoltà politiche abbandonando progressivamente radici e storia per andare incontro alla democrazia liberale e al mercato, l'esperienza successiva del Pds-Ds l'ha ampiamente dimostrato.

Aldo Cannas,

circolo "A. Gramsci", Cagliari

 

Si cerca forse

un nome più "light"?

Gentile direttore, i movimenti profondi della storia vanno letti secondo la prospettiva dei tempi lunghi e non secondo il ritmo di certe svolte che si susseguono, ormai, ogni quarto d'ora. Dopo 150 anni visssuti tra tante ascese e declini "epocali", il movimento comunista ha subito una sconfitta netta e la fase di resistenza durerà ancora parecchio. Tutto ciò che segue l'89-91, Rifondazione compresa, ha a che fare con l'elaborazione del lutto e il difficile bilancio di un ambizioso progetto politico che aveva saputo farsi storia. Siamo un piccolo contenitore di persone diverse, ognuna delle quali si interroga sul proprio essere comunista in modo moderno: per alcuni il comunismo è un'esperienza storica precisa e da rinnovare; per altri è l'eterna aspirazione etica ad un mondo più giusto; per altri è altro ancora. In questo senso, l'articolo di De Marchis da voi ripubblicato senza commento descrive una realtà verosimile ma parziale. Alcuni considerano esaurita la nostra tradizione e, con un'operazione linguistica postmoderna, intendono transitoriamente vivere sulla rendita di un nome vecchio e famoso, ma troppo impegnativo, in attesa di trovarne uno più accattivante e light. Ciò non vale, però, per la generalità del partito, che reagirebbe immediatamente ad ogni tentativo di "mutazione".

Stefano G. Azzarà via e-mail

 

In continuità

con Berlunguer

Caro direttore, sono tra quelli che giudica l'esperienza del movimento operaio e la storia dei comunisti e soprattutto italiani del novecento, non un cumulo di macerie, di errori e orrori, ma una straordinaria esperienza che dalla spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre fino al Pci del compagno Enrico Berlinguer, pur tra luci ed ombre, ha dato dignità e riscatto ad intere masse di lavoratrici e lavoratori e a quanti si sono battuti al fianco degli oppressi contro gli oppressori. Oggi più che mai è necessario la ricostituzione di un forte Partito di massa e comunista. Il Prc a questo deve tendere. A quanti non propriamente comunisti, pur militando nel Prc, non credono a questa prospettiva la facoltà di fare altre esperienze, a noi il compito di difendere, ancora una volta, una scelta coraggiosa ed impegnativa.

Antonio Assogna Pineto (Te)

 

 

 

da Liberazione 4-1-'04

 

Le nostre

responsabilità

Caro direttore, nell'articolo di Repubblica si indicano i riferimenti di queste tappe della Bad Godesberg: Lenin, la violenza, le Foibe, la "Sinistra alternativa". Sicuramente abbiamo avuto delle responsabilità nel favorire questa rappresentazione di Rifondazione comunista. Il fatto di avere cancellato alcune figure che hanno segnato la storia del movimento operaio e comunista del '900 (Lenin e Gramsci) eliminandone i riferimenti nello Statuto del Partito. Sulla questione della non violenza intesa come valore assoluto, rischiamo di favorire quel processo di revisionismo storico, tuttora in corso, che per anni abbiamo condannato. Proprio perché il nostro obiettivo fondamentale resta, oggi più che mai, quello di rifondare un partito comunista, non possiamo commettere gli stessi errori di chi ha tentato con lo scioglimento del Pci di cancellare la storia dei comunisti italiani e del '900.

Giuliano Della Foglia

Pio Rampini

Ambrogio Della Foglia

Vanzago (Mi)

 

E' necessario

un chiarimento

Caro direttore, apprendo dalla stampa borghese, attraverso un articolo ripubblicato dal nostro quotidiano, che di comunista, il Prc, si appresterebbe a conservare solo il nome, e anche questo vacillante. Da militante sono sicuro che mai si sia discusso, né tantomeno deciso, di firmare un protocollo d'intesa - a Berlino per l'appunto - per le elezioni europee con alcune delle forze politiche del Gue: anche qui, sarebbe interessante, oltre che necessario, sapere perché solo con alcune e non con tutte; perché non si prendano neanche in considerazione le forze politiche dei Paesi di nuova adesione e, soprattutto, su che basi e con quale progetto.

Stefano Verzegnassi via e-mail

 

Cosa diversa dal "distacco"

Caro direttore, se diamo in pasto alla stampa "liberal" riflessioni non compiute, ancora deboli ma chiaramente dirette a tagliare il rapporto del Prc con l'intero movimento comunista del '900; se affermiamo, come dei nuovi francescani, che la violenza è tutta da condannare, dimenticando la violenza totale in termini di sfruttamento e dominio esercitata dal capitale sulla classe operaia e sui lavoratori, dimenticando di dire come può liberarsi il popolo palestinese, iracheno, colombiano, come si doveva combattere contro il nazifascismo; se scegliamo di rompere, per fare una lista europea di "sinistra", con i partiti comunisti d'Europa (a proposito: dove abbiamo discusso tale linea?): se intendiamo a delinearci così, e non con un pensiero forte che sorregga un vero processo di rifondazione comunista, il rischio è che poi i giornali come "La Repubblica" ci facciano una caricatura da post-comunisti. Dobbiamo stare attenti: il processo di rifondazione - assolutamente necessario - è cosa completamente diversa dal processo di distacco dalla cultura e dalla storia del movimento comunista.

Rita Ghiglione La Spezia

 

Un albero senza radici

non dà frutti

Caro direttore, la propensione revisionista di parte significativa del partito è nota, ma questo modo di procedere "facendo dire ad altri" ciò che non si ha il coraggio di affermare nelle sedi preposte ricorda una "svolta" non proprio di sinistra partita 14 anni fa guarda caso usando lo stesso quotidiano. Le foibe minimizzate, l'angelizzazzione delle lotta partigiana, Gramsci e Lenin spazzati dallo statuto come metafora delle statue che dovrebbero lentamente cadere, considerare in buona fede le opinioni di Sofri e Mieli, o peggio usare l'interlocuzione con essi per picconare le nostre fondamenta storiche non idilliache come nulla è stato nella storia, ma fondamentali per l'emancipazione di milioni di disperati. Un albero senza radici non può produrre frutti.

Alberto Larghi Rho (Mi)

 

"Anormale" è l'assenza

di un dibattito

Cara "Liberazione", l'articolo di De Marchis, proprio per perché "interessante", non andava lasciato senza commento o prese di posizione, e non solo dal nostro giornale ma anche e soprattutto dal Partito e dal nostro Segretario; a me sembra normale che si discutano gli argomenti interessanti, ed anormale il silenzio! Se è nel giusto il lettore Giannini, se fosse vera questa storia del comunista di nome e non comunista di fatto, sarà opportuno discutere su questo progetto di abbandono del Partito Comunista? Il superamento del marxismo-leninismo non comporta il superamento della democrazia interna; il nostro Segretario su questo non ha mai indicato cose differenti.

Mauro Gibellini Carrara

 

Un'immagine grottesca

della rifondazione

Caro direttore, l'articolo apparso su "La Repubblica" non è, a mio avviso, solo un assai discutibile documento giornalistico su di noi; l'autorevolezza della testata che lo ha ospitato e la natura stessa di quel giornale mi fanno pensare invece che siamo di fronte ad una vera e propria operazione politica tendente a veicolare un'immagine grottesca e deformata del nostro stesso dibattito. Il pezzo de "La Repubblica" dà, peraltro, una visione caricaturale dello stesso processo della rifondazione comunista che intendiamo percorrere. Esso appare infatti una sorta di catarsi autolesionista e non, invece, un percorso difficile ma necessario di ricerca teorica e di sperimentazione pratica per costruire una proposta comunista adeguata a rispondere ai problemi ed alle contraddizioni che l'umanità si trova di fronte nel nuovo millennio, affinché l'assalto al cielo, sconfitto nel Novecento, possa vincere nel Duemila.

Sergio Olivieri La Spezia

 

Socialismo marxiano

da rivalutare

Caro Curzi, posso intervenire nel vostro dibattito sul comunismo? Non sono stato mai iscritto al Pci, sono stato e resto un liberal-socialista. Ma alcune vostre amare e severe critiche al comunismo mi lasciano perplesso. Sul fallimento del comunismo russo tutto è stato detto da tempo e proprio con grande fermezza da un comunista doc: Enrico Berlinguer. Lo stalinismo fu demolito (in epoca non sospetta) dal policentrismo di Togliatti. E allora perché oggi tanto calore nel voler riseppellire un cadavere che è già polvere? Io sono convinto da socialista liberale e libertario che è tempo questo per rivalutare gli ideali del socialismo marxiano contro un capitalismo globale che sta producendo guerre, nuove gravi disuguaglianze e la morte della democrazia.

Giuseppe Maffei via e-mail

 

Questioni vitali trattate

superficialmente

Caro Curzi, l'articolo di De Marchis va davvero letto semplicemente come una "interpretazione di parte"? O non rappresenta piuttosto uno dei più tipici e anche più inquietanti modi in cui l'ideologia mette in caricatura ciò che ha, o dovrebbe avere, ben altro grado di ricchezza e di problematicità? Non credete, in questo senso, che le affermazioni di Bertinotti trascritte nell'articolo, proprio perché riportate nell'ambito di un discorso costruito in modo "ideologico", lasciassero in realtà molti dubbi sulla qualità, il senso e la portata del percorso intrapreso dal nostro partito? Anzi, non credete che fosse precisamente questo l'obiettivo dell'articolo, cioè, ancora una volta, rendere superficiale quanto altrimenti non lo sarebbe o non meriterebbe di esserlo? E ancora: non credete che l'articolo di De Marchis tratti questioni per noi vitali (come il rapporto con il Novecento e con la storia del movimento operaio) con un approccio fortemente astratto e superficiale, e cioè nel modo esattamente opposto a quello che dovrebbe appartenerci, dialettico e complesso?

Armando Petrini via e-mail

 

 

da Liberazione 6-1-'04

 

Siamo in fase

di ricerca

Cara Rina, caro Alessandro, la tesi di Goffredo De Marchis consiste nel dimostrare che l'intento di Bertinotti sia quello di uscire dalla storia del movimento comunista, "l'allontanamento dal solco della tradizione comunista", una "lunga marcia lontano dai legami col comunismo" recidendo "i legami con l'ideologia", conservando solo il nome e alzando ogni volta di pochi centimetri l'asticella quale unico modo per poterla saltare e giungere alla Bad Godesberg del Prc. Questo intento non mi pare d'averlo colto in Bertinotti (che, nello stesso numero di "Liberazione", nella sua rubrica domenicale, assume tutta la storia del comunismo, doverosamente in modo critico), di cui ho sempre apprezzato lo sforzo di ricerca teorica al fine di individuare la strada per giungere al superamento del capitalismo, tenuto conto del suo attuale assetto e delle stesse nostre sconfitte storiche. Che si dicano cose, in fase di ricerca, anche non corrispondenti al vero o non convincenti (molte delle cose da lui dette non mi convincono) - suscettibili, quindi, di modifiche da parte dello stesso autore - è un fatto che non può sminuire il valore di chi si impegna in essa. Ma, se l'intento di questa ricerca - a cui tutti dovremmo essere chiamati a contribuire - fosse quello attribuitogli dal De Marchis (conservare il solo nome espellendo tutta l'esperienza del comunismo), non potrebbe trovarmi in alcun modo d'accordo.

Gilberto Volta

via e-mail

 

Insinuazioni

malefiche

Caro Curzi, l'articolo di De Marchis, per la gravità di alcune affermazioni in esso presenti, sino ad arrivare a delle insinuazioni malefiche nei confronti del nostro Segretario, forse meritava un intervento di puntualizzazione. Non mi basta pertanto che un articolo sia interessante.

Jone Bagnoli Milano

 

"la Repubblica"

ha visto giusto

Caro Sandro, noi riteniamo che Goffredo De Marchis su "Repubblica" abbia colto correttamente la natura, la portata e quindi la sostanza del pensiero di Bertinotti. Volerlo negare può servire solamente a chi si adopera affinché l'operazione "trasformazione" del Partito proceda nel modo più soft e meno traumatico possibile. Non da oggi riteniamo che il fine ultimo della nostra attuale dirigenza sia quello di mutare radicalmente il nostro Partito comunista in un altro soggetto politico, affatto diverso nella teoria, nella prassi politica e negli obiettivi finali. E nessuno si illuda: questo processo sarà velocissimo, molto più di quanto si possa ragionevolmente temere.

Ezio Lovato, Ezio Simini Vicenza

 

Ma il partito

che dice?

Caro direttore, "curioso" il fatto che i compagni e le compagne militanti e iscritti al PRC, con ritualità ormai prive di imbarazzi, vengano informati dei repentini mutamenti di rotta dalle "Repubblica" di turno. Una domanda semplice: il nostro Partito, condivide quelle affermazioni, quel percorso scelto gentilmente per noi dal signor De Marchis? Stirare come un elastico il documento congressuale per fornire giustificazioni sempre e comunque evidenzia come purtroppo stiamo navigando a vista, come la bussola sia orientata male, sarà forse colpa delle calamite come la "Repubblica"? Sembra rispondermi De Marchis, "il segretario di Rifondazione non ha dubbi: la statua deve lentamente ma inesorabilmente venire giù". Mah...

Massimo Marcelli Flori Ancona

 

Un linguaggio

da Cominform

Caro Curzi, la lettrice Rita Ghiglione di La Spezia (credo una militante di Rifondazione) critica aspramente Bertinotti per aver concesso, anzi cito testualmente "dato in pasto alla stampa liberal riflessioni non compiute, ancora deboli ma dirette a tagliare il rapporto del Prc con l'intero movimento comunista del Novecento". Questa prosa mi ricorda (e forse ricorderà anche a te) il peggiore linguaggio del Cominform, la sciagurata organizzazione internazionale inventata dai sovietici dopo lo scioglimento della Terza Internazionale, per dominare i vari partiti comunisti nazionali. Mi domando: è possibile dopo tante tragedie, che hanno messo in gioco l'idea stessa di socialismo e comunismo, criticare chi prova con coraggio intellettuale a dare ancora un senso positivo ai nostri ideali di socialismo? Io sono rimasto fuori dalle vicende politiche dopo la fine del Pci. Cinquanta tessere del Partito comunista italiano sono rimaste sole non accettando le strane appendici Pds, Ds ecc.. Ma oggi, nonostante l'età, vorrei fare qualcosa per salvare l'Italia dal disastro. La sinistra, quella vera, deve essere capace di estirpare il berlusconesimo e per riuscire a far questo deve trovare la strada dell'unità. Permettimi, ancora, un'osservazione. Certi lettori di "Liberazione" se fossero vissuti politicamente quando Enrico Berlinguer proclamò in televisione che era finita la spinta propulsiva della Rivoluzione di Ottobre, sarebbero inorriditi e avrebbero accusato il nostro Enrico di revisionismo. Quindi ritengo che Bertinotti nella sua ricerca sia in buona compagnia.

Mirko Manzi Roma

 

Le stesse parole

di Berlinguer

Caro direttore, è significativo nella recente intervista il passaggio in cui il segretario del Prc afferma che "questo capitalismo ha smarrito la sua spinta propulsiva": le stesse parole anni fa furono pronunciate da Enrico Berlinguer sul declino del Socialismo reale. Se ai comunisti e sul comunismo sono state sempre chieste autocritiche, spesso pubblicate forzandone i significati, al contrario ad ogni tentativo di far luce sugli scheletri del capitalismo, dagli interessati e dai loro cortigiani, viene opposta una cortina fumogena se non la blindatura degli armadi. Voci autorevoli (per la verità poche) che auspicano indagini al più alto livello istituzionale sul fallimento del nuovo (si fa per dire) capitalismo vengono subito liquidate come espressione di un marxismo ortodosso, nostalgico dei processi bolscevichi. Poco importa se, nel frattempo, in questo mondo di ladri larga parte della popolazione viene precipitata nella miseria ed i lavoratori, privati del posto di lavoro, vengono considerati esuberi o definiti residuali.

Agostino Piludu Quartu S. E. (Ca)

 

Ben venga

questa provocazione

Caro direttore, sono stato assiduo lettore di "la Repubblica" per molti anni. Adesso la leggo saltuariamente: mi è capitato di farlo anche il giorno dell'uscita dell'ormai famoso (ma solo nel nostro partito) articolo di Goffredo de Marchis. Ho subito colto il suo carattere di "provocazione". Metto questa parola tra virgolette perché, secondo me, bisogna distinguere tra la provocazione che vuole essere subito distruttiva e quella che ha l'evidente scopo di suscitare una discussione: si vedrà poi se il soggetto provocato farà diventare questa discussione motivo di crescita oppure di stallo. Penso, perciò, che "Liberazione" abbia fatto molto bene a rilanciare questa "provocazione", mostrando fiducia nella capacità di giudizio autonomo e di discussione costruttiva dei suoi lettori, come poi si è verificato. Mi rammarico solamente che queste discussioni non avvengano anche nei circoli e nelle federazioni, almeno dalle mie parti. Ho una grande nostalgia degli anni '70, quando le discussioni erano animate e accese in tutta la sinistra: se non ci si trovava d'accordo si votava. Credo che i compagni che non sono d'accordo sulla linea, che "la Repubblica" ha provocatoriamente definito "la Bad Godesberg di Bertinotti", dovrebbero cercare di suscitare questo dibattito democratico, se sono convinti di poterla cambiare, invece di prendersela con "Liberazione".

Siro Valmassoni via e-mail

 

Siamo

frastornati!

Caro direttore, il servizio de "la Repubblica" è sconcertante. Le affermazioni poste vanno ben oltre le tesi del nostro ultimo Congresso. la questione è grave. Liquidare con tanta leggerezza Lenin, Gramsci e il movimento comunista del '900, pongono in essere l'esigenza di un congresso straordinario! Noi militanti comunisti siamo frastornati!

Ernesto Montalbano e Vincenzo de Stefano

via e-mail

 

Fra errori

e conquiste

Caro Direttore, è importante e naturale "ripercorrere criticamente" la storia del movimento comunista, ma questo non può significare semplicemente separare il pensiero originario di Marx dai Marxismi. Le semplificazioni servono alcune volte a rendere comprensibile la complessità di un percorso e possibile la sua concretizzazione politica. Le semplificazioni riguardano l'immaginario collettivo, e la possibilità di trasformare in consapevolezza di massa un' Progetto. Le semplificazioni hanno anche purtroppo portato a errori, abiure e perfino a decadenze. Sono per queste ragioni estremamente importanti. Da usare con estrema cautela. Per me rifondare il comunismo, significa tentare di individuare gli errori commessi, per evitare di farli nuovamente, ma anche tenere sempre conto delle conquiste sociali, culturali, politiche, democratiche, degli avanzamenti di civiltà che i "marxismi" e fra questi i comunismi hanno fortemente contribuito a realizzare. E che la stessa esistenza dell'Unione Sovietica ha reso possibile, nonostante le sconfitte e le degenerazioni. Io milito e lavoro per la costruzione di un Partito comunista di massa nuovo, necessario e capace di contribuire al reale mutamento dello stato di cose esistenti. Penso che questa sia per così dire la nostra ragione sociale e che avere questa consapevolezza significhi riconoscere anche la parzialità della funzione del partito rispetto al processo per la costruzione di un altro mondo possibile, evoluzione complessa e che coinvolge una pluralità di soggetti e culture.

Franco Izzo via e-mail

 

Ma dove

ci state portando?

Caro Direttore, a proposito dell'articolo pubblicato da "la Repubblica" e ripreso da "Liberazione", temo che il segretario del Prc ci abbia annunciato l'ennesima svolta. Com'è possibile prendere decisioni come quella annunciata per il 10/11 gennaio senza consultare o informarne neanche la Segreteria Nazionale? Com'è possibile pubblicare quell'articolo senza neanche una postilla od un distinguo?

Dove ci state portando?

Pierfrancesco Bruno Torrevecchia Teatina (Ch)

 

Attenti

al settarismo

Signor Curzi, lei e la signora Gagliardi avete motivato (o giustificato?) ai vostri lettori la ripresa di un articolo del quotidiano "La Repubblica" sulle ultime svolte politiche di Bertinotti. Io, che presto molta attenzione alle vicende di Rifondazione e di tutti i gruppi politici che in qualche modo possono essere ricondotti all'ex Pci, apprezzo molto questa vostra discussione. Sto, infatti, lavorando alla mia tesi di laurea proprio sul post-comunismo in Italia. Se mi permette vorrei esprimerle la mia perplessità per l'emergere di un settarismo, che Lenin avrebbe definito infantile, tra molti suoi lettori. L'onorevole Bertinotti tenta di trovare, dopo il fallimento del comunismo soviettistico, una strada nuova alle idee di Marx sull'uguaglianza. L'appassionata e colta ricerca bertinottiana dovrebbe far piacere a quanti ancora non vogliono arrendersi ad un capitalismo che nella fase liberista globale rivela tutto il suo potenziale antidemocratico.

Lucrezio Masetti

via e-mail

La storia

va guardata in faccia

Cari e care, scusate ma non se ne può più, c'è stato un congresso che ha scelto veramente di rifondare! Ho 28 anni e sono un precario non posso non dire che probabilmente sotto Stalin avrei avuto un lavoro ma sarei stato sfruttato almeno quanto lo sono nell-Italia capitalista, con ritmi e alienazioni di stampo fordista: altro che liberazione dal e del lavoro! E mi pare di vederli questi compagni ogni volta tirano in ballo Lenin, Gramsci, e tutti i santini della loro religione: gli stessi che nel mio circolo quando i Gc fanno azioni che vanno al di là del volantinaggio insorgono chiamandoci con mille epiteti della tradizione stalinista, se si occupa un posto ritengono che sia sbagliato perché poi la gente chissà cosa pensa, di conflitto neanche a parlarne etc. La storia con i suoi errori ed orrori va guardata in faccia per quella che è stata e se nella nostra storia ci son stati orrori e io penso di si, cercarne le cause significa dare un contributo ad una possibile liberazione per l'oggi e non un altro punto all'avversario. Questi compagni hanno solo paura di perdere i loro miti. Saluti rebeldi, la storia e il conflitto vanno comunque avanti.

Christian Spotti

Garbagnate Milanese (Mi)

 

Un processo aperto

non un vagabondaggio

Cara "Liberazione" non ho letto "la Repubblica" ma a questo punto alcune risposte vanno date ai lettori. Le Tesi dell'ultimo Congresso sono impegnative per Rifondazione comunista almeno fino al prossimo Congresso, oppure no? Il comunismo è "un processo aperto" (come ogni ricerca vera) e "indefinito" fino a che punto? (Se è troppo indefinito non è una ricerca ma un vagabondaggio). A proposito stiamo lavorando alacremente per definire un programma di governo che il Partito deve discutere, approvare, assimilare e che nel confronto con l'Ulivo dovrà essere mediato entro limiti definiti. Se a questo programma stiamo lavorando dovremo anche necessariamente definire i suoi rapporti con la prospettiva comunista.

Alessandro Volponi Marche

 

Diversità interne

da non caricaturare

Caro Sandro, cara Rina la compagna Mascia poteva risparmiarsi la caricatura fatta a me a Domenico ("Giannini e Jervolino vi criticano per non aver dato i voti all'articolo di De Marchis"). Così si discute? E' lecito ridurre una critica, in un partito che si vuole libero, ad una sorta di pedagogia poliziesca? Scrive la Mascia: "mi chiedo se la critica non contenga altro...". E' un'allusione pesante, che ho già sentito sulla mia pelle quasi ogni giorno, per tutti i lunghi anni in cui mi sono battuto contro il processo di liquidazione del Pci. E' del tutto evidente che vi sono in giro troppi retropensieri ed è ormai tempo di fare chiarezza. La fase, per il movimento operaio e per i comunisti, è terribilmente difficile, il rilancio e l'unità si potranno trovare solo attraverso una sintesi politica e teorica all'altezza dei tempi e dello scontro di classe, e nulla sarebbe più sciocco e contrario a questo obiettivo che ridurre le diversità interne al partito in caricature. E' il progetto di "rifondazione comunista", da costruire senza nostalgie o liquidazionismi, la risposta al problema. Il punto è: è stato mai avviato tale processo? La risposta è no! Non si può credere che un processo di così grandi ambizioni possa poggiare su strappi improvvisi e solitari o di pochi dirigenti. Occorre un grande lavoro collettivo, scevro da ogni provincialismo e dal respiro internazionale, che aggredisca i nostri grandi temi (il movimento comunista del '900, il socialismo realizzato, la forma partito, il movimento comunista in Italia), li svisceri a lungo, coinvolgendo l'intero corpo del partito e soggetti esterni, intellettuali e del movimento operaio, nell'obiettivo di darci una cultura alta e condivisa. Perché i mali peggiori sono l'improvvisazione e il solipsismo, mali che possono portarci a "ratifiche" ben presto sconfessate dalla realtà delle cose, come sull'imperialismo, o a condanne precipitose, come quella sulla "violenza". Ma anche qui: perché questa precipitosa scelta semantica (la "violenza" non distinta dalla "forza"), perché questa confusione intellettuale? Dovremmo essere più chiari, per non mistificare. La violenza è una pulsione sorda e bestiale, volta alla sopraffazione, che "viola" ogni diritto, ogni legge morale. La forza è l'esatto contrario, poiché è con essa che si risponde alla violenza, si supera la "legge animale", si costruisce una più alta Legge dalla quale discende una nuova Morale (per rassicurare: non è Lenin, ma è l'essenza stessa della Teologia, è il senso ultimo dei Dieci Comandamenti). Se non si distingue tra violenza e forza, si estende la condanna anche alla forza, tornando indietro di millenni, rinunciando - intanto - alla lotta di classe, scambiandola per un pranzo di gaia.

Fosco Giannini

 

Un concreto

approdo

Cara Liberazione, i dubbi che hanno pervaso molti di noi sulle motivazioni per la neutra ripubblicazione di quell'articolo che potrebbe rimanere nella breve storia di questo partito, a me sembra, siano stati del tutto sciolti. Le argomentazioni addotte sono state assunte e riproposte alla discussione, a mio avviso legittimamente, come documento politico-identitario, vista la mancanza di qualsiasi commento, in non casuale coincidenza con le ultime accelerazioni su temi quali la non violenza e il ruolo della religione sulla formazione delle coscienze. Il possibile approdo ad una formazione dell'antagonismo, comunista per sintesi terminologica, come riconoscibilità di un comune sentire o sinonimo di una universale aspirazione ad un mondo migliore possibile, ma espressione di culture, identità e pratiche politiche maturate perlopiù al di fuori della storia del movimento comunista nella sua interezza e dal quale si pigliano le dovute quanto antistoriche distanze, è abbastanza concreto. La questione è seria, ed è quindi ormai ineludibile che, aldilà delle tribune epistolari, e in modo più compiuto rispetto all'ultimo passaggio congressuale, venga proposta, affrontata e, nel caso, acquisita in tutti gli organismi preposti.

Nuccio Marotta Certaldo (Fi)

Perché non possiamo non dirci comunisti

Rina Galgliardi

 

Perchè mai l'articolo di De Marchis ha suscitato una reazione così intensa tra i nostri compagni e i nostri lettori? Perchè si teme - per dirla in breve - che Repubblica abbia detto il vero. Perchè dietro l'apparenza della polemica contingente quel che preme è un bisogno forte di identità - di tornare a ragionare a voce alta, e collettivamente, su che cosa vuol dire chiamarsi comunisti nel 2004. Perchè viviamo un'epoca buia, nella quale l'avversario cerca in ogni momento di cancellarti, negarti, dichiararti "obsoleto", "residuale" o dannoso. Perchè, certo, nel nostro Partito, per mille ragioni che qui non è possibile analizzare, si discute troppo di questioni particolari (per usare un eufemismo), e troppo poco di questioni di fondo.

E allora ben vengano le lettere a Liberazione, anche quando la polemica si fa aspra e perfino "ingiusta". Ben venga il contributo di idee, e anche di emotività, che questa comunicazione corale contiene. Purchè, naturalmente, riusciamo - tutti insieme - a parare due pericoli che incombono quasi "oggettivamente": il passaggio dalla durezza dialettica all'aggressività che impedisce l'interazione, il passaggio dal confronto politico a quello puramente, indefinitamente ideologicistico. Ma la gran parte di coloro che scrivono, in realtà, pone problemi ideali, strategici, generali, sempre riconducibili alla politica.

Ed è proprio dalla politica - intesa come noi la intendiamo, vale a dire la dimensione alta dell'agire umano che "muta lo stato delle cose presenti" - che deve cominciare, ri-cominciare, il dibattito sull'identità comunista del XXI secolo.

Per una ragione su tutte: noi non coltiviamo il comunismo come un sogno o come una "nostalgia" e, soprattutto, non lo circoscriviamo a una sorta di "imperativo morale", che vale, magari, per il nostro orizzonte individuale o intimo. Noi pensiamo che il comunismo sia non "una legge della storia,", ma una possibilità politica - strategica - del nostro tempo: l'unica risposta razionale alla crisi di civiltà, al disordine caotico, alla violenza devastante, alla regressione sociale che il capitalismo attuale, nella sua versione tardoliberista, porta con sé. Noi, perciò, a differenza di altri comunisti diffusi nella sinistra o nella società, ci affidiamo, per "testimoniare" e praticare la nostra identità comunista, anche ad un soggetto politico organizzato che quell'identità porta, appunto, nel suo nome: come una sfida per il futuro, come una chance per noi e per "coloro che verranno".

Quando ci domandano il "senso profondo" dell'essere comunisti nel 2004 - e dell'essere militanti di una forza comunista -, credo che così dovremmo rispondere.

Chi si propone il superamento (l'abbattimento) del modo di produzione capitalistico, dello sfruttamento e dell'alienazione del lavoro; chi pensa ad un "altro mondo possibile", cioè ad una società fondata sulla libera volontà delle donne e degli uomini associati nello "spazio pubblico" invece che sulla logica dell'impresa e del mercato; chi crede possibile e necessaria la liberazione del lavoro salariato come condizione ineludibile per cominciare, finalmente, la storia umana e un vero cammino di libertà; chi vuole, insomma, mutare radicalmente l'esistente e non si rassegna all'illusione riformista, trova nella prospettiva del comunismo l'unica risposta convincente.

Essa non è stata dichiarata, come tale, dai movimenti, dai critici radicali della globalizzazione, dai milioni di pacifisti che sono scesi per le strade a dire no alla guerra di Bush: ma è latente nella loro ricerca, nelle loro domande, nei loro bisogni - quasi sempre, certo, senza consapevolezza esplicita.

Eppure, non c'è altro modo, nella storia del presente e del passato, di indicare questa volontà di "rivoluzionare" la società, l'economia, la politica, i rapporti interpersonali. Non esistono sinonimi di comunismo o di socialismo, concettualmente o simbolicamente ad esso equivalenti. Qui sta l'impossibilità - va detto agli amici come ai nemici - di pensare ad un cambiamento del nome che non sia anche un cambiamento di pelle e di prospettiva.

Vi obietteranno che il peso delle sconfitte e dei fallimenti del passato pesa drammaticamente proprio sull'attualità di questa sfida. Qui, certo, il tema della "resa dei conti" con la nostra storia s'intreccia con le radici, anche quelle emotive, dell'identità, la interroga, la "inquieta", la mette a duro cimento. Qui entrano le differenze, spesso molto grandi, tra generazioni, culture, storie personali, vissuti. Molte compagne e molti compagni, che hanno alle spalle decenni di identificazione tra la "meta finale" del comunismo e le esperienze del "socialismo realizzato", o comunque dei Partiti comunisti del XX secolo, faticano a persuadersi che questa vicenda si sia conclusa con un fallimento drammatico, anzi totale: perché, da un tale drastico giudizio, sentono messa in causa tutta la loro vita, le loro passioni e le loro lotte, come le loro speranze. O perché, se più giovani o giovani, non accettano, anche e soprattutto dal punto di vista intellettuale, l'idea di uno scarto così grande tra la realtà concreta - la storia - e le possibilità del futuro. E' una discussione difficile, sì, perché mette in campo le passioni, di cui per fortuna tutti siamo nutriti, prima che gli argomenti riflessivi e razionali, di cui pur tutti siamo capaci.

Dobbiamo comunque sapere che la "rifondazione" è anzitutto questo processo vivo, la capacità collettiva non di liquidare il passato, ma di condannarne senza esitazioni le tragedie e gli errori (come abbiamo fatto in alcuni passaggi cruciali da Livorno a Venezia), non di buttare via tutto, ma di farne tesoro critico, alimento prezioso di rinascita e trasformazione permanente, filtro "spietato" di de-costruzione e ri-costruzione.

Credo di capire perché tanti compagni sono così diffidenti verso l'innovazione: hanno ragione se dicono che, il più delle volte, l'innovazione è stata sinonimo di nuovismo ed eclettismo, ha mascherato tout court spostamenti secchi a destra, revisionismi più o meno storici e così via. Ma tutto questo non ha a che fare con la necessità politica e culturale dell'innovazione.

Di essa, del resto, è ricca proprio la nostra storia, la storia comunista. Penso a Lenin, un grande dirigente rivoluzionario del XX secolo e un grande simbolo: non ha innovato, quasi ad ogni attimo della sua vita politica, ben al di là della tattica? Non è passato dal giacobinismo elitario del Che fare? alle straordinarie utopie di Stato e Rivoluzione? Non ha segnalato, poco prima di morire così prematuramente, proprio le tendenze involutive di quella grandiosa scalata al cielo che fu l'Ottobre? L'eredità più preziosa di quella lezione, credo, sta a tutt'oggi nella centralità del momento soggettivo, nel processo rivoluzionario, non certo nel culto dottrinario di testi pensati per un "qui e ora" ormai lontanissimo.

Penso al Pci, un grande partito ormai estinto, forse non soltanto per improvvisa volontà di "tradimento" del suo gruppo dirigente, certo anche perché l'esito della Bolognina era in qualche modo contenuto nel pallido "riformismo" e nel moderatismo culturale degli anni precedenti. Ma quella gigantesca costruzione alternativa che fu il partito di massa non ci consegna proprio il compito - improbo - di una rivoluzione "comunitaria" capace, nelle lotte, di prefigurare la diversità possibile, in quanto praticata da centinaia di migliaia di persone fin dal presente? Mi è consentito qui solo uno schematico accenno al tema della nonviolenza che, secondo me, da oggi - senza proiezioni indebite sul passato o su situazioni troppo diverse dalla nostra - dovrebbe costituire un tratto cruciale della nostra identità. La rivoluzione nonviolenta come trasformazione radicale dell'esistente, e come contestazione concreta del terrore oggi al potere nel mondo. Non c'entra nulla, si dice, con la storia dei comunisti.

Eppure, proprio nella vicenda del Pci, c'era come tratto peculiare e distintivo, un'idea diversa della politica, una forte e diffusa autonomia, un'appartenenza che dava senso anche ai momenti "minori" e alle scelte della vita quotidiana: non è soprattutto questo che oggi dovremmo riuscire a ricostruire, con i soggetti, i bisogni e le soggettività di oggi, nel tempo della crisi - e del bisogno disperato - della politica? Non è uno dei nostri compiti prioritari proprio la rifondazione della politica? A me pare si collochi qui il tema cruciale della "rifondazione". Ereditiamo un passato che, per nostra fortuna, non si fonda solo su grandi, complesse e tragiche esperienze statuali, ma su grandi movimenti, organizzazioni ed esperienze che hanno inciso in profondità nella storia e nella costituzione materiale del mondo.

Il comunismo non è stato, nient'affatto, la proiezione meccanica di Stati o di grandi potenze politiche: è stato, giust'appunto, "il movimento reale" che molto ha abbattuto, molto ha costruito, molto ha seminato, molto ha sbagliato. Un lungo ciclo storico - segnato dalla III Internazionale - si è compiuto. Se crediamo di avere tra i nostri compiti prioritari quello di contribuire a iniziarne uno nuovo - io ne sono del tutto persuasa - possiamo trarre da esso molte lezioni: a condizione di avere il coraggio di uscire da ogni rimozione, o da ogni consolatoria certezza.

RINA GAGLIARDI

 

 

da Liberazione 7-1-'04

Ingrao: "Bertinotti rompe uno schema"

Intervista al "grande vecchio" della sinistra comunista: "Il pacifismo è la strada giusta"

 

A Pietro Ingrao il ragionamento con cui Fausto Bertinotti ha concluso il convegno veneziano sulle Foibe, svoltosi in dicembre, è piaciuto davvero molto. Domenica scorsa, quando Liberazione ha pubblicato l'ampio testo del segretario di Rifondazione comunista, se l'è letto con cura, ha preso appunti su un taccuino, come sua abitudine, infine si è fatto vivo con noi, manifestando la voglia di svolgere sul nostro giornale una "riflessione a voce alta". Una telefonata a Sandro Curzi, ieri mattina, ovviamente comprensiva degli auguri per il 2004, ed ecco l'intervista che abbiamo realizzato - nella giornata particolare dell'Epifania romana, molto soleggiata e assai gelida, affollata di famiglie e ragazzini non ancora paghi di questo lungo clima festivo. Come sempre, Pietro ci accoglie nella sua casa al quartiere Nomentano con il suo fare affettuoso, caloroso e inflessibilmente "lavorista": appare in ottima forma e più che mai dedito al vizio che lo ha sempre caratterizzato, quello di pensare in grande. "Questo testo di Fausto" mi dice subito "mi pare proprio di grande interesse. Soprattutto, mi appare fecondo per gli sviluppi, il tipo di lotta e il lavoro a cui chiama. Per la densità e la novità delle sue posizioni, insomma, apre molte domande, sollecita un impegno serio di riflessione ed elaborazione, anche in rapporto alla lettura dei processi reali". Molti di questi interrogativi, o forse tutti - anticipiamo uno dei temi principali che compariranno alla fine di questa conversazione - ruotano attorno al tema dell'efficacia del pacifismo e della politica. La domanda del "come" si incide sui poteri reali - e sempre più terribili - del nostro tempo. Ma, prima, ci sono molte considerazioni da fare.

Che cosa ti ha più interessato e stimolato, nel testo di Bertinotti?

In generale, mi ha colpito il ragionamento che propone sul pacifismo e sulla lotta armata. In questo testo, non c'è solo la netta condanna dello stalinismo, ma qualcosa che va oltre: la capacità di rompere uno schema - anche un immaginario - che era profondamente radicato in tutti noi, nella stessa tradizione leninista. Questo schema è quello della rivoluzione come assalto armato al Palazzo d'inverno, come il momento nel quale scatta la necessità dell'ora X, dell'attacco finale al potere. Uno schema politico che è stato celebrato tante volte nell'arte e nella poesia, fino al punto da saldarsi con la storia - la nostra storia del mondo. Penso ai film di Ejzenstein e a tanta parte della cinematografia sovietica. Ma penso anche alla letteratura marxiana precedente: la Comune di Parigi, una vicenda gloriosa che poi è diventata oggetto di immagini, di simboli, di culto. C'era in noi - voglio dire - la persuasione profonda della dura necessità della lotta armata, che era tornata con forza nella tragedia degli anni '30. E non eravamo affascinati da una frase marxiana (la violenza come "levatrice della storia") di cui eravamo intrisi anche nei momenti più intensi della lotta per il disarmo?

 

Vuoi dire che per i comunisti di molte generazioni, compresa certo la tua, la dimensione violenta della politica e della rivoluzione è stata un valore, sia dal punto di vista razionale che da quello emotivo?

Voglio dire che per molte e diverse ragioni - prima di tutto qui entrano le biografie, i vissuti, le storie personali, come quella di chi, come me, è interamente cresciuto nel XX secolo - per molti anni non abbiamo avuto una vera distanza critica né dalla violenza né, certo, dalla guerra. Ricordo molto bene lo sgomento che io ho provato al momento del patto di Monaco, ricordo bene l'ira, l'odio vero e proprio verso i "monacensi" e verso Chamberlein, insomma verso quell'imbelle cedimento all'aggressione hitleriana. Un sentimento che poi fu ribadito nel periodo terribile del crollo della Francia, con l'Europa intera che cadeva nelle mani del nazismo. Poi, negli anni successivi, ci furono le cataste di morti, i lager, le torture, fino al 1945. E ci fu, da parte nostra, l'epica della controffensiva e della partigianeria. Un canto come "Bella ciao" non è forse la celebrazione poetica di quest'epica?

 

...anche un canto come quello dei "maquis" francesi, che chiama alla lotta, esalta il "fardeau" della dinamite e anche il sacrificio supremo ("ami, si tu tombe, un ami sort de l'ombre à ta place" "amico, se tu cadi, un amico sorge dall'ombra al tuo posto") ...

Appunto, ciò che io chiamo "lettura poetica" è questa esaltazione della chiamata alle armi, e anche del cadere per la libertà con le armi in pugno. Questa idea è rimasta stampata nelle mie viscere, se posso dirla così, anche negli anni successivi, quando avevamo scelto fino in fondo in Italia la strada della lotta democratica. Nel fondo di noi stessi, non avevamo rinunciato all'idea di un "momento finale" che prima o poi poteva o doveva arrivare. L'ora X, abbiamo detto. Ma anche la sensazione di vivere su un crinale di frontiera - quante volte abbiamo paventato un golpe, dormito fuori casa, temuto il complotto dei generali? Mi torna in mente un'espressione di Foster Dulles (segretario di Stato degli Usa tra il '53 e il '59, durante la presidenza Eisenhower, sostenitore della guerra fredda e di un rigido antisovietismo, Ndr) che certo oggi è dimenticata: parlava dello stato del mondo come di una "danza sull'orlo dell'abisso".

 

Poi ci fu la gloriosa vicenda del Vietnam, in comune a più di una generazione di comunisti e di rivoluzionari...

Anche il Vietnam, sicuramente, è parte di questa storia di liberazione consegnata alle armi. Scusa se tendo a esibire i miei ricordi. Ma mi torna nella mente l'emozione che provai nel corso di un viaggio proprio in Vietnam, nei primi anni '70: fui portato a un passo dal fronte di guerra, dormii sotto una tenda, vicino a un soldato che sembrava un bambino, e tante cose, in quella terra, evocavano la sensazione fortissima che c'era una soglia armata ineludibile, per conquistare la libertà...

E oggi?

Non so: forse dobbiamo avere il coraggio di fare un salto? Fausto, questo salto, lo fa: segna uno stacco dall'idea dello scontro armato come liberazione, prospetta linee di un nuovo e radicale pacifismo. Lo fa con una nettezza e una limpidezza - ma oserei dire anche con una semplicità - che raramente ho avvertito. E mi pare molto significativo il modo con il quale intreccia questi temi con la condanna della guerra preventiva di Bush (quella che, segnalo cocciutamente, è per me la grande novità del III millennio) insieme con una ripulsa altrettanto netta del terrorismo. Da parte mia, vorrei solo porgli alcune domande che proprio questo ragionamento mi ha sollecitato.

Falle, queste domande

C'è una questione che Fausto non esplicita. In un'epoca in cui la guerra è a tutto campo e non è più, come nel crudo secolo che ci sta alle spalle, una scelta "obbligata" ma, come appena stavamo dicendo, si fa "preventiva", come si risponde all'aggressione armata? Che cosa si fa contro la violenza armata dell'aggressore? Qui torna una parola - il "resistere" - che mi è costata un incidente per me piuttosto sgradevole: un'intervista alla Repubblica in cui, poiché parlavo della necessità per il popolo iracheno di "resistere", ero indicato nel titolo come un amico di Saddam Hussein. Ma quali sono, se ci sono, le alternative alla "resistenza"? Come si affronta l'ingresso concreto della violenza delle armi nella nostra vita?

 

In questa tua più che logica domanda, mi pare sottovalutata la questione della forza tremenda, gigantesca, che hanno acquistato gli apparati della guerra - parlo di quelli nordamericani, ovviamente, che sono più potenti, distruttivi e terrorizzanti dell'insieme del resto del mondo. Mentre fino a un certo punto - nel secolo scorso - si poteva non solo "resistere" ma anche e soprattutto vincere (il Vietnam che tu stesso ricordavi è stata una lotta vincente, sia dal punto di vista politico che militare), oggi questa possibilità non è data - per lo meno, la sproporzione appare, allo stato, incolmabile. Una delle ragioni più importanti per cui torna il terrorismo, e si affacciano pratiche come quelle degli attentati suicidi, non è proprio questa impossibilità di vincere sul terreno dello scontro militare?

Io sono ben persuaso che il terrorismo non è la risposta da opporre alla guerra - e apprezzo molto, nel testo di Bertinotti, anche questa condanna, che può sembrare ovvia, ma non lo è per nulla. E' vero però che noi non abbiamo ancora elaborato una strategia di risposta al terrorismo: anche al terrorismo che si pone di fronte a un avversario, come gli Stati Uniti che, certo, hanno messo in piedi uno strapotere così soffocante. La mia non è una polemica, è un assillo: quale strada possono percorrere questi milioni di persone, questi popoli, per respingere la violenza americana? C'è, o no, un obbligo di resistere, anche con le armi? C'è un diritto di difesa che non deve o non può rinunciare al loro uso? Quello che sto cercando di dire, è che non abbiamo lavorato abbastanza su questo tema - anche se e quando la nostra ricerca pacifista è cominciata da anni. Ho partecipato alla prima marcia Perugia-Assisi, quella di Capitini e Lombardo Radice: continuo a pensare oggi come allora che il pacifismo sia la stella di un nuovo mondo, e mi colpisce che il segretario di un partito, il quale affonda alcune delle sue radici nel leninismo, indichi oggi nitidamente e imperiosamente quella strada pacifica. Il fatto è che a noi, alla nostra generazione, è apparso ineluttabile quel percorso di liberazione dallo sfruttamento capitalistico, di uscita dalla soggezione, che una parte del mondo non poteva non compiere attraverso la lotta armata. Mia moglie Laura, che era una persona mite, nella mia casa aveva posto su un cassettone della nostra stanza, bene in vista su tutto, il ritratto di "Che" Guevara...

...un simbolo glorioso non solo della rivolta armata, però, ma anche di una sconfitta. Non credi che, tra le risposte ineludibili, ci debba essere la riaffermazione della politica? Della politica come "arma" che sconfigge la logica della guerra?

Ci credo o almeno ci spero. E con altri - Oscar Luigi Scalfaro, per esempio - ho chiamato in campo un testo tutto "politico" come la Costituzione Repubblicana. Ho chiesto pubblicamente se l'articolo 11 della Costituzione - che, per l'Italia, ripudia ogni guerra che non sia di difesa - sia valido ancora o invece no. Non ho avuto risposta. Mandiamo i nostri soldati a morire a Nassiriya, li esaltiamo e li celebriamo come martiri, li salutiamo commossi quando tornano nelle loro bare. E poi? Io continuo a chiedere: l'articolo 11 è valido o no, nei confronti della nuova guerra americana? Chiedo a me stesso e anche ai miei amici, ai giovani dei grandi cortei, a cui ho partecipato, e quali sono i luoghi, gli enti, le istituzioni che possono agire, in concreto, per respingere e inibire questa nuova pratica della guerra?

 

I tuoi dubbi e i tuoi interrogativi, mi pare, ruotano tutti attorno ad un unico tema, l'efficacia della politica. O mi sbaglio?

Non ti sbagli. Voi di Liberazione - faccio un altro esempio - avete fatto e continuate a fare, giustamente l'esaltazione dei movimenti. Ci sto, come sapete. Ma, testardamente, continuo a proporre il tema: come si incide sui poteri? Come si incide sulla politica data? Io sono "vecchio", non solo anagraficamente. Non ci credo che la politica sia morta...

...o perduta, come dice Marco Revelli

No, la politica c'è. Anche gli americani fanno politica, la loro politica: non usano solo l'esercito, le armi. E non sono nemmeno un blocco compatto; sono un paese complesso, articolato. E noi dobbiamo apprendere meglio a pesare anche su questo colosso chiaro-oscurato, su questo globo complicato in cui viviamo. Non è questo forse un punto-chiave anche per il domani della nuova Europa che è in cantiere, e di cui pensiamo e speriamo di essere un attore forte, importante? E quando, domani, andremo a votare su questa Unione, non saranno le questioni di cui abbiamo ora discusso insieme veri e propri punti-chiave su cui dobbiamo discutere e chiamare a pronunciarsi la gente di questa Penisola, di questo estremo lembo europeo che da millenni si sporge verso quella soglia dell'Asia oggi in fiamme?

Rina Gagliardi

Essere comunisti

essere in cammino

Cari direttore Curzi, scusa se chiedo di intervenire in ritardo ma, al di là dell'ormai famoso articolo di "Repubblica", la cosa che mi sconforta di più è leggere la diffidenza di molti compagni proprio sul tema della rifondazione. Sembra davvero che il percorso che tutti assieme abbiamo condiviso da Livorno in poi, passando per il V Congresso, sia andato sprecato. Tutto questo ostentare "identità", questa voglia di "definirsi", è come avere del piombo fra le ali (e basterebbe ricordare Marx che ripeteva di "non essere marxista"). Mi domando, ma di quale identità stiamo parlando? Che cos'è l'identità? Secondo me o l'identità è una cosa viva, che si nutre della realtà, che fa i conti con la realtà, che la si può usare per cambiare la realtà, oppure è solo una cosa vuota. Credo che Franco Fortini, abbia dato una delle più belle definizioni all'essere comunisti, una definizione che penso possa andare d'accordo con la stragrande maggioranza di noi tutti: "essere comunisti significa essere in cammino". Camminare, attraverso la storia, attraverso le lotte, attraverso le vittorie, attraverso le sconfitte, ma mai fermarsi, mai guardare indietro. Dobbiamo continuare a camminare, anche perché c'è già chi lo fa, indipendentemente da noi. Noi dobbiamo continuare questo cammino da comunisti, e dobbiamo farlo sperimentando nuovi percorsi di liberazione delle uomini e delle donne, una nostra nuova idea della rivoluzione, in piena sintonia con quel "movimento reale" che abolisce lo stato di cose presente. "Siamo gli stessi di prima, sì ma siamo nuovi", come scrive il Subcomandante Marcos. E' questo la rifondazione che un giovane come me, appena nato durante il crollo del Muro, si aspetta dal mio partito.

Daniele Lombardi via e-mail

 

Coinvolgere

tutto il partito

Caro Sandro, cara Rina, come è difficile comunicare in questo partito! Quello che continua a colpirmi è il vespaio che può suscitare un articolo di "Repubblica": le numerosissime lettere che hanno seguito quelle dei due compagni con cui ho interloquito confermano, a mio avviso, che dietro la critica/richiesta mossa al giornale (che non c'entra nulla con la dietrologia!) ci sono questioni che hanno bisogno di un approfondimento che coinvolga l'intero partito. Di questo "Liberazione" è parte fondamentale, ma senza chiedere che essa svolga ruoli di supplenza. Non mi sento, in due righe, di dire la mia sui temi del comunismo e della rifondazione e perciò spero si determini una sede propria alla discussione. Intanto vi ringrazio per il contributo che già avete dato in tal senso.

Graziella Mascia

 

 

da Liberazione 8-1-'04

 

Sulle proposte di Bertinotti e l'intervista di Ingrao, una lettera del direttore di "Carta"

Comunisti nonviolenti? Si può

Caro Sandro,

siccome leggo tutti i giorni Liberazione (insieme al manifesto e al messicano La Jornada è il solo quotidiano che la mattina guardo sicuramente), sto seguendo con grande interesse la discussione, le lettere e le interviste, come quella di Rina Gagliardi a Pietro Ingrao, seguite alla ri-pubblicazione di un certo articolo della Repubblica. Dato che, come sai, quel tema - la nonviolenza - Fausto Bertinotti l'ha trattato in principio rispondendo su Carta, il mio giornale, a una lettera aperta di Marco Revelli, ho deciso di auto-invitarmi in questo dibattito. Anche se non ho la tessera di Rifondazione, sono certo che mi permetterai questa piccola violazione del galateo: d'altra parte, la lettera di Revelli e la risposta di Bertinotti furono simultaneamente pubblicate anche da Liberazione, per essere poi riprese da Paolo Mieli sul Corriere della Sera, e infine - ma solo infine - dalla Repubblica. Quindi siamo sulla stessa barca, per così dire.

Ricostruire il percorso di questa discussione sulla nonviolenza non serve a rivendicare un primato (sebbene anche: dibattere tra noi è sempre meglio che lasciare ad altri, che hanno altri interessi, l'opportunità di interpretarci), ma a dire che, leggendo leggendo, mi sono fatto questa idea: che il punto su cui i tuoi lettori e gli iscritti a Rifondazione stanno discutendo non è precisamente quel che appare. Molte lettere sembrano porre così il problema: è giusto, in questo momento, rinunciare a simboli, parole, schemi interpretativi e modi di azione consolidati, o tradizionali, della sinistra comunista? Posta questa domanda, si capisce angosciosa per molte persone che attorno a quella parola, "comunista", hanno costruito una vita intera, ci si divide, spesso duramente, tra chi pensa che sì, è opportuno, e chi no, è sbagliato, è un tradimento, un cedimento, e così via.

A me pare invece, lo dico con qualche timidezza, che la domanda di fondo, quella che secondo la mia impressione muove Bertinotti, sia la stessa che, in fondo, sta nella ragione sociale del partito, nel suo stesso nome: rifondazione. La questione è: in che modo, adesso, archiviato il secolo, nel mondo della guerra permanente ("la grande novità del terzo millennio", dice Ingrao nell'intervista a Rina), si può essere altrettanto radicali (intransigenti, alternativi, attivi nel cambiare il mondo...) quanto lo furono i comunisti, attorno, diciamo, alla fine della prima guerra mondiale e l'inizio degli anni venti del Novecento, quando ruppero a loro volta con una tradizione, quella della Seconda Internazionale?

Vedi, sto scrivendo questa lettera come se fossi in una piccola vacanza, perché in questi giorni sono sommerso dalla traduzione del libro sui dieci anni di insurrezione zapatista, El fuego y la palabra, che Carta pubblicherà tra qualche settimana. Il libro contiene, oltre a una lunghissima auto-intervista del subcomandante Marcos, decine di testimonianze di indigeni, molti dei quali insurgentes, come dicono loro, ossia soldati dell'Esercito zapatista. E quel che mi colpisce, leggendole, è quanto quegli uomini e quelle donne - che senza ombra di dubbio si stanno ribellando, sono antagonisti del neoliberismo - si interroghino su come hanno iniziato, con le armi in pugno, e su dove sono arrivati, a considerare come loro principale proposta ("civile e pacifica", dice Marcos) quella dei Caracoles, i municipi autonomi, insomma l'auto-organizzazione democratica dei popoli zapatisti. E il prima, le armi, e il dopo, i municipi, convivono spesso contraddittoriamente in una stessa persona, un militare, si badi bene, per quanto rivoluzionario, che magari dice "le armi sono ancora qui", e poi aggiunge "però non dobbiamo diventare militaristi", e conclude "la cosa più importante è l'autonomia delle comunità".

Ora, mi pare, Bertinotti dice: una scelta nonviolenta è la condizione necessaria per una radicalità reale, che cioè non si limiti all'atto di proclamare la propria opposizione. E questo proprio perché è il linguaggio della violenza quello con cui il dominio parla: la guerra permanente, appunto. Revelli fa un passo oltre, per me convincente: in fondo, dice, il linguaggio della violenza, per quanto rivoluzionaria, entra nello stesso ordine del discorso imperiale, quindi è per sua natura il mezzo di una trattativa. Mentre la nonviolenza scarta di lato, o altrove, è una lingua talmente differente da quella dominante da non poter che essere intransigente.

Qui è il nocciolo della questione. Cui si arriva, anche, mettendo in conto non solo la diversità dell'epoca in cui si è costruito quel corpus di pensiero e azione che è stato il comunismo del Novecento, ma i suoi - a fare un bilancio - evidenti e tragici fallimenti. Su cui c'è poco da discutere: l'idea della conquista violenta del potere, per poi da lì trasfomare la società, è, come dice molto autorevolmente Ingrao, uno schema del passato. Il movimento "altermondialista", tutto intero e in tutte le sue diversità, sta cercando di trasformare la società in modo che il potere sia il più disperso possibile.

Infine, i nomi e i simboli. Quando mi chiedono se sono "comunista", rispondo citando Lenin, il quale decise che il Partito socialdemocratico russo (bolscevico) dovesse assumere il nome di comunista discutendone con i suoi compagni sul treno blindato, fornito dal Kaiser tedesco, che dalla Svizzera lo riportava in Russia, nel 1917. Gli pareva, probabilmente, che l'aspirazione alla democrazia sociale (da cui "socialdemocratico") aveva bisogno di un altro "logo", per potersi rinnovare, segnando una frattura con il movimento operaio fin lì organizzato. Io sì, sono comunista, per forza, dopo più di trent'anni di giornalismo di questo tipo. Ma se mi chiamano "altermondialista", di "quelli di Genova", "filozapatista", o anche "pacifista", o quel che serve in quel momento per significare che esiste un'altra possibilità, non sto a reclamare. C'è posto per tutti, nel mondo che, come dice quel tale mascherato, contiene molti mondi.

Grazie per l'ospitalità.

Pierluigi Sullo

Direttore di Carta settimanale

C'è proprio bisogno

di idee nuove

Caro Curzi, bellissimo il dialogo a distanza, su "Liberazione" tra Bertinotti e Ingrao sulle grandi questioni di questo mondo del terzo millennio (pace, non violenza, terrorismo). Finalmente la politica vola alto, come avrebbe detto anni fa Alfredo Reichlin. E Dio sa quanto c'è oggi bisogno di idee nuove. Spesso, infatti, è difficile trovare sui quotidiani (ricchi di pagine, ma scarsi di cervello) qualcosa, almeno uno spunto, che ti stimoli a riflettere al di là delle tristissime cronache del giorno. Ad esempio nel mio giornale preferito, "Il Corriere della Sera", io salto tante cose inutili e corro a leggere tutti i giorni l'angolo delle lettere curato da Paolo Mieli, perché lì quasi sempre trovo qualcosa che mi interessa. La mia scoperta di "Liberazione" con l'intervento di Bertinotti, "L'orrore della guerra", che prendeva spunto dalle polemiche sulle foibe e ieri la risposta, sempre su "Liberazione" di Pietro Ingrao, nell'ottima intervista di Rina Gagliardi, sono dovute, caro Sandro, alla segnalazione di un anziano amico comune, Camillo Martino, ormai tuo lettore abbastanza abituale. Forse dovresti pubblicizzare meglio il tuo giornale per smuovere anche pigri come me. Comunque, ti ringrazio per quello che fai, forse sei uno dei pochi, della nostra generazione, ad avere ancora entusiasmo e voglia di fare. Permettimi, infine, una conclusione: Pietro Ingrao, le sue argomentazioni, la sua lucidità di analisi rappresentano per tutti noi ex Pci ancora una bussola valida.

Lorenzo Galli via e-mail

Televisione

Disintonizziamoci

da Rete4

Cari compagni ho pensato ad una semplice misura per ovviare all'arroganza berlusconiana: dal 1 gennaio 2004 ho provveduto a desintonizzare Rete 4 dalla mia tv di modo che ad essa si possa accedere solo via satellite come previsto dalla famosa sentenza della corte costituzionale. Facciamolo tutti, non ci possono certo imporre quali canali poter vedere e a quel punto i loro decreti e le loro leggi non serviranno a nulla.

Renato Marangon via e-mail

movimenti

 

Prima c'era

una saracinesca...

Cara "Liberazione", prima c'era una delle tante saracinesche abbassate che si vedono nei nostri quartieri, dove da anni hanno chiuso piccoli negozi, botteghe artigiane, circoli ricreativi e mancano spazi di aggregazione sociale e culturale. Ora, un gruppo di abitanti della zona ha deciso di tirarla su quella saracinesca, e invitiamo tutti ad entrarci per costruire un luogo accogliente, pieno di iniziative e di socialità. Siamo convinti che le proposte non mancheranno, perché sappiamo che il nostro territorio ha molte e vitali energie da esprimere, che purtroppo non trovano luoghi e risorse per poterlo fare (pensiamo alle tante associazioni che si trovano sul territorio, animate dalla passione e dalla voglia di fare qualcosa). Nello Scup (Spazio Culturale Peperino) in via del Peperino 19-21 nel quartiere di Pietralata a Roma, d'ora in poi sarà possibile fare cinema, teatro, musica, mostre, incontri e dibattiti, consulenze, informazioni e assistenza sui temi del lavoro, della casa, dell'immigrazione, momenti ricreativi, feste...

Comitato d'occupazione Peperino Roma

non-violenza

Coerenti

con la nostra storia

Caro direttore, l'insistente richiamo di Bertinotti alla non violenza non introduce nessuno elemento di novità nella linea di Rifondazione. Noi che abbiamo raccolto l'eredità del Pci, abbiamo sempre ispirato la nostra azione politica ai principi della non violenza in coerenza con gli insegnamenti di dirigenti della statura di Togliatti, di Longo, di Berlinguer, i quali hanno sempre parlato di via democratica al socialismo, di laicità dello Stato, di pluralismo e di pace e che non hanno mai giustificato episodi di violenza consumata nelle vendette personali. Bertinotti dovrebbe, comunque, evitare di assumere la non violenza come valore assoluto altrimenti rischia di portare acqua al mulino di chi vuole criminalizzare la Resistenza che, come è noto, non è stato un pranzo di gala.

Lucio Piccoli via e-mail

 

Un dibattito

fuorviante

Cara "Liberazione", negli ultimi tempi su giornali/riviste della sinistra sono apparsi degli articoli, i cui autori principali sono stati Rossana Rossanda, Fausto Bertinotti e Marco Revelli che hanno riaperto una discussione attorno alla fondamentale scelta della non violenza come elemento dirimente per il raggiungimento di una società nova... Aggressioni militari dell'impero statunitense e terrorismo islamico, la politica omicida dello Stato di Israele ed i kamikaze palestinesi, la polizia dei fatti di Genova del luglio del 2000 e le Brigate rosse... Per sfuggire a questo dualismo, a vostro dire l'unica scelta è quella della non violenza. Francamente a noi ci sembra che su questi argomenti si ragioni molto sull'impatto degli eventi e molto poco sui contesti. Secondo noi il nodo così come è stato posto è fuorviante e forse nasconde un altro problema, forse non è più credibile un superamento del capitalismo viste le sconfitte che ci sono state in questi anni? Forse le uniche battaglie credibili sono quelle di un riformismo che miri ad una sorta di società capitalista dal volto umano molto "partecipata"?

Comitato di Quartiere Alberone Roma

foibe

 

Un segnale

importante

Cara "Liberazione", personalmente concordo con l'analisi e le conclusioni da espresse da Bertinotti a Venezia a proposito delle "foibe". Si tratta di dichiarazioni necessarie anche al fine di separare le responsabilità di elementi locali delle formazioni partigiane da quelle del comando dell'armata di Liberazione jugoslava e soprattutto dal Cln italiano. Ma soprattutto è un segnale importante, nell'attuale momento politico, per dimostrare che la sinistra italiana - le cui origini sono nell'antifascismo e nella Resistenza - persegue la verità storica contro il revisionismo strumentale. Purtroppo è un segnale isolato, che se qualifica la l'onestà intellettuale e politica di Bertinotti non può essere considerato a se stante. In questo contesto stiamo preparando una pubblica manifestazione con i partiti che riconoscono le loro origini nell'antifascismo e nella Resistenza, con i sindacati, con i movimenti della società civile, manifestazione che a fronte di elucubrazione sul fascismo buono (cattivo solo per via della Shoah) e sulla distinzione tra partigiani generosi e patrioti e partigiani assassini asserviti all'ideologia comunista, ci trovi uniti per respingere falsità e interpretazioni arbitrarie (anche ad opera di intellettuali che si dichiarano di sinistra). Il decadimento delle istituzioni democratiche si accompagna con il revisionismo storico strumentale, elemento non secondario per attuare un disegno politico teso a sovvertire gli stessi dettami costituzionali che richiedono l'attuazione dello Stato sociale.

Massimo Rendina Associazione nazionale Partigiani d'Italia, Roma

 

Un cambiamento

troppo repentino

Caro Curzi, sono una compagna di Venezia che ha partecipato all'ormai famoso dibattito avente come fulcro la discussione sulle Foibe. Devo dire che sono rimasta sconcertata. Non sono per nulla soddisfatta da questo repentino cambiamento di linea del Partito e da questa nuova visione storica degli avvenimenti che hanno tragicamente segnato lo scorso secolo.

Laura Biasutti Venezia

 

 

da Liberazione 9-1-'04

Contro guerra e terrorismo la dissociazione non basta.

Non si può leggere senza emozione il testo di Fausto Bertinotti. Il solo fatto che queste cose siano state pensate, e proposte come asse di un ripensamento radicale della storia vissuta, e di una altrettanto radicale novità della storia da costruire, e che siano dette non in una comunità di illuminati o in un laboratorio di pensiero, ma in un partito che agisce nella lotta politica reale e che partecipa, già in sede locale, a responsabilità di governo, costituisce un evento: qui sono rifiutate le antropologie pessimistiche, il sindacalismo della disperazione e il fatalismo dell'esistente; qui si ricomincia a pensare la politica, i suoi mezzi e soprattutto i suoi fini. Altra questione è naturalmente che queste cose possano diventare patrimonio condiviso e linee di azione per grandi aggregazioni umane; ciò richiede che esse siano vagliate e integrate; e poiché comportano un cambiamento di mentalità, non possono che passare attraverso il fuoco del dibattito e delle esperienze vitali.

La conversione consiste nel passaggio dal pensiero della guerra (quale è stato presente anche nella tradizione comunista) al pensiero della pace, e dalla accettazione dei metodi della violenza alla adozione di mezzi alternativi di resistenza e di costruzione politica, mezzi "deboli" e nonviolenti. Tuttavia ciò non equivale a scegliere la politica contro la guerra e la ragione contro il terrorismo: perché anche la guerra fa politica e anche il terrorismo ha le sue ragioni; se il mondo tutto rappreso nell'antitesi tra guerra e terrorismo non avesse né politica né ragioni, non sarebbe un mondo umano; come infatti ciascuna delle due parti nega l'umanità dell'altra. Ma così non è; è con uomini che abbiamo a che fare, sia quelli della guerra perpetua sia quelli del terrorismo infinito, ed è perciò che possiamo non vedere in loro solo il nemico.

Dunque la dissociazione non basta; si tratta di fare una politica che intenda e superi la politica della guerra e di avanzare ragioni che identifichino e rovescino le ragioni del terrorismo. Ciò vuol dire che l'opposizione alla guerra e al terrorismo va storicizzata; noi non siamo del mondo della guerra e del terrore, ma siamo nel mondo della guerra e del terrore, né vogliamo toglierci da esso; uscirne, sì, ma tutti insieme, attraverso la lunga fatica della storia. A metà del 900 sembrò che questo lungo cammino di secoli fosse compiuto, per quanto riguardava la guerra, e la mettemmo al bando del diritto, papa Giovanni addirittura la mise fuori della ragione. Ma evidentemente quel tempo ancora non era finito, e ora dobbiamo fare un altro duro pezzo del cammino; ma non metteremo fine alla guerra all'improvviso, né ci impadroniremo della pace con un gesto di rapina. Il tempo che resta, lo spazio intermedio è quello della politica. Anche il movimento no-global è atteso alla prova della politica.

Storicizzare la questione della guerra e del terrorismo vuol dire fare analisi separate dell'una e dell'altro. Avendo ben presente che l'uno è figlio dell'altra: diceva padre Turoldo che lo scontro tra loro è uno scontro edipico, perché "il terrorismo di cui parla l'informazione ufficiale non è che il figlio naturale - neppure bastardo - dell'altro terrorismo che è sprigionato dall'Occidente" e che oggi - proprio per la volontà di un dominio universale senza egemonia - prende le forme della guerra preventiva e perpetua. Capire questo non vuol dire giustificare, ma nemmeno permette l'indistinzione tra il governo imperiale e il governo del terrorismo, pur entrambi, come dice Bertinotti, "repellenti". Ma la distinzione permette di far politica, e proprio lì dove noi possiamo di più, perché la guerra oggi sgorga dal nostro campo.

La guerra è sempre stata un orrore. Ma perché oggi apre una crisi di civiltà e può risolversi in catastrofe? Perché la guerra oggi è rimasta prerogativa di una parte sola, anzi di una sola potenza. Gli Stati Uniti, per stabilire la loro sovranità universale, si sono riappropriati della guerra, ma nello stesso tempo l'hanno resa a tutti gli altri impossibile. Creando e gloriandosi di avere una potenza militare senza pari e quale mai si è avuta nella storia, inventandosi una guerra dove si dovrebbe morire da una parte sola, affidandosi ad armi intelligenti e maneggiate da lontano, e sprigionando una superiorità schiacciante su qualsiasi avversario, hanno reso la guerra, fatto di per sé essenzialmente dialettico, per chiunque altro impossibile. Chi osa resistere loro in guerra fa la fine della Yugoslavia, dell'Afghanistan, dell'Iraq. Le sole guerre che sono ancora possibili sono quelle tra poveracci, le cosiddette guerre dimenticate. Ma con l'America non c'è partita, se la partita è la guerra.

E allora se la guerra è stata resa impossibile, il suo surrogato è il terrorismo. Non potendo ricorrere al terrorismo principale, che è la guerra, che si combatte con armi pubbliche (publicorum armorum contentio), si ricorre al terrorismo secondario, che si combatte con "armi private". Il terrorismo è la guerra degli sconfitti, che non vogliono continuare ad essere sconfitti, e che sperano di non essere più oltre sconfitti. E' terribile ma è ancora umano; e perciò è politico, ed è suscettibile di una soluzione politica. Ricomprendere tutte le possibili resistenze nell'unica categoria del terrorismo, che si tratti di ceceni, palestinesi, latino americani o iracheni, vuol dire non riconoscere più alcuna causa. Forse quelle di ieri, in modo che si possano ancora guardare i film western stando dalla parte degli indiani, ma non quelle di oggi. E' questa l'operazione dell'Occidente, ma è appunto questo che impedisce ogni uscita politica. La denuncia dell'orrore della violenza, e la scelta nonviolenta che, come giustamente ricorda Bertinotti, si può fare anche stando nel cuore della Resistenza (non violento era Dossetti, che comandava il Comitato di Liberazione Nazionale a Reggio Emilia) non possono che accompagnarsi alla intrapresa di un'altra strada che permetta agli umiliati di intravedere un'alba di giustizia.

Quest'altra strada, per noi, è di togliere politicamente all'ultima guerra rimasta, quella asimmetrica della Grande Potenza per la quale tutti gli altri sono "combattenti illegali", le radici di cui si nutre nel mitico sogno di un unico dominio, di un unico modello di reggimento politico, di un unico ordinamento economico, di un nuovo grande Leviatano che con mano invisibile gli uni destina alla salvezza, gli altri alla perdizione. Tornare al diritto, tornare all'ONU, tornare alla costruzione di una comunità mondiale nella quale pace e sicurezza siano indivisibili per tutti e l'eguaglianza torni ad essere il valore, così faticosamente conquistato, che riconosce pari in dignità e diritti tutti gli esseri umani e le "nazioni grandi e piccole": questa è la politica oggi negata, e che occorre riaprire. L'Europa certo può fare la sua parte; e per questo è attaccata, non solo da Israele o dagli anonimi di Bologna, ma dalla destra al potere in America, che solo qualche settimana fa lanciava, sulla copertina della sua rivista, la parola d'ordine: "Against United Europe", contro l'Unione Europea.

Coraggiosamente Bertinotti riapre il dossier della storia comunista. Su questo non tocca a me interloquire. Ma credo che la sconfitta non dipenda solo dalla violenza da cui essa è stata contaminata. C'è stato un limite, che Claudio Napoleoni ha indagato, nella capacità stessa di concepire il superamento del capitalismo. Su questo occorre tornare a pensare. Ma intanto nella rivisitazione a me piace ricordare che proprio nell'imminenza della sconfitta, dal cuore del potere sovietico, fu avanzato un grande progetto, politico, "per un mondo libero dalle armi nucleari e non violento". Fu quella, credo, la grande occasione perduta del Novecento.

C'è dunque molto filo da tessere. È un grande merito del segretario di Rifondazione avere aperto, con la sua iniziativa, una nuova prospettiva di riflessione e di azione per tutti, ma soprattutto per i giovani. Poco prima di morire, Giuseppe Dossetti, a Massimo D'Alema che era andato a trovarlo a Monteveglio, chiese: "Ma voi, che cosa fate per i giovani? ". Questa di Bertinotti mi sembra una prima risposta.

Raniero La Valle

La nostra storia,

il presente, il futuro

Caro Curzi, confesso che faccio fatica a capire questa disputa che dura da tempo sulla "violenza" e "non violenza" e che coinvolge non solo il presente ma anche la storia ed il futuro. La mia generazione ha imparato (in una vita di duri scontri) quel che diceva Bertold Brecht: "Anche l'ira per l'ingiustizia rende la voce roca". Stravolge la nostra stessa faccia. C'è il rischio incombente di diventare altri; contrari dei valori che si vogliono affermare. Mutare la nostra stessa natura. La nostra scelta è "non violenta". Vogliamo l'azione di massa non di sola protesta. Ma di proposta. Intelligente; forte sui contenuti, capace di allargare i consensi al di là della piazza. Capace quindi di incidere guardando agli altri non come ad un blocco omogeneo da scomunicare ma nella loro complessità e contraddizioni, esercitando quindi una egemonia gramsciana. Ma non è ineluttabile che una lotta armata sbocchi nel dispotismo. La Resistenza italiana ha portato libertà per tutti. Certo vi furono fatti ed atti decisamente condannabili. Come abbiamo fatto a Torino per le foibe ancora prima della conferenza di Venezia. La nostra "violenza" fu assai diversa da quella del fascismo; fu per così dire accidentale e non industrializzata come quella nazista. Ha ragione Bertinotti nel dire che non tutta la nostra "storia va assolta" ma "tantomeno va buttata via estirpandone le radici". Oggi si tende da destra a stabilire faciloni parallelismi; va detto chiaro che la "piazza" non è "violenza". E la lotta armata non è terrorismo. Che Guevara che ha fatto guerriglia ha scritto contro il terrorismo. E prima di lui Lenin ha svolto una dura polemica col Nichilismo. Ma detto ciò, oggi e qui, questo orientamento non potrà essere generalizzato in ogni luogo ed in ogni tempo, quasi teoria universale sempre valida.

Quando svolsi queste argomentazioni al Comitato politico Rina Gagliardi opportunamente scrisse che i giudizi vanno storicizzati. Siamo testimoni d'un tempo. E più di altri abbiamo il dovere di capire. Di indagare anche su di noi. Se nel 1944 ci avessero detto di non adoperare le armi ci saremmo messi a ridere. E quando un autorevole generale, comandante supremo delle forze Alleate nel Mediterraneo ci invitò a farlo, sia pure temporaneamente, nessuno gli diede retta per il semplice fatto che non era possibile... Ingrao nelle considerazioni, sempre profonde, che condivido parla di quella che fu una nostra "persuasione profonda della necessità della lotta armata". E' vero. Ma riferita al '43-'45 era forse una persuasione sbagliata? Ingrao è sempre molto stimolante. Ma mi pare che nella sua intervista più che dare risposte pone domande. Domande importanti certo. Ma domande. Forse la "soglia armata" di cui parla per conquistare la libertà non è "ineludibile". Ma non dipende solo da noi. Ingrao parla di un suo "assillo". E' anche il mio.

E qui gli interrogativi restano. Dice Ingrao: "C'è o non c'è un obbligo di resistere anche con le armi?". "C'è un diritto di difesa che non può rinunciare al loro uso?". C'è sempre o no "l'efficacia della politica?". Anche il primo grande pacifista della storia prese la frusta per cacciare i ladroni dal tempio. Non faccio l'indovino. Le strade della storia sono infinite. Non so cosa sarà il futuro del mondo con le sue tante diverse facce. Per ora so solo dire che mi pare azzardato generalizzare un orientamento per tutti i luoghi e per tutti i tempi.

Gianni Alasia Torino

La "ragione sociale"  di Rifondazione

 

Cara Rina, l'intervento di Sullo, apparso ieri, evoca - pur nella sua brevità - una serie di grandi questioni e solo con alcune, per ragioni di spazio, ci si può qui confrontare: sul tema della "ragione sociale" del Prc (chiaramente sollevato da Sullo); sul tema della necessità di una "nuova radicalità" dei comunisti; su quello del "potere diffuso" come alternativa al "potere rivoluzionario" e sul tema della violenza.

Sulla ragione sociale del Prc: Sullo sembra chiaramente dire che il problema non è più quello dei "simboli" o della parola "comunista", ma che "la domanda di fondo, quella che secondo me muove Bertinotti, sia la stessa che sta nella ragione sociale del partito, nel suo stesso nome: rifondazione". E' già un primo momento forte di discussione: in verità se la ragione sociale del nostro partito stesse solo nel termine "rifondazione" saremmo di fronte ad una ragione sociale amputata e, anzi, geneticamente mutata rispetto ai nostri obiettivi originali e attuali e rispetto al volere dei nostri iscritti, dei nostri militanti e dei nostri elettori. In verità sono le due parole, rifondazione comunista, che esprimono, insieme e non separate, la nostra ragione sociale, la nostra storia, le nostre lotte, i nostri obiettivi. Le compagne e i compagni che, in coraggiosa controtendenza rispetto ai tempi, alle sconfitte e alle abiure, scelsero di dar vita ad un nuovo partito comunista in Italia dopo la sciagurata liquidazione di Occhetto, non saprebbero certo che cosa rifondare se non un partito comunista che, senza disinvolti liquidazionismi o sorde nostalgie e tenendo conto della grande storia comunista, delle sue vittorie planetarie e delle sue degenerazioni, provi ad attrezzarsi ed essere all'altezza dei tempi e dell'odierno scontro di classe. E' il comunismo, caro compagno Sullo, che non vogliamo cancellare e dunque anche la parola per dirlo.

Seconda questione: l'esigenza, dice Sullo, di una nuova radicalità dei comunisti. Giusto, forse per diverse ragioni ma concordiamo. Poiché quando Sullo prosegue affermando che i comunisti di oggi dovrebbero essere radicali quanto lo furono quelli "attorno alla fine della prima guerra mondiale e l'inizio degli anni 20 del '900, che ruppero con una tradizione, quella della Seconda Internazionale", ricordiamo che i leninisti ruppero perché i socialisti della Seconda Internazionale stavano abbandonando ogni progetto rivoluzionario, stavano imboccando la strada del gradualismo positivista, che non ha mai ritenuto centrale la rottura rivoluzionaria: "tanto il socialismo viene da solo, senza strappi".

E', dunque, il potere, la terza questione posta da Sullo. Citando gli zapatisti (che comunque entrarono a San Cristobal con le armi e con esse si difesero dai padroni delle terre), Sullo assume come questione centrale per la rifondazione (non necessariamente comunista) la categoria del "potere diffuso", che escluda a priori il problema del potere rivoluzionario (per una rifondazione, appunto, non comunista?). Qui vorremmo solo citare Gramsci, ricordando che il contropotere diffuso era parte centrale del suo pensiero (i consigli di fabbrica, la conquista delle casematte) ma era, appunto, contropotere diffuso poiché non rinunciava al potere rivoluzionario. Ultima questione, la violenza. Ho già avuto modo di dire che, dal mio punto di vista, quello sulla violenza è un terreno di discussione inaccettabile, poiché solo i padroni, i fascisti e gli spiriti animali possono difendere la violenza. Altra cosa è la forza. Il compagno Ingrao, nell'intervista che tu stessa gli hai fatto, Rina, si chiedeva come i popoli possono resistere, senza forza, senza armi, al tallone di ferro dell'imperialismo. Stiamo attenti a non guardare il mondo dal lato del nostro salotto buono: se condanniamo la forza per sempre e in ogni dove, come potranno, oggi, liberarsi i palestinesi, gli iracheni, i colombiani? La Cia, Pinochet, non soppressero con la violenza Allende? Se si poteva, come si doveva rispondere? Bush non vuol farlo oggi con Cuba, con Chavez, con Lula, con lo stesso presidente argentino Kirchner ("Liberazione" di ieri, pagina 13)? Se questi popoli condannassero a priori l'uso della forza, come resisterebbero? Riassumiamo in pieno Gandhi e Aldo Capitini, si dice. Giusto: i valori del pacifismo sono i valori dei comunisti. Senza dimenticare però, come giustamente vuole Sullo, la svolta radicale dei leninisti dopo la prima guerra mondiale, ma anche senza dimenticare che era lo stesso Capitini, negli anni '30, a scrivere che l'unica risposta alla libertà d'impresa è quella del "massimo di socialismo nelle istanze economiche" e "la socializzazione dei mezzi di produzione".

Fosco Giannini

 

Le armi,

extrema ratio

Caro direttore, un errore è comune ad entrambe le posizioni di Ingrao e Bertinotti: assumere pace e lotta armata, non per quello che sono, cioè due possibilità storiche, la seconda ovviamente subordinata e funzionale alla prima, bensì come due atteggiamenti antitetici, che impongano una scelta di vita tra due strutturazioni opposte della propria anima. Eppure il marxismo (direi qualsiasi tipo di marxismo, purché davvero tale) almeno su questo punto era chiaro: vivere e lottare per la pace, pronti, se necessario, ad impugnare le armi (sempre e soltanto come extrema ratio). Che poi su questo si siano spesso strutturate singole personalità "combattentistiche", era certo un pericolo oggettivo, che può però essere sempre superato con l'approfondimento critico collettivo. Cosa che il movimento proletario del Novecento, in linea di massima, seppe fare bene. Ma certo, per farlo, è necessario il movimento proletario e il partito di massa: purtroppo, in questa fase storica, il primo sembra piuttosto disorientato, il secondo non esiste.

Giovanni Cerri via e-mail

 

L'immaginazione

al potere

Caro Curzi, seguo la discussione sul comunismo non violento, che si è aperta su "Liberazione" con gli interventi di Bertinotti, Ingrao, Sullo e tanti altri compagni, con un interesse che da tempo credevo di aver perso. Quando giovanissimo gridavo, con spavalderia, "L'immaginazione al potere..." forse intendevo dire proprio quello che scrive Ingrao. Forse il nuovo comunismo non violento è la speranza di questo secolo.

Giulietto Lorenzi via e-mail

 

 

 

da Liberazione 10-1-'04

 

Ieri "non potemmo essere gentili". Oggi dobbiamo essere nonviolenti.

Una bella discussione di questi tempi è un lusso, faceva dire Brecht a un contadino nel Cerchio di Gesso del Caucaso, in una terra devastata dalla guerra contro le armate naziste. Non siamo a questo, ma il dibattito aperto da Bertinotti è un dono.

Non mi permetto di entrare in una dinamica che ha, com'è giusto, un aspetto peculiare, di partito. Ma questo dibattito interessa tutta la sinistra - e va anche al di là. Non a caso Ingrao menziona Scalfaro.

Non incidentalmente, è un dibattito che si intreccia su Liberazione a quello sulla questione religiosa, partendo da una citazione di Marx, sradicata però da una dialettica che porta in tutt'altra direzione. Non dimentichiamo che Vittorini sul Politecnico, proprio da quella frase di Marx sull'Oppio dei Popoli, perveniva - senza sofismi - a una conclusione vitale: che religione e liberazione potessero virtuosamente camminare insieme. La grande riflessione, a sinistra, sulla religione, ha segnato un attraversamento cruciale. E ha avuto come protagonisti tantissimi credenti.

C'è un tratto che unisce Brecht (per esempio negli scritti alti del dopoguerra, fino all'aspra critica contro la repressione degli operai berlinesi in rivolta nel 1953) alla riflessione odierna di Bertinotti.

Nella stessa citazione che Bertinotti sceglie da Brecht, sul "noi non potemmo essere gentili" non è difficile avvertire un dolore profondo, un'amarezza avvolgente. Di più, forse: un acuto tormento nella ricerca di un'altra strada. E' la temperie che vive un comunista tedesco resistendo al nazismo, sentendosi ventre della Bestia.

Oggi più che mai sappiamo che la Grande Promessa della Resistenza dobbiamo mantenerla, ed è consegnata innanzitutto agli europei, che hanno prodotto sia il Nero che il Rosso, e non solo nel Vecchio Continente. Dalla Resistenza (anche imparando dalle pagine buie) abbiamo individualmente ricevuto il mandato di muoverci verso un mondo di giustizia, pace, libertà, democrazia. E' l'opposto del mondo che abbiamo di fronte e intorno (in un certo senso anche dentro). Questo sistema-mondo ha con logica follia incorporato la guerra (di più: la guerra preventiva) come paradigma. Scusate lo schematismo: se vogliamo l'alternativa, la nonviolenza deve appartenere al nostro cammino.

E non è vero che non ci siano impronte profonde di questa impostazione dentro la vicenda storica del movimento a cui apparteniamo. E' sbagliato attribuire alla nonviolenza un connotato dottrinario libresco, o pensare che Gandhi e Martin Luther King non ci debbano toccare. Non è forse una (lo so anch'io: non la sola) delle condizioni necessarie per intrecciarci al Forum di Mumbay, e per manifestare insieme ai movimenti Usa il prossimo 20 marzo?

Ed è ancor più sbagliato non vedere quali connessioni profonde ci siano tra tante storiche lotte pacifiche e democratiche del movimento operaio, della sinistra, e le lotte nonviolente. La nonviolenza non è una categoria anomala, separata dalla via maestra della storia. E' dentro di essa. Talvolta resa clandestina se non violentata.

Tornare alla concretezza della storia; avere il coraggio con Majakovski di "rimestare la merda dei secoli" può aiutarci a trovare i fiori che tuttavia sono nati: nel coraggio di immaginare e praticare un mondo differente. Non fermiamoci al Novecento. Ricordiamoci dell'immenso carico di lavoro per sistemi di valori, per il sogno e l'immaginazione di un mondo "altro", anche sperimentando magnifiche alternative - un percorso di civilizzazione che ci incoraggia a camminare avanti.

Molte delle cose che pratica il Movimento dei Movimenti hanno radici lontane. Dando ragione - quasi come un'ovvietà - a Le Goff quando descrive l'onda lunga della storia, ricordiamoci che si parla anche della nostra "autonoma" storia.

Questo ci obbliga a fare i conti con onestà: chi è comunista deve fronteggiare il fatto che la bandiera con la falce e il martello che liberava Auschwitz, garriva sopra il Reichstag nel 1945, sventolava anche sui Gulag - prima e dopo di allora. Spero che questa consapevolezza spezzi anche i cardini della porta della percezione dell'orrore che è stato compiuto.

Chi è stato, o è diventato socialista (e dintorni) sappia che quel movimento politico ha una storia impregnata anche dalla corresponsabilità in pagine terribili: vogliamo parlare del colonialismo? Vogliamo parlare dei crediti di guerra votati da quasi tutti, mentre si apriva l'abisso della prima guerra mondiale? Vogliamo parlare del peso di ciò che è avvenuto di recente nei Balcani?

Solo un profondo cambiamento porterà la sinistra fuori da quei gorghi che ancora la lambiscono, con il rischio di un naufragio. Altro che il 1989. La caduta del Muro non ha fatto cadere il nostro socialismo, ma un sistema totalitario nella sua essenza, nonostante l'immane sforzo del comunista Dubcek, e quello finale dell'abbandonato Gorbaciov. Domando: qualcuno di noi, rossi, vorrebbe vivere sotto Ceausescu, o avere i diritti dei metalmeccanici cinesi di oggi?

La Realpolitik (anche di sinistra) non ha saputo né aprire la strada al superamento dei vecchi blocchi politico-militari, né illuminare una prospettiva di cambiamento. Non poteva farlo innanzitutto per una sua strisciante implosione culturale. Forse la vera Realpolitik è quella del campo di forze che mette insieme pace e democrazia e diritti sociali e di cittadinanza e di giustizia.

Se la strategia della pace è inscindibile da un autentico processo di civilizzazione, come non vedere lo spazio di espansione della nonviolenza? E' qualcosa già dentro i movimenti reali: la nonviolenza ha spezzato il ghetto, non è affatto una subcultura marginale, bensì il marxiano fantasma che si aggira - e non unicamente per l'Europa, come sempre più esperienze dimostrano in giro per il mondo.

Questo implica una progressiva trasformazione della qualità della politica, con un punto di congiunzione con i principi veri della legalità internazionale - a partire dalla Carta dell'Onu e della Dichiarazione universale dei diritti umani. Nemmeno qui si parte da zero.

La sfida quest'anno è aspra: il grande cratere che include Medio Oriente, Golfo, Afghanistan è lì a catapultare pericoli planetari. Il terrorismo spande la sua peste - e spinge a restringere gli spazi di libertà. C'è una possibilità di uscire da questo doppio ricatto?

Non occorre essere ciechi di fronte ai pericoli, per investire consapevolmente sul futuro. Le oche giulive cercatele tra chi crede che la guerra risolva i problemi. I sanfedisti sono i volonterosi collaborazionisti dello stato di cose esistenti. Dev'essere massimo lo slancio e il coraggio per una società aperta, basata sull'idea di stato di diritto.

Il popolo della solidarietà e della pace, quello che ha fede nella partecipazione, sa che il terrorismo, oltre che assassinare le persone, dilania la cittadinanza della politica - e la politica della cittadinanza. Più luce, più attaccamento alla vita, più amore per le generazioni a venire. Quelle che stanno forzando la storia del Novecento, peraltro, imponendo il diritto al futuro, per se stesse ma anche per le altre generazioni. O vogliamo accettare la corresponsabilità della dissipazione dell'eredità della Resistenza, quando essa ci ha indicato di muovere dal tempo dell'impossibilità della gentilezza, verso qualcosa che non può non dirsi nonviolento?

 

TOM BENETOLLO

Presidente nazionale dell'Arci

L'ideologia, la storia e le realtà concrete

 

Caro Sandro, nelle ultime settimane su "Liberazione" si sono intrecciati due temi: quello relativo alla definizione della religione come "oppio dei popoli", e quello riguardante il rapporto tra il nostro partito e il "comunismo" (spesso non solo quello cd. "reale").

Sul primo punto non mi dilungo, poiché la frase di Marx (Feuerbach) va letta in rapporto al suo tempo, nel suo complesso, tenendo presenti gli scritti di Feuerbach su "L'essenza della religione" e "L'essenza del cristianesimo" (e, se credi, pensando anche agli odierni kamikaze).

Sul secondo punto, essendo io contrario a ogni "revisionismo", non voglio farne uno di segno eguale e contrario.

Ma una lettura storica (che per me resta quella in chiave marxiana) si impone sempre. Perché finora nessuno ha provato a farla, sia sul socialismo reale che sullo stalinismo? Andrebbero analizzati la realtà concreta del paese zarista in cui si è avuta la prima rivoluzione socialista: un paese senza sviluppo capitalistico e senza alcuna esperienza democratica, né diretta, né parlamentare, ben presto accerchiato economicamente e militarmente, che ha dovuto difendersi non da una delle "democrazie occidentali", ma dalle Ss hitleriane (i comunisti sono morti nei campi di concentramento, assieme ad ebrei, zingari e omosessuali). Non si poteva rispondere ad Hitler porgendo l'altra guancia (a proposito di astratta non-violenza). Né è possibile tagliare col coltello, senza analizzare le situazioni storiche concrete, il bene (che spesso si riduce alla parodia di un voto "tarato" secondo il sistema elettorale) dal male (la dittatura), senza entrare all'interno delle realtà concrete.

E' il caso di porsi una domanda: quale comunismo? Quello dei gulag, dei processi staliniani, delle degenerazioni anche successive, o quello che aveva assicurato a tutti (sia pure a livelli modesti) lavoro, casa, studio e cultura, assistenza medica, ferie pagate? E' quello che rimpiangono tuttora molti strati della popolazione in Russia - ove mi reco spesso -compresi i professori universitari e gli Accademici delle scienze, che di fronte a forme di accumulazione scandalose, sono stati declassati da ceto benestante o classe media a categoria sulla soglia della povertà (letteralmente!).

E non dimentichiamo due circostanze: a) ogni tentativo "democratico" di socialismo, in varie parti del mondo, è sempre stato soffocato da colpi di stato militari. Inutile fare esempi. Ciò ha impedito di avere altre esperienze socialiste da analizzare; b) i compagni che hanno dato la vita o lunghi anni di libertà per quello ideale (parlo in particolare del Pci). Né il memoriale di Yalta e Berlinguer erano fuori dal comunismo.

La stessa domanda può riguardare anche l'altro problema: quale cristianesimo? A parte l'età più antica, su cui ho scritto alcuni saggi, è cristianesimo quello del Concilio Vaticano II o quello che consentì - dopo non averli osteggiati - la fuga dei criminali nazisti? La teologia della liberazione (condannata dalla Chiesa ufficiale) e dei preti operai (stesso trattamento) o quello che, anche di fronte alla piaga biblica dell'Aids, vieta la contraccezione? L'accorato grido per la pace o le tesi su divorzio, aborto, procreazione assistita?

E anche per il passato: il cristianesimo è quello di frate Francesco o quello dell'Inquisizione, delle torture, dei roghi, degli autos da fe'?

Si potrebbe parlare per ore e giorni, ma quello che va posto in risalto è, in primo luogo, che la realizzazione di ogni ideologia, come la storia insegna, deve fare i conti con la realtà concreta in cui si cala e con le proprie contraddizioni interne; in secondo luogo, il politico vero non può essere anche uno storico della politica, e compito della storia è quello di esaminare ogni realtà in tutti i suoi aspetti, non limitandosi a condannare, assolvere o "rivedere".

Gennaro Franciosi preside della facoltà di Giurisprudenza della II Università di Napoli

 

 

 

Le leggi e la forza

Caro direttore, suggestivo e molto interessante il dibattito tra Revelli, Bertinotti, Rossanda, Ingrao, in particolare nella risposta data al compagno Bertinotti sulla questione pacifista. Posizione che, lo dico con dubbi atroci, non mi convince. Intanto perché la violenza, quella agita nelle comunità dai tempi dei tempi è sempre stata questione costitutiva della condizione umana e il tentativo di espungerla o controllarla dal contesto sociale ha trovato sempre mille difficoltà. Così per il rapporto tra nazioni, tuttavia vi è un elemento che non riesco a comprendere nei ragionamenti sin qui fatti. In un mondo disuguale, in realtà macro e micro umane dove prevalgono rapporti di forza, anche nelle relazioni affettive, lo strumento principe per controllarli e prevenirli è il diritto e le leggi. Leggi che vanno conquistate anche con la forza, situazione che sfociano nella necessità di essere regolamentate (diventare diritti) proprio a partire da lotte anche violente. Insomma ho dei dubbi che l'ipotesi pacifista radicale possa tenere, altra cosa è essere pacifisti per affermare razionalmente un altro modo di intendere la società, esserlo contro le guerre ingiuste, ecc.. Veramente ho dei dubbi atroci.

Diego Valeri via e-mail

 

Comunismo

punto e basta

Caro Curzi, comunismo: questa parola sembra come all'epoca di Marx mettere paura a tutti i potenti del mondo. E, a volte, perfino nei dibattiti nostri sembra che qualcuno debba ricorrere a cento giustificazioni prima di dichiararsi comunista. Certo, abbiamo tanti buchi neri nella nostra storia, ma il cristianesimo non ha buchi nerissimi nei due millenni? Eppure il Papa chiede che il richiamo alle origini cristiane sia scritto nella Costituzione europea. Comunisti erano i fratelli Cervi fucilati dai fascisti, ma nessuno lo dice più. E non parlo di Berlusconi che non sa neppure chi siano, ma del presidente Ciampi che, per ricordarli, ha detto solo erano degli antifascisti. La faccio corta se no tu mi tagli: io sono perché in Italia, e spero in Europa, si costruisca un forte partito che si chiami comunista. E non c'è bisogno di altre parole come nuovo, per l'alternativa, eccetera. E' chiaro che siamo nuovi perché viviamo in questa epoca storica e perché conosciamo anche gli orrori del passato; è chiarissimo che siamo alternativi perché vogliamo battere il capitalismo e costruire una nuova società.

Lorenzo Lorenzi via e-mail

 

"Angelizzazione"

della guerra partigiana?

Cara Liberazione, siamo due compagni e, dopo aver letto la relazione di Bertinotti "La guerra è orrore" siamo rimasti alquanto dubbiosi. Come si fa a parlare di "angelizzazione" della guerra partigiana da parte della sinistra in un periodo di revisionismo come questo?

Michele e Piergiorgio

via e-mail

 

Analizziamo

e critichiamo

Caro direttore, innanzitutto sono contento di veder raddoppiate le pagine-lettera sul nosto giornale. Di questo ti ringrazio. Il compagno Bertinotti, che spesso ha saputo analizzare le vicende future con grande acutezza, pone ora il problema di un'ulteriore analisi sul modo di essere comunisti, quindi analisi del passato, del presente e del futuro. Esatto il suo giudizio sulla questione "tutta italiana" delle Foibe, pagina nera dentro la brutta storia della II Guerra Mondiale. Oggi siamo nell'epoca della guerra permanente, dell'imperialismo e del liberismo selvaggio. Giustamente si auspica la pace, si guarda al pacifismo del movimento, alle esortazioni del Papa ecc.. Ma come può essere fermato il capitalismo che agisce con le armi, vista l'impotenza della politica? Condivido appieno l'analisi di Bertinotti sul fatto che il nazismo aveva intrinseco identitariamente la violenza del suo dna, quella del comunismo è stata una violenza causata dalle contraddizioni e da come sono andate le cose in Russia dopo la Rivoluzione, culminate nel dramma dello Stalinismo. Il comunismo non contiene la violenza a priori nel suo dna, eccetto che per il momento rivoluzionario. Mi pare che nel cercare disperatamente elementi di ricerca di pace, nelle analisi complessive si tenda nel criticare ciò che è che era ingiusto un po' tutto il movimento comunista novecentesco. Analizziamo e critichiamo. Guardarsi allo specchio serve a criticarsi senza avvilirsi masochisticamente per migliorarsi. Gli eccessi in questo senso, ci porterebbero a qualcosa di simile a cio' che diede il via al movimento per la Rifondazione Comunista nel 1991.

Stefano Maggiolo Noli (Sv)

 

Compagni,

non miti

Caro Curzi, apprezzo parte della lettera di Cristian Spotti, pubblicata martedì 6 gennaio, quando critica i compagni/e del suo circolo e del partito per l'atteggiamento che assumono nei confronti di alcune lotte che vanno oltre al volantinaggio, ma anche, per ricordare a Cristian che Lenin, Marx, Luxemburg, ect., ect, non sono miti ma, compagni che hanno scritto la storia del comunismo e che con "un altro mondo è possibile" si identificherebbero.

Daniele Boniardi Bollate (Mi)

 

Non miriamo

al potere personale

Salve direttore, sono un compagno di 51 anni, che ha attraversato come tanti questi tumulti del cuore comunista. Prendo spunto dalla lettera del compagno Christian Spotti di martedì per dire la mia. Caro Christian e cari compagni, il problema, non solo di Rifondazione, ma di tutto il processo del movimento comunista è se un partito comunista è ancora per il raggiungimento della dittatura del popolo sulla borghesia capitalista, se il potere deve essere - politico ed economico - delle assemblee popolari, se l'economia deve essere socialista, se la proprietà privata deve scomparire, se la classe operaia, per quanto frastagliata e diversa deve ancora dirigere il movimento popolare. Questi sono i principi del marxismo e della visione scientifica e materialistica della società. Ben vengano anche i credenti, ma in una società laica che attraversi le forme del governo popolare, del governo socialista, del socialismo e del comunismo, forme certo future e che sono da immaginare, come spesso ci stanno insegnando le esperienze sudamericane, ma che certo non potrebbero verificarsi senza una lotta dura, chiara, senza quartiere e spesso traumaticamente violenta. O si può pensare che i padroni capitalisti ci facciano passare con i tappeti rossi? O la lotta di classe l'ho inventata io? O Giovanni Pesce era un terrorista?

Massimo Mollo Napoli

 

Rifondazione

non è revisionismo

Caro Sandro, Cara Rina, la meta è lontana, ma il movimento non è tutto. La necessaria rifondazione non è un ritorno al vecchio "revisionismo". Il "socialismo reale" ha causato danni irreparabili, ma il Partito comunista italiano, per il suo radicamento (pur con i suoi limiti), ha rappresentato la migliore Italia di quel tempo. Gramsci è stato il più lungimirante pensatore del '900. La nonviolenza è per noi, soltanto oggi, ossia dopo gli stermini del '900 e di fronte all'unipolarismo sfrenato odierno, un dovere assoluto. Ma non è un valore retrodatabile a piacere per equiparare, nel passato storico, rivoluzioni e controrivoluzioni.

Giuseppe Prestipino via e-mail

 

Nessun culto

del capo

Caro direttore, in una lettera un compagno ha tenuto a definirsi bertinottiano. Non mi piace, io sono comunista da trentanni, ma mai ho dichiarato di essere berlingueriano, eppure Berlinguer era l'uomo che ho più stimato nella mia vita. Il culto del capo, lo sappiamo, è stato fonte di tante degenerazioni. Ho apprezzato Bertinotti per le affermazioni contro lo stalinismo. Vogliamo, allora, cambiare stile?

Persindo Magnaghi via e-mail

 

 

Dal manifesto 10-1-'04

 

Risospingiamo nell'agone le forze di sinistra riluttanti

 

E' sempre un felice evento incontrare Pietro Ingrao: sia per la presentazione di un suo libro, come l'ultimo La guerra sospesa, resa famosa ormai dal fatto che è arrivato a piazza Montecitorio a cavallo di un motorino; sia per la conversazione di un'intervista, come quella a Liberazione, di mercoledì. Da lì apprendiamo che è "in ottima forma" e del resto il suo lucido ragionare ben lo dimostra. Perché di altri uomini politici si può avere stima, su alcuni si può avere riserva. A Pietro si vuole bene, e basta. Il resto, nel dialogo con lui, viene da sé.

Non sempre tutto fila liscio. Perché ha le sue impennate, è cocciuto, batte sullo stesso tasto a ripetizione finché non vede che qualcuno ha sentito. E' da anni ad esempio che ci ripete come l'errore del movimento operaio sia stata la militarizzazione, del suo linguaggio, e forse più del suo pensiero, oltre alla pratica dei suoi comportamenti. Io su questo non lo seguo. Credo che il cuore degli errori pulsi altrove e che le autocritiche debbano avere altri indirizzi. L'età delle guerre civili mondiali, con dentro il fascismo e il nazismo, non l'ha voluta il movimento operaio: è storia moderna, capitalistica, del Novecento, con cui, in qualche modo, i conti bisognava farli. La violenza, politica, di cui parlava Marx era la risposta alla violenza, sociale, implicita da sempre nel rapporto di capitale, dalle terrificanti fasi dell'accumulazione originaria ai terribili passaggi delle rivoluzioni industriali, alle spietate avventure coloniali, fino alla mondializzazione presente, che condanna tre quarti del pianeta alla miseria assoluta, e là dove non può arrivare con le leggi di mercato arriva con la pratica della guerra.

E comunque non credo che sia questo il discorso più urgente da fare. Anche perché si espone su una frontiera carica di ambiguità. Quella del pentimento risulta oggi la categoria politica più diffusa. La ritrattazione pare essere diventata uno sport nazionale. Squallida è questa gara a chi dice prima e più forte di non essere più quello che un tempo era stato. Io assumo, per quanto mi riguarda, l'atteggiamento opposto: mi faccio carico di tutta intera una storia. Come movimento operaio, stanno a questo punto dietro le mie spalle tutte e due le grandi tradizioni, quella della socialdemocrazia e quella del comunismo, ambedue per la gran parte irripetibili, ma con un deposito di differente eredità tutta da investire. E anche della tradizione comunista prendo tutto, dalle utopie alle cosiddette realizzazioni. E' storia fatta, non ancora da fare. Non è che posso scegliere. Troppo comodo, troppo facile prendere la storia bella e lasciare quella brutta ai cattivi. Per certe cose posso dire: mai più così. Poi guardo avanti: a ciò che può esserci d'altro rispetto a ciò che adesso c'è. Il problema non è l'altermondializzazione. Il problema è l'oltre di questo mondo, che non sia più costretto a mascherare l'eterno ritorno del sempre uguale. Per questo, tutto ciò che abbiamo fatto in due secoli di storia, tutto, ci serve.

Più interessante mi sembra tutta la seconda parte dell'intervista, dove Ingrao fa le sue domande sull'attuale congiuntura. La politica e le armi, qui e ora. Le forme presenti, specifiche, della guerra. La ricerca dei modi più efficaci del contrasto. Mi lascio anch'io interrogare da queste domande. "Che cosa si fa contro la violenza armata dell'aggressore? Come si affronta l'ingresso concreto della violenza delle armi nella nostra vita? Che vuol dire, oggi, l'obbligo di "resistere"? Qual è l'efficacia politica del pacifismo?" Ecco, lo stesso modo di porre gli interrogativi, rivela il politico che viene da una storia, che ha messo a frutto alcuni passaggi di quella storia e se ne serve per trovare risposte nuove.

Nuova non è la risposta del terrorismo, che, essa sì, è subalterna alla logica della guerra. Non è un caso che mai il terrorismo, mai, ha attecchito sul terreno di lotte del movimento operaio. Oggi la guerra è terrore, come il terrorismo è guerra. E lo specifico del momento è qui. Non c'è più la "messa in forma" della guerra, su cui pure si era cimentato il pensiero di grandi giuristi e di grandi politici, dallo jus publicum europaeum alle organizzazioni sovranazionali di pace. Il diritto in guerra non conta più niente. E' più importante una telecamera che una legge. Le istituzioni internazionali nessuno le sta a sentire. E' più da considerare un'elezione di mezzo termine che una risoluzione Onu.

Ingrao insiste molto sul carattere inedito della forma "preventiva" della guerra. E fa bene. Questo è il luogo dell'assoluto arbitrio, in mano a chi possiede l'assoluta potenza. Non il monarca investito da Dio, ma il potere democraticamente legittimato è, nelle relazioni internazionali, legibus solutus. La sola condizione è che abbia, e che mostri, incontrastata forza. E qui c'è un risvolto del problema che viene taciuto. Nel passato della storia moderna abbiamo visto gli Stati e le Nazioni, i Re e gli Imperi, e poi i totalitarismi, scatenare la guerra. Che succede quando va in guerra la democrazia? Si mette in moto un circuito perverso di mobilitazione totale dell'opinione pubblica, dall'alto dei mezzi di comunicazione di massa, dove tutto serve, la paura ancestrale del nemico, l'orgoglio dell'eccezionalismo di nazione, la fede dell'etica puritana. Questo fa maggioranza, non silenziosa, ma bellicosa.

La guerra americana, possiamo discutere se sia legittima, ma, dal punto di vista sia pure declinante della statualità democratica, è legale. Non è imposta, è liberamente accettata. Ecco perché è così difficile contrastarla. Non è solo la tecnica che si dispiega senza avversari, è la politica - dice bene qui Ingrao - che spazia dall'Atlantico nel mondo senza antagonisti. In fondo, come si è espressa la distinzione tra Kultur europea e Zivilisation americana nei nostri miseri tempi? Come distinzione tra "guerra umanitaria" e "guerra preventiva". Era bello, quando eravamo in piazza, con milioni di persone, sentirci definire la seconda potenza mondiale. Solo che non era vero - almeno non secondo i miei parametri, mi correggerebbero le mie amiche femministe. C'è una potenza unica che fa il bello e il cattivo tempo, come gli pare e piace. Quando si è in marcia per la pace, bisogna avere in testa, chiara, questa consapevolezza: che non stai fermando, come si diceva una volta, la mano dell'aggressore, stai esprimendo, al meglio, un'altra idea di mondo e di essere umano. Sono due cose diverse, che solo la grande politica sa, ha saputo, tenere insieme. Si parla nell'intervista di Vietnam. Ma lì è la prova che Golia può essere battuto e David può vincere. Non il terrorismo ma la guerra di popolo fece sì che le classi dirigenti del paese più potente rimanessero intontite per un decennio e che una generazione di giovani dell'occidente respirasse l'aria della vera libertà. Diverse erano le condizioni geopolitiche, né è consigliabile il ripetersi di una tale immane tragedia.

Come si incide sui poteri?, è un'altra domanda di Ingrao. E c'è una bella mestizia nella frase che segue: "Io sono "vecchio", non solo anagraficamente. Non ci credo che la politica sia morta". Io dico che non lo è solo se sa rinascere da un'altra parte. I neoconservatori americani hanno capito che nella mondializzazione ritorna un bismarckiano primato della politica estera, e a loro modo lo stanno praticando. Quando lo capirà l'Europa, e al suo interno la sinistra europea, rischia di essere troppo tardi. Compito delle forze di movimento è spingere in questa direzione. Il pacifismo deve fare politica. Deve contrapporre la legittimità della pace alla legalità della guerra, mettendo i piedi nel piatto dei problemi di sistema politico, di funzionamento istituzionale, di conflitto sociale. Altrimenti diventa un'istanza etica, rispettabile ma inutile. Il vecchio Ingrao e il nuovo Bertinotti dovrebbero spendere la loro autorità per rimettere in circolo le forze cosiddette antisistema dentro le contraddizioni di sistema, per contribuire a spostare i rapporti di potere reali, risospingendo nell'agone - una indimenticabile parola ingraiana - le riluttanti forze politiche della sinistra ufficiale, anch'esse su un altro terreno in movimento.

MARIO TRONTI

 

 

da Liberazione 11-1-'04

 

Rifondare

il comunismo

Caro Curzi, nessuno sta cercando di ristrutturare il partito comunista ma tutti siamo impegnati a rifondarlo. Cosa c'è di male se la rifondazione approfondisce determinate situazioni che prima erano considerate dei tabù? Cosa c'è di male se cerchiamo di separare dalla violenza il comunismo che oggi vogliamo ricostituire, anche se siamo convinti delle necessità che prima l'hanno chiamato, auspicato, tenacemente voluto perchè esistevano condizioni disumane che per superarle c'è voluta la rivoluzione comunista?

Enzo Rossi Castelnuovo Magra (Sp)

 

Movimento

e partito

Cari Sandro e Rina, mi permetto di smentire il semplice fatto che vi sia stata nel tempo una quasi necessaria "evoluzione" dall'essere limitrofi ai bisogni proletari al confinarsi nella galassia no-global, come appare da alcuni scritti sia apparsi su "Liberazione" che su altre testate. Una cosa non esclude l'altra: da quando è nato il Movimento, ho sempre pensato che non ci si doveva porre le problematiche dello stare "nel" movimento, ma semmai del "come stare" con il movimento. Esserci è naturale e spontaneo per un partito comunista: come esserci è invece un enigma che ancora va risolto... Un dato di fatto, come la rifondazione comunista, non può tramutarsi in variabile dipendente dal Movimento e dalle sue parole d'ordine. "Un altro mondo è possibile", certo. Fissare una trasformazione sociale con un credo ideologico è stupido, dogmatico e anche molto poco marxista. Tuttavia i nostri valori ci conducono ad una società comunistica: tutto il contrario del socialismo reale. Su questo fondiamo la nostra differenza di genere politico e sociale: su questo si deve continuare a lavorare, senza la paura di non essere compresi, o accettati. Sia dal movimento che dal centrosinistra.

Marco Sferini Savona

 

 

da Liberazione 13-1-'04

Collegare la nonviolenza alla nostra idea di rivoluzione

Caro direttore, negli stessi numeri di "Liberazione" che ospitavano il dibattito sulla scelta nonviolenta del nostro Partito, si potevano leggere, in altre pagine, altri interventi sulla questione religiosa, in cui risuonava dopo molti decenni la secca definizione di religione come "oppio dei popoli" (una definizione già liquidata a suo tempo dal Pci di Togliatti, e tanto più imperdonabile oggi, quando ormai dovrebbe venire in mente a tutti di domandarsi come mai proprio l'uso di quell'"oppio" abbia spinto e spinga tanti non a sonnecchiare soddisfatti e passivi bensì a diventare rivoluzionari e comunisti).

Io credo che sarebbe opportuno unificare i due dibattiti, e porre a loro fondamento il tema della nostra laicità. Mi pare infatti che un'insufficienza di laicità sia la base comune di tanti fraintendimenti e, forse, di veri e propri errori. Per "laicità" non intendo affatto ateismo (un partito programmaticamente ateo ci riporterebbe davvero molto, troppo, indietro nella nostra storia), ma intendo la rigorosa separazione dei piani, la distinzione del politico (e del programmatico) dal religioso; quest'ultimo piano è, e deve restare, altra cosa, appartenendo ad una sfera intima e personale di tutte/i, anche di chi compie un'opzione comunista, ma non riguarda e non deve riguardare in alcun modo il partito in quanto tale; e quest'affermazione è motivata esattamente dalle stesse ragioni che ci spingono ad opporci (e dovremmo farlo con più forza) al sostegno statale per le scuole private, o all'incorporazione in leggi dello Stato di valori o comportamenti dettati da una religione (dalla procreazione, alla sessualità, alla esposizione dei crocifissi nelle scuole di tutti).

Un partito laico è dunque un partito capace di trovare nella sua politica, e solo in essa, il fondamento dei propri valori e delle proprie scelte, e capace di chiedere ai suoi iscritti e militanti l'adesione ad un siffatto patrimonio politico come condizione necessaria e sufficiente per partecipare al suo stare insieme collettivo. Sul resto il partito deve semplicemente tacere, e come non spetta al partito intervenire in merito ai comportamenti alimentari, o sessuali, così non può spettare al partito incoraggiare, o combattere, le scelte religiose di chicchessia.

Questo io credo che si debba intendere per laicità; e mi sembra dunque una grave insufficienza di laicità (non un suo eccesso) la polemica antireligiosa condotta in nome dell'illustre quanto logoro ritornello dell'"oppio dei popoli": parla in quella polemica non la laicità ma solo un'ideologia religiosa di tipo ateistico, che si giustificava solo in altre fasi della nostra storia, quando la debole identità del primo movimento operaio aveva bisogno di tali puntelli religiosi o contro-religiosi (importati in effetti dalla sinistra borghese) per potersi affermare.

Si deve impostare in questi termini del tutto laici anche il problema della nonviolenza. E' una grande lezione quella che ci viene da un nonviolento "storico" come Raniero La Valle che invece di limitarsi a battere le mani e dire (potrebbe farlo) "Finalmente! L'avete capita anche voi comunisti! ", ci invita piuttosto (su "Liberazione" del 9/1) a riscoprire ed approfondire ancora e sempre la politica, e le motivazioni tutte politiche di una scelta certamente giusta. Io penso che anche la nonviolenza (viene da dire: perfino la nonviolenza) non rappresenti per noi un assoluto a-storico, e che essa non poteva valere sempre e comunque, proprio perché la sue motivazioni sono legate per noi alla politica, ma dunque alla fase storica che viviamo, e non a qualche imperativo di tipo religioso (questo sì, per sua natura, assoluto).

Io sono personalmente molto convinto della fondatezza della scelta nonviolenta (e non da oggi), e tuttavia non mi consento affatto la sciocca superbia di proiettare all'indietro nel tempo tale scelta (magari per criticare su questa base i nostri partigiani), così come non mi permetterei di proporla in ogni parte del mondo e in qualsiasi situazione (magari per dare lezioni moralistiche ai compagni cubani o a chi pratica l'autodifesa di massa dei nostri cortei). L'assoluto appartiene infatti solo alla religione, non alla politica rivoluzionaria; alla politica dei comunisti spetta invece una scelta razionale, e condivisa dalle masse, in merito ai fini che il movimento si dà e ai mezzi più adeguati per conseguire quei fini; e tali scelte evolvono nel tempo con il mutare della situazione, come dimostra anche l'esperienza (per tanti aspetti esemplare) della rivoluzione zapatista.

Così non vorrei che si confondessero la resistenza, le resistenze, con il terrorismo. Bertinotti dice cose fondamentali e profonde e tutte da me condivise sui motivi della nostra opposizione radicalissima al terrorismo, ma ci sono forme di resistenza anche armata dei popoli che nulla hanno a che fare col terrorismo, e anzi gli si oppongono non meno duramente di noi. Il diritto/dovere alla resistenza è peraltro uno dei principi fondamentali della nonviolenza.

Resta allora per tutto il corpo del partito la necessità di motivare politicamente la scelta della nonviolenza che Bertinotti ci propone, e questa motivazione non risiede tanto in considerazioni di realismo (diciamo così) "militare" quanto nella nostra stessa idea della rivoluzione comunista come autogestione e democrazia integrale, e dunque nella necessità che il processo rivoluzionario non contraddica nel suo svolgersi questi fini fondamentali.

Ma questo è un discorso davvero troppo complesso per poterlo anche solo accennare in questo spazio (ho cercato di cominciare a farlo in un altro luogo). Qui posso solo proporre che il partito nel suo complesso voglia e sappia discutere della nonviolenza mettendola in rapporto con la nostra idea di rivoluzione, e non isolandola come se fosse solo un'opzione di tipo morale o religioso.

Raul Mordenti

 

 

da Liberazione 14-1-'04

Nel cercare dove sbagliammo mi sento più vivo e più forte

 

Mario Tronti è persona simpatica anche per il garbo con cui lui - uomo di convinzioni tenaci e forti - replica ad un interlocutore, anche quando egli respinge una posizione che considera. Ed è stato così anche giorni or sono, quando, in un articolo sul "Manifesto", ha espresso un netto dissenso rispetto ad una mia intervista su "Liberazione", in cui io valutavo positivamente l'opzione pacifista espressa nettamente da Fausto Bertinotti, sviluppando una autocritica forte sul posto che la violenza armata ha avuto nella storia e nella ideologia del movimento comunista.

E però stavolta il mio amico Tronti non mi ha convinto. Non mi ha persuaso il suo giudizio per cui la violenza del Novecento era tutta da addossare alla ferocia costitutiva del capitalismo di quel secolo, di cui - certo - ognuno di noi ha fisso nella mente le guerre spietate, lo spirito di rapina, la predicazione e la scienza dell'uccidere pubblico.

Ma la "violenza rivoluzionaria" che fu predicata e scritta sulle nostre bandiere non era solo una risposta al sangue del capitalismo. Essa era esplicitamente iscritta sulla nostra lettura dell'atto rivoluzionario; e divenne a un certo punto (e abbastanza presto), una pratica di sopraffazione e di schiacciamento anche su una parte stessa del movimento operaio.

Lo vedemmo in Russia già col dispiegarsi della Rivoluzione d'Ottobre: con i massacri (io oggi li chiamo così) che si rivolsero persino contro i propri militanti (i propri figli, potremmo dire); e quella violenza sciagurata tornò poi infaustamente nella seconda metà del secolo: a Postdam, a Budapest, a Praga, e in altri luoghi di cui non sapemmo riconoscere nemmeno il nome.

I "gulag" non sono stati una favola. Perché dovrei assumerli oggi nel patrimonio mio, nel mio sentirmi comunista, ora che non ho più nemmeno l'alibi del "non sapere"? E perché dovrei cancellare tutto questo oggi da una aperta, dichiarata riflessione autocritica?

Non mi convince nemmeno il fastidio che Mario mostra verso la categoria (e la pratica) del "pentimento".

Lo so: è una parola - il pentimento - che sembra appartenere a linguaggi lontani dai nostri, e pare un fastidioso bigottismo. Ma se pentirsi è riconoscere l'errore, io non ho paura nemmeno di questa parola, che - certo - ha sapore di sacrestia. Anzi ritengo vitale (cioè necessario alla vita, segno di vita, bisogno di vita) cercare (sì, cercare) di fissare pubblicamente se ho sbagliato e perché ho sbagliato. E ritengo che di questo lavoro per la parte comunista ci sia materia: e che sia utile imparare da quegli errori.

Tronti scrive: "mi faccio carico di tutta intera una storia". È un'affermazione che per me non è tanto chiara. E difatti se essa significa dichiarare che io da quella storia (di comunisti!) vengo, certo che è così, e seppure volessi non potrei cancellarlo, e io poi non lo voglio per nulla: tanto che continuo a chiamarmi così, anche se - nel caso - oggi non ho tessera in tasca.

Ma io non sento per nulla "squallore" (è la parola usata da Tronti) nel cercare dove sbagliai o sbagliammo. Anzi: sento in ciò forza e vitalità. Soprattutto sto meglio, e mi sento più forte, più vivo se so mettere sotto il microscopio la storia mia e della mia parte: e leggere dove vidi giusto e dove no.

Tronti dice: "è storia fatta, non già 'ancora da fare'". Rispondo: e perché mai non dovrei riesaminarla e ripercorrerla e cercare di vedere dove è bianco e dove è rosso o dove è nero? Cedo, forse, mi indebolisco così? Io penso esattamente il contrario. In questo modo io capisco: sviluppo dentro di me una nozione più larga e più ricca dell'accaduto.

E poi andiamo al sodo: sono secoli e secoli che l'uomo si interroga - giorno per giorno! - su ciò che fa e su ciò che gli capita. E anche Tronti l'ha fatto, e con rigore, quando io forse sbagliavo, anche se adesso egli si "diverte" a mostrare una qualche ripugnanza verso l'autocritica. E se Dio vuole, io ho imparato - spesso e parecchio - dalla sua ricerca.

A dire il vero, a me l'interrogarmi e il dubitare su quel che facevo (e anche sulla tessera che avevo in saccoccia) ha dato sempre giovamento. Il guaio invece era quando stavo fermo, e accettavo il dogma.

Per ultimo: quando giungo alla fine dell'articolo di Tronti la scena cambia: e il mio amico discorre sul pacifismo (e questo mi piace e mi preme) e invita il movimento pacifista a "fare politica": annota - nel suo stile - che siamo a un "bismarkiano ritorno della politica estera", e invita le "forze del movimento" e il pacifismo a stare in campo: a non fermarsi all'istanza etica: ad agire e a fare politica "dentro le contraddizioni del sistema", sino a "trascinare le riluttanti forze politiche della sinistra ufficiale ... anch'esse su un altro terreno in movimento".

Qui torna il discorso che mi interessa. E forse mi sarebbe piaciuto, mi piacerebbe, che il dibattito sorto da quella presa di posizione di Bertinotti divenisse più vasto, e "Liberazione" allargasse - ancora di più di quanto fa ora - questa ricerca sul che fare: visto che in tutti noi è chiara - amarissimamente - la novità recataci dal nuovo secolo: la nuova "guerra preventiva" già in campo, e la mutazione di fondo recata dall'impero americano nell'agire politico. Lo dico perché non sono sicuro che nelle forze giovani e fresche che con emozione profonda abbiamo visto scendere in piazza di fronte alla nuova guerra "preventiva", siano chiari i punti su cui contrattaccare: per spostare i "poteri", per incidere realmente sui luoghi dove si decidono e costruiscono le armi e le azioni militari - e però anche le ideologie, i consensi di massa, e i compromessi di cui si nutre la politica (mai dimenticare questa parola, questo livello) dei nuovi guerrieri, con alla testa quel puritano arrogante e spocchioso che si chiama Gorge Bush.

PIETRO INGRAO

Una risposta

flessibile

Gentile direttore, seguendo il dibattito sulla nonviolenza che si sviluppa questi giorni su "Liberazione", ho pensato di scrivere al giornale per dare anche il mio piccolo contributo. Gli interventi che si sono succeduti da quello di Bertinotti in poi tendono ad esaltare la strada nella pratica di una radicale nonviolenza in contrapposizione guerra-terrorismo. Non sono d'accordo ad eliminare completamente l'utilizzo della forza per la liberazione in quanto innanzitutto ci porrebbe in maniera contraddittoria nei confronti di molte situazioni dove il popolo armato combatte per disfarsi dall'occupazione straniera o dalla tirannia a cui è soggiogato. Una delle maggiori argomentazioni a favore del pacifismo radicale è l'enorme disparità di mezzi che al giorno d'oggi si è venuta a creare, argomentazione del tutto vera, alla quale però ad una più attenta analisi mi viene da rifletttere che se da un lato c'è un enorme disparità di mezzi fisici, a questa non sempre corrisponde una disparità di risorse umane, le quali in una lotta di liberazione sono fondamentali. Non credo che la radicale nonviolenza sia una risposta universale da poter sempre praticare, tuttavia tendo a pensare che questa strada debba essere sempre tentata di percorrere e solo nel caso di fallimento, in mancanza di qualunque altra forma di alternativa, si debba arrivare all'utilizzo della forza rivoluzionaria.

David Camboni via e-mail

 

Partire

dal contesto storico

Caro direttore, esprimo il mio scetticismo nei confronti delle posizioni a favore della non-violenza. Intanto il tema è troppo importante per essere affrontato così, quasi tra pochi intimi, quando invece investe una delle ragioni di fondo del movimento comunista, da Marx ad oggi, dal 1848 alle attuali "guerre costituenti" passando per il '17, la Resistenza, il Vietnam, il '68, il Chiapas eccetera. Per cui spero che lo spazio che - ancora una volta meritoriamente - "Liberazione" dona ai comunisti si allarghi poi alle altre sedi idonee: il partito, i movimenti. Il movimento comunista non solo ha sempre rifiutato il terrorismo, ma quando - sempre a cominciare da Marx - ha parlato di violenza lo ha fatto specificando che si trattava di "giusta violenza rivoluzionaria o difensiva", cioè di una dolorosa necessità imposta dalla violenza del capitalismo e dell'imperialismo, per rimuovere ostacoli che non era possibile rimuovere altrimenti. I due eventi storici-base della costruzione dello stato democratico in Italia - e cioè il Risorgimento e la Resistenza - sono eventi di lotta armata: tutti scemi, dunque, i patrioti e i partigiani, che avevano a disposizione e non-violenza e non l'hanno praticata? Evidentemente, come legittimamente hanno ragionato i comunisti in passato, vi sono contesti storici nei quali vi può essere una giusta violenza, e vi sono contesti storici - come questo attuale - nei quali la non-violenza è un fattore positivo, ma non si può generalizzare.

Pasquale Vilardo Roma

comunismo

 

Hesse e la nostra

"lunga marcia"

Caro direttore, Hermann Hesse, il grande scrittore tedesco premio Nobel 1946, nel febbraio 1950, quindi ancora vivo Stalin e in piena guerra fredda, così scriveva, in una lettera, al sig. R. H. di Monaco: "... non possiamo mettere nello stesso calderone Hitler e Stalin, ovvero il fascismo e il comunismo. L'esperimento fascista è un esperimento retrogrado, inutile, stolto e volgare, ma l'esperimento comunista è un esperimento che l'umanità doveva fare, e che, nonostante che si sia così tristemente fermato e impantanato nel disumano, dovrà essere sempre e continuamente ripetuto, e questo non tanto per realizzare la sciocca "dittatura del proletariato", bensì qualcosa di simile alla giustizia e alla fratellanza tra borghesia e proletariato...". Mi sembra che queste parole, più di qualsiasi sterile richiamo ad antiquate ideologie e a dottrine obsolete, contengano il nocciolo filosofico-programmatico del nostro "essere comunisti", della nostra "lunga marcia" verso la realizzazione pratica di un mondo diverso da quello attuale.

Francesco Sarli Roma

 

Una brutta

piega

Caro direttore, bene ha fatto il nostro segretario ad accollarsi le responsabilità del nostro passato ma anche a denunciare gli errori fatti. Se non si riconoscono gli errori siamo destinati a perdere. Ogni occasione è buona per dividerci invece di cercare di risolvere i problemi che hanno i lavoratori, i disoccupati. A livello nazionale il nostro partito fa una politica interessante e con tante belle proposte, poi invece dove governiamo a livello locale si fa ben altro. Vedi ad esempio nella nostra Regione Marche dove è stato rinnovato per altri venti anni il contratto alla raffineria Api di Falconara senza batter ciglio. I consiglieri della Regione Marche si sono aumentati lo stipendio dicendo che è un meccanismo automatico, ma per i lavoratori il meccanismo automatico non c'è? Voglio dire, qual è la nostra diversità?

Giuseppe Polinori Ancona

 

Manca

un'autocritica interna

Cara "Liberazione", siamo due giovani comunisti della periferia di Milano, se abbiamo, come tanti, aderito al Prc è perché ci sembrava che nel nostro Paese fosse assolutamente necessaria la presenza di una forza politica comunista organizzata che difendesse giovani, lavoratori, pensionati e cittadini dai crimini e dalla violenza del capitalismo dominante e dei suoi boss. Oggi la necessità ineludibile della presenza del partito comunista ci sembra confermata: chi dovrebbe lavorare concretamente per dare una speranza alle nostre sconfinate e disastrate periferie? Alle migliaia di persone che ogni giorno che passa perdono la possibilità di vivere dignitosamente perché private persino delle cose più essenziali? C'è forse un'altra sinistra all'altezza in Italia? Forse in qualche salotto borghese, sicuramente non nel Paese reale, che è quello che conta! E come faremo a raccogliere il consenso popolare se alla fine, pur tra tanti distinguo, ci sputiamo addosso da soli? Cosa dire poi ai militanti dei circoli, che questo partito lo tengono quotidianamente in piedi, proprio perché comunisti in un partito comunista? Ma forse questo a una parte di noi interessa meno... ed ormai la moda impone operazioni, queste si di vertice, come quella che si accenna a Berlino. Forse un po' della durezza utilizzata nell'affrontare il '900 andrebbe applicata anche ad un'autocritica interna, finora assente.

Spartaco Puttini, Mattia Gatti

terroirismo

Militarizzazione

senza incolumità

Caro Curzi, circa il terrorismo, tutto il pianeta viene militarizzato senza mai, in realtà, assicurare la incolumità di nessuno. Ma quanto dovremo aspettare una vera lotta per sbarrare la strada ai focolai di guerra e di forte ingiustizia nel mondo? Riguardo all'intervista a Pietro Ingrao, su cui sostanzialmente d'accordo, c'è un breve passaggio, che riporto testualmente: "Ma anche la sensazione di vivere un crinale di frontiera - quante volte abbiamo paventato un golpe, dormito fuori casa, temuto il complotto dei generali?". Deve essere compito dei compagni che "dormirono fuori casa" evitare il rischio che le giovani generazioni, compresi i trenta-trentacinquenni, non comprendano appieno questa affermazione. In Italia la situazione non è precipitata anche perché la lotta contro le tentazioni golpiste è sempre stata all'ordine del giorno dal dopo guerra in poi: non solo per le notti che molti compagni dormivano fuori casa, ma anche per la ferma volontà e la dura lotta per inverare la nostra democrazia senza aspettare l'ora X.

Ilario Rosati Firenze

 

 

da Liberazione 15-1-'04

 

La rifondazione non riguarda solo il comunismo

Caro Sandro, cara Rina, vorrei dare anch'io il mio contributo al dibattito sui contenuti della rifondazione comunista. Il filosofo francese Paul Ricoeur afferma che la nostra è un'epoca di ri-fondazioni più che di fondazioni e che rifondare un'idea, un movimento, una corrente storica significa "mantenere le promesse non mantenute del passato". L'esigenza di rifondare non riguarda solo il movimento comunista, ma molte altre cose essenziali: per esempio il senso dell'agire politico, la pratica della democrazia, la cultura della trasformazione, l'essere di sinistra ecc.: tutte cose che oggi sembrano perse e che sono da riconquistare. "Rifondare", inoltre, comporta un rapporto col tempo, con le generazioni passate e con quelle future, un rapporto di grande rispetto verso chi in passato ha lottato, ha creduto, ha sperato, ma anche di grande sollecitudine verso chi si appresta a vivere nuove esperienze e deve poter riuscire ad evitare errori e fallimenti del passato.

Senza queste premesse anche il dibattito su comunismo, nonviolenza, cultura della pace rischia di essere falsato: non stiamo parlando di ideologie astratte, ma di esperienze storiche. Sappiamo bene che la storia finora è stata impastata di violenza, che la guerra ha segnato le vicende dell'umanità, che in certe situazioni si è imposta la necessità di resistere all'oppressione con guerre di resistenza e di liberazione. Proprio perché sappiamo tutto questo, ci possiamo oggi interrogare se l'umanità nel suo complesso non sia giunta oggi a un tornante della sua storia in cui si pone da una parte la minaccia di una guerra infinita, distruttiva delle stesse possibilità di vita nel pianeta, dall'altra la prospettiva di relegare la guerra, attraverso la pratica della nonviolenza attiva e la lotta per la costruzione di un nuovo ordine mondiale, fra gli arnesi del passato, passando, per parafrasare Marx, dalla preistoria alla storia, o, in altri termini, conquistando un più alto livello di civiltà.

Battersi per questa prospettiva, perché di lotta pur sempre si tratta, significa per noi scegliere di fondare la possibilità di un comunismo a venire sull'orizzonte della pace, riprendendo tra l'altro un'aspirazione profonda di cui si possono cogliere le tracce nel movimento socialista e comunista del passato (la parola d'ordine "guerra alla guerra", il grande leader della sinistra socialista francese Jaurès che cade vittima di un fanatico militarista, prima dell'immane macello della prima guerra mondiale, Rosa Luxenburg e Karl Liebknecht in carcere per la loro opposizione al conflitto, ecc.).

Nell'esperienza concreta del socialismo e del comunismo novecentesco si è trattato di tracce, di aperture che per ragioni diverse non si sono concretizzate e la cui realizzazione è stata rinviata ad una umanità futura, sempre più remota, mentre nei regimi del socialismo cosiddetto reale (e anche, in forme diversa, nelle socialdemocrazie) si affermava una realtà tutta opposta. Quello che oggi invece s'impone è proprio la coerenza fra mezzi e fini, l'impossibilità di rinviare a un futuro radioso quello che non si riesce in nessun modo a prefigurare nella pratica del presente: questa impossibilità è stata espressa dal filosofo marxista André Tosel con la formula "comunismo della finitudine", che significa appunto un'idea di comunismo che sia pensata sulla misura dell'esistenza concreta degli essere umani, dei soggetti in carne e ossa.

Per questo vedo un nesso strategico fra comunismo futuro e lotta pacifista e nonviolenta oggi: anzi propongo (con un lavoro che richiede certamente grande spessore e molteplici contributi) di rileggere la parola "comunismo", accentuando il motivo della "comune umanità" che ci lega a tutti gli altri esseri umani (umanità che viene alienata nella logica capitalistica), in un mondo e in una società dove i beni essenziali siano "comuni" e sottratti alla logica della mercificazione. Questa prospettiva umanistica ed etica non solo non sminuisce ma anzi potenzia la critica al modo di produzione capitalistico e la lotta per un suo superamento, passando per il conflitto sociale e le lotte e per una capacità di gestire in modo pacifico e nonviolento il conflitto e le lotte.

Un altro punto su cui si è concentrato il dibattito su "Liberazione" è la questione della religione e della sua critica da parte di Marx. Anche qui l'esperienza storica del movimento operaio è tutt'altro che univoca. Come saltare quasi due secoli di esperienza storica che hanno visto, soprattutto nell'ultimo cinquantennio, un'imponente partecipazione di compagni credenti alle lotte di liberazione in tutto il mondo? Per chi proviene da questa esperienza, peraltro, la critica marxiana della religione è stata assunta come una sfida in positivo, come la necessità di dimostrare in concreto che la fede è non una fuga in un altro mondo ma un modo di atteggiarsi e una proposta di vita in questo mondo. Non credo che una forza politica possa chiedere di più ai propri aderenti. Il resto appartiene alle discussioni filosofiche e alle convinzioni personali.

Domenico Jervolino

Ma la non-violenza non contraddice il nostro comunismo

Caro Curzi, mi pare che nel dibattito che si sta sviluppando sulla nonviolenza vi siano molti fraintendimenti. La nonviolenza (scritta tutta-di-seguito) non è il contrario della violenza. Allo stesso modo per cui affermiamo che la pace (quella positiva, fondata sulla giustizia) non è semplicemente l'assenza di guerra guerreggiata. La nonviolenza non è (solo) una prassi, una tattica, una modalità che possono scegliere i movimenti politici di trasformazione della società a seconda delle opportunità con cui la storia si presenta a noi.

La nonviolenza, almeno dentro alcune teorie generali (gandhiane, ma non solo: pensiamo ai neri d'America o alla teologia della liberazione), allude ad un'idea politica complessiva del potere che chiama in causa strutture, istituzioni, rapporti sociali, sistemi di valori, culture, coscienza di sé, comportamenti. Ed è un'idea di società alla radice inconciliabile con l'attuale, affatto diversa da quella capitalista perché ne mette in discussione la costruzione ideologico-giuridica principale: la separazione tra individuo e società, tra etica e politica, tra etica della coscienza ed etica della responsabilità (per citare Bobbio), tra libertà e potere (Capitini). Quando si dice che "i mezzi stanno ai fini come il seme all'albero", si demolisce il pensiero occidentale che regge le istituzioni capitalistiche (dall'impresa allo stato) da qualche secolo. Almeno che non si pensi che la guerra, la divisione della società in classi, la depredazione delle risorse naturali... siano accidenti indesiderati, effetti collaterali emendabili, così che sia possibile "mettere al servizio" di altri scopi le modalità di produzione, la scienza, la tecnica, lo sviluppo della potenza sociale delle forze produttive.

La violenza dell'uomo sull'uomo, sulla donna, sulla natura rimane l'elemento inevitabilmente costitutivo e ordinatore dei rapporti di produzione e di potere, quindi sociali, capitalistici. In questo senso la nonviolenza va certamente oltre il pacifismo. Allude ad una società di liberi ed eguali, una democrazia sostanziale di comunità capaci di auto-organizzarsi al proprio interno e di rapportarsi secondo schemi di cooperazione e di reciprocità all'esterno. L'azione nonviolenta (la disubbidienza, la non collaborazione, il boicottaggio, l'obiezione, l'interposizione, la mutualità e le mille e mille forme individuali e collettive con cui ci si può opporre all'avversario, sciogliere i fili del comando, sottrarsi alle sue leggi, destrutturate poteri e colpire i suoi interessi economici...) quando è davvero efficace, costruisce rapporti umani e solidarietà sociale la cui bontà e convenienza sono immediatamente dimostrabili. Istanza etica e azione politica si identificano. Rottura e innovazione dei rapporti sociali procedono di pari passo. Organizzazione (mandato) e rappresentanza (delega) non si separano.

Non mi pare che tutto ciò possa contraddire in alcun modo l'idea che abbiamo noi di comunismo. Al contrario, penso, possa consentire di rimetterla in marcia, qui e ora, sulle gambe e con il fiato di molte più persone, di tanti giovani e, soprattutto, di donne. Mi sono chiesto, allora, cos'è che (da sempre) fa scattare tanta diffidenza, se non persino avversione all'idea di lotta nonviolenta in molti teorici e attivisti della sinistra rivoluzionaria? Penso sia la convinzione che la nonviolenza sia un inganno. Per due motivi: uno dettato dal pessimismo verso l'ipotesi che sia possibile dispiegare a livello di massa una tale consapevolezza individuale capace di reggere conflitti nonviolenti di grande intensità (nonostante e più di Genova, Cancun, il 15 febbraio...ma non dimentichiamoci ciò che c'è stato anche prima, anche da noi; Comiso e il nucleare, ad esempio). Il secondo, dettato da una incrollabile certezza sul fatto che prima o poi - comunque - il sistema è destinato ad implodere e potrebbe essere necessario il ricorso alla lotta armata, nelle varie forme che abbiamo visto guerriglie di resistenza e di liberazione conosciuto e che la storia ha reso necessarie (guerre di popolo anticolonialiste, guerriglie di resistenza e di liberazione, insurrezioni). La scelta della nonviolenza ci precluderebbe una possibile via di salvezza/uscita.

Insomma torna la questione della inefficacia del pacifismo nonviolento. Problema che giudico di difficile, se non di impossibile soluzione a tavolino. Si possono solo fare delle valutazioni molto soggettive sul piano storico e tentare di trarre qualche insegnamento. (Se mi fosse consentito di togliermi dall'impiccio con una battuta, direi che sono finiti crocifissi sia Cristo che Spartaco, o che sia l'India che la Russia sono state costrette a strisciare nella periferia dell'impero). Ciò che ritengo sicuramente obbligatorio per una forza politica è compiere delle valutazioni pragmatiche, ora e per il futuro, facendosi guidare dall'unico criterio di valutazione possibile in politica: scegliere ciò che permette di attivare il più gran numero di energie sociali lungo un percorso di trasformazione, scegliendo le modalità più coerenti e convincenti, più innovative e più partecipate, capaci di mostrare già ora qual è la società che vogliamo domani (almeno sotto il profilo delle regole politiche che devono intercorrere tra di noi).

Paolo Cacciari

Un grazie

a Pietro Ingrao

Caro direttore, non conosco l'indirizzo privato del compagno Ingrao, ma voglio fargli arrivare i miei ringraziamenti per il coraggio col quale ha aggiunto nuova legna al fuoco acceso dal compagno Bertinotti, correggendone a mio avviso anche certe sfumature critiche, cosa che ben si addice a un uomo che ha militato nel Pci e che ne ribadisce l'orgoglio.

Otello Fabbrocini Perugia

 

La libertà di pensare

criticamente

Cara "Liberazione", ritengo sia più che necessario un dibattito per "ripensare" il comunismo ripartendo dalle radici marxiane e considero positivi i passi avanti fatti in questo senso, sia sul piano teorico che di proposta politica, da Bertinotti. Perché non tentare un'uscita dal comunismo (o almeno dal fallimento del socialismo reale) a sinistra e non a destra come è accaduto finora per le formazioni ex-comuniste? Penso che la "contaminazione", usando un termine improprio, con altre esperienze, pensieri e idee, sia più che salutare e quindi non posso che esser contento della nascita di una nuova Sinistra europea, che non sia unita da anacronistici dogmatismi o stiracchiati ideologismi, ma dalla condanna unanime della guerra e del neoliberismo. Sono iscritto a Rifondazione (Giovani comunisti), ma con diversi punti interrogativi, la mia non è un'adesione ideologica ma una vicinanza culturale. Rivendico la libertà di "sentirsi altro", di dubitare e di pensare criticamente. Non mi piace un mondo in bianco e nero: le sfumature esistono e bisogna riconoscerle, lontano dalle ortodossie. Perché un mondo diverso sia fatto di tanti colori!

Mauro Ravarino via e-mail

 

Pensare, ripensare,

fondere...

Cara Rina, caro Sandro, la storia si fa anche con i se e con i ma, come afferma giustamente Bertinotti, e ripensare correttamente il '900 e la storia grande del movimento comunista, significa pensare possibile un percorso diverso rispetto a quello provvisoriamente vittorioso quasi cent'anni fa. Significa ripensare a Kronstadt, e non solo a Kronstadt e significa rendere attuale sul piano culturale, sociale e politico quell'altra storia, non ancora interrotta, fatta di autorganizzazione e di autocoscienza di tanti soggetti che lungo il secolo hanno cercato di superare le colonne d'Ercole del capitale. Significa riscoprire nel movimento anti-liberista ragioni antiche che hanno teso a fondere la lotta per la trasformazione del mondo con una radicale, profonda trasformazione di sé, non definibile da alcuna coscienza esterna e separata (il Partito), ma risultato difficile di una pratica costante, quotidiana, di democrazia senza aggettivi (i Consigli); una pratica che è superamento della separazione tra mezzi e fini in cui annega l'idea aberrante della soppressione dell'altro da sé e che nella scoperta della non-violenza si ricongiunge con una politica, quella delle donne, che sta in mezzo, né sopra né tantomeno, come dice Revelli, "altrove, in una sfera separata". E allora potremmo pensare che le esperienze che nel XX secolo hanno "perso" possono oggi illuminare di più e meglio la ricerca della rifondazione rispetto alle logore certezze di qualche catechista di troppo. E in sostanza capire che non solo un altro mondo ma che anche un altro comunismo è oggi possibile.

Marzia Mencarelli, Marco Savelli Pesaro

 

Una pluralità

di teorie e di pensieri

Cara "Liberazione", penso che farei un torto all'intelligenza e alla sensibilità politica di Fausto Bertinotti se credessi che nelle varie "esternazioni" del suo pensiero egli abbia "messo all'indice" il pensiero e l'opera di Lenin. Nessun comunista che abbia "letto" criticamente la storia del Novecento ritiene politicamente sensato perpetuare il culto di Lenin, ogni comunista che voglia "immergersi" nella storia del XXI secolo efficacemente per costruire una società di "liberi ed uguali" deve conoscere e valutare pensiero e azione dei propri "antenati" (considerando ovviamente il contesto storico) al fine di ricavarne eventuali indicazioni preziose o di non ripercorrere gli stessi fatali errori. Ora, se è deprecabile che il segretario (o la direzione) di un partito comunista detti la "linea" interpretativa della Storia e del Pensiero e la imponga ai membri dello stesso non è neanche auspicabile che ognuno pratichi i culti che vuole. Quindi un "atteggiamento" condiviso nei confronti del passato (teoria, prassi, eventi) s'impone. Si trova forse in una felice ed appropriata espressione di Bertinotti, "ci sono diversi marxismi", il senso di una pluralità di teorie e di pensieri.

Angelo Nigrelli Lecco

 

Non deleghiamo

la linea politica

Cari compagni/e, sono un anziano partigiano comunista, sin dal '43, seguo la politica con passione da sempre... Ho sempre avuto fiducia nel socialismo/comunismo, quindi ho sempre lottato, tanto da essere licenziato nel '54 alla Weber di Bologna perché davo fastidio ai padroni Fiat. Seguo, il dibattito su "Liberazione", non sono intellettuale ma la vita in fabbrica e la lotta partigiana mi hanno forgiato al marxismo e leninismo... Si è veramente comunisti, per quello che si fa, come si agisce, non per quello che si dice di essere, o per il colore della cravatta che si porta, o la bandiera abbracciata. Da vecchio comunista trovo strano che a questo dibattito non intervenagano i componenti della segreteria, direzione, Comitato politico nazionale... Perché la linea del partito la si delega a Repubblica o a "Liberazione" e non ad un congresso straordinario? Se si vuole un partito solo di nome, io non ci sto! Io penso che se tutte le energie spese da tanti contro l'Urss e i paesi socialisti (pur con i loro difetti) fossero state usate per smascherare le malefatte del capitalismo, dell'imperialismo, cominciando dagli Usa... forse oggi non ci troveremmo in questa barbarie.

Armando Vignoli (Pezzi) Anzola Emilia (Bo)

 

Quale rapporto

col centrosinistra?

Cara "Liberazione", abbiamo il merito di avere anticipato e capito molti processi che investivano la classe operaia, ma quando questi hanno cominciato a concretizzarsi in lotte effettive abbiamo in parte mollato. Io non so quanto ci sia di "nuovo" in questa lotta né quali siano i loro limiti. (A me sembra, ad esempio, che ci sia una insufficienza di politica), per intanto verifichiamo il ruolo che dobbiamo svolgere noi. Chiediamoci anche cosa fanno di nuovo le nostre federazioni. Come cambia (e se deve cambiare) il nostro rapporto con il centrosinistra? E come rinnoviamo e riclassifichiamo l'impegno del partito nella lotta dei lavoratori?

Nuccio Tirelli Piacenza

 

 

 

da Liberazione 16-1-'04

 

Di fronte al potere violento non ci basta dirci non violenti

 

di Piero Bernocchi,Marco Bersani,Salvatore Cannavò,Luca Casarini

 

Caro Sandro, cara Rina, la strategia della guerra globale permanente e preventiva non offre scampo ai popoli, agli uomini e donne della terra intera inglobati in uno stato di "terrore permanente" fin dentro gli avamposti occidentali più ricchi e non più sicuri, gli aeroporti. Ma tale terrore non è solo espressione della guerra globale: è sempre più fatto immanente delle società in cui viviamo, espressione di un rapporto di dominio prodotto dal dispiegarsi delle leggi del capitale a cui tutto deve soggiacere pena una repressione sempre più indiscriminata - cosa sono, da ultimi, gli arresti di Roma se non questo? - anzi, pena l'iscrizione d'ufficio nell'albo dei violenti di turno, sempre troppo contigui al terrorismo e quindi da castigare anche con la galera. E' in questa torsione semantica e politica che risiede il rischio maggiore per le lotte di cui siamo protagonisti e che il dibattito, così come avviato dall'intervento di Fausto Bertinotti, contribuisce, purtroppo, ad alimentare.

La violenza come fatto intrinseco al sistema dominante, espressione di un rapporto di dominio e di potere - anche quando viene monopolizzata dall'attentato terroristico - finisce per costituire la cifra identificativa delle lotte stesse e dei soggetti che si oppongono allo stato di guerra permanente.

Questa torsione è resa possibile da un'idealizzazione dei concetti che, in luogo di definire ed esprimere fenomeni reali dotati di variabili e sfumature concrete, finiscono per diventare pure astrazioni, private del loro contesto e della loro materialità. Il punto è che il cosiddetto terrorismo, inteso nel senso classico, è un fenomeno storico non una categoria assoluta. E in quanto fenomeno esprime a sua volta forme ed espressioni differenti. Oggi, ad esempio, la sua forma più evidente e visibile è quella di coloro (Al Qaeda in primo luogo) che, mediante il massacro feroce di civili, sembrano rispondere alla guerra permanente con una forma di "guerra a bassa intensità" altrettanto sporca e spietata, cercando di colpire il "cuore" dell'occidente ma avendo in realtà come obiettivo cruciale sopratutto il rivolgimento di alcuni stati arabi, l'Arabia saudita innanzitutto. Ma questo uso del terrore indiscriminato, che non colpisce avversari "militarizzati" e in armi ma per lo più civili

inermi, è cosa ben diversa dall'uso del terrore che ad esempio i kamikaze palestinesi fanno nei confronti di Israele: uso che, oltretutto, avviene sotto l'ala oppressiva della sconfitta della lotta pacifica e di massa. E, a sua volta, quell'uso del terrore si differenzia ancora rivolgendosi, a volte, in maniera indiscriminata, contro i civili, ma altre attaccando i coloni, assai militarizzati e violenti nei confronti del popolo palestinese, o, in molti casi, scegliendo obiettivi militari o comunque più classicamente bellici: in questi ultimi casi usare il termine terrorismo piuttosto che quello di resistenza armata diviene una scelta ideologica e di schieramento con effetti assai negativi. E altrettanto ideologico e "di schieramento" è la scelta di un termine o dell'altro nel caso iracheno dove agli attentati di ignota matrice si susseguono vere e proprie azioni militari contro l'occupazione statunitense, o inglese o italiana, che nulla hanno a che fare con il terrorismo, ma che

divengono espressioni di una resistenza armata. Tanto più in un contesto che ormai vede veri e propri moti di ribellione di piazza che avvengono ogni giorno e che segnalano quanto sia esteso il rifiuto dell'occupazione militare.

 

Queste analisi concrete non puntano affatto a sostenere l'uso del terrore, ma servono o aiutano a comprendere la realtà in cui operare per averne una rappresentazione il più possibile esatta. Servono a capire, ad esempio, perché Noam Chomsky può dire che il "terrorista n° 1" sia George Bush e servono a comprendere il ruolo che, in particolare in Italia, ha avuto il terrorismo di Stato scagliato contro i movimenti. Ma tale concretezza di analisi scompare del tutto quando si sceglie la contrapposizione idealistica tra "la Guerra" e "il Terrorismo", quando cioè due categorie analitiche acquisiscono soggettività politica, quasi una vera e propria personalità e un intero apparato organizzato: e vengono utilizzate per descrivere non solo l'esistente ma anche il passato e addirittura l'intero futuro. Così anche il Vietnam diventa un fatto violento esecrabile, schiacciato sulla deriva autoritaria dello stato vietnamita svalutando quell'effetto di "intontimento delle classi dirigente

americane", di cui brillantemente parla Mario Tronti, che allora ebbe: e, perchè no, magari anche l'intera attività dei rivoluzionari cubani e dello stesso Che Guevara. La coppia guerra-terrorismo (addirittura come "spirale"), che ad alcuni sembra così efficace nella descrizione del presente, invece lo comprime e lo cancella in una dicotomia astratta. La strategia imperialistica degli Usa punta a questa dicotomia per costringerci a scegliere tra l'una e l'altra: e quindi se sei contro la guerra globale sei per il terrorismo. E' stato così nel caso di Nassirya, anche se abbiamo finito per non accorgercene. Quell'attacco militare contro il contingente italiano - di questo si è trattato come ha sottolineato anche un osservatore non certo a noi vicino, come Sergio Romano - è stato descritto come un fenomeno terroristico, naturale conseguenza dell'opposizione alla guerra. Accettare la dicotomia assoluta, la "spirale" crescente tra i due concetti significa dunque rischiare di

assoggettarsi a questa strategia che in ultima analisi punta a delegittimare qualsiasi obiezione, qualsiasi anomalia nella lineare strategia di guerra permanente, qualsiasi "diserzione" che, automaticamente, diverrebbe un passaggio da un campo all'altro dello scontro e non un'alternativa (accusa che infatti Sharon muove ai Refusnik o che, peggio, sostanzia la direttiva europea sul terrorismo finalizzata a redigere una lista "nera" di movimenti di opposizione da considerare fuori legge). Continuare a discernere, a selezionare gli argomenti, a descrivere i fenomeni per quello che sono e rappresentano, rifiutare la falsa dicotomia guerra-terrorismo, ci sembra invece il lavoro più difficile ma anche il più indispensabile per seguire una strada di opposizione all'ordine mondiale che gli Stati Uniti ci vogliono imporre.

 

Si dice, però, che il mezzo per rigettare quella dicotomia - che nel discorso di Bertinotti non viene smentita, anzi appare condivisa e persino enfatizzata - e sottrarsi alla morsa micidiale della presunta "spirale" guerra-terrorismo sarebbe il rifiuto assoluto della violenza e quindi l'accettazione completa della pratica nonviolenta. Che l'opposizione alla guerra globale permanente sia oggi il movimento di massa su scala mondiale è un fatto ormai acquisito già dalla risposta che questo è stato in grado di offrire dopo l'11 settembre. Non crediamo però che questo possa essere riassunto solo nella pratica non violenta. Intanto anche qui la scelta della terminologia è già una scelta ideologica, politica e persino di schieramento. Spesso i movimenti, le opposizioni sociali sono costrette a un uso della forza che è cosa ben diversa dall'esaltazione della violenza, per praticare forme di autodifesa e di resistenza alla repressione, alla barbarie, allo sfruttamento, al sopruso. Se è vero

che non esiste una dicotomia guerra-terrorismo, ma decine di sfumature, variabili, situazioni concrete diverse di caso in caso (a quale categoria iscriviamo lo zapatismo o la resistenza colombiana?), anche per quanto riguarda la scelta di pratiche di lotta esistono modalità molteplici. Tra violenza e non violenza, lo abbiamo dimostrato anche qui in Italia nel movimento e imparato l'uno dall'altro, esiste la disobbedienza, la resistenza, il boicottaggio, il sabotaggio, ecc. E queste a loro volta si esprimono in forme differenziate a seconda dei contesti. Cos'erano, se non questo, via Tolemaide, piazza Da Novi, piazza Dante, piazza Alimonda il 20 luglio 2001 a Genova? Le manifestazioni, le lotte e quindi le pratiche scelte si definiscono in funzione assoluta o invece vanno commisurate agli obiettivi che si scelgono e ai risultati ottenibili?. Violare le "zone rosse" - che ormai costituiscono la frontiera interna della guerra globale - si misura sul tasso di nonviolenza o sul

significato che ciò esprime per le lotte stesse, sulla fiducia che si accresce, sulla forza che acquista un movimento? Non si può calare sulle lotte, dall'alto di una definizione astratta, una categoria, la nonviolenza, che ne cristallizza il divenire e rischia di paralizzarne l'azione. Insomma, non si può commettere il rischio opposto a quello degli anni Settanta quando sembrava che una determinata lotta o processo rivoluzionario fossero tanto più degni di nota, quanto più facessero uso della forza (o della violenza). Queste astrazioni vanno lasciate da parte. Le lotte si commisurano sulla base della capacità di mobilitazione, sul tasso di partecipazione e di scelta democratica che sanno garantire; le forme di lotta si definiscono sulla base degli obiettivi che si sono scelti e, in ultima istanza, si giudicano su quanto rafforzano la fiducia in sé stessi, nelle proprie ragioni, su quanto allargano consenso e protagonismo sociale, su quanto evitano forme di "avanguardismo" e di

pratica separata ed escludente. Ma naturalmente dipendono anche dall'atteggiamento, e dal grado di violenza dispiegata da chi il potere gestisce. Perchè se così non fosse, dovremmo dire che avevano ragione i nazisti a chiamare "banditen" i partigiani. Mezzi e fini non sono disgiunti nel senso che si scelgono i mezzi migliori per raggiungere i propri fini. I nostri fini sono un mondo senza sfruttamento, senza padroni, senza guerre, democraticamente "governato", in questo senso pacifico e in cui l'eliminazione della violenza è giocoforza un processo da acquisire. Per questo il movimento "no global" non si è mai fatto affascinare dalla violenza gratuita ed è infinitamente "altro" dal terrorismo. Certamente aspiriamo a un mondo senza violenza e a un percorso di lotte il più possibili immuni dalla violenza. Ma l'altro mondo possibile che vogliamo è costruito giorno per giorno, in scelte quotidiane, in lotte quotidiane, spesso difficili, in scontri non voluti ma imposti da leggi ingiuste

e dalla repressione. Lotte che non sempre possono scegliere, pena l'immobilismo, tra violenza e nonviolenza, avviluppate come sono dalla violenza del potere: e che in certi casi devono anche autodifendersi. Possono scegliere, invece, di essere partecipate, co-decise, mezzi consapevoli e autodeterminati aventi come fine un mondo migliore.

 

Piero Bernocchi, Marco Bersani, Salvatore Cannavò, Luca Casarini

 

Una discussione vera su un nodo cruciale

Dopo l'intervista di Bertinotti al "Corriere"

Violenza e nonviolenza: riesplode un dibattito antico e attualissimo, sia nella sua valenza generale (quasi "teorica") sia nei suoi brucianti risvolti politici, ora che sul movimento (specie a Roma) cala la stretta repressiva del ministro dell'Interno. Una frase di Fausto Bertinotti - estrapolata dal contesto di un'intervista del segretario di Rifondazione comunista pubblicata giovedì dal Corriere della sera - sta producendo un dibattito vero, e anche una polemica: "Io di bastone non porto neppure quello della bandiera. E invito gli altri a fare altrettanto. Alle manifestazioni si va a mani nude e a volto scoperto", ha detto il segretario di Rifondazione comunista. Ieri, sullo stesso giornale, la replica di alcuni esponenti del movimento, da Paolo Cento a Luca Casarini. Come è sempre avvenuto, s'intende, molti useranno questa discussione in modo strumentale, magari per dimostrare che l'intero movimento insorge contro Rifondazione o che Rifondazione intende "mollare" il movimento. Nè l'una nè l'altra cosa hanno fondamento alcuno. E' vero, invece, che i dissensi non sono nè piccoli nè banali.

L'intervista del Corriere a Bertinotti muove dall'arresto di Nunzio D'Erme e di altri militanti del movimento romano, per la manifestazione del 4 ottobre dell'anno scorso. Su questa vicenda specifica, critica quell'"eccesso di zelo", a senso unico, cioè quegli "interventi reiterati" contro il movimento che hanno spinto gli inquirenti a considerare "socialmente pericolose" persone come Nunzio D'Erme. Ma il ragionamento si allarga a temi più generali e di cultura politica. E' giusto, chiede l'intrervistatrice, partecipare alle manifestazioni con "casco, bandana e scudo", come ha detto lo stesso D'Erme? Sono leciti comportamenti violenti, come teorizzano alcuni esponenti del movimento? Bertinotti risponde riproponendo la scelta non violenta, ovvero quella "battaglia culturale per la non violenza" "che oggi è l'unica possibile in una società che ha la vocazione della repressione". Una battaglia, come è noto, che il segretario di Rifondazione ha riaperto a partire dal convegno (sulle foibe) svoltosi a Venezia nel dicembre e che sta suscitando - proprio sulle colonne di questo giornale - un confronto appassionato. "Mi batto perchè si arrivi a forme condivise di nonviolenza", dice Bertinotti, sempre nell'intervista al quotidiano diretto da Stefano Folli. "Non faccio di questa mia teoria politica un elemento discriminante nei rapporti con il movimento. La nonviolenza è il traguardo, ma non metto sotto la stessa definizione di violenza qualsiasi forma di resistenza e di lotta". Ci sono, insomma, molte forme di lotta - i picchetti durante gli scioperi, il boicottaggio, l'occupazione di case - che si possono definire, al tempo stesso, nonviolente e non legali: sottinteso, in una questione così complessa non si può fare d'ogni erba un fascio. "Un consigliere comunale che occupa una casa per darla a chi non ce l'ha fa bene il suo mestiere. Un militante che fa gesti violenti fa male".

 

Sul Corriere di ieri, le risposte e la critica di alcuni esponenti del movimento. Luca Casarini è lapidario: "Non siamo non violenti. E' vero che la violenza nella storia dei movimenti rivoluzionari del '900 ha portato tragedie. Ma vorrei sapere che cosa ha fatto Gandhi". Ancora più polemico Guido Lutrario, uno dei leader dei disobbedienti romani: "E se Bertinotti il casco non se lo vuole mettere, non se lo metta. Noi alle nostre teste ci teniamo". A favore del casco, anche Daniele Farina, del Leoncavallo di Milano, mentre don Vitaliano della sala appare un po' più perplesso e Mario Capanna, glorioso leader del '68 si schiera decisamente con Bertinotti. "La nonviolenza diventa irresistibile, toglie alibi alla controparte. Le masse con forti ragioni non sono mai violente" dichiara - ed è di sicuro uno che di cortei, violenti e nonviolenti, se ne intende.

Fin qui, un dibattito destinato, in tutta evidenza, a continuare e forse ad intensificarsi. E' chiaro che siamo a uno snodo molto complesso non solo di posizioni, ma di piani: un conto è il tema - generale - della violenza nella pratica del movimento operaio, del ricorso alla lotta armata, del valore della resistenza da parte dei popoli aggrediti e invasi; un altro conto è il dibattito ravvicinato sul e nel movimento, le sue scadenze, i suoi comportamenti, le sue pratiche. E un altro conto ancora è l'intreccio di questi temi strategici con il dibattito interno di Rifondazione comunista. Una cosa è certa: il segretario di Rifondazione comunista ha avuto il coraggio politico di mettere sul tappeto una questione cruciale come la nonviolenza in termini netti e limpidi: una assunzione forte di responsabilità, una scelta che non chiama a banali "schieramenti" ma a una discussione di verità.

Rina Gagliardi

 

 

 

da Liberazione 17-1-'04

 

LIDIA MENAPACE

 

Ma il terrorismo isola chi lo fa e rende le masse spettatrici

 

Sulle pratiche terroristiche non esprimo un giudizio etico: delle sue

azioni ciascuno/a risponde alla sua coscienza e - se non se ne sottrae -

alla legge positiva. Non esprimo nemmeno un giudizio assoluto. Si tratta di

un fenomeno storico e per tale lo valuto. Se fu praticato dai Tartari mi

interessa poco, dato che non fluisce più nella storia di oggi, praticato

dai Narodnikj, i populisti russi, tra i quali vi era Leo Jogiches e la

stessa Rosa, che se ne distaccarono (ma vi passarono, sia detto per

scandalo delle anime belle). Mi interessa invece, perchè riguarda una

persona della quale voglio rinnovare la memoria, non museale, ma attiva e

viva.

 

Politicamente sul fenomeno terrorrismo nelle sue varianti storiche e

geopolitiche dò un giudizio negativo: non tanto per la ferocia persino

autodistruttiva o perchè ci vanno di mezzo innocenti (anche: ma questo è un

giudizio generico che riguarda troppe cose per essere un fondamento saldo)

ma perchè il suo scopo dichiarato o comunque il suo effetto non eludibile è

che allontana le masse, le passivizza, le colloca in un limbo di inattività

a fare da spettatrici. E per questo a me oggi pare sempre un fenomeno di

destra per quanto rivoluzionaria possa essere la soggettività di chi lo

pratica.

 

Chiamo dunque terrorismo una azione molto violenta contro persone agita

individualmente o in un piccolo gruppo con una esposizione personale

"eroica", che a me non piace mai: resto con Bert Brecht: "Beato il popolo

che non ha bisogno di eroi".

 

Non è invece terrorismo la resistenza anche armata o la guerriglia, che ha

una organizzazione e ha bisogno dell'appoggio popolare come del pane.

Ricordiamo il motto di Ho Chi Minh che il partigiano è come un pesce

nell'acqua e l'acqua è appunto il favore popolare che deve assolutamente

conquistare e mantenere. La resistenza anche armata è legittima dal punto

di vista del diritto internazionale per qualsiasi popolo occupato e da lì

non mi muovo: il popolo iraqeno invaso e occupato ha il diritto di lottare

contro gli occupanti e delle morti che ne seguono rispondono quelli che

hanno mandato soldati ad occupare, vergognosamente: oggi i carabinieri

uccisi a Nassiriya servono per consentire a imprese italiane di lucrare

sulla "ricostruzione" dell'Iraq. Davvero assassini, come dissi a Parigi

dando la notizia durante il Forum delle Donne. Non sollevo dunque nessun

rilievo critico sulla legittimità della guerriglia o della resistenza

armata iraqena: se interpellata tuttavia non giudicherei allo stesso modo

qualsiasi gruppo resistenziale: a me che vincano i sunniti o gli sciiti,

come in Egitto magari i fondamentalisti islamici, come in Iran vinsero gli

Imam, davvero non piace: so bene che qualsiasi dittatura è esecrabile, ma

comunque le dittature religiose sono -almeno per le donne - peggio ancora

di quelle laiche: per dirlo con esempi chiari, le donne Afgane stavano

meglio con Najibullah che con i Talebani o con il governo di destra di

oggi; le donne pakistane poco giovamento hanno dal fatto che il loro

governo appoggi e sia appoggiato dalla "democrazia occidentale". In Iraq

certo le donne avevano più agibilità con Saddam di quanta ne avrebbero in

una democrazia teocratica. Sarebbe come aver accettato durante la

Resistenza che il fascismo cadesse per far posto allo stato pontificio o

alla monarchia rafforzata e per restaurare lo Statuto albertino invece di

fare la Costituzione.

 

Interpellata, in più direi come scelta e indicazione personale che

preferisco boicottaggi e sabotaggi, pozzi incendiati e binari fatti saltare

che attentati a persone, mine sulle strade ecc.. E qui voglio ricordare che

l'azione nonviolenta non è affatto necessariamente legale o remissiva e

comprende appunto sabotaggi boicottaggi attentati a cose.

 

A me sembra che sia un atteggiamento conservatore quello di chi si appella

al passato prossimo non per dare uno spessore storico al suo cammino in

avanti, ma per avere un esempio rassicurante e agire una sorta di coazione

a ripetere. Conviene anche ricordare che le pur gloriose e legittime

guerriglie e lotte armate di resistenza alle invasioni (Vietnam) o alla

tirannia interna (Nigaragua, Cuba) hanno prodotto o regimi autoritari e

inamovibili o addirittura l'andata al potere di governi di destra. Conviene

fare uno sforzo di creatività e trovare nuove strade: una scelta di azione

collettiva nonviolenta del tutto interna alla storia del movimento operaio

e sindacale e a quello delle donne a me pare interessante.

 

Un atteggiamento di questo tipo starebbe bene immesso nelle lotte degli

autoferrotranvieri: piuttosto che una ripetizione un po' fuori tempo

massimo dei CUB e delle lotte operaie dell'autunno caldo. Si può altrimenti

diventare persino subalterni: se i ferrotranvieri non vedono la differenza

tra mercato e servizi e non si danno da fare per un pieno coinvolgimento

dell'utenza non solo a sostegno passivo della loro lotta, ma con propria

presenza (come ad esempio invece fanno i Cobas contro la riforma Moratti,

insieme a genitori e associazioni) rischiano l'isolamento e la

ripetitività, e sembrano lasciar credere che anche per loro i servizi sono

un pezzo del mercato.

 

LIDIA MENAPACE

 

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Insurrezione, resistenza, insubordinazione, disobbedienza...

 

Daniele Farina

 

Diversamente da quanto espresso ieri da Cannavò e altri compagni non credo

affatto che l'intervento di Bertinotti abbia alimentato alcunché di ambiguo

o peggio di negativo. Prosegue semmai un dibattito di lungo periodo

rialimentatosi nel movimento dopo i fatti di Genova 2001.

 

Sono tra quelli che, in quel frangente, respinse l'idea che di fronte ad un

ordine pubblico palesemente uscito dai cardini, fino all'omicidio,

servissero servizi d'ordine, e non, piuttosto, forme estese e condivise di

autotutela personale e collettiva. Tra quelli che all'indomani della

manifestazione del 4 ottobre scorso ha espresso contrarietà evidente sulla

conduzione di quella manifestazione e gli effetti sul movimento. Non oggi

discutiamo dunque sull'onda di una palese operazione politico-giudiziaria

ma riprendiamo il filo di un ragionamento mai realmente interrotto.

 

La disobbedienza come processo sociale dimostra una straordinaria

estensione: è entrata nel vocabolario materiale di larghi settori sociali,

nelle lotte di Basilicata contro le scorie nucleari, in quelle degli

autoferrotranviari, nelle mobilitazioni per il diritto all'abitare o allo

studio. Un grande, immaginario, luogo comune nel quale la tradizione non

violenta, quella di Capitini, si confronta con altre pratiche, tra le quali

quelle comuniste ed eterodosse di molti di noi. Ne sta emergendo un

linguaggio che declina la non violenza in una forma nuova e diversa da

ciascuna di esse, fortemente attualizzata. Del che sembra non rendersi

conto anche quella parte del movimento che attribuisce a pratiche nuove

significati antichi, prigioniero di gabbie semantiche e politiche. Errore,

questo sì, che cristallizza e paralizza l'azione.

 

D'altro canto se il reciproco riflettersi di guerra e terrorismo va rotto

in qualche punto è all'interno di questa novità che il cuneo va cercato e

non certo in una disputa geometrica sulle forme di questa relazione. Questo

è anche il luogo nel quale si concretizza l'obiezione e la diserzione alla

guerra, in cui disobbedienza e boicottaggio acquisiscono legittimità sociale.

 

Non ho dubbi che l'ondata di movimenti globali sviluppatasi dal 1999 in

avanti ha portato con se l'eredità del passato e che riaffiorino i felici

detriti di un conflitto irrisolto. Che proprio la guerra, nelle sue varie

declinazioni, terrorismo compreso, ci ponga di fronte in modo più

stringente ad una necessaria e radicale trasformazione dell'esistente,

quasi ad uno stato di necessità, entro un modello di sviluppo, che per

convenzione chiamiamo neoliberista, percepito come socialmente e

ambientalmente intollerabile. Che riemerga un problema di legittimità delle

forme di lotta che si intreccia ad uno "ius resitentiae" che permea la

nostra cittadinanza.

 

Dalla dichiarazione giacobina del 1793 "di fronte all'ingiustizia e

all'oppressione l'insurrezione è il più sacro dei diritti dei cittadini",

attraverso l'irredentismo italiano, l'articolo di Dossetti in sede

costituente, "la resistenza individuale e collettiva. è diritto e dovere di

ogni cittadino", lungo la guerra d'Algeria e l'insubordinazione dei 120

intellettuali francesi, attraverso la disobbedienza civile del movimento

Usa per i diritti civili, e via di questo passo, fino allo zapatismo, c'è

un filo piuttosto visibile che arriva fino a noi.

 

Ma è un sentiero che si modifica nel tempo, dall'insurrezione al diritto di

resistenza, all'insubordinazione, alla disobbedienza in un percorso forzoso

che mi piace pensare corrisponda ad un estendersi, un socializzarsi.

 

Che ci consente di parlare di non violenza con piena libertà, fuori da

categorie immutabili e da una ricerca spasmodica di coerenza tra mezzi e

fini dell'agire politico. Che non ci impedisce di leggere la violenza dei

rapporti di dominio imperanti ma senza rimandare ad un lontano futuro la

radicale rottura con essi, il posizionarsi da subito alle soglie del mondo

migliore possibile.

 

E' dibattito insomma che fuoriusciti dal travisamento del giornalismo

interessato ( "Il Corriere della Sera" di "Casco sì, no, forse") può

portare lontano.

 

Daniele Farina

 

 

dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com

17-1-04

 

Lucia Mielli

 

Rispetto al documento elaborato da Bernocchi, Bersani, Cannavò, e

Casarini  voglio esprimere il mio sentire e le mie perplessità. Mi

lascia di prima battuta perplessa l'eterogeneità dei quattro firmatari

nel sentire, nelle pratiche, negli obiettivi, nella capacità di fare e

lavorare collettivamente.

Ricordo Riva del Garda perché l'ho vissuto da dentro, ricordo le

critiche mosse ai disobbedienti, sulla loro incapacità di un lavoro

collettivo, di condivisione di percorsi con tutti gli altri, sulla loro

autoreferenzialità e atteggiamento da "essere superiori", gli unici a

capire e a muoversi nel giusto modo, sulle loro scelte a volte senza

senso come quelle del taglio delle pompe di benzina, che non ledono

minimamente la multinazionale e non fanno ragionare le persone su tutto

il discorso che esiste dietro a tali mega-aziende, anzi, a volte

producono proprio l'effetto contrario sul sentire comune. Queste

valutazioni sono condivise da moltissime persone che compongono il

movimento italiano, dette nei corridoi, e deriva dall'esperienza

diretta, dal lavoro sul territorio, dalle mobilitazioni che si tenta di

mettere in campo perché loro, e lo sappiamo in molti, si comportano

proprio così. Possiamo fare decine di esempi in tutta Italia senza paura

di smentite. E lo dico condividendo in grandissima parte le tesi e le

letture che fanno, muovo quindi ai disobbedienti una critica di metodo e

non di merito (anche se poi c'è una stretta correlazione tra forme e

contenuti). Altre pratiche autoreferenziali ed escludenti le abbiamo

vissute in altri ambiti, con altri gruppi e associazioni, basti pensare

alla recente lotta contro il WTO. Con questo per dire che non è solo una

peculiarità dei disobbedienti.

Penso anche ad incontri e seminari come quelli di Milano organizzati

inevitabilmente per pochi a causa della scelta della città (il sud è

lontano) e del luogo (una sala per cento persone non capace di contenere

tutti i partecipanti e quindi non tutti coinvolti nel dibattito) ed

economici (ci si è posti come i ragazzi e non solo si possano pagare

senza rimborsi viaggio, vitto e alloggio?).  Per queste ragioni, il

vostro pezzo che recita " Le lotte si commisurano sulla base della

capacità di mobilitazione, sul tasso di partecipazione e di scelta

democratica che sanno garantire; le forme di lotta si definiscono sulla

base degli obiettivi che si sono scelti e, in ultima istanza, si

giudicano su quanto rafforzano la fiducia in sé stessi, nelle proprie

ragioni, su quanto allargano consenso e protagonismo sociale, su quanto

evitano forme di "avanguardismo" e di pratica separata ed escludente."

mi pare veramente avulso dalla realtà. In netta contraddizione tra

vissuto ed enunciato.  E' interessante che parliate di scelte

democratiche. Sarebbe bene aprire un dibattito reale sui meccanismi di

funzionamento del movimento italiano. E' un'autocritica che non ho

saputo cogliere? Possibile. Auspicabile.

Mi sembra veramente poca cosa l' utilizzo che fate della  Resistenza

(dei banditen dei nazisti), del Vietnam, dello zapatismo come se chi

parla di non violenza dovesse improvvisamente non sentire più questi

eventi come parte della propia storia collettiva e personale ed anzi,

trattare tutti o come guerrafondai o terroristi. Se qualcuno che parla

di non violenza  pensa questo, per cortesia, lo dica chiaramente. Credo

che non sia affatto così e temo che qualcuno di voi, mentre lo dice, non

sia in totale buona fede. Un conto è essere critici su alcuni aspetti

della Storia che ci appartiene un'altra è ragionare su che basi fondiamo

il nostro agire ora. Mi era parso che parlare di non violenza non era

costruirsi una lente con la quale rileggere e ristoricizzare con essa

ogni fatto avvenuto, ma proprio, in questo preciso contesto storico,

nella dicotomia Guerra-Terrorismo, porsi in un cammino altro,

alternativo. ORA. Per questi motivi non mi convince affatto quello che

affermate "Accettare la dicotomia assoluta, la "spirale" crescente tra i

due concetti significa dunque rischiare di assoggettarsi a questa

strategia che in ultima analisi punta a delegittimare qualsiasi

obiezione,qualsiasi anomalia nella lineare strategia di guerra

permanente,qualsiasi "diserzione" che, automaticamente, diverrebbe un

passaggio da un campo all'altro dello scontro e non un'alternativa". Mi

pare che ragionare su non violenza sia l'esatto opposto.

Nel convegno a Riva del Garda Luca Casarini e Lussurgiu (con Gian Franco

Benzi, una rappresentante della Retelilliput, Giovanni Russo Spena,

Marco Bersani) mi hanno proprio convinta quando parlavano che era

necessario ricostruire una nuova legalità anche con azioni non legali

(la legalità non  c'entra nulla con il discorso violenza e non violenza,

tant'è che Ghandi praticava azioni non violente e del tutto illegali -

certo non è riuscito a costruire una società diversa ma ha liberato

l'India dal colonialismo britannico) rifiutando e combattendo la non

legalità della legge Bossi-Fini, la non legalità dei CPT, la non

legalità delle leggi che precarizzano ogni ambito della nostra vita,

attraverso la disobbedienza,  la contrapposizione dei corpi ma

soprattutto con la non violenza per non utilizzare lo stesso terreno dei

nostri avversari, non solo per la sproporzione dei mezzi utilizzati ma

soprattutto perché un altro mondo migliore deve nascere necessariamente

ed esclusivamente su altre dinamiche sociali.  Ma di quale non violenza

parlavate allora?

Sull'odierno dibattito sulla non violenza si vuole discutere della

Storia o del movimento italiano ora, dopo il 4 ottobre? Voi aprite il

documento parlando della repressione del movimento oggi, con gli arresti

di Roma (e tra poco si apre il processo a Genova contro i compagni del

movimento con imputazioni pesantissime). Perché questa repressione?

Forse perché i singoli colpiti fanno paura al Sistema? Su via, non

scherziamo, ognuno di noi, come singolo può realmente far paura ed

essere percepito dall'Impero come un pericolo da reprimere?

Gli scudi in plessiglax terrorizzano il Sistema? Il taglio delle pompe

forse o l'abbattimento delle zone rosse?  E' il Movimento, vasto,

Mondiale, radicale nei contenuti, capace di cambiare le coscienze, il

senso comune, capace di mettere in discussione il Pensiero Unico e di

vincere su questo versante (vedi Cancun) che fa paura a Lor Signori. La

repressione su pochi, e lo abbiamo detto da sempre, da Genova 2001 in

poi, ha lo scopo di delegittimare TUTTO il Movimento, e questo sì fa

paura al Sistema, che vuole far passare TUTTO il Movimento come

violento, e quindi neutralizzarlo, renderlo incapace di mobilitare, di

coinvolgere ed in sostanza impedire che si rivoluzionino i rapporti di

forza reali nella società. Per disarticolare ed annullare questo Loro

progetto noi, ora, che facciamo? Ne sono convinta, la non violenza,

senza se e senza ma. Oppure pensate che ci troviamo di fronte ad una

situazione come nel '21 con una repressione di massa e sul ciglio di una

guerra civile?

 

Lucia Mielli

 

 

da Liberazione 18-1-'04

 

Alessandro Curzi

Rina Gagliardi

 

 

Nonviolenza, l'arma più forte

di cui oggi disponiamo

L'intensa discussione, che si va sviluppando da molti giorni sulle colonne

del nostro giornale, suscita interesse e attenzione anche al di là delle

nostre fila, nella sinistra, nel movimento, nel sistema dell'informazione.

 

 

Ne prendiamo atto con soddisfazione: è una prova in più che questo

dibattito "molteplice" - anzi, questi dibattiti che si susseguono e,

talora, si intrecciano su questioni politiche e ideali di prima grandezza -

non è mosso da spirito autoreferenziale. E' un confronto vivo che ha a che

fare, non a caso, con la politica viva del presente, dove si misurano non

solo posizioni diverse, ma culture politiche, esperienze e spesso "vissuti"

tra di loro lontani. Noi, per parte nostra, abbiamo cercato di garantire

sia la pari dignità di tutte le voci, interne ed esterne a Rifondazione,

che hanno voglia di farsi sentire, sia di contribuire, per come possiamo,

ad una "buona dialettica": ovvero ad una discussione che, senza pensare a

sintesi oggi impossibili, ci arricchisca, ci aiuti a fare un passo avanti,

nella comprensione e nella chiarezza reciproca.

 

Con questo articolo, vogliamo anche noi dire la nostra, misurandoci con

quel nodo teorico-politico, violenza e nonviolenza, che appassiona non da

oggi il movimento operaio e la sinistra.

 

 

E diciamo subito - da militanti comunisti, diversi per sesso e generazione,

per pratica di vita e riferimenti culturali - che l'opzione strategica

pacifista e nonviolenta, che Fausto Bertinotti ha avanzato e Pietro Ingrao

ha rilanciato proprio su "Liberazione", ci persuade profondamente. Ovvero:

è la stessa scelta che abbiamo maturato in questi anni, nel fuoco dei

conflitti drammatici che hanno devastato il mondo, nel dipanarsi concreto

dell'impegno.

 

Non è in questione, s'intende, un "assoluto" che, chissà perché, molti

compagni vedono o paventano tutte le volte che viene dichiarata la

necessità di una pratica nonviolenta: per noi laici e comunisti non

esistono mai "assoluti" o fedi astratte, al di là del tempo e dello spazio.

E' in questione, ci pare, un'idea della politica e - se la parola non è

troppo grossa - della rivoluzione del futuro: nell'era della guerra

globale, infinita e preventiva, la violenza non è più una via di autentica

liberazione dei popoli, delle classi e delle persone e, al tempo stesso,

non è più uno strumento capace di garantire la "vittoria finale". Nell'era,

insomma, della spirale guerra-terrorismo, che concerne il "qui" e l'"ora"

del capitalismo globalizzato, il terrore è tutto dell'avversario e dei suoi

apparati colossali di sterminio e di morte: gli appartiene fino in fondo,

perfino come vocazione e come nuova idealità. Ce lo spiega bene Kagan,

teorico dei neocons nordamericani, nel suo lucido pamphlet "Il Paradiso e

il Potere", quando contrappone la civiltà dell'America fondata sulla forza

militare e sullo spirito di aggressione alla civiltà dell'Europa,

continente "imbelle" e vocato ai diritti sociali piuttosto che alle armi.

 

 

Questa nostra persuasione è il risultato, anche e soprattutto, dei nostri

rispettivi percorsi di vita. Noi non siamo nati pacifisti: abbiamo creduto

nella "guerra giusta" e nel valore liberatorio della guerra e della

guerriglia di popolo. Uno di noi ha partecipato, giovanissimo, alla

Resistenza: ha impugnato le armi, da partigiano, ha praticato

l'antifascismo. E non solo non se ne pente, ma continua ad andare

orgoglioso del proprio passato. Una di noi ha condiviso, finché è stata

giovane, le lotte, anche quelle "dure" dei movimenti occidentali e quelle

armate dei movimenti di liberazione del Terzo Mondo. E non ha nulla di cui

pentirsi. C'è stata un'epoca della nostra storia nella quale la violenza

delle armi ci è apparsa non solo una risposta necessaria alla violenza del

potere, ma anche la risposta più radicale, più in sé rivoluzionaria, più

efficace: la Resistenza ha vinto, la lotta del popolo vietnamita ha vinto,

il movimento di liberazione dei popoli colonizzati ha vinto. Non si tratta

certo oggi di proiettare su questo passato le idee che abbiamo maturato nel

presente: questo sì sarebbe puro "pentitismo", opportunismo oltre tutto

antistorico. Si tratta di ben altro: far tesoro di quelle esperienze, anche

alla luce di alcuni, forse non casuali, esiti negativi, mettendone in causa

il valore assoluto e l'attualità schematica.

 

Oggi, insomma, sentiamo la necessità di una strada nuova, di nuovi

percorsi: un ciclo della storia si è chiuso, con il '900, un nuovo ciclo

può avviarsi. L'immagine che abbiamo ancora negli occhi è quella dei 110

milioni di persone che nello stesso giorno di febbraio sono scese in

piazza, in tutto il mondo, contro la guerra di Bush. Quelle masse, che il

"New York Times" ha definito la "seconda potenza mondiale", hanno fatto

paura, davvero, ai nostri avversari imperiali. Non sono riusciti, no, a

impedire la guerra: ma hanno pur segnato un gigantesco salto di qualità, di

coscienza critica, di consapevolezza, di soggettività. Un patrimonio

immenso, anche dal punto di vista della forza, che a tutt'oggi domanda alla

politica una risposta adeguata.

 

 

La nonviolenza, dunque, come pratica alta del conflitto - come opposto

della passività o della rassegnazione - è oggi l'arma più forte di cui

disponiamo. La nonviolenza, anche, come "smilitarizzazione" delle nostre

coscienze e della politica (che continua, proprio nel suo linguaggio tutto

nutrito di "tattica", "strategia", "schieramento", "obiettivo",

"battaglia", a mostrare il suo profondo spirito bellico), nella sua

connessione profonda con la società altra che vogliamo costruire.

 

Non siamo "anime belle", siamo ahimè fin troppo contaminati con le brutture

che ci circondano, e conosciamo tutte le sottigliezze della politica e

della Realpolitik: ma non è l'ora di cominciare a colmare l'abisso che

separa i nostri valori generali dalle nostre pratiche? Ma davvero possiamo

continuare in eterno a propugnare una distanza - così "assoluta" - tra i

fini che ci proponiamo e i mezzi che mettiamo in atto per realizzarli?

Torna a proposito, qui, la questione del terrorismo, dal quale siamo sempre

stati lontani e che mai ci è appartenuto, anche per le ragioni che

osservava ieri Lidia Menapace.

 

E' vero, sì, che i nostri avversari battezzano sotto la dizione di

"terrorismo" anche ciò che è pura resistenza all'invasore. E forse hanno

ragione quei compagni che dicono che ci sono luoghi del mondo in cui la

nonviolenza è una pratica difficile, quasi impossibile, se non un lusso:

infatti noi non ci permettiamo di criticare coloro che, di fronte ad

aggressioni od invasioni armate, reagiscono anche impugnando le armi.

 

 

La nonviolenza, lo dicevamo, non è un imperativo categorico. E tuttavia,

anche nel passato recente, ci sono esempi significativi sui quali

riflettere. La prima Intifada palestinese, quella nonviolenta, con i

ragazzi che si opponevano alla potenza dei carri armati israeliani con le

fionde e con i sassi, conquistò nel mondo un consenso enorme alla causa

dell'indipendenza nazionale palestinese: avrebbe potuto vincere, se

l'Europa, invece di limitarsi ad applaudire, fosse intervenuta ed avesse

messo in campo la sua potenza politica.

 

Oggi, quali sono le prospettive concrete di vittoria della lotta e della

guerriglia armata nel Medio Oriente? A parere quasi unanime, nessuna. E

quegli attentati suicidi - come l'ultimo della giovane madre che voleva

essere martire - possiamo sì distinguerli dal terrorismo e battezzarli

"azione di guerriglia militare", se hanno soldati nemici come bersaglio. Ma

possiamo tacere del loro carattere feroce, disperato, perdente? Quando una

lotta di liberazione entra in contrasto così totale con i valori della

vita, della speranza, della costruzione, quando il sacrificio di sé è

ricercato come valore e perfino simbolo positivo, vuol dire che in essa la

dimensione della tragedia è diventata dominante. Vuol dire, anche, che

forse non si è abbastanza riflettuto sul fatto che, anche e soprattutto là

dove l'oppressione e la prevaricazione sono massime, la violenza del

potere, introiettata e metabolizzata senza anticorpi, produce una violenza

distruttiva uguale e contraria.

 

L'aveva scritto Marx, un secolo e mezzo fa: la nostra rivoluzione dovrà

essere un processo di lunga durata, di "rivoluzionamento" dei rapporti

economici e sociali esistenti, anche perché soltanto in un processo di

lunga durata potremo liberarci dal "sudiciume" che la società del capitale

ha disseminato in ciascuno in noi. Era già questa un'idea di rivoluzione

nonviolenta, di comunismo. Che oggi, soltanto oggi, possiamo cominciare a

praticare. Almeno, a provarci.

 

Alessandro Curzi

Rina Gagliardi

 

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La dialettica non è un qualcosa che ci deve dare fastidio

 

Libero Vallicelli

 

Vorrei intervenire sul dibattito aperto da "Liberazione" sul tema

non-violenza. Colgo subito un aspetto positivo: la decisione di allontanare

dal movimento quelle forze grigie di confine che ne potrebbero minare il

carattere aperto e fecondo. E d'altra parte il rigetto definitivo dello

stalinismo come pratica politica (non dell'Urss), cosa palese ma

scarsamente praticata.

 

Premetto, di essere d'accordo con Ingrao sulle valutazioni che egli ha più

volte sottolineato negli interventi sul nostro giornale. E qui vorrei

approfondire (pur nella ovvia sintesi) gli spunti che lui ha lanciato, ma

sui quali vedo una riluttanza diffusa a intervenire, e che invece sono i

temi politici/ideologici che già ci troviamo davanti.

 

Partiamo dalla non-violenza. Essa evidentemente esprime un afflato etico

condivisibile che deve informare le vite di ciascuno di noi. Il problema è

un altro, ovvero l'assolutizzazione concettuale che se ne fa. Essa è

inattendibile per diversi fattori. Il primo, è che nessuno storico

indagherebbe la storia con quel paradigma, a meno di non scivolare sul

terreno crociano, ovvero liberale (per sintesi, perché il pensiero è ben

più raffinato, egli pensò alla storia come storia della libertà). Ed

infatti mettere sullo stesso piano la vendetta con la repressione non solo

non ha nessun appiglio scientifico, ma appare evidentemente banale. La

questione andrebbe invece rimessa sulla negazione del concetto schmitiano

della politica come continuazione della guerra, che traduce il tutto nella

volgarizzazione amico/nemico, e che riporta questa estremizzazione anche

all'interno del proprio schieramento, producendo distorsioni vergognose

come quelle dei gulag. La questione diventa quindi non una semplice scelta

etica (peraltro la violenza scaturisce proprio da quella sostanza), ma una

dura battaglia storica sul tema del potere, della sua effettività storica,

dei rapporti tra le classi, della intima fallacia della democrazia.

 

Quest'ultima affermazione ci interroga sulle nostre vite: come fare per

salvaguardare la democrazia e al contempo produrre una critica che ne veda

le incongruenze, tale per cui pensiamo ad un altro mondo possibile, che

appunto non è la democrazia. Anche qui sarebbe bene ricordare che la

democrazia non è un valore, ma una forma determinatasi dallo sviluppo

storico e "obbediente" alla fase del capitalismo maturo. Mi pare di dire

cose lapalissiane. Banalmente potrei dire: il voto di Agnelli equivale a

quello dell'operaio di Melfi? Le strutture sovranazionali, come l'Fmi, sono

aliene alla democrazia o ne costituiscono una parte della stessa? Come fare

per rendere veramente egualitario il voto di ciascuno (per forza bisognerà

limitare l'efficacia di qualcun altro) e al contempo sostenere

l'eliminazione di quelle strutture senza prevedere una reazione violenta e

repressiva delle forze dominanti?

 

In Iraq, sta succedendo qualcosa di complesso. Mancano in quel paese le

strutture della democrazia (almeno come passaggio storico). Al contempo

l'occupazione, perché di questo si tratta (anche da parte degli italiani),

continua. Possiamo rimanere equidistanti dagli invasori e dai "poveracci"

locali che si battono contro "l'impero del male"? Dobbiamo porci le stesse

domande di Ingrao?

 

In India si sta per aprire il Forum sociale mondiale. Diversi intellettuali

hanno aperto una serie di interrogativi, tra i quali spuntano decisi la

questione della lotta politica e del potere come obiettivi e tematiche di

praxis del movimento, pena il riflusso. Vogliamo parlarne? O preferiamo le

grandi e particolari opzioni etiche, peraltro condivisibili, che però non

propongono la trasformazione del mondo come necessaria ed ineludibile, e

che quindi spesso finiscono per affluire nel ventre grasso dei nostri

vicini di Partito?

 

Essendo la mia pratica politica impregnata di movimento, di gramscismo e di

disponibilità al confronto con le diversità, non sono imputabile di volere

un Partito settario. Penso che l'estremizzazione ideologica porti alla

sconfitta e alla rovina delle idee di libertà che i comunisti promuovono, e

anzi ne sia la negazione. Ma l'assolutizzazione concettuale della pratica

politica è la cosa più dannosa che un Partito comunista, o un'aggregazione

che si richiami a quel mondo, possa avere. Rientra per-altro in campo quel

regime della verità che è intrinseco alla religione. Siamo uomini e donne

del nostro tempo, viviamo pienamente questa società per poterla cambiare,

senza farci irretire nelle sue forme dominanti. E anche la nascita, non la

giustezza del progetto in sé, del partito della sinistra europea, ha in sé

i germi della pratica politica che si dice di voler eliminare. La

dialettica, soprattutto quando si colgono le ragioni di una iniziativa

politica, non è un qualcosa che ci deve dar fastidio.

Libero Vallicelli

 

 

dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com

 

18-1-'04

Rossana

 

Mah il richiamo al ruolo dello spettatore mi ricorda le riflessioni operate sul pensiero kantiano inerenti la storia e politica.Il punto di vista dello spettatore permette di "staccarsi" e riflettere su ciò che è accaduto (vedere rivoluzione francese). Dunque lo spettore almeno a livello temporale non è presente.

 

Mi pare però che tutta la diatriba faccia parte del linguaggio della politica, e personalmente non mi interessa caderci dentro.

Già Chateaubriand scriveva: avendo (gli operai) dalla loro la forza, solo dei cattivi profeti possono spingerli a prendere come modello il risentimento".

Il pensiero giusnaturalista è pieno della necessità di resistenza al tiranno, e allora si dovrebbe discutere in maniera più leale sulla questione del contratto, della sovranità e del popolo.

Che contratto hanno sottoscritto gli iracheni? Che potevano fare i partigiani (tutti, giusto per eliminare la questione della resistenza a più colori)?

Il terrorismo fa parte del linguaggio dello Stato per imporre l'immobilismo. Io son d'accordo su alcuni aspetti con entrambi le parti che ripeto, mi pare pecchino di un linguaggio tutto politico.

 

La stessa Manapace ne è intrisa, lei non è spettratrice oggi di ciò che accade durante le lotte degli autoferrotranvieri, lei prende una posizione chiara e legittima, e, negando però alla verità di venir fuori, si pone sullo stesso piano di chi critica.

In queste lotte ho visto e sentito l'appoggio di una cittadinanza certamente alle prese con disagi, ma solidale con la lotta messa in campo. La solidarietà che nasce dalla consapevolezza che a volte solo l'illegalità permette ai soggetti reali di far valere le proprie richieste e i propri diritti.

 

E poi, come si può parlare di sottostare alle leggi del mercato da parte di chi chiede a gran voce, evidenziando la possibilità di incontro fra lavoratori e cittadini, che il privato debba uscire dal settore pubblico?

 

Perchè allora non stiamo neanche a parlare di mettere in discussione le spese militari, e badate che i lavoratori spesso non guardano a chi li paga e il cosa della loro produzione.

Oggi chiedere di smettere di produrre per il militare, significa mettersi contro la proprietà privata di chi dà salario in cambio di forza lavoro.

 

Su questo discorso e sulla legittima difesa dello Stato con le armi, cascano tanti cantori del pacifismo astratto.

 

 

"Un atteggiamento di questo tipo starebbe bene immesso nelle lotte degli

autoferrotranvieri: piuttosto che una ripetizione un po' fuori tempo

massimo dei CUB e delle lotte operaie dell'autunno caldo. Si può altrimenti

diventare persino subalterni: se i ferrotranvieri non vedono la differenza

tra mercato e servizi e non si danno da fare per un pieno coinvolgimento

dell'utenza non solo a sostegno passivo della loro lotta, ma con propria

presenza (come ad esempio invece fanno i Cobas contro la riforma Moratti,

insieme a genitori e associazioni) rischiano l'isolamento e la

ripetitività, e sembrano lasciar credere che anche per loro i servizi sono

un pezzo del mercato"

 

Rossana

 

 

dal manifesto del 18-1-'04

MARCO REVELLI

 

Il nostro dopoguerra

"Contro ogni logica bellica". Con il `900 si è tragicamente consumata la

stagione dello scontro "militare" e nell'era della guerra preventiva serve

coerenza tra mezzi e fini. Per questo "l'ipotesi nonviolenta è l'unica

scelta veramente radicale". Riflessioni sul dibattito aperto da Pietro Ingrao

 

 

"Al potere si risponde col potere. All'organizzazione con l'organizzazione.

Al lavoro con il lavoro. Alla guerra con la guerra". Così un paio di anni

fa, in occasione della presentazione del mio Oltre il Novecento, Alberto

Asor Rosa aveva sintetizzato il "paradigma politico" dei comunisti

novecenteschi, a cui dichiarava la sua adesione. Rina Gagliardi, nel

riferirne su Liberazione, aveva riprodotto la formula con esplicito

compiacimento, scegliendo però di cancellare l'ultima frase. E fu un

peccato. Perché quell'ultimo segmento del paradigma - la guerra - non ne

era un'appendice esterna (un optional, si direbbe oggi), ma ne costituiva,

al contrario, un elemento in qualche misura necessario a dar senso al

tutto, significando appunto che quella contrapposizione, quel rapporto

antagonistico simmetrico, per essere sostenuto, presupponeva un conflitto

duro, "totale", spinto fino al dispiegarsi della forza nella forma estrema

e "selvaggia" della guerra E perché quella formulazione brutalmente sincera

ci avrebbe aiutato a discutere meglio di quanto non sia in realtà accaduto.

Ora Pietro Ingrao (nei due successivi interventi su Liberazione sulla

questione posta da Fausto Bertinotti del pacifismo e della nonviolenza), ci

permette di riprendere il filo di quel ragionamento, e di farlo - grazie

all'onestà intellettuale che lo contraddistingue - nelle condizioni

migliori. Senza reticenze, o rimozioni Due cose ci dice Ingrao. La prima è

che la prospettiva dell'uso della forza (della violenza, della guerra) era

parte integrante

dell'immaginario e della cultura politica suoi e di quelli come lui.

 

Che, appunto, anche per chi si batteva per la pace e aveva scelto la strada

della democrazia, la guerra appariva, in ultima istanza, come un'opzione

possibile e per certi versi inevitabile. Non costituiva, insomma, un tabù.

La seconda verità che Ingrao ci consegna è il carattere "generazionale" di

quella visione politica. Il suo essere radicata in un preciso luogo

storico. Il suo essere "figlia del proprio tempo".

 

Identità pericolose

 

Si tende a dimenticarlo, in una discussione spesso un po' dottrinale e

orientata a questioni di principio, ma la militanza politica novecentesca

si è costituita e s'inscrive pienamente in un contesto storico segnato a

fondo dalla guerra, da quella terribile, immane tragedia bellica che fu la

prima guerra mondiale e dal suo prolungamento feroce nei decenni che la

seguirono. L'immaginario collettivo, la dimensione esistenziale, l'identità

politica delle generazioni che hanno prodotto la tradizione alta e dura con

cui oggi ci misuriamo, si erano formati interamente nel clima della

"mobilitazione totale" scatenata da quella guerra, e con la guerra erano in

buona misura impastati: era bellico il linguaggio; erano belliche le divise

(non c'era formazione che non avesse le proprie "milizie" con le proprie

bandiere e le proprie uniformi); era bellica la poetica che li ispirava

(quell'epica di cui parla Ingrao). Non stupisce che la guerra comparisse,

sia pur come extrema.' ratio, nel repertorio dei mezzi cui affidare

l'efficacia della propria azione. Si erano trovati a fronteggiare nemici

feroci ("assoluti", potremmo dire), nazismo, fascismo. Avevano subìto la

caccia all'uomo implacabile contro ogni brandello di opposizione, la

minaccia della tortura e la cancellazione della libertà in ogni interstizio

della vita sociale. E in qualche misura inevitabile che affidassero la

possibilità di salvezza a una forza eguale (in potenza) e contraria (nelle

finalità), capace di combattere il male (assoluto) di quel tipo di

oppressione con il male (relativo) del ricorso alle armi (di ogni arma,

purché efficace). Dunque che convivessero con la guerra senza eccessivo

disagio. Che giungessero anche ad auspicarla, come via alla libertà e

all'emancipazione. Non solo i comunisti, si badi. Intere generazioni di

democratici, di liberalsocialisti, persino di liberali e di cattolici, - di

antifascisti in genere - vissero la guerra (e la desiderarono) come

inevitabile strumento di liberazione. E reagirono al Patto di Monaco con lo

stesso disgusto di Ingrao, odiarono Chamberlain e gli attendisti come

traditori della causa dell'umanità,  soffrirono la caduta della Spagna

prima e poi della Francia come il prodotto di una diserzione. Ricordo che

fu proprio l'argomento "generazionale"' di Monaco - la memoria dei propri

sentimenti di quel tempo - quello con cui Norberto Bobbio spiegò, a noi che

insorgevamo, e non lo comprendevamo, in lui che era stato razionale teorico

della pace, il suo possibilismo nei confronti della prima guerra del Golfo.

Difendere le ragioni della nonviolenza, di un pacifismo che non si

limitasse a contrastare le guerre degli altri ma che giungesse a estinguere

le' radici stesse dell'opzione bellica "senza se e senza ma" all'interno

del proprio stesso campo politico, quale che ne potesse essere la

motivazione e l'obiettivo, in quell'epoca era impresa terribilmente ardua.

E quasi inevitabilmente "impolitica". Chi la tentò e realizzò in Occidente

- e non mancano i casi, da Simone Weil a Aldo Capitini -, lo fece sorretto

da una risorsa "extrapolitica": da una spiritualità e una religiosità

difficili da riprodurre fuori dalla ristretta cerchia dei "persuasi". Quasi

tutti gli altri, assorbiti totalmente nel corpo a corpo con un nemico

mortale e totale, non ebbero 'né tempo né modo, allora, di riflettere sulla

retroazione che la violenza opera su chi la pratica. Sulla metamorfosi

antropologica che la violenza impone al soggetto che si trova a

"impiegarla" (un tema tipico, invece, della riflessione non-violenta).

 

Derive globali

 

Allora. Ma oggi? Oggi che gli effetti di quella deriva sono sotto gli occhí

di tutti? Oggi, quando è ormai ben visibile, nella caduta del comunismo

orientale, la devastazione che il mezzo impiegato ha operato sui fini

stessi che avrebbe dovuto servire; e la rivoluzione, come dice Ingrao, ha

divorato i suoi figli. Ma quando è anche ben visibile la devastazione

prodotta a "occidente" da quel contagio bellico (dell'introiezione della

pratica della guerra fin nel cuore dei modello "democratico"), quale la si

può leggere nello spettacolo desolante delle potenze che quella guerra

vinsero trasformate a loro volta in macchine belliche (e bellicose),

determinate a imporre il proprio modello politico con la forza,

dall'Indocina in poi, lungo la catena che dal Vietnam arriva su su, fino

alla "intrusione umanitaria" e all'aberrazione della guerra preventiva e

infinita, dove la retorica 'della liberazione serve da viatico

all'occupazione manu militari. Per le generazioni che in questa scenario si

sono formate, non è forse giunto il momento di aprire un contenzioso

esplicito con quella "tradizione"? Col paradigma politico che ha dominato

il Novecento (e nel Novecento è "esploso")? E di provare "un'uscita in

avanti"? Credo che intenda qualcosa di simile Ingrao quando dice che "forse

dobbiamo avere il coraggio di fare un salto". E riconosce a Bertinotti il

merito di "rompere uno schema" (che rischia di diventare davvero una

"camicia di Nesso"). L'ha detto bene, d'altra parte, Gigi Sullo -

intervenendo ancore su Liberazione in qual dibattito che proprio da Carta

era stato aperto quando ha paragonato l'esigenza attuale, di rottura in

avanti del vecchia paradigma, a quella che spunte, l'altra transizione di

secolo, alle origini del Novecento, quelle generazioni di comunisti a

tagliare con l'esperienza della Seconda Internazionale, e tornare a portare

la propria voglia di radicalità e di antagonismo in mare aperto. Né mi

sembra, sinceramente, praticabile la linea di "buon senso" proposta da

Tronti sul manifesto di una sorta di "rivoluzione recuperante" capace di

avanzare senza tagliare nessuna radice. Come può una generazione formatasi

nell'epoca in cui la guerra è dilatala forma stessa della vita sociale così

come è concepita dai nuovi poteri "imperiali", e cresciuta da ribelle

all'insegna dell'improponibilità assoluta della guerra come strumento per

qualsivoglia causa, immaginare di acquisire una propria capacità autonoma

di azione nel nuovo mondo prodotto dalla globalizzazione, se non sulla base

di un qualche "nuovo inizio"? Dell'elaborazione di un'idea di politica

segnata a sua volta da una qualche discontinuità, capace di incorporare nel

proprio paradigma non l'assolutizzazione della forza - in forma di

"potenza" - come era avvenuto per quello precedente, a destra come a

sinistra, ma una qualche entità più congruente con il "mondo altra" che si

vuole "possibile"? La produzione di relazionalità, per esempio, in luogo

della tradizionale "conquista del potere". E la nonviolenza come mezzo

adeguato, in luogo della guerra come ultima istanza. Come può, d'altra

parte, risalendo più indietro nella riflessione sul novum radicale

introdotto da Hiroshima, dalla distruttività totale di un'umanità divenuta

per la prima volta nella storia tecnicamente capace di annientare se

stessa, accontentarsi dello strumentario conflittuale di prima? E non

invece arrischiarsi nell'esercizio creativo di trovare nuove forme, non

distruttive, per il proprio antagonismo? Forme che, liberandolo

dall'involucro di ferro in cui il Novecento e la sua tecnica mortale

l'avevano imprigionato, gli permettano di dispiegarsi nell'estensione che

le sfide planetarie di oggi richiedono? Nell'epoca della guerra preventiva,

non è il caso di pensare a una politica "altra" fondata, all'opposto, sulla

logica della "pace preventiva" (la pace, cioè, praticata giorno per giorno

nell'azione quotidiana anziché posta come obiettivo finale da ottenere con

mezzi anche violenti)? Lo so che tutto ciò è ancora assai generico, e non

risponde alla domanda decisiva che Ingrao ci rilancia: "come si incide sui

poteri reali del nostro tempo"? Come si tiene aperta la speranza (la

possibilità) che l'ingiustizia assoluta sia rovesciata se si rinuncia al

"rapporto di forza"?

 

Formiche politiche

Ma forse è proprio qui il nodo della questione: il rapporto di forza. Se

tuia nuova natura (oltre che formi) della politica va trovata, essa !loia

passa forse proprio dalla rottura di quella dimensione "simmetrica"

dell'antagonismo di cui si parlava all''inizio? Dalla cecità dì rompere con

l'idea che l'antagonismo si esprima solo in un gioco frontale a somma zero,

giocato da entrambi i contendenti sullo stesso terreno e con le stesse

unita' di misura, in cui alla fine conta chi ha acucmulato piu' potenza. E

di elaborare una strategia "asimmetrica" (come appunto, asimmetrica e'

ormai la guerra) in cui l'alterita' si costituisca amnche a partire dal

terreno e dalle risorse che  impiega nell'esrpimere il proprio antagonismo:

non quello (proprio di "poteri terribili" che minacciano pianeta) del

confronto muscolare ma quello (davvero "solo nostro" dell'uso della parola

e del racconta Non l'uso della potenza per conquistare strumenti di

coercizione, m l'apertura di spazi in cui elaborare la propria socialità

altra. In questo quel popolo di formiche che apparve silenziosamente dieci

anni or son nelle strade di San Cristobal de la Casas, qualcosa da

insegnarci forse ce l'ha. Ha lanciato la sua sfida a u potere infinitamente

sproporzionato sul piano della forza, ed è ancora 1 Qualcosa vorrà pur

dire. E d'altra parte, tutto ciò che si è mosso, in questo decennio, dentro

é contro Ia globalizzazione, da Seattle ai 500.00 materializzatisi

inaspettati in Indi in questi giorni, passando per quell "seconda potenza

mondiale" che è opposta alla guerra di Bush, muove ormai in una logica

lenticolare, disseminata e nonviolenta che rompe con i centralismi ,

muscolari non solo dei nuovi poteri ma anche degli antichi ribelli Una

riflessione più attenta la meriteranno pure.

MARCO REVELLI

 

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dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com

19-1-'04

Marco Bersani

 

Care\i, quando si vuole attraverso un articolo comunicare qualcosa e tutti

quelli che lo leggono ne capiscono totalmente altro, c'e' un' unica possibilita':

si e' commesso un grosso errore.

Mi riferisco ovviamente all'articolo co-firmato da me e apparso su Liberazione

sul tema guerra\terrorismo.

Un tema sul quale quel giornale aveva da tempo aperto il dibattito e rispetto

al quale da tempo mi sarebbe piaciuto intervenire per contribuire alla discussione.

Complice il poco tempo a ridosso della partenza per Mumbay, ho seguito la

proposta di un articolo a piu' mani senza dedicarvi il tempo che un tema

cosi' delicato avrebbe richiesto.

Il risultato, riletto con calma qui a Mumbay, e' quello di aver francamente

sbagliato.

Vorrei provare a spiegare il perche', sgombrando il campo da alcune interpretazioni

dietrologiche che anche sulla stampa sono state date.

Non sono i compagni di firma il problema, persone anche molto diverse da

me, ma con le quali e' possibile che su un tema specifico si possa costruire

una riflessione comune. Nessuna alleanza strategica dunque, ma solo la necessita'

di contribuire ad un dibattito con un contributo collettivo ( risultato

non raggiunto, ma di questo argomento in seguito).

Ne' tantomeno era mia intenzione partecipare ad un' operazione politica

che, mettendo insieme persone di culture differenti, andasse ad impattare

nella dialettica interna del PRC, schematicamente in funzione anti-bertinottiana,

in particolare rispetto al percorso politico-elettorale intrapreso.

Casomai l' errore -grossolano lo riconosco- e' non aver riflettuto abbastanza

di come questa lettura potesse essere data indipendentemente dalle mie intenzioni.

Ma e' soprattutto nel merito, che mi sento di dover riconoscere l'errore

compiuto.

Da tempo avrei voluto intervenire sulla questione guerra\terrorismo, perche'

continuo ad essere convinto che il dibattito cosi' com'e' stato impostato

sia largamente insufficiente.

In particolare, quello che avrei voluto comunicare e' che l' assunzione

della categoria "il terrorismo" come categoria unica e compiuta in se',

non aiuta l'analisi politica e di conseguenza non orienta l'azione del movimento.

Occorre articolare la categoria, perche' altrimenti il rischio e' quello

di pensare al mondo come diviso tra due nemici uguali e contrari, che si

alimentano reciprocamente. Assumere acriticamente questa analisi, rischia,

aldila' delle intenzioni, di mettere dentro un'unica categoria fatti estremamente

diversi fra loro, fino a provocare un certo balbettio e una difficolta'

d'iniziativa del movimento. Provo a fare un esempio : la strrage di Nassirya

contro il contingente italiano ha visto una enorme difficolta' di intervento

da parte del movimento, che si e' rivelato tanto timido nell'esprimere la

pietas per i morti di quel fatto quanto balbettante nello scendere in piazza

per il ritiro delle truppe italiane. Io credo che questa difficolta' fosse

dovuta proprio all'assunzione della categoria terrorismo come onnicomprensiva.

Se avessimo articolato la categoria, avremmo letto Nassirya come un atto

di guerra, doloroso quanto si voglia, ma che ci avrebbe consentito una capacita'

d' iniziativa piu' incisiva, perche' avremmo ascritto quell'attentato come

l'ennesima violenza provocata dalla guerra permanente.

Insomma, quello di cui avremmo bisogno, credo sia una maggior capacita'

di analisi politica dei fenomeni in corso. In Iraq ci sono sicuramente gruppi

terroristi in azione, con l'appoggio dei servizi di paesi stranieri limitrofi;

ci sono sicuramente azioni di resistenza armata, piu' assimilabili a quella

che noi storicamente definiamo "resistenza"; e ci sono importanti fenomeni

di resistenza popolare non violenta.

Non separare queste vicende, analizzandole criticamente, rischia di mettere

tutto in un unico calderone,"il terrorismo", che non aiuta la nostra capacita'

d'iniziativa e di aggregazione.

Vale per l'Iraq come per moltissime altre situazioni. Ma quello che avrei

voluto (non riuscendovi, mi rendo conto) comunicare e' la necessita' di

piu' analisi politica.

Il risultato e' invece un documento che non contribuisce a questo obiettivo,

ma anzi rischia di far incistare il dibattito sullo schieramento etico violenza\non

violenza come puro schema di appartenenza.

Un ultimo punto su questo. Riletto attentamente, il documento ha un passaggio

sui mezzi\fini che rischia di far pensare ad un arretramento macchiavelliano.

Non e' cosi', per quello che mi riguarda. Penso che i mezzi debbano corrispondere

ai fini e che i fini debbano essere la capacita' di comunicazione e di allargamento

del consenso di ogni iniziativa intrapresa. Questo significa, per la dinamica

italiana ed europea, quello che l'insieme del movimento ha da sempre ( pur

con qualche sbavatura) praticato, ovvero il patto genovese fondato su azioni

non violente, pacifiche e di disobbedienza civile.

Personalmente, tutto questo non mi impedisce di accettare in altre situazioni

altre forme purche' corrispondenti ai fini - capacita' di comunicazione

e allargamento del consenso-i quali valgono per qualsiasi situazione si

analizzi.

Questo in estrema sintesi quello che avrei voluto comunicare partecipando

alla stesura di quell'articolo. Mi rendo conto di non aver centrato l'obiettivo.

Ma spero che troveremo tempi e modi per affrontare questo tema con l'attenzione

e l'intelligenza collettiva che la delicatezza dell'argomento richiede.

 

Marco Bersani

 

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dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com

 

19-1-'04

Antonio Rossin e Walter Seresini

 

Caro Walter Seresini,

Trovo il tuo messaggio intrigante, poiche' provengo anch'io da una

famiglia resistente (di quelle non armate) e cosi' mi e' venuto voglia

di inserire qualche commento nel tuo testo, chissa' che non si riesca

a costruire un discorso.

 

 

At 15:12 +0100 18-01-2004, Walter, Federica wrote:

Condivido l'intervento di Lidia Manapace, anche perchè non

si ferma ad un ragionamento solo teorico seppur basilare ma

entra nella realtà ed accenna alle conseguenze di alcune scelte.

Mi dispiace invece che "Il Manifesto " legga tutto il dibattito in

corso come una rottura tra un partito ed il Movimento, anzichè

un arricchimento per entrambi( ma questa è un'altra cosa!)

 

Infatti io sono convinto che quando si parla di violenza e di

nonviolenza dobbiamo tutti fare lo sforzo di capire cosa poi

deriva da queste due modalità di comportamento. Allora,

io mi pongo delle domande a volte retoriche e faccio delle

considerazioni, che, da "ragazzo di paese" vi giro ed alle

quali spero si cerchi di dare risposta.

 

Si cita spesso la resistenza italiana, ed io provenendo da

una famiglia resistente, ho riflettuto molto su questa cosa,

la resistenza italiana si costruì su un progetto politico

trasversale ( diremmo oggi), fondato su quella che oggi

è la nostra costituzione, sperimentata  sul campo con

"prototipi" di repubbliche, cito l'Ossola per tutte, ed

attraverso scontri ideologici anche aspri.

I Resistenti addivennero alla republica, attraverso una guerra

partigiana dura e furente ma anche ad una resistenza non

armata altrettanto pericolosa, per chi la fece, ed importante.

Una resistenza fatta di persone disarmate che nascondevano,

alimentavano, boicottavano, sabotavano, insomma si

opponevano come potevano perchè lo volevano.

 

La resistenza fu fatta con gli strumenti culturali, ideologici,

storici, politici,  a disposizione del periodo; da quegli strumenti

si produssero i mezzi per raggiungere un fine.

 

Ora io credo che i nostri padri e le nostre madri fecere del

loro meglio per costruire attraverso quei mezzi il fine, ma

allo stesso tempo il fine raggiunto non è stato il "giusto fine "

perchè i mezzi non erano giusti anche se ripeto erano a mio

avviso i migliori di quel tempo.

 

"Il fine"... intendi l'attuale ordinamento della Repubblica Italiana?

Io non lo vedrei come un fine, che mi suona statico, ma come

un divenire, una specie di corsa a staffetta senza fine dove

ciascuna generazione consegna il testimone a quella successiva.

Per cui, se ad un certo punto della corsa, diciamo oggi, il "giusto

fine" non e' poi abbastanza "giusto", non sarebbe da guardare ai

padri che hanno ormai fatto la loro parte il meglio che hanno

potuto, ma a noi stessi che siamo in corsa oggi, per vedere cosa

si puo' fare per migliorare il sistema che non ci piace.

Ricordo a questo proposito che un sistema, in quanto problema,

non si puo' risolvere usando gli strumenti logici che l'ha costruito,

(ha detto Einstein, che di problemi se ne intendeva.)

 

 

 

Dico questo perchè se la nostra democrazia è imperfetta ed

addirittura in molti casi autoritaria credo che ciò derivi anche

se non sopratutto dai fini usati per raggiungerla.

 

E non credi invece, che cio' derivi dagli uomini che vi fanno parte?

Se pensiamo che autorita' e sottomissione, variamente distribuiti,

sono elementi importanti del carattere di una persona, io non andrei

a cercare tanto indietro nel tempo per trovare le cause che rendono

imperfetta una democrazia.

 

 

Voglio dire, che noi oggi abbiamo maggiori strumenti di ieri,

maggiori possibilità di fare percorsi evolutivi e pur proseguendo

su una traccia dataci possiamo elaborare percorsi nuovi che

partano anche dalle esperienze passate.

 

Non è vero che la scelta del meno peggio porta al giusto.

 

Cosa c'entrano i "Banditen" con tutto il ragionamento su violenza

e nonviolenza?

E' evidente che ogni potere identifica gli oppositori come banditi,

soprattutto se i mezzi usati sono simili, perchè il linguaggio

codificato diventa inevitabilmente simile, quello che noi dobbiamo

obbligarci a fare è codificare un linguaggio nuovo che mandi in

tilt " il Grande decodificatore".

 

Buon punto.  Hai qualche proposta ? (io ne ho).

 

 

Anche il ragionare sulla spirale "guerra- terrorismo" secondo me

deve partire da questo concetto, la guerra è oggi (ma anche ieri)

la forma istituzionalizzata di terrorismo, dalla fine della seconda

guerra mondiale, il 90% delle vittime durante le guerre sono civili,

la guerra serve  a terrorizzare, ad eliminare le coscienze critiche,

a schiacciare le società al volere dei "liberatori" che divengono i

"ricostruttori di un nuovo ordine". Il terrorismo non istituzionale

fa ugualmente e si alimenta del concetto del nemico istituzionale

armato, producendo la stessa condizione politica e storica.

 

(Questo pero' mi sembra il linguaggio tradizionale, non "nuovo")

 

Quando "cataloghiamo" l'attacco di Nassyria, piuttosto che altri

come atti resistenziali ( e può anche essere!) dobbiamo pensare

che sono morti anche 8 civili irakeni ( la nazionalità non è

importante); come definiamo queste vittime?

Effetti collaterali, errore umano, contingente necessità ?

Se questo è "il nome" o qualifica che diamo a quelle vittime

ci assumiamo lo stesso linguaggio e responsabilità di chi fa

della guerra il proprio progetto politico e pur pensando di

avere ragione diventiamo simili al nostro avversario.

 

Se invece diamo "accezzioni" diverse ( quali?) alle stesse vittime

civili, credo che allora dobbiamo tenere aperto il ragionamento su

violenza e nonviolenza perchè da una "semplice qualifica" ne

risulterà una progettualità diversa e molto articolata,che forse

non sempre ci soddisferà.

 

Un abbraccio Walter Saresini

 

Qui un po' mi perdo. Per me la faccenda di Nassyria e' un errore

da non prendere in considerazione come modello di codificazione,

perche' non fa testo. L'errore, mi spiego, e' l'essere andati in guerra.

Dopo, una volta andati,  cosa resta da codificare ?  E' tardi.

 

Ed e' tardi anche per me, e' mezzanotte e me ne vado a letto,

perche' domani ho da lavorare:  ho da fare resistenza...

 

Antonio Rossin

 

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da Liberazione 20-1-'04

Franco Russo (coordinatore tavolo forum per la democrazia europea dei fori sociali)

 

Il potere è violento

ma opporsi con la spada

perpetua il potere...

Diversi, legittimi e di indubbio interesse sono stati finora i modi di

affrontare il dibattito sulla non violenza, evocando infatti il solo

termine 'non violenza' si destano emozioni, riflessioni, propositi: è una

discussione che ci coinvolge in quanto persone, finalmente.

 

Al cuore della stagione apertasi con il '68, che rompeva gli schemi

istituzionali tradizionali con un tumultuoso processo di sconvolgimenti

dello stesso modo di fare "politica" - il personale dello studente,

dell'operaio, della donna è politica (si sosteneva) -, c'era critica del

potere e dei suoi linguaggi. A questa innovazione si sovrapposero una

pratica e un'ideologismo dei partitini che ripetevano i rituali del

terzointernazionalismo. Questo si presentò purtroppo anche nella sua

incarnazione più tragica, e farsesca al tempo stesso - in quella del

partito armato per compiere la giustizia proletaria. Contro questa

riapparizione di un'avanguardia che in nome del destino storico del

proletariato e del comunismo si arrogò il massimo dei poteri - di dare la

morte - ci ergemmo in molti e acquisimmo la consapevolezza - con

l'assassinio di Moro - che l'avanguardismo, con la sua autoreferenzialità,

è la coltura del fanatismo ideologico che scambia la propria azione con il

"fare" della storia e le proprie elucubrazioni con la verità assoluta - che

gli discenderebbe dal possedere la bibbia delle leggi del divenire sociale.

Ci si presentò con forza drammatica il problema di chi e di come si decide

nella società: chi è il popolo, come e quando parla. Il '68 cominciò

un'opera di decostruzione del potere e delle sue manifestazioni quotidiane

- a scuola, in famiglia, nelle istituzioni 'totali', oltre che nei luoghi

classici della fabbrica e dello stato -, ma quell'opera si è interrotta.

 

Il potere. Questo è l'oggetto della questione. A mio avviso Bertinotti non

ha tanto evocato un problema di analisi storica se non per delineare una

questione squisitamente teorica, e specificamente di teoria normativa. Gli

è stato anche risposto che le generalizzazioni oscurano le differenze, che

c'è bisogno di discernere caso per caso: così si rischia però di ricadere

nello storicismo giustificazionista. Il problema non è giudicare il

passato, è di vedere quello che dobbiamo fare oggi riflettendo anche sul

passato; non è una questione di contingenze e circostanze: è il tema

classico del potere, dunque un nodo di analisi teorica e di invenzione

politica.

 

Sulla futura, che speriamo di realizzare, società si è tutti apparentemente

d'accordo: senza sfruttamento, senza patriarcato, con relazioni solidali,

partecipazione alle decisioni collettive e autonomia della persona nel

perseguire il proprio progetto di vita (superando così un rozzo

collettivismo da caserma). Ma il punto dolente è come giungere a questa

società. C'è chi, come Tronti con i consueti accenti nicciani, invita i

movimenti a dotarsi di una volontà di potenza pari a quella di Bismarck:

questa mi pare una proposta isolata, anche se a sostenerla è Tronti che si

assume addirittura l'intero peso della storia del movimento operaio sulle

spalle (come Atlante). Bernocchi, Bersani, Cannavò e Casarini mettono

invece al centro delle proprie riflessioni il potere, e la sua violenza.

Ripropongono un'analisi classica: nella società capitalistica il potere è

concentrato nello stato, che esercita il monopolio, peraltro legittimo e

legale della violenza. Esso agisce - legalmente quando è sufficiente, e

violentemente quando è necessario - per impedire i processi di

trasformazione: anche se ci fosse uno slittamento della sovranità, verso il

basso o verso l'alto, esso si ferma a una soglia, quella oltre la quale i

movimenti minerebbero le fondamenta della società capitalistica.

 

Insomma, sostengono, dietro Locke c'è sempre il Leviatano di Hobbes, dietro

il purismo dell'ordinamento normativo di Kelsen c'è lo 'stato d'eccezione'

di Schmitt: la violenza è una manifestazione necessaria dell'organizzazione

statale - la guerra la sua pratica quotidiana, tanto più oggi che è

divenuta permanente.

 

E' questo che ci divide? Certo, in termini di analisi, si dovrebbe andare

più a fondo: per esempio esaminare il ruolo della sovranità

nazional-statale, e il suo lascito autoritario alla stessa versione

popolare della sovranità, che si è dovuto incanalare nell'alveo del

costituzionalismo per evitarne derive assolutistiche. Non è la violenza del

potere l'elemento di discussione: questa riguarda il come superare quella

violenza nella prassi trasformatrice delle classi e delle persone oppresse.

Qui lo storicismo, la comprensione del caso per caso si tramuta in

positivismo proceduralistico: essendo avviluppate dalla violenza del potere

le lotte sono costrette anche a forme non-non violente, che "possono

scegliere di essere partecipate, co-decise. mezzi autodeterminati avendo

come fine un mondo migliore". La citazione mette in luce un paradosso,

quello proceduralista: una violenza si legittima perché è decisa da una

maggioranza? E chi garantisce che la maggioranza abbia ragione? L'efficacia

storica dell'azione, cioè l'utilitarismo dell'atto? Siamo a Bentham. Anche

i capitalisti fanno il computo dei costi e benefici e sostengono che il

prezzo dello sfruttamento è compensato dallo sviluppo delle forze

produttive e dal benessere, sia pure diseguale Si scrive ancora: si

scelgono i mezzi migliori per raggiungere i propri fini. E' il calcolo

razionale della scuola della 'scelta pubblica', che definisce razionali i

mezzi più economici per raggiungere un fine.

 

Siamo alla scissione di morale e politica, che il movimento no global ha

giustamente messo in crisi, revocandone la validità, sostenendo invece che

le scelte morali sono politiche: la pace è un valore assoluto che

sovradetermina le opzioni politiche. Dopo la seconda guerra mondiale venne

superato il positivismo, perché fonte di legittimazione di qualunque stato,

e venne riarticolato il nesso tra morale, politica e diritto. Oggi il

movimento prosegue quel lavorio teorico e pratico.

 

Solo superando la scissione dei mezzi dai fini, si raggiunge una idea

regolativa capace di orientare i processi di trasformazione. Il potere è

violento, la spada è sempre pronta a colpire chi si oppone; ma opporsi con

la spada dà vita a nuove pratiche sociali di relazioni solidali e libere o

perpetua la violenza e il potere? Abbiamo mai visto qualcuno deporre la

spada, preso il potere? Questi sono i problemi, questa è la ricerca da

condurre con spirito aperto, senza anatemi e politicismi: altrimenti la

storia continuerà a vendicarsi di noi.

 

Franco Russo

 

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da Liberazione 20-1-'04

Nella Ginatempo (coordinatrice tavolo bastaguerra dei fori sociali)

Dobbiamo disarmare la violenza con la nonviolenza

L'intervento di Bernocchi, Bersani, Cannavò e Casarini su Liberazione non

riesce a darmi speranza. Aldilà dei tanti ragionamenti mi trasmette il

messaggio di una condanna: come se noi tutti che lottiamo, disobbediamo,

resistiamo, fossimo condannati a non poter uscire dal paradigma della

violenza, di fronte ad un potere che si fa sempre più violento, e specie là

dove la guerra asimmetrica dei potenti schiaccia ogni libertà e resistenza.

Ma credo che sia proprio questa condanna che dobbiamo smentire, questo

paradigma che dobbiamo rompere nel nostro pensiero, nelle nostre pratiche,

nel sostegno che diamo ai movimenti di liberazione degli altri popoli.

 

Se vogliamo aprire le porte di un altro mondo possibile, dobbiamo saper

immaginare un modo diverso di lottare contro la ferocia e la violenza

dell'Impero. Definirsi nonviolenti non è una insufficienza, non è un minus,

ma al contrario è il primo passo di una utopìa concreta. E la questione

cruciale non è neanche stabilire se la resistenza armata in Iraq o in altri

contesti sia legittima oppure no, ferma restando una giusta distinzione tra

terrorismo e resistenza. Il problema cruciale è chi siamo noi, che cosa

vogliamo essere. Infatti, una volta stabilito che è legittimo difendersi

anche con le armi, non abbiamo però fatto i nuovi passi che possano farci

aprire la porta del futuro; non abbiamo prodotto alcuna innovazione per

essere diversi dalle pratiche dell'avversario che ci sovrasta. Oggi

l'Impero ha dichiarato guerra al resto del mondo, a cominciare dagli Stati

canaglia. Io credo che l'Impero sia invincibile sul piano militare, che il

movimento può batterlo solo sul piano politico distruggendo definitivamente

e a livello planetario la sua egemonia. Ma per far questo dobbiamo essere

consapevoli di un nuovo ruolo. Non possiamo continuare a guardare al

passato, non ci basta giustificare i metodi di lotta del Novecento,

dobbiamo annunciare il futuro, essere ambasciatori di una nuova civiltà,

cominciare concretamente un nuovo processo di civilizzazione che dimostri

l'impossibilità di governare il mondo con le armi. Ma se noi stessi

continuiamo a giustificarne l'uso, continuando a credere nella loro

efficacia, vincerà sempre chi ha le armi più potenti. Noi dobbiamo invece

dimostrare che le armi non servono perché tutto il mondo si ribella al loro

uso e disarma i signori della guerra. Non so come faremo a fare questo e

non so come si potrà fare a liberare l'Afghanistan, la Palestina, l'Iraq e

tutti gli altri, affermando la strada della resistenza nonviolenta, civile,

di massa.

 

Non so quali altri mezzi troveremo per affermare che tra Uccidere e Morire

c'è una terza via: Vivere. Ma so che la strada della nonviolenza è

obbligata perché dobbiamo lasciare la violenza tutta nelle mani

dell'avversario, come depositario di quel mondo che vogliamo cambiare

radicalmente.

 

E le contraddizioni economiche e politiche del capitalismo globalizzato mi

fanno ben sperare che questo ordine del mondo non è eterno e che noi

contribuiremo a costruire l'alternativa.

 

La posizione così chiaramente espressa da Fausto Bertinotti non solo non è

minoritaria nel movimento di cui anch'io faccio parte, ma è maggioritaria

nella società civile che si muove e confligge insieme a noi e attorno a noi.

 

Il movimento delle lotte sociali e delle lotte per la pace e la giustizia

si fonda su pratiche nonviolente e di massa ed esprime creatività,

vitalità, fiducia nella partecipazione collettiva.

 

Sappiamo che il nostro compito in Occidente è quello di disarmare l'Impero,

opporre la pace alla guerra, la nonviolenza alla violenza. Tutte le grandi

idee rivoluzionarie del passato all'inizio sembravano astratte e

irrealizzabili. Oggi i nonviolenti vengono tacciati di astrattezza, ma la

storia ci darà ragione.

 

Nella Ginatempo

 

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dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com

20-1-'04

CINZIA ARRUZZA- DEL CONSIGLIO NAZIONALE DI ATTAC

Care, cari,

inizio, precisando che il mio intervento e' di natura

strettamente personale, sebbene io faccia parte del

Consiglio Nazionale di Attac, cosi' come lo era quello

di Marco Bersani: Attac, infatti, deve ancora fare un

percorso di discussione, che credo fara' nel corso

della prossima assemblea nazionale, il 13, 14 e 15

febbraio, per arrivare, in maniera orizzontale e

condivisa a una posizione e a una elaborazione il piu'

possibile collettiva. Spero, comunque, che questo mio

intervento possa essere utile per la discussione di

Attac e in generale del movimento.

Vorrei prendere le mosse dall'articolo di Cannavo',

Bernocchi e Casarini (temo di non poter piu'

annoverare tra gli autori Marco Bersani, considerata

la sua per me incomprensibile e politicamente

immotivata tardiva "dissociazione": dico immotivata,

perche' mi sembra che nella sua email Bersani abbia

ribadito quello che nei fatti rappresenta il nucleo

dell'articolo, vale a dire la questione del diritto

alla resistenza armata di un popolo invaso- nel caso

specifico l'Iraq- e l'impossibilità di fare della non

violenza una categoria metafisica).

Non mi dilungo troppo e vengo al punto.

1) non credo che l'articolo volesse porre la questione

dell'efficacia o inefficacia in termini assoluti della

non violenza o equiparare la non violenza a passività

(al contrario, molti degli strumenti che oggi il

movimento adopera, che creano consenso e ottengono

risultati, sono patrimonio dell'elaborazione sulle

pratiche non violente). Da questo punto di vista,

bisogna in primo luogo sgombrare il campo dalla

dicotomia violenza/non-violenza, che farebbe sembrare

che in questo dibattito ci siano fautori appassionati

della violenza (la scelta di Liberazione di pubblicare

la foto della kamikaze palestinese come "ornamento"

grafico dell'articolo rientra in questa forzatura del

dibattito e delle posizioni). L'uso della violenza,

credo, porta sempre, in ogni caso, un contenuto di

dolore, irrimediabilità degli atti, rischio di

instaurazione di rapporti di potere gerarchici e

oppressivi, con cui è sempre, in ogni caso,

costantemente necessario fare i conti. Direi dunque

che la domanda non è affatto "violenza o

non-violenza?", ma piuttosto: "è possibile fare della

non-violenza un valore assoluto, un principio

irrinunciabile, quali che siano le circostanze?".

2)Oggi, in Italia, l'intero movimento contro la

globalizzazione si muove all'interno di un patto,

quello genovese, che "è fondato su azioni non

violente, pacifiche e di disobbedienza civile".

Dunque, non credo che sia qui in discussione se il

movimento debba o meno far ricorso a pratiche violente

né a qualcuno credo che stia passando per la mente di

proporre forme di militarizzazione del movimento che

si sono sperimentate in altri periodi, a danno della

mobilitazione sociale. Tuttavia, quando si riflette di

violenza, e' necessario sempre aver presente la

violenza che quotidianamente il capitale, il governo,

i capetti grandi e piccoli (in particolar modo sui

luoghi di lavoro) esercitano su ognuno di noi,

psicologicamente, emotivamente e anche fisicamente.

Per non ricadere in quello che rischia di diventare

uno sterile moralismo da pruderie piccolo-borghese.

3) E' stato gia' detto, e lo condivido: le pratiche di

lotta devono essere scelte e valutate in relazione

allo specifico contesto storico, politico e sociale;

non c'e' una situazione uguale a un'altra ne'

categorie valide sempre e per tutto. Inoltre devono

essere pratiche condivise ed essere radicate in un

consenso di massa, non riproporre fenomeni di

avanguardismo che rischiano di favorire la

passivizzazione sociale. Se si guarda alla situazione

in Iraq, e' innegabile che vi siano gruppi che fanno

del terrorismo la propria pratica di lotta; e a questa

pratica si accompagna spesso anche una proposta di

società reazionaria, teocratica e ademocratica che e'

quanto di piu' opposto sia immaginabile rispetto

all'"altro mondo possibile". Ma e' altrettanto

innegabile che c'e' un fenomeno di resistenza armata

all'invasione, che prende di mira obiettivi militari e

non civili, e che gode di un consenso collettivo e di

massa e, dunque, si intreccia con la mobilitazione

sociale e politica. La domanda che voglio fare non è

semplicemente se gli iraqeni abbiano o meno il diritto

a resistere, anche con le armi, all'invasione, lo do'

per scontato, essendo peraltro un diritto riconosciuto

persino dall'Onu. La domanda e': il movimento contro

la globalizzazione capitalista e la guerra permanente,

come si deve porre e relazionare di fronte a chi oggi

in Iraq tenta di resistere all'occupazione, avanzando

ideali di democrazia ed emancipazione, e utilizzando

"anche" la lotta armata? Pensiamo che senza questa

opposizione all'occupazione, anche con l'uso della

forza, si potrà mai costituire un nuovo Iraq piu'

democratico, in cui regneranno equità e giustizia

sociale? Sono tutti terroristi?

4)Infine, è vero che la burocratizzazione verificatasi

nelle esperienze di socialismo reale ha impiegato

sistematicamente la violenza e il terrore per

consolidare il proprio dominio. Ma mi sembra piuttosto

naif sostenere che l'impiego della violenza (peraltro

certo non nelle forme di una fantomatica "presa del

palazzo di Inverno") nella rivoluzione russa o in

altre rivoluzioni sia la radice dei processi di

degenerazione burocratica che poi sono seguiti.

Casomai le ragioni sono da individuare in un complesso

di circostanze storiche, economiche e sociali.

Bisognerebbe a volte ricordarsi che la stessa

Costituzione italiana, a cui molti fanno spesso

riferimento, affonda le sue radici nella resistenza

armata e di popolo al nazifascismo.

Per tutte queste ragioni, penso che il dibattito, per

come e' stato impostato rischi di essere fuorviante;

piuttosto che discutere oggi di Violenza e Non

violenza nel modo in cui se ne sta discutendo, sarebbe

forse piu' utile riflettere su come si sta modificando

il movimento in Italia, sul significato delle lotte

sociali, dagli autoferrotranvieri, a Scanzano, alle

lotte per la casa che si stanno moltiplicando  e su

quali sono le forme sociali e di lotta utili per

ricomporre e rendere cosi' piu' efficaci queste

mobilitazioni, intrecciandole nel movimento contro la globalizzazione.

 

CINZIA ARRUZZA- DEL CONSIGLIO NAZIONALE DI ATTAC

 

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Michela Vitturi 21-1-'04

 

Mi sono sentita sollecitata ad alcune riflessioni dall'intervento di

Cinzia Arruzza in questa ml che desidero condividere sperando anch'io

in una qualche loro utilità in Attac e nel movimento.

Inizio dicendo che ho ben compreso le ragioni della `dissociazione'

di Marco: quel documento era tutto fuorchè chiaro, prova ne è che

oltre alla sua spiegazione ne è giunta anche un'altra, quella di

Cinzia Arruzza appunto; e una spiegazione è sempre un'interpretazione

(Wittgenstein). Ringrazio Marco Bersani, quindi, per la sua onestà

intellettuale al quale va tutta la mia stima.

 

Lungi da me il voler fare della nonviolenza una categoria metafisica

assoluta, ma non voglio che il campo venga sgombrato così 'tout-

court' dalla dicotomia violenza/nonviolenza, liquidandola quasi come

una perdita di tempo o di vista dei veri obiettivi, quali ad esempio

le lotte degli autoferrotranvieri . Voglio che se ne parli, proprio

per comprendere il modo in cui si sta modificando il movimento in

Italia e le ragioni per cui un movimento che sembrava avere tante

potenzialità il febbraio dell'anno scorso, dopo le manifestazioni del

12 aprile e del 4 ottobre non ha saputo balbettare una parola sui

morti di Nassyria e non sa intrecciare efficacemente le lotte sociali

di questi giorni. Voglio che se ne parli proprio perché da vetero-

marxista potrei dire io per prima che il dibattito sulla nonviolenza

che attraversa il movimento starebbe a dimostrare le sue radici

piccolo-borghesi a fronte delle vere lotte proletarie che si stanno

facendo altrove, e che quindi il tanto vagheggiato altro mondo

possibile rimarrà un ideale kantiano per il movimento mentre diverrà

realtà necessitata in quanto è inscritta nel futuro stesso di quelle

lotte. Per inciso,'mutatis mutandis', potrei sostenere la stessa

posizione per la resistenza del popolo iracheno e quello palestinese.

E invece non lo faccio proprio perché da marxista penso che allora sì

saremmo completamente fuori dal mondo e dalla nostra storia, dal

nostro qui e ora, che ci impone, senza via di scampo, senza

scorciatoie, di fare i conti fino in fondo non solo con delle

categorie di pensiero che pure hanno quantomeno inquadrato una certa

prassi, ma con il Potere che si dispiega ogni giorno in tutta la sua

violenza. E noi, come vogliamo rispondere a questo Potere? Rimanendo

dentro la sua logica di violenza e contemporaneamente agire per

costruire un altro mondo possibile? Come? Vogliamo riflettere e

ragionare allora su questa categoria dell'alterità? Come possiamo

dirci ed essere`altro' rispetto a questo Potere?

 

Mi pare che sulla impossibilità della separazione mezzi/fini siamo un

po' tutti d'accordo, e del resto dopo l'analisi puntale di Hannah

Arendt nel suo "Sulla Violenza" datato 1968, ritornare a posizioni

machiavelliane sembra davvero una strada non più percorribile. Ma

poi? Basta il rimuovere la dicotomia che il Potere ci propone

(violenza/nonviolenza), basta il simulare nelle piazze la sua

violenza? Non credo sia efficace per nulla, perché se il medium è il

messaggio, e la piazza non è un teatro, quello che passa non è quello

che diciamo di essere, ma quello che facciamo. E in questa società in

cui la Verità la dice la televisione noi ci troviamo ad essere, ci

piaccia o no, quella `rappresentazione simbolica' che viene trasmessa

in tv. Al di là di questa torsione mediatica che i nostri contenuti

subiscono, e che a mio modesto parere altro non fanno se non quello

di allontanare le persone e il loro consenso da noi (non credo sia un

caso se dopo il 4 ottobre tante persone siano tornate a casa e non

abbiano nemmeno avuto la voglia di rimettere fuori la bandiera della

pace in novembre), sono davvero stanca anche solo di sentir usare un

certo linguaggio e di veder vestire in un certo modo, forse perché ho

vissuto il movimento del 77 già allora in contrasto con le teorie e

le prassi della Autonomia Operaia. Quando sento che si deve `dare

l'assalto alla zona rossa', `assediare l'ambasciata inglese perchè

punto strategico ecc.', indossare caschi e scudi per `difendersi', mi

rendo conto di quanto noi per primi siamo permeati dalla violenza del

potere, tanto da usare lo stesso linguaggio bellico, qui sì mi vien

da dire `cristallizzati' e immobilizzati dentro una gabbia non solo

linguistica ma proprio categoriale, che ci impedisce anche solo di

pensarlo, se non di dirlo e praticarlo, un altro mondo possibile. Per

queste ragioni ritengo non più rinviabile un dibattito sulla

nonviolenza che mi auguro il più ampio possibile.

 

Michela Vitturi

 

 

da Liberazione 21-1-'04

 

La nonviolenza,  opzione matura   ed efficace

Pasquale Martino

 

 

Caro Sandro, cara Rina, da laico e materialista, non credo che esistano valori assoluti, al di sopra di quelli che gli uomini e le donne costruiscono nella storia. Lo stesso campo dei valori è un campo di lotta, di conflitti, di rapporti di forza. Il ripudio della guerra, impostosi alla metà del Novecento, e così spesso ipocritamente aggirato, è stato dichiaratamente rimesso in discussione all'inizio del nuovo secolo. Le acquisizioni etiche che delineano un modello di civiltà non sono irreversibili. Pure, il complesso e contraddittorio cammino dell'umanità ha prodotto principi di convivenza e di civiltà, scaturiti da lotte, rivoluzioni e anche da ripetute sconfitte che hanno preparato vittorie.

Il "non uccidere" non era inscritto nella natura umana ab aeterno, eppure ha finito con l'affermarsi come principio basilare dell'etica e della convivenza civile, sebbene limitato da deroghe più o meno numerose che ne giustificano la violazione. In questo senso credo che la nonviolenza debba essere assunta come un carattere fondativo del progetto di società a cui alludiamo.

 

L'essere comunista nella nostra epoca significa anche essere, in quanto anticapitalista, radicalmente ecologista, femminista, pacifista e nonviolento. Non si tratta dunque di una giudizio retrospettivo e tanto meno retroattivo. La Resistenza armata è stata una scelta indiscutibilmente giusta; ma va anche colto dialetticamente, nella nostra prospettiva, il dibattito che è esistito fra i resistenti (a partire dal Pci) sulla necessaria alterità di concezione dell'uso della forza rispetto ai nazifascisti, e sui limiti da porre conseguentemente all'esercizio stesso della violenza. Non si tratta neanche di una pretesa di giudicare le forme di lotta che concretamente si dispiegano oggi nelle diverse realtà del mondo, soppesandole sulla base di criteri precostituiti. Si tratta di far prevalere una spinta alla coerenza fra i caratteri del processo rivoluzionario e l'ideale di civiltà che prefiguriamo, di superare nella pratica e nella cultura politica la separazioni dei due tempi, que

llo dei mezzi e quello dei fini. Una coerenza che non esigiamo assoluta, ma visibile e credibile, ricercata mediante l'accumulo di esperienza, la discussione e la condivisione.

 

Non stiamo parlando di un annuncio profetico, del sogno di un'utopia. La nonviolenza è un'opzione che diventa matura ed efficace nell'epoca in cui i signori della guerra hanno un monopolio della violenza inoppugnabile sul piano militare. La risposta terrorista non solo è moralmente riprovevole, non solo è incapace di sconfiggere la guerra, ma la rafforza e la propaga con effetti devastanti. Noi dobbiamo certamente distinguere fra il terrorismo e le forme legittime di resistenza armata a una forza occupante, sancite dal diritto internazionale (o da ciò che ne resta). Ma non è questo il punto. Il punto è che la prospettiva avanzata dell'alternativa mondiale oggi è rappresentata da un soggetto internazionale - il movimento per la pace e per "un altro mondo possibile" - che per cultura, modalità e apparato simbolico rende credibile e praticabile l'esercizio di massa della nonviolenza.

 

A questo movimento ci rapportiamo indicando nella nonviolenza l'opzione politica fondamentale. Che è anche disobbedienza, boicottaggio, occupazione, picchetto, miriade di forme di lotta, di resistenza e di opposizione. Forme che esaltano e moltiplicano esperienze che pure sono appartenute, eccome, al movimento operaio.

 

E poi discutiamo in concreto, volta per volta. Io per esempio c'ero a Roma il 4 ottobre, e non penso che privilegiare il fronteggiamento della polizia davanti alla "zona rossa" anche a costo dell'autoscioglimento di un grande corteo sia stato un successo politico. Come non credo che sia stato tale lo schieramento dei - e delle - disobbedienti con caschi, fazzoletti e scudi. Non scopro niente di nuovo se dico che le forme di lotta, sul piano concreto e simbolico, devono interloquire fecondamente con i caratteri di massa del movimento. La partecipazione popolare ai blocchi stradali in Basilicata ha scoraggiato qualsiasi velleità di intervento da parte delle forze dell'ordine. Le pur durissime azioni di lotta dei ferrotramvieri hanno dimostrato, finora, una impensabile tenuta nei rapporti di consenso con i cittadini e gli utenti. E ciò dovrebbe essere di lezione.

 

Pasquale Martino

 

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Contro l'Impero il primato della politica

 

Roberto Del Bello

 

Caro direttore, prendo l'intervento apparso il 16 gennaio, che porta le firma di Bernocchi, Cannavò, Bersani e Casarini, ad esempio dell'insieme di "luoghi comuni" o di "fuori luogo" che andrebbero evitati nella discussione che si sta faticosamente, ma inesorabilmente, avviando nel Partito ed anche nel movimento.

In primo luogo non credo che la questione, come è stata posta da Bertinotti (e non solo), sin dal convegno veneziano sulle foibe, sia tacciabile di astrattezza. Siamo perfettamente convinti che la scelta delle forme di lotta e l'impostazione organizzativa, progettuale, culturale, programmatica di una forza politica vada collocata nel contesto storico attuale. Proprio per questo un primo "fuori luogo" è quello di analizzare il dualismo guerra e terrorismo sciorinando una macabra casistica, accompagnata da un'arbitraria gradazione sulle forme si lotta armata da considerarsi legittime o meno...

 

Nel corso del novecento la distinzione tra guerra civile, guerra guerreggiata e terrorismo era palese, evidente non solo nelle forme assunte, nei soggetti coinvolti, ma anche e soprattutto nelle finalità e nei contenuti.

 

La guerra preventiva, permanente e costituente è invece una categoria totalizzante. E' combinazione di guerra tecnologica, sociale ed economica e si rappresenta come momento costitutivo di nuovi mercati, di nuovi campi di relazione sociale, di nuovi poteri.

 

Al tempo stesso esprime un potenziale di distruzione di massa, indifferenziato e dispiegato che non ha precedenti. Con una terminologia tradizionale si potrebbe dire che essa ingloba in sé, nello stesso momento, gli elementi della guerra civile e gli elementi della guerra fra stati. Un fenomeno la cui novità avevamo in tanti interpretato, già da molto tempo, nella cosiddetta "libanizzazione dei conflitti", con la variante che oggi siamo precipitati in una fase di unipolarismo dominato dagli stati uniti d'America. Lo zapatismo in tutto questo assume esattamente la posizione di un'alternativa: la liberazione del territorio e l'organizzazione di relazioni sociali liberate intorno alle zone rosse (che sono occupate per lo più dalle icone del potere globale), piuttosto che l'assalto alle zone rosse; l'accerchiamento e lo svuotamento della funzione "governativa" attraverso l'organizzazione del consenso sociale (in forme strutturate e definite di autogoverno) e del dissenso politico

piuttosto che la conquista del potere...

 

Non è in discussione la denuncia della criminalizzazione delle lotte sociali attraverso i meccanismi repressivi e a nessuno passerebbe per la mente dire che gli scioperi selvaggi degli autoferrotramvieri sono violenti o che lo sono le lotte dei metalmeccanici, od egli occupanti di case etc.

 

Nè ci stiamo occupando di "tafferugli". Ciò di cui ci stiamo occupando è esattamente il senso che vogliamo dare al nostro agire politico, a quegli " scontri non voluti" che gli estensori della lettera su Liberazione attribuiscono ai soggetti in lotta.

 

Qui sta il punto: nella storia del movimento comunista non ci sono mai stati "scontri non voluti". L'idea che la trasformazione del mondo si rappresenta come un processo in due tempi in cui si tratta di stappare il potere all'avversario prima, per usarlo come leva della nuova costruzione sociale, poi, è intrinseca alla tradizione comunista novecentesca. In questo semplice dualismo, che richiama tutti i dualismi propri dell'idealismo, compreso quello cristiano, sono contenute( e si sono giustificate) tutte le tragedie e gli errori legati all'esperienza sovietica, e non solo. In esso si è consumata la fatale scissione tra fini e mezzi.

 

Io credo che oggi cadano proprio le ragioni storiche di questo dualismo e con esse le ragioni politiche di ogni pratica che a quel meccanismo alludano...

 

La questione della presa del potere non può essere all'ordine del giorno perché il potere globalizzato, in quanto tale, non si rappresenta più come un luogo o un nome, ma come meccanismo sociale oggettivo. D'altra parte la dialettica crisi-guerra-rivoluzione, dimostra oggi la sua inattualità, in quanto la guerra si presenta come semplice gestione (e riproduzione) della crisi

Interrogarsi sul metodo di lotta della nonviolenza diventa, a questo punto, un interrogativo fondamentale sul tema della natura del potere e di una rivoluzione possibile, sulla condizione stessa perché il movimento globale contro il liberismo diventi il soggetto in grado di praticare la liberazione sociale...

 

L'apertura di una ricerca e di un dibattito sulla nonviolenza assume oggi per noi caratteristiche di una fortissima radicalità e di una incommensurabile forza innovativa che ci porterà, lo spero davvero, alla chiusura dei conti con il novecento e ad aprire, veramente, il sipario sul terzo millennio, nella convinzione, soggettiva, della permanente attualità del Comunismo.

 

Roberto Del Bello

 

 

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Atti simbolici e messaggi veicolati

Lidia Cirillo

 

 

Caro Curzi, sono d'accordo con lo spirito e la lettera dell'intervento di Bernocchi-Bersani-Cannavò-Casarini con l'eccezione di un paio di passaggi. Mi soffermo su uno soltanto. Ho sempre considerato la pratica della violazione della "zona rossa" più dannosa che utile, anche se poi mi sono ben guardata dal firmare testi femministi di condanna al presunto militarismo maschile in nome dell'altrettanto presunto pacifismo femminile. Mi sembra che l'utilità di un atto simbolico dovrebbe essere misurata dalla sua capacità di veicolare messaggi. In questo caso quel che giunge all'opinione con cui si interloquisce è ben diverso dalla programmatica violazione di un ordine costituito nella prospettiva di un altro mondo possibile. Passa invece il messaggio che la repressione è autorizzata dalla violenza dei manifestanti e l'autorizzazione a procedere è concessa soprattutto da una sorta di continuum immaginario, che di fatto per opera dei media si crea. Il continuum è tra gli atti in lar

ga misura simbolici e gli episodi di violenza autentica del tutto fuori dal controllo della parte organizzata del movimento. Ora, che una pratica provochi risposte repressive e autorizzazioni a procedere può non essere argomento sufficiente di dissuasione, purché si spieghi che cosa c'è sull'altro piatto della bilancia. Ricordo che alla vigilia di Genova era diffusa l'illusione che le pratiche della violazione avrebbero potuto garantire l'unità del movimento e il controllo della piazza. La violenza simbolica, cioè, avrebbe dovuto esorcizzare quella reale. Le cose - si sa - sono andate diversamente. Come è ovvio e per il tipo di rapporto esistente tra simbolico e reale.

Lidia Cirillo

 

 

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Un nuovo spazio pubblico per la ribellione e l'alterità

Giovanni Russo Spena (senatore del PRC)

 

Bertinotti sta dando impulso, a partire dall'ultimo congresso, ad un percorso rifondativo vero, radicale, sofferto a cui partecipo con condivisione, ma anche con forte emozione. Avverto, infatti, vicini al mio percorso culturale e politico i paradigmi interpretativi. Non ci si chiede di "schierarsi", ma di essere attori della necessaria "reinvenzione infinita" (direbbe Balibar). Per questo è meschino immiserire la discussione con torsioni politiciste: non c'entra niente il confronto con l'Ulivo, né si sostituisce il ritratto di Marx con quello di Gandhi. Ci si confronti con la vera tesi: non so dirmi comunista oggi se non sconfiggo il paradigma della necessità della "violenza rivoluzionaria", che è imploso anche all'interno del movimento operaio (errori, orrori, sopraffazioni, assassinio, gulag); e la nonviolenza non è abbandono del conflitto di classe, consociativismo aclassista (come se la radicalità fosse equazione di possibile violenza), ma forma contemporanea della disob

bedienza, che è punta più alta di radicalità.

Essa, infatti, è principio ordinatore delle forme attuali della democrazia conflittuale, che si oppone al crescente emergenzialismo e ad un autoritarismo che identifica, ormai, conflitto e crimine. Lo sanno gli autoferrotranvieri, gli occupanti di case, i movimenti, che lottano contro la "società disciplinare". La disobbedienza (dal "trainstopping" a Scanzano, Terlizzi, Acerra) è diventata percorso sociale: da carsici comportamenti di ribellione individuali o di gruppo a "comunità disobbedienti".

 

Sul piano culturale, la trama che scorre dalla nonviolenza classica alla disobbedienza, vive un confronto, un intreccio, a volte una sinergia (certo difficile) tra cultura libertaria, cristiana, comunista. Non penso affatto (come collaboratore assiduo di "Liberazione" ho tentato di indagare anche in brevi note i processi autoritari, violenti del capitalismo contemporaneo) che la nostra ricerca rimuova o sottostimi le coordinate del "potere violento", lo stato di "terrore permanente". È una critica inconsistente, perché è esattamente il contrario. Risollevo l'attualità della nonviolenza proprio perché io credo, come Agamben, che lo "stato di eccezione" sia il frutto primo della guerra preventiva e che "il paradigma politico dell'occidente non sia più la città ma il campo di concentramento, non Atene ma Auschwitz".

 

Non parte da qui la riflessione di Bertinotti? Il tema è posto dall'essere dentro il processo rivoluzionario. Non è eludibile. La forma più radicale di lotta non può introiettare, in maniera speculare, la violenza infinita del comando imperiale; né alla sua violenza, per contrapporsi ad esso, deve corrispondere un tasso più alto di nostra violenza. La lotta più radicale, penso, è quella che tenta di riscrivere la grammatica della liceità sociale, oltrepassando il legalitarismo formale; la nonviolenza non è assenza di lotta; è, anzi, messa in discussione, messa in gioco del proprio corpo per mettere in crisi il potere militare: Rachel e Tom Hurndall, uccisi durante azioni di protesta diretta nei territori occupati palestinesi non sono icone di una lotta radicale? E i refusnik, i militari israeliani che rifiutano di obbedire allo stato di occupazione militare del governo israeliano, non sono l'esempio più radicale ed efficace di disarticolazione del comando imperiale?

 

Proporrei, piuttosto, di uscire da un dibattito semplificato ed ideologistico e di entrare nel merito di alcuni temi: come si inseriscono, all'interno della pratica nonviolenta, le azioni di boicottaggio, di sabotaggio, che colpiscono direttamente i processi di accumulazione e di valorizzazione del capitale? La nonviolenza non è una parola d'ordine; va organizzata seriamente (anche attraverso scuole di formazione e di comportamenti, come ci insegnano le esperienze più consolidate e avanzate).

 

È bene dissolvere un secondo equivoco: nessuno pensa di riscrivere retroattivamente la storia, le forme, i percorsi della liberazione dei popoli oppressi. Sto pensando alla lotta armata contro il nazifascismo; e ritengo che i popoli oppressi non debbano essere ingabbiati né dal mito della forza, né dalla ideologia della nonviolenza intesa come dogma. Sono i popoli stessi che decidono in base alla condizione storica ed alla contingenza concreta. Noi poniamo un problema politico, qui ed ora; ""alla forza smisurata sul piano militare delle forze dominanti della globalizzazione"" - scrive Bertinotti - ""si può solo contrapporre la forza delle coscienze, dei movimenti, delle convinzioni"". È banale ridurre la nostra ricerca ad una polemica sulle forme di lotta. L'interrogativo vero è come si raccorda l'iniziativa di massa di oggi con l'idea di società "altra" che vogliamo costruire, come essa viene prefigurata dall'anticipazione che vive nel conflitto oggi. Noi alludiamo ad un nuo

vo spazio pubblico in cui esercitare la ribellione e l'alterità.

 

Lo annotava Mordenti: la nostra idea della rivoluzione comunista è autogestione, democrazia integrale, e, dunque, vi è la necessità che il processo rivoluzionario non contraddica, nel suo svolgersi, questi fini. Personalmente credo che andrebbero indagati a fondo i limiti anche teorici sulla concezione dello stato e del diritto degli stessi gruppi dirigenti comunisti storici. In questo senso va rimessa in discussione la concezione stessa del potere novecentesco. Quale rapporto con lo stato di diritto? Perché il "potere socialista" ha ritenuto, con la "dittatura del proletariato", di annullare, in nome e per conto del popolo, con la forma massima di sostitutismo, il garantismo, il sistema delle regole e dei diritti, la lotta sindacale stessa? Non nasce da questo errore teorico, prima che politico, il "gulag"? la critica da sinistra dello stalinismo, lungi dal ricadere nelle secche fallimentari della democrazia rappresentativa borghese, riparte dallo stato di diritto per giunge

re all'autogestione. Già Bloch, nel 1953, nello stesso anno dei moti operai a Berlino e in altre città della Repubblica Democratica Tedesca, annotava che, alla base della degenerazione del "socialismo reale", vi era l'insufficiente elaborazione della categoria di "dittatura del proletariato", la quale aveva del tutto omesso il giusnaturalismo e la possibilità di una sua interpretazione di sinistra.

 

Marx, del resto, nella "Guerra civile in Francia" scriveva che la Comune di Parigi fu una "forma politica fondamentalmente espansiva, mentre tutte le precedenti forme di governo erano state unilateralmente repressive". Il dibattito violenza/nonviolenza, è bene saperlo, allude, insomma, alle forme della politica e alla democrazia.

 

Giovanni Russo Spena

 

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La nonviolenza

non è un flirt e via...

Daniele Lugli (segretario del Movimento Nonviolento)

 

 

Caro Curzi, il dibattito, in cui Rifondazione appare chiaramente impegnata, su violenza e nonviolenza è molto importante e non solo per quel partito e per le persone che alla sua azione ed elaborazione guardano con interesse. E' un nodo decisivo, sul quale sono state dette molte cose del tutto condivisibili, anche da chi ha fatto della nonviolenza il criterio fondamentale e imprescindibile dell'agire politico. Rilevante è la scelta di un convegno di studi a fine febbraio a Venezia, per l'articolazione dei temi e per la qualità dei relatori, persone tutte che sanno collegare la ricerca teorica con l'impegno sociale e politico. La nonviolenza non è un frutto esotico trapiantato in nquesta parte di mondo. Ha radici autoctone, come Lidia Menapace, ama ricordarci, nel movimento operaio e nel movimento delle donne: "Questi hanno modificato il mondo più di qualsiasi guerra e più in profondità di qualsiasi rivoluzione, che della guerra abbia ripetuto i foschi modelli; hanno stabilito

forme di autonomia, dignità e coscienza". Ha avuto nel nostro Paese insigni maestri ed interpreti: un nome per tutti, quello di Capitini, ma altri potrebbero aggiungersi. Nel suo ultimo articolo su "Azione Nonviolenta", intitolato "Nonviolenza concreta", dell'ottobre del 1968 (muore nello stesso mese) Capitini ammonisce a non "giocare con la nonviolenza, farci un flirt e via". Il modo, con cui a partire dal Segretario Fausto Bertinotti, sono condotti discussione e confronto e l'appuntamento del Convegno sembrano lontani da questo atteggiamento. Il nostro Movimento e la rivista Azione Nonviolenta, fondati da Aldo Capitini all'indomani della prima marcia Perugia-Assisi, seguono con attenzione e partecipazione dibattito e approfondimenti, pronti a dare, nelle forme che si riterranno utili e possibili, il loro contributo.

Daniele Lugli segretario del Movimento Nonviolento

 

 

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Ma come si può

escludere a priori

l'uso della forza?

Marcello Graziosi

 

 

Cara Rina, vorrei entrare subito nel vivo del nostro attuale dibattito interno, che non considero affatto la coda del V Congresso ma un'anticipazione di quello che sarà il VI, non senza aver espresso un profondo malessere per quella che vivo come una progressiva e secca involuzione della democrazia interna al partito, che stride con le altisonanti dichiarazioni di principio. Se altri fanno come o peggio di noi (vedi Berlino), la cosa non mi rallegra affatto. I bolscevichi votarono nei Soviet prima della conquista del Palazzo d'Inverno, il nostro Segretario si reca a Berlino per dare vita ad un nuovo partito (non comunista) europeo senza alcun mandato da parte degli organismi dirigenti.

La sinistra di alternativa in Italia. Più volte abbiamo discusso, negli organismi dirigenti, della possibilità di costituire un nuovo soggetto politico della sinistra di alternativa in Italia, negando però con decisione che si ragionasse di un nuovo partito, non comunista, considerato giustamente una fuga in avanti organizzativistica, non in grado dunque di risolvere problemi che erano e rimangono squisitamente politici. Abbiamo così ragionato di Forum, di Costituente, fino all'attuale Forum per un'alternativa programmatica di governo.

 

Il Partito della Sinistra Europea. Perché, allora, in Europa abbiamo agito del tutto diversamente, dando vita senza alcuna discussione diffusa ad un nuovo partito, di orientamento non comunista, destinato ad indebolire e non già a rafforzare il Gue? Senza nemmeno aver prodotto una discussione compiuta sui grandi temi della costruzione dell'Europa, elemento che si riflette in un appello assai generico, per non dire moderato?

 

Il '900 ed i comunisti: contestualmente a Berlino è ripreso il processo alla storia dei comunisti del '900, con l'imposizione del dogma della non-violenza, assurto a strumento valido al di fuori del tempo e dello spazio, "al di là del bene e del male". Con un furore ideologico che non trova alcuna ragion d'essere oggettiva. Alcune osservazioni:

a) faccio miei i quesiti posti da Ingrao sulla possibilità o meno di resistere anche con le armi contro lo strapotere Usa e le aggressioni armate, la risposta ai quali rompe quella visione che individua la non-violenza come unica soluzione per non trovarsi immersi nella "dialettica guerra-terrorismo" (diciamolo ad iracheni, palestinesi, colombiani...);

b) guerra e terrorismo sono due aspetti dello stesso processo (non una spirale e due centri equivalenti del terrore), entrambi funzionali ai progetti di egemonia mondiale degli Usa dopo la disgregazione dell'Urss. La Rivoluzione d'Ottobre ruppe l'egemonia mondiale del capitalismo, il 1991 l'ha reintrodotta, con conseguente arretramento dei rapporti di forza su scala mondiale. Hiroshima è stato il cinico segnale dell'egemonia imperialista Usa, un salto di qualità drammatico per l'intera umanità, come oggi lo è la guerra preventiva di Bush;

c) come si può rimettere in corsa una prospettiva rivoluzionaria escludendo a priori l'uso della forza e la conquista del potere? Come è stato per la borghesia rispetto al feudalesimo? Nessun comunista ha mai considerato obbligatorio l'uso della forza, ma ha sempre avuto la consapevolezza della difficoltà di modificare radicalmente i rapporti di produzione se le leve del potere rimangono nelle mani dell'avversario di classe. Nel qual caso, l'alternativa rimarrebbe interna al sistema ed il binomio socialismo-comunismo semplicemente un'utopia, com'era prima non di Lenin ma del Manifesto di Marx del 1848;

d) I comunisti del '900 hanno sempre fatto i conti con la propria storia e le proprie esperienze, strada facendo, pagando anche dei prezzi altissimi (tra gli altri, la rottura Cina-Urss). Sarebbe importante aprire una grande ed alta discussione, sull'evoluzione del movimento comunista internazionale, sull'Urss e le ragioni della sconfitta, sulle attuali transizioni in corso, imparando dagli errori ma senza recedere dalla prospettiva. Perché? Perché nessuno è più a sinistra e radicale dei comunisti, senza i quali non può esistere alcuna alternativa di massa non solo al neoliberismo, ma al capitalismo stesso.

 

Marcello Graziosi

 

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da Liberazione 22-1-'04

Patrizia Sentinelli (responsabile dipartimento movimenti PRC)

 

Mistificanti i riferimenti al Vietnam e alla Resistenza

 

In questo dibattito di grande livello, non per caso "nobilitato" dagli

interventi di Pietro Ingrao, si discute anche della sorte politica del

movimento. La sua divisione, abbiamo più volte detto, è obiettivo che molti

si sono dati in questi anni e che tutti abbiamo contribuito a respingere, a

partire dalla denuncia dell'uso manipolativo della categoria "buoni" e

"cattivi". Proprio per questo ho avvertito un sovrappiù nell'intervento a

quattro firme uscito qualche giorno fa come se la sua priorità fosse, prima

che la discussione di merito, una "delimitazione di campo". Una scelta

singolare e non proficua. Tanto più in un dibattito come questo, dove non a

caso, io credo, lo stesso segretario di un partito interviene in prima

persona, non per solitudine o per sovrapposizione, ma per rispondere ad una

esigenza di interrogarsi anche in proprio e fuori dai contesti ravvicinati

della battaglia politica più immediata. Anche per evitare qualsiasi rischio

di sovrapporre dinamiche di partito, e interne ai partiti, al movimento. E

per accompagnare la riflessione stessa del movimento che è in corso

collettivamente e in modo impegnato.

 

Il merito dell'articolo di Casarini, Cannavò, Bernocchi e Bersani mi pare

un po' "antico", "conservatore", non all'altezza della rottura operata dal

movimento stesso. Certo c'è sempre il rischio di banalizzare le posizioni

altrui ma ciò che non mi convince non è l'articolazione prospettata tra

forme varie assunte in contesti diversi dalle pratiche violente, ma la

contestazione della spirale guerra-terrorismo come fenomeno tipico di

questa fase che opera concretamente per annichilire la politica e in

particolare contro il soggetto che sta in campo, per reinverare la politica

stessa, e cioè il movimento. Qui non sono proprio d'accordo. Se non vediamo

che la guerra e il terrorismo nell'era della globalizzazione sono altro da

ciò che sono stati nel '900, non vediamo il nuovo e cioè il carattere

sovrastante delle nuove forme di dominio imperiali e fondamentaliste,

capitalistiche e religiose, portatrici di un conflitto devastante tra

"modernità barbarica" e "barbarica modernità". E inseguono una vecchia

lettura statualistica dei conflitti che crede ancora centrare la politica

nel suo avvalersi della forza e non coglie l'assolutizzarsi della forza

come distruzione della politica.

 

E' questo elemento del tutto nuovo che rende mistificanti i riferimenti a

epoche passate, dal Vietnam alla Resistenza. Non è la comprensione di

questa novità, come si afferma nel testo di Cannavò e degli altri compagni,

a far "interiorizzare" il punto di vista della strategia della guerra

preventiva e permanente al punto da non saper più articolare i giudizi e

percepire le diversità che permangono nelle pratiche della forza, ma al

contrario è la sottovalutazione della sua portata ad impedire la rottura

necessaria a non essere manipolati o sussunti nell'agire.

 

Nel mondo ci sono tanti conflitti aperti, come è sempre stato, ma il punto

è che ce ne è uno, la spirale guerra-terrorismo che esprime la crisi della

globalizzazione nel suo portato storico potenziale, cioè il suo essere

crisi della modernità tout court nelle sue forme storicamente costituite,

assolutizzando la forza contro la politica in quanto considera questa

ultima non praticabile e in nome non più di idee condivise di progresso ma

di una visione assolutizzante di un "bene" assunto come categoria del

dominio.

 

E' questo prevalente reale, e non la sua interiorizzazione psicologistica,

che bisogna evitare che sussuma tutto il resto. Che non vi sia alcuna

interiorrizzazione psicologistica è evidente nei comportamenti politici del

Movimento e di tutti noi che, appunto, lungi da farsi dividere tra buoni e

cattivi e incorporare l'equivalenza totalizzante, dal terrorismo alla

disobbedienza, troviamo l'unità nel massimo di radicalità del contrasto

disobbediente alla guerra e nel massimo di garantismo rispetto alle

pratiche, sapendo leggere le dinamiche concrete dei conflitti e delle

piazze e le asimmetrie tra potere e di chi vi si oppone. Sapendo però che

quella spirale c'è e che non ne saremo garantiti agendo, come nel '900,

nella pura contraddizione dei poteri in lotta, ma dispiegando l'altro mondo

possibile.

 

Intendiamoci, anche nel '900, questo altro mondo si era dichiarato con il

movimento operaio ma si era poi consegnato a una dinamica statuale, quella

sovietica, che aveva garantito equilibri ma anche imprigionato l'istanza di

cambiamento. Qui la discussione si fa più su di noi stessi. Perché, io

penso, che non solo "l'oggettivo" ci porta a pratiche del tutto nuove, come

quelle nel rapporto con la forza e ciò che essa significa, ma anche il

"soggettivo". E anzi, che la rivoluzione come forma storicamente nuova di

modernità sia proprio un reincontro tra oggettività e soggettività come mai

c'è stato, così come tra umanità e natura. Ce ne parlano il femminismo e

l'ambientalismo. Nessuno mette in discussione la Resistenza e il Vietnam,

di cui siamo tutti figli e figlie, ma oggi posso dire, che ciò che andava

fatto allora, l'uso della forza, vorrei non fosse necessario vogliamo

comunque interrogarci su come la categoria della forza abbia potuto

deformare soprattutto nelle sue pratiche statuali, quella istanza di

liberazione di cui ero e voglio essere portatrice? C'è in questo, tanto del

nuovo movimento, dal valore di tutte le persone, al suo carattere

orizzontale che rifiuta quella verticalizzazione che è già violenza. E c'è

una dimensione collettiva e insieme individuale. Io sono per le pratiche

radicali ma, ancora più come donna, vorrei poter contemperare pratiche per

me gestibili e rivendicabili, non per aver interiorizzato la repressione o

per sfuggirla, ma perché mi consentono di esprimermi in modi inequivocabili

senza lasciarmi attraversare da categorie altrui di cui voglio liberarmi.

Non è una discussione facile, anzi molto difficile, come è a volte

liberarsi dal passato, in un presente difficile, ma guardando al futuro.

 

Patrizia Sentinelli

 

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Da Liberazione 23-1-'04 (dove era stato tagliato, ma questo è integrale)

 

INTERVENTO NEL DIBATTITO SULLA NONVIOLENZA

 

di Francesco Ricci (vicepresidente Collegio Nazionale di Garanzia del PRC)

Associazione marxista rivoluzionaria PROGETTO COMUNISTA

 

Il dibattito sulla nonviolenza va affrontato, credo, sia dal punto di vista teorico, sia indagando il legame con le scelte politiche che si compiono. Un lavoro che meriterebbe la convocazione di quel congresso straordinario che migliaia di militanti del partito chiedono con la sottoscrizione della petizione promossa dal compagno Marco Ferrando.

 

1) Dal punto di vista teorico la questione investe problemi immediati, perché le classi dominanti oppongono la violenza dei loro apparati alla crescita dei movimenti mentre il dogma "nonviolento" prescrive la rinuncia persino a ogni forma di autotutela dalle aggressioni poliziesche nelle manifestazioni; e investe problemi strategici, perché nessuno ha finora indicato un modo diverso dalla violenza rivoluzionaria delle masse per affrontare la resistenza che storicamente la borghesia contrappone a ogni processo rivoluzionario, resistenza che si concretizza nel ricorso alle "bande armate a difesa del Capitale" (l'espressione è di Engels ma pare coniata per i carabinieri in azione tanto a Genova come a Nassyria).

Leggiamo della presunta necessità di "superare il Novecento" e certe "sue" categorie. In realtà è da tre secoli che nel movimento operaio si confrontano due tesi il cui nucleo non è la legittimità o meno dell'uso della violenza, bensì la volontà o meno di perseguire il progetto comunista: il tema della violenza è secondario (nel senso di conseguente) a ciò.

Il vecchio Marx (in una lettera a Bolte del novembre 1871) definiva il progetto comunista come il movimento politico della classe operaia "che ha, naturalmente, come fine ultimo la conquista del potere politico per la classe operaia stessa". Ed è a partire da questo obiettivo che tanto l'"ottocentesco" Marx quanto il "novecentesco" Lenin si ponevano il problema della forza. Marx sosteneva che l'"altro mondo" che i comunisti vogliono costruire non potrà basarsi sui rapporti di produzione capitalistici e quindi sulle forme istituzionali sorte per tutelare un sistema economico basato sulla divisione in classi della società. Di qui la necessità di "spezzare" (e non "riformare") la macchina statale borghese per sostituirla con altre istituzioni corrispondenti al nuovo dominio di classe (la Comune). E di qui la necessità -già indicata nel Manifesto del '48- di affrontare l'inevitabile resistenza delle classi dominanti, preparando le masse a questa prospettiva confessando "apertamente che gli intenti [dei comunisti] non possono essere raggiunti se non per via della violenta sovversione del tradizionale ordinamento sociale". Un obiettivo che può essere perseguito solo costruendo l'opposizione di classe a qualsiasi governo borghese (fosse pure "di sinistra"): non per un moralistico rifiuto del potere, ma perché la sconfitta di ogni eventuale illusione dei lavoratori in governi "progressisti" è il presupposto della realizzazione di un governo "della classe operaia per la classe operaia".

Chi pretende di "superare" questa "concezione classica" deve quindi dirci non tanto dove butterebbe Marx (cosa che ad altri può importare poco) ma piuttosto spiegarci se ritiene che il comunismo corrisponda ancora all'"esproprio degli espropriatori" e come pensa di convincere gli Agnelli, i Berlusconi e i Tronchetti Provera a concedere pacificamente che le loro aziende passino nelle mani dei lavoratori.

Riconosco al compagno Bertinotti di aver colto la centralità di questo problema quando (Liberazione, 30/11/03) dice di vedere una "assenza in questo movimento del problema della conquista del potere", una "modalità di comportamento di tanta parte del 900" che sarebbe stata -a suo avviso positivamente- "estirpata alla radice". Resta però da capire che senso abbia una "rifondazione comunista" che non si ponga più l'obiettivo del potere dei lavoratori. Cosa resterebbe se non la conquista di qualche ministero in un esecutivo liberale?

Rosa Luxemburg (celebrata in modo imbarazzante a Berlino anche da ex ministri e aspiranti ministri in governi liberali) ammoniva chi rifiutava "il colpo di maglio della rivoluzione":

"(...) è a priori indispensabile l'aperto riconoscimento della necessità dell'uso della forza, sia in singoli episodi della lotta di classe, come per la conquista finale del potere statale; è la forza che può prestare, anche alla nostra attività pacifista, legale, la sua particolare energia ed efficacia. Se aprioristicamente e una volta per tutte la socialdemocrazia volesse effettivamente rinunziare, come le suggeriscono gli opportunisti, all'uso della forza, e le masse lavoratrici giurassero sulla legalità borghese, prima o poi tutta la loro lotta parlamentare e, in genere, politica, crollerebbe miseramente, per dar via libera allo strapotere della violenza reazionaria.

("E per la terza volta l'esperimento belga", 1902).

 

2) Solo un ingenuo potrebbe pensare che sia casuale l'enfasi con cui si sono aperte queste discussioni "teoriche" in questo preciso momento. Perché si sente l'urgenza improvvisa di dibattere della religione (per concludere che "non è più l'oppio dei popoli")?; perché si sottoscrive con i dirigenti dell'Ulivo -e in rottura con la maggioranza degli attivisti filopalestinesi- un manifesto a sostegno degli accordi di Ginevra?; perché a fronte della vicenda Parmalat -che richiederebbe il rilancio del tema della nazionalizzazione e del controllo dei lavoratori- si invoca una innocua "commissione d'inchiesta sul capitalismo italiano" (prontamente elogiata dalla Margherita) da costituire in un parlamento ovviamente composto quasi per intero da impiegati e amici fidati del capitalismo italiano? E soprattutto: perché la stampa borghese presta tanta attenzione al nostro dibattito teorico? Non è forse evidente che gli opinionisti della borghesia esaminano il partito per verificarne il grado di "affidabilità" in vista di un ingresso di ministri del Prc in un futuro Prodi bis? E certe prese di posizione della segreteria (apprezzate da Repubblica come "la Bad Godesberg del Prc") non corrispondono, nei fatti, al superamento di una prova d'esame?

Per questo, pur ritenendo fondamentale la riflessione sulla teoria, mi pare che non sia possibile (a differenza di quanto fanno, pur con osservazioni in sé condivisibili, Cannavò e Bernocchi) affrontarla separatamente dalla prospettiva che il gruppo dirigente di maggioranza nel suo insieme ha intrapreso. La prospettiva è quella della rinuncia all'opposizione di classe per dare vita a un governo con i liberali dell'Ulivo, nei fatti -al di là delle migliori intenzioni- un'alternanza sulla base del Manifesto di Prodi (flessibilità, privatizzazioni, smantellamento della previdenza pubblica, riarmo) e delle dichiarazioni programmatiche anti-operaie che Rutelli ha rilasciato anche ieri. Una prospettiva che con tanti altri compagni contrasterò perché metterebbe a rischio la sopravvivenza del Prc come partito di classe.

 

Francesco Ricci

 

 

da www.indymedia.it

 

23-1-'04

disobbedienti romani

 

Lo vogliamo dire subito: per noi la disobbedienza è, in questo frangente

storico, l´invenzione politica più matura prodotta da una umanità spiazzata. Per

sottrarsi al regime pervasivo dell´impero e alle sue regole, sono milioni gli

uomini e le donne che trovano in essa, nell'essere "fuori posto", nell´essere

altrove, motivo d´esistenza e di sopravvivenza prima ancora che un´opzione

politica cosciente. Lo spiazzamento è probabilmente l'esperienza fondamentale

della contemporaneità tanto da poterci azzardare a sostenere che assume i

caratteri di un orizzonte costitutivo.

 

In questa discussione tra violenza e non violenza ancora una volta

avremmo voluto agire "fuori posto" ma siamo stati "messi dentro a forza", nostro

malgrado. E´ il Ministro Pisanu che ci invita a partecipare a un dibattito che

altrimenti non sarebbe né centrale né attuale, con la sua specifica posizione di

chi pretende di restringere l´agibilità politica a tutti quelli che nel

movimento non assumono la non violenza come loro credo politico. E tra questi

ahimè ci siamo anche noi.

 

Perché non è attuale né centrale questa discussione? Perché non viviamo

un´epoca nella quale i movimenti hanno scelto di praticare l´uso della forza

come forma prevalente del loro agire politico, anzi. Le stesse argomentazioni

per esempio di Bertinotti, che riconosce il carattere prevalentemente non

aggressivo dei nuovi movimenti, ci servono proprio per capire che la discussione

non ha molto senso. Se vogliamo veramente uscire dai canoni del Novecento è su

altro che dobbiamo interrogarci, per esempio sulle forme della politica che

vengono rimesse potentemente in discussione sia dalla scelta strategica di non

lottare per il potere bensì dentro una nuova dinamica di "agire comunitario",

sia dalle trasformazioni del modo di produzione che impongono una

riorganizzazione reticolare delle resistenze, più legate al territorio e assai

meno verticalizzate come era tipico dei vecchi partiti comunisti. Né, peraltro,

viviamo in una di quelle zone del mondo dove i conflitti sono più acuti e le

scelte che assumono i movimenti molto più drammatiche. Lo diciamo come

provocazione: interrogarsi sull´uso della violenza in Palestina certo avrebbe

molto più senso vista la strategia di sterminio messa in atto da Israele e le

difficoltà del movimento di resistenza e non a caso diversi movimenti sono già

stati in quelle terre a praticare azioni coraggiosissime di disobbedienza

davanti ai tank di Israele. Ma qui da noi qual è il senso di questa

discussione?

 

Per una sorta di riflesso condizionato anche tra i disobbedienti potrebbe

scattare però un atteggiamento difensivo che finirebbe per cucirci addosso

esattamente il vestito che altri vorrebbero che noi indossassimo. A chi osanna

la non violenza come paradigma teorico del nuovo millennio noi ci affanniamo a

contrapporre tutti quei conflitti che in giro per il pianeta sconfessano questa

tesi, diventando i paladini di tutti i movimenti armati pur di poter dimostrare

che la non violenza resta una concezione astratta tipica di chi pretende di

mettere le braghe al mondo. Ma così facendo noi ci limitiamo a respingere la

pretesa di concepire una sorta di decalogo prescrittivi per le lotte, in nome del diritto dei

popoli e dei movimenti a ricercare e sperimentare il cammino della loro e nostra

liberazione.

 

Tutto ciò non basta né è in grado di rimandare con precisione, e di

valorizzare, l´immagine della tanta strada che abbiamo fatto in questi anni.

Certo dà fastidio questa nuova filosofia da "movimento delle buone maniere", che

prescrive, limita e detta le condizioni, magari per rispondere ad esigenze di

relazione politica che sanno molto di secolo scorso, soprattutto quando questo

avviene nel pieno di un´operazione giudiziaria che prepara il terreno per il

processo di Genova dei primi di marzo. Ma questo non deve impedirci di

affrontare con serenità i nodi della discussione, sfuggendo alla caricatura di

noi stessi con cui i media ci vanno dipingendo.

 

E il primo nodo è la costatazione di

come la disobbedienza, non come logo politico ma come pratica diffusa,

abbia acquistato in questi anni una inaspettata cittadinanza globale. Se

c´è una forma nuova e includente di agire il conflitto senza riprodurre lo

stereotipo della "guerra alla guerra" e senza ricadere nel vecchio errore di

separare il rapporto tra mezzi e fini è proprio la disobbedienza sociale. E per

trovare le conferme a questa

considerazione non abbiamo certo bisogno di rifugiarci all´estero, basterà dare

un´occhiata a quello che è successo in Basilicata, o alla vertenza degli

autoferrotranviari, o a quella degli aeroportuali, o più in generale al crescere

di un´effervescenza sociale che trova nella disobbedienza alle leggi ingiuste la

sua più immediata e quasi naturale forma di espressione. Disobbedienza quindi

come rottura delle regole, scelta consapevole di chi vuole affermare un diritto

e per farlo è portato a infrangere una legalità opprimente. Disobbedienza non

come nuovo modello o codice di condotta ma piuttosto come orizzonte comune che

tiene insieme contesti diversi e che si adatta alle diverse circostanze

storiche, politiche e culturali. E che prevede l´adozione di una quantità

infinita di modalità d´azione come è infinita la fantasia dei movimenti. E´

all´interno di questo universo di forme e di pratiche che trova pieno diritto di

cittadinanza anche l´agire non violento, che è infatti una delle tante forme

dell´azione praticata dai movimenti in tutto il pianeta e che noi viviamo come

un terreno di sperimentazione di nuove pratiche di lotta. Come non rilevare che qui in Italia uno

dei pochi soggetti che ha praticato azioni non violente siamo stati noi

disobbedienti? Viviamo il paradosso che altri vorrebbero imporci una modalità

che noi per primi abbiamo saputo utilizzare, evitando di farla diventare una

camicia di forza buona per tutte le stagioni, mentre i "non violenti doc" ancora

stentano a tradurre in azione le loro prescrizioni. In questo Bertinotti ha

veramente ragione quando sul manifesto del 21 gennaio riconosce alla pratica una

precedenza sulla teoria.

 

La forma moderna e matura di un

movimento è quella di chi non possiede icone né mitologie e che sceglie le forme

più adatte di lotta in base al contesto nel quale si trova ad operare ma anche e

soprattutto in base al tipo di società che vuole costruire, elaborando un´idea

di politica segnata da una qualche discontinuità con il "paradigma

dell´assolutizzazione della forza in forma di potenza" così come avveniva un

tempo. Ed è proprio questo secondo punto, il rapporto tra i mezzi attuali e i

fini strategici, l´argomentazione più efficace dei "non violenti" ed il terreno

su cui va raccolta la sfida per riconoscere che la disobbedienza da sola non

basta. Non basta contravvenire alle regole per costruire un altro

mondo. Occorre affiancare alla disobbedienza l´agire comunitario, il costruire

società su scala locale, il municipalismo solidale come ambito d´espressione e

maturazione della sovranità collettiva senza la quale il conflitto assume un

carattere puramente resistenziale. Dobbiamo individuare nella comunità locale il

posto in cui sperimentare se la pratica dell´esercizio dei diritti in forma

collettiva diventa processo costituente di nuova democrazia, restituendo ai

cittadini la legittimità di decidere delle forme di governo e delle relazioni

sociali.

 

Da qui dobbiamo ripartire anche passando

per una critica radicale delle nostre esperienze ultime e delle modalità che le

hanno prodotte e determinate nello svolgersi degli eventi. In più di un

occasione ci siamo preoccupati unicamente di salvare la simbologia della

ribellione, di difendere cioè l´idea che fosse giusto e possibile ribellarsi ad

un vertice ingiusto, piuttosto che sforzarci di alimentare una dinamica reale. E

in questo errore siamo stati indotti da un ritorno alla dinamica stanca e

rituale dei cortei di pura testimonianza che nulla aggiungevano alle domande che

il movimento si va facendo da mesi. Se c´è una cosa che ci ha aiutato in questi

anni è stata proprio l´inquietudine con la quale li abbiamo attraversati,

un´inquietudine preesistente a quel "camminare domandando" che ha restituito

dignità allo stato d´animo di una generazione di ribelli metropolitani, più di

altri immuni alle lusinghe del tempo e alle rendite di posizione.

 

Purtuttavia i nostri errori non si

giustificano semplicemente puntando l´indice sugli altri: occorre anche guardare

al nostro interno. Pensiamo a Genova e al g8: all´epoca via Tolemaide fu

accompagnata dalla memorabile esperienza del Carlini che ebbe la forza di un

grande processo costituente di massa. Non a caso ci sciogliemmo come tute

bianche e nascemmo come disobbedienti proprio in quei frangenti. In quei giorni

il conflitto e l´invasione della zona rossa non erano solo simbologia ma

producevano effetti concreti dentro una dimensione di massa. Ma oggi che sembra

finita l´epoca dei controvertici e che è insorta una nuova dinamica sociale,

certamente alimentata dal movimento no global ma che si esprime con una propria

autonoma modalità, quelle stesse pratiche non hanno la forza di una nuova

apertura ma il senso di una deprimente chiusura di un ciclo. Se c´è una cosa in

cui abbiamo sbagliato sta nel fatto che invece di intuire il cambiamento che era

già sopraggiunto abbiamo consumato la conclusione della fase precedente.

L´errore sta quindi nel blocco del rinnovamento o nel non essere riusciti in

tempo a prefigurare il nuovo passaggio.

 

Detto ciò, può questa discussione su

violenza e non violenza, che nasce viziata ma che non è detto che non possa

evolvere in modo brillante, consentirci di aprire una riflessione a tutto campo

sulle pratiche del movimento? Sarebbe per esempio molto più cruciale che tutte

le anime del movimento dei movimenti si interrogassero su come far pesare lo

spazio politico che abbiamo contribuito ad aprire, la potenza costituente che

abbiamo evocato, per alimentare i conflitti sociali che si stanno

producendo.

 

E se stiamo parlando di superamento del

Novecento, come fanno Revelli e Bertinotti, non stiamo discutendo di caschi e

bastoni ma della forma della politica, di democrazia rappresentativa e

democrazia partecipativa, ecc. Stiamo discutendo cioè, di come la lotta alla

globalizzazione neoliberista si traduce nella costruzione di un altro mondo. E

allora disobbedienza e agire comunitario diventano i primi due assi di

riferimento di questa nuova pratica politica moderna. Dentro la quale

diventano fondamentali le questioni della costruzione di una nuova legalità,

quelle dell´affermazione di nuovi diritti a partire dal contesto locale e

territoriale, e quelle della costruzione di spazio pubblico e forme inedite di

democrazia diretta.

 

Il tema generale della costruzione di

nuova legalità e nuovi diritti, in questa concezione, è direttamente collegato

alle forme che assumono la democrazia e la partecipazione, nel senso che si

misurano concretamente con la maturazione, qui e ora, di un processo costituente

di nuova società fin dentro i limiti di questa. Non vi è più un prima e un dopo,

segnato da un´ora x a stabilire il momento della trasformazione sociale: la

trasformazione sociale, la modifica di parti sostanziali della costituzione

materiale del paese, è processo in atto che attraversa e coinvolge una

molteplicità di attori sociali e politici impegnati sul versante

dell´ampliamento della sfera dei diritti

dei soggetti collettivi.

 

Ed è su questo terreno che vorremmo

proporre un terzo asse di riferimento. Nell´epoca della globalizzazione

il rapporto tra la politica e i movimenti si misura sul grado di

decostruzione-ricostruzione dei nessi comunitari che si è in grado di

determinare. L´una e gli altri sono soggetti attraversati dal processo di

maturazione di nuove forme di società e su questo determinano il loro

posizionamento, il loro esprimere una tendenza progressiva o regressiva in

relazione allo stare o meno al passo con le richieste del tempo. L´Europa, il

conflitto d´interesse, il rapporto di lavoro, i diritti di cittadinanza ...sono

tutti temi sui quali politica e movimenti si confrontano alimentando una

discussione e una pratica che allude all´ampliamento della sfera dei diritti

collettivi mentre questa non fa che restringersi. Questo confronto cioè avviene

al netto della possibilità d´allargamento reale ed effettivo della

partecipazione dei cittadini al governo della

repubblica.

 

Chi dice di aver imparato che nel

rapporto tra mezzi e fini si nasconde la pesante pervasività culturale dei

primi, foriera di gravi e pericolose ripercussioni sociali, dovrebbe anche

spiegarci perché questa riflessione si ferma alle soglie del conflitto sociale e

non pervade la politica e l´uso della giustizia. Dovrebbe spiegare la differenza

tra la percezione sociale della violenza subita con l´imposizione di regole e

stili di vita ingiusti e la cinica indifferenza della politica: che rapporto c´è

tra i morti sul lavoro, i campi di concentramento per immigrati, la condizione

di povertà in cui sempre più persone vengono sospinte e la tranquilla

quotidianità di tanti "rappresentanti del popolo"? Quelli tra loro più

conseguenti dovrebbero spiegare, prima di tutto a se stessi, per quale motivo un

ragionamento a metà, dovrebbe rappresentare una prospettiva intera: dove sta il

punto d´incontro tra una società imbavagliata e una politica incapace di essere

moderna?

 

Ad un movimento e ad una pratica sociale

disobbediente deve corrispondere una conseguente politica capace di forti atti

disobbedienti, in grado di trasmettere la discontinuità di ragionamento che lega

tra loro espressioni diverse di una ricerca comune. Senza questa contaminazione

culturale e politica nessun confronto ha senso, almeno non un confronto che si

intende fecondo.

 

Un piccolo esempio che vale per tutti.

Quando tutto si chiude qualcuno deve

aprire: l´utilizzo "creativo" della giustizia nei confronti delle forme assunte

dal conflitto, deve trovare una risposta all´altezza del processo costituente di

nuova democrazia messo in moto dai movimenti. La lotta alla repressione e la

solidarietà non bastano più, la prima è stata spuntata dall´uso massiccio del

Codice Penale in funzione normalizzatrice, la seconda serve a poco se non si

traduce in atti e fatti concreti che diano legittimità sociale alla ribellione

attraverso l´inclusione del conflitto nelle forme previste e necessarie della

partecipazione.

 

Si tratta di aprire un confronto e una

pratica sociale a tutto campo, sia a livello sindacale che politico, intorno

alla dicotomia "partecipazione sociale - normalizzazione" che restituisca ai

cittadini la piena sovranità in quanto soggetti portatori di diritti e ai

movimenti la dignità di portatori di una nuova idea di civiltà.

Un primo atto può essere l´avvio di una

battaglia nazionale per la depenalizzazione dei reati connessi alle lotte

sociali, come ponte culturale verso una radicale riforma del Codice Penale in

funzione dell´affermazione dei diritti collettivi. Ma come farla? Con quali

forme di lotta e con quali alleati?

A voi la parola....

Nada  para nosotr@s, todo para tod@s!

 

Le/I disobbedienti romani

 

 

da il manifesto 25.01.2004

di Alberto Burgio

La grande differenza tra aggressione e difesa

 

La storia del Novecento insegna che le guerre civili mondiali non le ha volute il movimento operaio.

Si tratta di un punto importante dal quale deve partire ogni dibattito che interroga la sinistra sull'uso della violenza

 

 

Questa discussione sulla violenza e la politica mi sembra intrecci due questioni che forse conviene tenere distinte. Si parla di storia (della storia dei comunisti e del movimento operaio) e ci si interroga su  quale sia oggi la pratica politica più appropriata al conflitto anticapitalistico. Mi rendo conto che analisi del presente e idea del passato si influenzino a vicenda. Ma non è detto che il discorso si giovi della loro indistinzione.

La storia. Mario Tronti ha posto una premessa che pare anche a me fondamentale: "L'età delle guerre civili mondiali, con dentro il fascismo e il nazismo, non l'ha voluta il movimento operaio: è storia moderna, capitalistica, del Novecento, con cui, in qualche modo, i conti bisognava farli". O si parte da qui, o è inevitabile approdare a conclusioni paradossali, nelle quali i ruoli si rovesciano e le responsabilità si confondono. Questo significa non vedere la violenza che ha segnato le risposte alla violenza del dominante? Niente affatto. E non significa nemmeno rifiutarsi di discuterne, di interrogarsi sugli eccessi e persino sui crimini. Significa non perdere di vista l'enorme differenza tra aggressione e difesa, che non coinvolge esclusivamente il piano morale o giuridico, ma illumina anche la ricerca storica sulla cultura e l'antropologia del movimento operaio, non da oggi sul banco degli imputati. Io sono convinto che la violenza - l'uso delle armi, l'esperienza della guerra, l'esercizio della coercizione - sia estranea alla concezione del mondo dei comunisti e di quanti avversano il capitalismo per la sua carica distruttiva e per la sua costitutiva iniquità. A Venezia, nel convegno sulle foibe che è all'origine di questo dibattito, Bertinotti ha ricordato l'orrore provato da Luigi Pintor nel prendere le armi contro i fascisti.

Appunto. Penso che Pintor incarnasse in quel momento l'ethos più autentico della lotta partigiana. Certo, il famigerato Novecento suole essere prodotto a confutazione di questo convincimento. Ma si commettono, così argomentando,errori che non diventano ragioni per il solo fatto di essere molto à la page anche presso gran parte della sinistra "critica".

Il gulag e le purghe - per chiamare subito in causa gli scheletri più ingombranti - non furono il frutto naturale dell'Ottobre (che con poco senso delle proporzioni si provvede oggi a dichiarare morto e sepolto), né della pianificazione e della modernizzazione a tappe forzate. Derivarono dal trionfo dell'arbitrio e dalla paranoia del potere dispotico. Che a loro volta non intrattengono alcun rapporto privilegiato con la socializzazione dei grandi mezzi di produzione. Che discendono dalla fragilità o inconsistenza dell'elemento statuale (travolto appunto dall'urto dei poteri di fatto) piuttosto che dalla sua presunta ipertrofia (come in tempi di egemonia liberista si ribadisce). Riguardo a tutta questa questione dello stalinismo è giunto il momento - mi sembra - di abbandonare un impacciato silenzio. Non è vero che si tentenni nella critica, non è vero che si indulga a giustificazionismi. È vero piuttosto che spesso e volentieri ci si serve di questa gigantesca questione come di una clava per scopi politici immediati di tutt'altro genere. In obbedienza - verrebbe da dire - alla più classica tradizione stalinista.

 

Quale conflitto?

 

Marco Revelli insiste sulla contrapposizione guerresca che ha marcato la cultura politica novecentesca. Non mancano certo documenti di tale impostazione. Se Schmitt legge la politica sullo sfondo della polarità bellica, Gramsci concepisce la lotta contro il fascismo ("guerra di posizione nella sua fase decisiva") come un "assedio reciproco" di potenze simmetriche. E non si tratta del solo Novecento. Marx parla della violenza come levatrice della storia, convinto che nessuna classe dominante assista inerme alla fine dei propri privilegi. Ma il punto non è ideologico, concerne la realtà e la struttura materiale del conflitto. Prima di mettere sotto processo le idee, chiediamoci se esse riflettevano i fatti, se ne coglievano o meno aspetti cruciali. Insomma: la guerra c'era, ha dissanguato l'Europa sino alla metà del Novecento (e vi ha riaperto ferite sul finire del secolo: ma su questo tornerò): quali idee del conflitto, dell'avversario, della prassi politica avrebbero potuto o dovuto coltivare i comunisti e quant'altri cercavano di fermare la carneficina e di sradicare il sistema di potere che l'aveva causata?

E non si tratta solo di guerra in senso stretto. Forse ce ne siamo dimenticati, ma la guerra civile, le stragi, le esecuzioni sommarie di insubordinati e avversari sono state un ingrediente normale nel governo delle società sino in epoche recenti. La Comune viene soppressa in un bagno di sangue nel 1871. Bava Beccaris non appare ai suoi contemporanei un folle assassino. I fascismi ci accompagnano sino alla fine della guerra mondiale e in alcuni casi le sopravvivono ancora per decenni. È una conquista recente l'aver costretto il capitalismo a limitarsi - di norma e nei paesi "avanzati" - alla violenza fredda del mercato, rinunciando a quella calda delle armi. Una conquista preziosa, che ci consente di dire senza incertezze che la lotta politica non violenta è l'unica forma di conflitto praticabile, qui e ora. Ma ieri? Stiamo attenti a non perdere di vista le profonde differenze tra le diverse epoche, tanto più che non possiamo nemmeno escludere che vengano tempi più cupi: cosa faremmo, mi chiedo, se - per dir così - via Tasso tornasse quella che già fu?

Ma soprattutto su un punto bisogna essere netti. Revelli sottolinea la forza d'urto della cultura della guerra, capace - scrive - di determinare la "metamorfosi antropologica" di chiunque impieghi la violenza. Questo non mi pare sostenibile. I comunisti italiani, i partigiani, quanti combatterono armi in pugno i fascisti non sono restati per questo prigionieri di quell'esperienza. La storia del secondo Novecento in questo paese dimostra precisamente il contrario. Negli scorsi decenni la lotta armata è stata una tragedia che ha coinvolto, a sinistra, minoranze di più giovani generazioni. La cultura della guerra ha conservato robuste radici solo a destra, seminando terrore e bombe e stragi rimaste, non per caso, in gran parte impunite.

Detto della storia, si pone il problema della violenza politica oggi. Problema che, per essere utilmente discusso, richiede un preliminare chiarimento. Quali oneri ha il discorso politico? Di che cosa tratta? Io credo che non sia sufficiente indicare aspirazioni e valori, penso si abbia l'obbligo di dire anche come si ritenga concretamente realizzabile un progetto. Non bastano i principi, si è anche responsabili dei risultati delle proprie scelte. Altrimenti si abbandona il terreno della politica, per insediarsi - forse non consapevolmente - nel campo dell'utopia. O della religione.

Quando parliamo di un altro mondo possibile, la parola-chiave è possibile. Una lotta è politica se non coinvolge sogni, ma reali potenzialità. Per questo, affrontando la discussione sulla violenza non ci si può sottrarre, con nobili gesti, alle domande (retoriche) poste da Ingrao (a mio modo di vedere, orientate in senso divergente rispetto all'argomentazione di Bertinotti). Che cosa si fa contro la violenza dell'aggressore? Come si incide sui poteri? Si risponde (quando si risponde): proprio perché assoluta ("radicale"), la non-violenza è la contromisura adeguata alla violenza assoluta della guerra globale. Cioè: contro distruttività totale, totale non distruttività; contro guerra preventiva, pace preventiva; contro guerra asimmetrica, strategia asimmetrica dell'"antagonismo".

 

L'apoteosi della guerra

 

Lasciamo andare, per il momento, questa storia della "asimmetria" (che oscura l'effettiva portata della strategia statunitense, mirata contro le altre potenze - Cina, Unione europea - ormai prossime a costituire competitori globali). Il punto è: quali ragioni lasciano prevedere che simili eleganti equazioni produrranno gli effetti sperati? Quali analisi concrete, quali piani d'azione? Si dice: il Novecento segnò l'apoteosi della guerra. Bene: quale miglior banco di prova, allora, per misurare l'efficacia di una strategia "antagonistica"? Si dica a quali antecedenti si pensa, su quali esperienze ci si basa. Non pare che i nazisti si arrestassero dinanzi alle braccia levate degli ebrei, né che la loro ferocia abbia dilagato solo dopo che a Varsavia il ghetto insorse. Non risulta che gli Stati uniti abbiano dovuto ritirarsi dal Vietnam perché sopraffatti dalla non-violenza dei vietcong. Che cosa significa, in concreto, che "siamo forti se siamo deboli", come ha detto Bertinotti a Venezia?

Cade qui a proposito il discorso sulla "discontinuità". È invalso lo schema secondo cui "il Novecento è finito" e si tratta ora di un'epoca nuova. Credo si tratti di una impareggiabile sciocchezza. Certo, non tutto è identico a prima. La scomparsa dell'Urss e la fine dell'equilibrio bipolare hanno trasformato in profondità il quadro internazionale. Ma ne hanno modificato gli assetti, non la logica. Nemmeno Negri, se capisco, crede più nell'esistenza dell'ordine unipolare vagheggiato dai neo-cons. E basta leggere un po' nella profusione di piani strategici sfornati dall'amministrazione Bush e dai think-tanks del Pentagono per capire che il mondo in cui ci troviamo è ancora diviso in aree di influenza contese tra grandi potenze nucleari contrapposte. Robert Kagan non sarà un fine pensatore, come non lo sono i Fukuyama e gli Huntington. Ma vorrà pur dir qualcosa che molte teste d'uovo a Washington scrivano a chiare lettere che la Quarta guerra mondiale è cominciata già negli anni Novanta, nel Golfo e nei Balcani, la Terza essendosi conclusa nel `91 con l'affondamento dell'Unione sovietica. Gli scenari di guerra che costoro tracciano hanno dalla loro almeno un elemento di verità: di là dagli obiettivi contingenti ("terroristi" e "Stati canaglia"), la guerra di Bush si rivolge alle minacce mortali che incombono sull'egemonia americana: alla potenza economica (e forse già domani politica) dell'Europa e a quella economica e politica (e forse già oggi militare) cinese. Se questo è, non sarebbe saggio smetterla con le mitologie post-novecentesche?

E non sarebbe anche il caso, visto che discorriamo di violenza e non-violenza, di gettare uno sguardo al di là di quanto accade in quest'angolo di mondo e nelle nostre "tiepide case"? Che cosa intenderebbero dei nostri travagli i palestinesi alle prese con la tortura, la sete, la sopraffazione coloniale? E i colombiani in lotta contro un governo militare alleato al narcotraffico? E Cuba, alla quale ogni giorno gli Stati Uniti rammentano che la sua indipendenza suona intollerabile offesa alle orecchie del sovrano? E i resistenti iracheni? Già, i resistenti iracheni. Su questo bisognerebbe discutere tra noi, piuttosto che accontentarci di improvvide semplificazioni. Si parla con insistenza di una "spirale guerra-terrorismo": ma chi muove guerra e chi è terrorista? E che fine fa, con questo schema, la lotta degli iracheni contro l'occupazione? Ha osservato Raniero La Valle, intervenendo in questa discussione, che "ricomprendere tutte le possibili resistenze nell'unica categoria del terrorismo [...] vuol dire non riconoscere più alcuna causa". Non resta che aggiungere una glossa marginale: davvero non vorremmo che anche alla sinistra "critica" càpiti di assumere giudizi o punti di vista propri di chi minaccia di mettere il pianeta a ferro e a fuoco.

Alberto Burgio

 

 

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da Liberazione 25-1-'04

 

Riconoscere gli errori di ieri per non sbagliare oggi

Ramon Mantovani (senatore di Rifondazione Comunista)

 

Nel corso del dibattito sulla nonviolenza diversi compagni hanno tirato in

ballo l'esperienza zapatista per sostenere tesi diverse, e contrapposte fra

loro. Intanto è necessario ricordare che l'insurrezione armata zapatista

del 1 gennaio 74 (accompagnata da una vera e propria dichiarazione di

guerra) fu alquanto sanguinosa. Il negoziato politico fu permesso da una

tregua (tuttora formalmente in corso) e non da una dichiarazione di pace

con conseguente disarmo dell'EZLN (che è tuttora armato). Come si possa

scrivere nel documento che convoca il prossimo convegno di Venezia sulla

nonviolenza che "con lo zapatismo si concretizza una dislocazione

dell'opzione nonviolenta su un terreno generale e politico" non so proprio.

In realtà i guerriglieri dell'EZLN si sono caratterizzati per una spietata

critica dell'organizzazione militare, per il rifiuto della mistica

rivoluzionaria (tanto cara ai cubani).

 

Da qui viene un loro fondamentale contributo a cancellare l'idea

(rivelatasi perniciosa con l'esperienza storica) che la lotta armata fosse

la forma più alta e radicale di rivoluzione. Essi, come altri che non hanno

avuto tanto acume critico sulla natura dell'organizzazione militare e le

cui proposte di negoziato politico sono state travolte dalla guerra e dalla

repressione (Colombia e Kurdistan per fare solo due esempi), preferiscono

un processo di pace alla guerra, ma sono costretti a contemplare la guerra

come una inevitabile eventuale necessità.

 

Dico queste cose, essendo io stesso meravigliato di dover fare queste

precisazioni che dovrebbero essere scontate, perché mi pare che il

dibattito sulla nonviolenza abbia in molti casi preso una piega

"ideologica" che non mi piace, per il semplice motivo che rischia di

promuovere un'adesione, o un rifiuto, acritici a "valori" e "principi"

astratti più che una necessaria critica dura e spietata dell'idea della

violenza e del potere che il movimento operaio, fattosi stato o meno, hanno

avuto storicamente.

 

Al contrario di Curzi e Gagliardi, che nel loro articolo del 18 gennaio

dicono "c'è stata un'epoca della nostra storia nella quale la violenza

delle armi ci è apparsa non solo una risposta necessaria alla violenza del

potere, ma anche la risposta più radicale, più in se rivoluzionaria, più

efficace. Non si tratta certo oggi di proiettare su questo passato le idee

che abbiamo maturato nel presente." io penso che, invece, proprio quella

concezione della violenza vada rinnegata alla luce delle "idee maturate

oggi". E non perché è cambiata la fase e siamo nell'epoca della guerra

permanente e della spirale che la oppone al terrorismo. Bensì per il

semplice motivo che in tutto il nostro passato il necessario, ed

ineludibile, uso delle armi è stato accompagnato da quella concezione

nefasta della violenza e del potere. Un'idea mutuata dall'avversario che ha

finito con il trasformare molte esperienze rivoluzionarie in sistemi

oppressivi. A sentire Curzi e Gagliardi avevano ragione allora e ragione

oggi. Troppo comodo. Insomma, penso sia assolutamente giusto dichiararsi

nonviolenti e proporre un'idea di politica, di democrazia e di relazioni

sociali improntate alla nonviolenza rompendo radicalmente con il proprio

passato, con la mistica rivoluzionaria e con l'idolatria dello stato.

 

Ma penso sarebbe un madornale errore di presunzione eurocentrica e di

idealismo acritico pensare che nel mondo ogni resistenza armata necessaria

debba essere annoverata ed ineluttabilmente risucchiata nella spirale

guerra terrorismo. Gli zapatisti insegnano. Ma il tema della violenza è

intimamente legato al tema del potere. Tema troppo vasto per le mie modeste

capacità, anche se qualcosa voglio dire. Anche su questo sono stati tirati

in ballo gli zapatisti. Giustamente, visto che hanno solennemente

proclamato di non voler prendere il potere in nome del popolo e con le

armi, visto che rifiutano categoricamente di voler agire come

un'avanguardia. Chi li critica accusandoli di eludere il tema, a mio avviso

si sbaglia di grosso. Essi hanno proposto nel negoziato modificazioni

costituzionali e legislative che potrebbero profondamente trasformare lo

Stato messicano, aprendo le porte ad una democratizzazione integrale della

società e delle istituzioni e sollecitando un rivoluzionamento delle

relazioni sociali dal basso. Per non parlare della consapevolezza del tema

della globalizzazione e della effettiva dislocazione dei poteri reali in

ambito sovra nazionale.

 

La scelta di promuovere l'autogoverno delle comunità indigene applicando la

legge concordata col governo e tradita dal parlamento come se fosse in

vigore, la scelta di mantenere in vita l'Esercito per difendere questa

esperienza da eventuali repressioni violente ma assegnandogli un ruolo

secondo rispetto agli istituti dell'autogoverno, la scelta di dichiarare

chiusa ogni possibilità di dialogo con i partiti e con le istituzioni

messicane, sono tentativi di riproporre la lotta nella fase attuale e di

innescare un processo più vasto nella società messicana, che porti ad una

rivolta e che consolidi i rapporti con tutte le altre esperienze di lotta

contro il neoliberismo nel mondo. Penso che anche qui l'EZLN insegni. Non

come insegna un modello. Bensì per i problemi che affronta e per la

direzione del cammino. Considero caricature coloro che pensano di essere

zapatisti in Italia perché capaci di imitarne il linguaggio salvo poi

sentirsi ed agire come avanguardie ossessionate dall'idea ultraborghese di

"visibilità" sui mass media.

 

Se del 4 ottobre bisogna parlare se ne parli per questo più che per l'uso

dei caschi che in diverse altre occasioni si sono rivelati utilissimi per

difendere le teste in azioni nonviolente. Ma, per favore, non si metta la

sordina alla sacrosanta critica a tanti capi, capetti e leaderini che nel

movimento, e nel nostro partito, pensano ed agiscono in funzione della

"visibilità" propria personale o di gruppetto o di corrente. Sono

altrettanto nocivi per l'unità del movimento e per la sua credibilità di

certi scriteriati comportamenti in piazza. E sarebbe bene non trovassero

premi, magari in occasione di qualche elezione prossima ventura. Già!

Perché non basta proclamare l'erroneità della concezione del potere che il

movimento operaio ha avuto per decenni, non basta dirsi antistalinisti, per

mettersi al riparo dagli errori tossici che sono sotto gli occhi di tutti

quelli che hanno occhi per vederli.

 

Alludo al politicismo che pervade le relazioni del PRC e anche di molti del

movimento con il centro sinistra e allo stato interno del nostro partito

dove correnti, trasformismi e competizioni personalistiche hanno la meglio

sulla democrazia interna. Quanta violenza è insita, anche se non praticata

fisicamente, nelle relazioni interne al movimento e nel partito fra gruppi

e persone che giocano a "farsi fuori", a "distruggersi", ad "eliminarsi"?

Quanto stalinismo c'è in chi è sempre immancabilmente d'accordo con il

segretario del partito, e che non esita a "fare la guerra" a chi osa avere

posizioni personali diverse e critiche mentre scende a qualsiasi

compromesso con le correnti organizzate nella pura logica di una piccola

spartizione di un piccolo potere?

 

A parte gli opportunismi, i cinismi e i trasformismi personali, che ci

sono, è evidente che la concezione del partito e delle relazioni interne ad

un soggetto rivoluzionario sono figlie di una storia e di una concezione

del potere che ha fatto fallimento. I difetti di ognuno di noi esistono ed

esisteranno, parlo di presunzioni, di personalismi, di ambizioni e di

istinti prevaricatori. Sarebbe catastrofico affrontarli moralisticamente, e

tuttavia bisognerebbe fare in modo che l'organizzazione (vale per il

partito come per una qualsiasi associazione o sindacato) non li premi e non

li renda efficaci nella conquista di posizioni privilegiate. Io penso, non

da ora, che sarebbe necessaria una vera riforma del partito fondata sulla

preminenza del collettivo e sulla assoluta delimitazione e fissazione delle

responsabilità personali. Ho visto crescere questa esperienza nei Giovani

Comunisti dai quali ho imparato moltissimo. Ho visto e vedo nel partito un

processo inverso.

 

Ramon Mantovani

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Nonviolenza inadeguata contro la ferocia imperialistica

Andrea Catone

 

Nel dibattito in corso in queste settimane sulle colonne di Liberazione confluiscono elementi e istanze diverse, che conviene distinguere e puntualizzare. Da un lato, ritorna con forza la tendenza ad azzerare l'intera storia delle rivoluzioni comuniste del Novecento, buttar via Stalin, Trockij, Mao, Guevara, Ho chi min, Lenin, mettendo in discussione non solo i modi e le forme che si sono date le società postrivoluzionarie, i loro errori, le loro involuzioni (mentre le realizzazioni sociali vengono invece bellamente ormai ignorate), ma le radici stesse e la legittimità storica di quelle rivoluzioni (in qualche modo sulla stessa lunghezza d'onda su cui, qualche anno fa, era stato costruito, in modo rozzo e plateale, il "Libro nero del comunismo"); rivoluzioni il cui esito è stato il "totalitarismo" (è la categoria usata da Tom Benetollo nel suo intervento su Liberazione del 10.1.04). Il "peccato originale" delle rivoluzioni comuniste (guidate da partiti comunisti con il fine di realizzare una società comunista dei "produttori associati") viene individuato essenzialmente in due fattori: a) la conquista del potere statale; b) il ricorso alla violenza (nella forma dell'insurrezione armata, o della guerra di popolo di lunga durata, o di una difesa armata di un governo popolare o progressista, come avvenne senza successo in Spagna negli anni '30). Col conseguente invito a sbarazzarsi di questi scheletri del passato per dar vita a un palingenetico "nuovo inizio" (cfr. gli interventi di Revelli, Ginatempo, Russo, Liberazione del 20.1.04).

E' in particolare sul secondo punto che si concentra il dibattito. L'invito a praticare la "non violenza" quale forma di lotta assoluta, universale e non negoziabile, viene sostenuto sulla base di due, spesso complementari, ma diverse, motivazioni. La prima si potrebbe definire di tipo "storico": a differenza che in passato, si dice, "l'impero" è oggi talmente potente, da risultare invincibile sul piano militare, per cui il confronto con esso va posto su un altro terreno. La seconda, invece, si potrebbe definire di carattere "metafisico" e "radicale": il ricorso a metodi violenti di lotta, anche se animati dalle migliori intenzioni e/o dettati dalla necessità di difendersi o resistere a un'oppressione, "contaminano" chi li pratica e non possono dar vita ad una nuova società: "le pur gloriose e legittime guerriglie e lotte armate di resistenza alle invasioni (Vietnam) o alla tirannia interna (Nicaragua, Cuba) hanno prodotto o regimi autoritari e inamovibili o addirittura l'andata al potere di governi di destra [...] non sarà mai possibile costruire un 'altro' mondo con i materiali sanguinolenti di questo" (Lidia Menapace). Argomento ripreso in termini analoghi in molti interventi. Mi sembra che entrambe le argomentazioni presentino aspetti fortemente problematici. E' vero che quello che - a partire da Negri - diversi chiamano oggi "l'impero" e che credo più corretto definire l'imperialismo a base USA, spende da solo per la guerra più di tutti gli altri paesi messi insieme e che ha oggi, sul piano militare una superiorità indiscussa, che intende usare per piegare agli interessi del capitale a base USA i popoli del mondo e i possibili concorrenti delle altre grandi aree capitalistiche (in primis la UE). Ma da questo a dire che esso sia invincibile c'è un bel passo: accettare l'invincibilità degli USA significa aver già essere subalterni all'egemonia USA, introiettando il sogno di onnipotenza dei neocons americani, che mirano esplicitamente ad usare l'attuale superiorità militare per realizzare il progetto di un XXI secolo a stelle e strisce. Abbiamo avuto in passato situazioni analoghe: cosa avrebbero dovuto fare i popoli di fronte alla travolgente avanzata hitleriana in Europa? O i viet-cong contro una potenza che dall'alto dei cieli spandeva napalm a piene mani? Ma, soprattutto, credo non sia corretto separare l'analisi della guerra e della potenza militare dall'insieme dei rapporti sociali di produzione. Potenza militare e guerra non sono un assoluto, sono radicati in un sistema sociale, caratterizzato dalle sue specifiche contraddizioni di classe. Il "piano militare" non è mai stato per i comunisti, né per le forze che nel XX secolo hanno praticato resistenze e lotte di liberazione, il piano principale. La resistenza al nazifascismo o quella vietnamita all'aggressione USA combinavano insieme lotta politica, lotta culturale, conquista e allargamento del consenso delle masse, e lotta militare; non assolutizzavano l'uno o l'altro aspetto, ed è stato principalmente grazie al radicamento politico che le resistenze hanno vinto contro nemici che apparivano strapotenti sul piano dei mezzi militari. L'imperialismo non è onnipotente, anche se sogna di esserlo. Attribuirgli l'onnipotenza, pur se solo sul terreno militare, nasce anche dall'abbandono della teoria leninista, che rifiutava la teoria kautskiana del "superimperialismo" e coglieva le contraddizioni tra gli imperialismi (così come non esiste un unico capitale, ma una molteplicità di capitali in concorrenza tra loro). La teoria dell'impero - unico, pervasivo, universale - porta in sé anche l'idea di onnipotenza imperiale. Cosa che oggi, sul piano politico, ha conseguenze gravi, poiché si traduce nell'invito - implicito o esplicito - a rinunciare, a non sostenere, qualsivoglia forma di resistenza armata alle aggressioni imperialistiche attuali o future. E, detto per inciso, si parlerebbe ancora di Iraq se non si fosse sviluppata lì una resistenza, anche militare, all'occupazione? Quella resistenza lotta anche per i diritti degli altri popoli minacciati dall'imperialismo, impone un freno alla marcia trionfale del militarismo USA. Ma è il secondo argomento quello decisivo. L'ho chiamato, tra virgolette "metafisico". Esso non parte dalla considerazione di un mutato quadro storico, di un mutato rapporto di forze, o meglio, ricorre all'esperienza storica delle rivoluzioni del '900 per affermare un rapporto di filiazione diretta tra il modo in cui si è giunti al potere politico, anche attraverso l'insurrezione armata, e l'involuzione delle società postrivoluzionarie. Dal punto di vista della storia delle rivoluzioni del '900, questo rapporto univoco e unilineare è tutto da dimostrare. Ma non è questo l'aspetto principale del ragionamento, che, appunto, trascende ogni riferimento storico, ogni "specificazione storica" (quella che Marx invitava a cogliere, sin dalla sua critica a Proudhon in "Miseria della filosofia") per collocarsi su un piano di generalizzazione universale e atemporale. Scrive F. Russo: "Il potere è violento, la spada è sempre pronta a colpire chi si oppone; ma opporsi con la spada dà vita a nuove pratiche sociali di relazioni solidali e libere o perpetua la violenza e il potere?". Vi è in questa posizione radicale l'idea che l'uso del medesimo mezzo ti fa diventare come l'altro, ti contamina. E' un'idea forte, nobile e di grande effetto. Ma è propriamente un'idea metafisica, mutuata da una cultura che non riesce a concepire il processo storico, la transizione da una forma sociale all'altra, attraverso la contraddizione in cui gli opposti si compenetrano, per dar vita a un "superamento" che non è affatto il puro e semplice annichilimento dell'opposto, sostituito da qualcosa di totalmente "Altro", ma, propriamente, una sintesi, sicché, come scriveva Marx nei suoi appunti critici del programma socialdemocratico di Gotha, la società di transizione che nasce dalla società capitalista "porta ancora i segni della vecchia società dal cui seno è uscita". Se si generalizzasse questa idea che il mezzo usato dai dominatori è di per sé il male assoluto, bisognerebbe essere coerentemente luddisti, distruggere le macchine prodotte in condizioni capitalistiche, invece che usarle in modo non capitalistico (che implica la direzione da parte del lavoratore del processo produttivo in luogo della sua attuale subordinazione al capitale).

Viviamo e operiamo in condizioni storiche date, e come comunisti ci adoperiamo per rovesciare lo stato di cose presente, che critichiamo radicalmente. Ma esso è un dato, è quella che il tanto esecrato (e mal compreso) Machiavelli chiamava "verità effettuale", e che l'ormai buttato alle ortiche Gramsci esplicitava nei suoi Quaderni sotto la rubrica "rapporti di forza". La lotta per la trasformazione radicale dello stato di cose presente, per una società dei lavoratori associati, la lotta di classe (intrapresa dai lavoratori, ché i capitalisti e gli imperialisti non hanno mai smesso di farla) implica che essa si faccia almeno tra due antagonisti.

E non è sempre possibile scegliersi il terreno dello scontro. Se così fosse, i comunisti, che non hanno certo iscritto nel loro codice genetico la violenza e la guerra (è il prefascista Marinetti che parla di "guerra come sola igiene del mondo") avrebbero sempre scelto la "via pacifica" - come sembrava possibile allo stesso Engels quando osservava negli ultimi decenni dell'800 l'avanzata della socialdemocrazia tedesca, salvo avvertire che bisognava mettere nel conto, come poi puntualmente si è verificato nel secolo successivo, la reazione delle vecchie classi dominanti contro il proletariato andato al governo per via parlamentare. Dunque, i comunisti dovrebbero essere sufficientemente abili e duttili per cercare di imporre al nemico di classe, finché è possibile, il terreno di scontro loro favorevole (che certamente, nelle condizioni articolate e complesse delle società civili delle democrazie liberali, non è quello militare). Ma devono sapere che non sempre il terreno di scontro sarà quello da loro scelto. Gli imperialismi oggi dominanti hanno dimostrato di essere disposti a tutto e a passare su qualsiasi cadavere pur di conservare il potere economico e politico. E questa non è una storia passata delle dittature fasciste tra le due guerre. Il secondo dopoguerra è costellato di interventi devastanti volti a mantenere il potere minacciato o a strapparlo violentemente quando forze popolari sono andate al governo attraverso libere elezioni: dall'Indonesia alla Grecia, dal Cile di Allende all'Argentina, senza dimenticare che in Italia ha operato un'organizzazione come Gladio, pronta ad intervenire se i comunisti si fossero avvicinati troppo al governo. Il fascismo non è un incidente della storia, un bubbone sorto su un corpo sano, come pretendeva Croce, ma è un'alternativa che le classi capitaliste praticano quando il loro potere viene messo in pericolo. Non abbiamo in questo mutato epoca, e il rischio di un'abolizione strisciante o palese degli spazi di agibilità politica è sempre presente (come negli USA dopo l'11 settembre 2001).

Se proviamo a ricollocare il discorso sul terreno storico-sociale presente e non su quello di un assoluto metafisico antidialettico, dovremmo analizzare natura e ruolo dell'attuale imperialismo, e la portata dello scontro mondiale in atto. Non ci troviamo di fronte a un "avversario", che - come in una partita a scacchi o in un duello tra cavalieri medievali che si battono per il loro onore, e osservano le regole del gioco, e si rispettano reciprocamente, e rendono "l'onore delle armi allo sconfitto" - si considera e si sente parte di una comune civiltà, in cui riconosce l'altro non come alieno, ma proprio simile. Siamo di fronte ad un imperialismo ferocissimo e spietato, che considera - al pari del nazismo - il resto degli umani sottouomini, carne da macello su cui sperimentare nuove armi di distruzione di massa e che dichiara esplicitamente di non riconoscere altre regole del diritto internazionale che non siano quelle che gli sono favorevoli. Le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, lanciate contro città di inermi civili giapponesi come monito contro l'URSS, vero inizio della guerra fredda, non sono meno crudeli e efferate, nella loro logica come negli effetti, del campo di sterminio di Auschwitz. E' irrealistico pensare che di fronte a tale barbarie, a tale rifiuto di "regole del gioco" la pratica non violenta possa ottenere risultati significativi. Mentre è grande il rischio che rafforzi - involontariamente - l'egemonia dell'imperialismo.

 

Andrea Catone

 

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dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com

25-1-'04

Marco Bersani

 

La splendida festa di popolo che e' stato il Forum di Mumbay si e' concluso

da alcuni giorni e ho avuto cosi' il tempo di leggere con piu' calma parte

del dibattito che l'articolo scritto da me, Bernocchi, Cannavo' e Casarini

ha suscitato.

Devo dire che le reazioni prodotte tanto dall'articolo quanto dal mio successivo

messaggio di chiarimento, mi confermano come la discussione collettiva su

argomenti come guerra\terrorismo o violenza\non violenza sia ancora insufficiente

dal punto di vista dell'analisi politica, perche' viziata dalla prevalenza

di un approccio di tipo etico (necessario ma non sufficiente) che consequenzialmente

prevede la necessita' di schieramento e di appartenenza.

Proprio perche' credo sia da tutti comunemente condiviso come non sia in

campo, ne' ora ne' mai, alcuna ipotesi di militarizzazione del movimento

italiano ed europeo e che nessuno abbia in mente l'abbandono delle pratiche

di lotta condivise da tutto il movimento sin dalle giornate di Genova, ovvero

azioni pacifiche, nonviolente e di disobbedienza civile, credo che dovremmo

permetterci una discussione franca e aperta, consapevoli del fatto che ogni

volta che abbiamo affrontato un problema in questi termini ne abbiamo ricavato

sintesi piu' avanzate e nuovi orientamenti all'azione.

Intervengo quindi un'altra volta, sia perche' ora posso farlo con il tempo

e le energie adeguate per esprimermi in un senso piu' compiuto, sia per

contribuire ad una discussione che dovra' essere lunga e articolata per

divenire fertile.

Nel dibattito in corso, credo anche occorra tener conto dei diversi temi

che nella discussione si sono inevitabilmente intrecciati, rischiando a

volte di far cortocircuitare la riflessione : c'e' una questione legata

a guerra e terrorismo e ai suoi riflessi sui movimenti, c'e' una questione

legata alla rivisitazione del '900 e ai suoi riflessi sulle strategie legate

al rapporto tra potere e democrazia, e c'e' una riflessione che riguarda

le pratiche di lotta nelle diverse situazioni di conflitto nel mondo (Iraq

in particolare, ma non solo).

Provo ad intervenire per punti.

 

GUERRA E TERRORISMO.

L'articolo a quattro mani diceva sostanzialmente come

l'assunzione della categoria analitica "Il Terrorismo" come soggetto unico

in se' compiuto a livello mondiale, contrapposto alla guerra permanente,

ma con questa autoalimentantesi, fosse sbagliata. Ho gia' ribadito perche'

ritengo che cio' sia vero, ma vorrei articolarlo ulteriormente. L'esistenza

de "Il Terrorismo" come soggetto unico mondiale in se' compiuto e' parte

integrante dell'attuale fase della strategia di guerra permanente teorizzata

dai neo-cons americani, con tre precise funzioni : a) la possibilita' di

risolvere con l'aggressione militare l'accapparramento delle materie prime

fossili residue sul pianeta e garantirsi attraverso il controllo dell'energia

il mantenimento del dominio mondiale; b) la possibilita' di usare questa

categoria per eliminare l'insieme delle conflittualita' e dei movimenti

di lotta ormai presenti a livello mondiale (Mumbay ne e' un'ulteriore positiva

conferma); la possibilita' di ridurre, attraverso la politica della sicurezza,

i diritti individuali di ciascun abitante del pianeta.

Non dimentichiamoci, tra gli effetti, la direttiva europea che dovra' essere

ratificata dal governo italiano e che prevede come ascrivibili al terrorismo

praticamente tutte le forme di conflittualita' sociale (fino ai blocchi

stradali e all'occupazione delle scuole).

Contrastare questa posizione e' possibile solo rompendo il paradigma, invece

di assumerne una parte (l'esistenza de "Il terrorismo" come soggetto unico,

mondiale e in se' compiuto) come elemento per contrastare l'altra (la guerra

permanente). Perche' nel secondo caso, il rischio che si corre e' quello

del progressivo ammutolimento del movimento di fronte alle situazioni drammatiche

e tragiche che quotidianamente si presentano.

L'ho gia' detto, ma vale la pena ripeterlo: il balbettio del movimento nel

mobilitarsi per chiedere l'immediato ritiro delle truppe dall'Iraq dopo

Nassirya aveva questa portata : perche' se il Governo Berlusconi dice che

quel tragico atto e' parte dell'azione de "Il Terrorismo" e noi abbiamo

accettato culturalmente una parte del paradigma (l'esistenza de "Il terrorismo"

come soggetto unico, mondiale e in se' compiuto),

diventa difficile definire Nassirya un legittimo, per quanto tragico, atto

di resistenza all'occupante e dunque mobilitare per la fine dell'occupazione.

Non solo. L'accettazione del paradigma comporta la difficolta' ad intervenire

adeguatamente sull'enfatizzazione ideologica che il Governo italiano, e

non solo, pone sul problema della sicurezza, e su come questo andra' sempre

piu' ad intrecciarsi con le lotte sociali in corso.

Dico di piu'. Se dovesse accadere (speriamo vivamente di no) un attentato

in Italia, io credo che il movimento si troverebbe in grande difficolta'

a prendere la parola e la piazza per esprimersi contro la guerra globale.

E se anche

accadesse, sarebbe poco comprensibile per i cittadini, dopo mesi di esplicito

utilizzo del paradigma da parte del Governo e dopo mesi di accettazione

parziale del paradigma da parte del movimento, di fronte all'evidenza dell'accaduto

(tutti ci dicono che esiste "Il terrorismo" come soggetto unico mondiale

in se' compiuto, e oggi ha colpito il nostro Paese).

Non esiste dunque il terrorismo ? Non esiste come definito nel paradigma.

Esistono gruppi, apparati e servizi segreti che di volta in volta, attraverso

atti terroristici, cercano di modificare a proprio vantaggio una situazione.

Occorre dunque di volta in volta capire e denunciare gli atti terroristici

e gli interessi che coprono, sia per il grado di sofferenza che provocano

nelle popolazioni colpite, sia per le speranze di liberta' che vanno a comprimere.

Occorre dunque abbandonare l'accettazione parziale del paradigma e accedere

alla complessita' e anche alla tragicita' della storia quotidiana.

Ne guadagnerebbero la riflessione politica e l'orientamento all'azione.

E soprattutto l'agibilita' del movimento.

 

L'IRAQ PER ESEMPIO

Ho gia' detto di come l'accettazione parziale del paradigma abbia comportato

il balbettio del movimento dopo i fatti di Nassirya. Ma il paradigma, proprio

perche' assolutizzante, comporta la sua inevitabile estensione. Quanti convegni

ha prodotto il movimento per conoscere e capire quale sia l'attuale situazione

in Iraq? Direi nessuno. Ma nel frattempo, si diffonde, aldila' delle intenzioni

soggettive, l'idea che in Iraq sia in atto (scusate la semplificazione)

un grande e tragico confronto

tra la guerra e il terrorismo. Nulla di piu' e nulla di meno.

Quali conseguenze comporta questo per il movimento? Le stesse, ovvero il

deficit dell'analisi politica e l'immobilismo dell'azione. Logico che, se

prevale la fisiologica estensione dell'accettazione parziale del paradigma,

ci siano addirittura parti del movimento che arrivino a non pensare come

necessario l'immediato ritiro delle truppe occupanti ( se l'Iraq e' lo scontro

tra guerra e terrorismo, non possiamo lasciare solo il popolo irakeno che

ne e' la vittima).

Se abbandonassimo il paradigma, allora scopriremmo come la realta' in Iraq

sia complessa e questo aiuterebbe la parola e l'azione dei movimenti.

Scopriremmo che in Iraq e' in atto una occupazione militare che per strategia

e posizione geopolitica attira interessi disparati, e che attualmente in

campo vi sono (scusate ancora la semplificazione) : una resistenza popolare

diffusa,

una resistenza armata, gruppi terroristici al soldo di servizi di paesi

confinanti e di grandi potenze.

Questo allora ci permetterebbe di conoscere e denunciare gli atti terroristici

e gli interessi che coprono contro il popolo irakeno. E ci permetterebbe

di solidarizzare con la resistenza popolare e armata (riconosciuta come

diritto anche dall'ONU), come possibile base per un futuro democratico dell'Iraq.

Dovremmo senz'altro approfondire i rapporti tra la resistenza popolare e

quella armata, perche' dalla qualita' di quei rapporti si potrebbero trarre

considerazioni sulla qualita' del futuro processo democratico irakeno. Ma

mi piacerebbe non dimenticassimo mai che senza l'insieme della resistenza

irakena, oggi

quasi sicuramente tutti noi saremmo in piazza per cercare di fermare la

guerra alla Siria e via dicendo.

E sapremmo infine dire quale solidarieta' di base e' possibile e quale intervento

internazionale, se richiesto, e' necessario (ovviamente, via le truppe subito

e nessuna potenza occupante nell'intervento internazionale).

 

IL '900 RIVISITATO

Che il '900 debba essere criticamente rivisitato e' fuor di dubbio. In particolare,

la concezione dell'automatismo per cui il cambiamento rivoluzionario avviene

per la presa di coscienza di un unico soggetto motore, la classe operaia,

che tramite il ruolo guida del partito e la costruzione dell'esercito popolare,

prende il palazzo d'inverno ( anche stavolta scusate l'estrema semplificazione)

credo oggi

necessiti di importanti riflessioni.

Dire tuttavia che la lotta di liberazione del Vietnam, perche' armata, abbia

costitutivamente prodotto il successivo autoritarismo e la burocratizzazione,

ovvero tutti gli elementi della degenarazione seguente appare un salto teorico

difficilmente comprensibile.

Porto un solo esempio di confutazione : il Nicaragua sandinista, nato da

una lunga lotta di guerriglia e che ha prodotto, prima di essere sconfitto

dall'aggressione economica e militare USA, un decennio di democrazia popolare

per molti versi anticipatoria di tante sperimentazioni oggi proposte dai

movimenti.

Voglio dunque dire che l'automatismo iniziale e' dunque valido tuttora?

Certo che no. Anche nel Nicaragua sandinista sono avvenute le degenerazioni

di cui sopra, ma credo abbiano piu' a che fare con il tipico processo novecentesco

sopra schematizzato, ed in particolare con il cosiddetto ruolo del partito

guida, e su cosa questo comporta in termini di rapporto tra gestione del

potere e democrazia.

Voglio quindi dire che il processo di cambiamento passa ancora oggi attraverso

la lotta armata di popolo? La storia insegna che si danno per ciascuna

situazione forme diverse di tentativi di riappropriazione collettiva della

liberta', e che oggi i movimenti popolari hanno trovato altre strade per

mettere in campo situazioni di sperimentazione possibile. Ma ogni percorso

non va assolutizzato, perche' sono le condizioni concrete (per esempio gli

spazi che consente l'avversario) a determinare le condizioni in cui un processo

di liberazione possa esplicitarsi.

Credo sia necessaria una riflessione sul potere e la democrazia che ancora

come movimenti dovremmo fare, per capire insieme cosa significhi costruire

autogestione democratica dal basso, destrutturazione del potere da subito

e come questo si possa confrontare con chi il potere lo detiene e non intende

redistribuirlo costi quel che costi.

 

INFINE, SU VIOLENZA E NON VIOLENZA

La violenza cambia chi la utilizza, perche' inevitabilmente comporta la

mimesi dell'avversario, che della violenza fa parte costitutiva della propria

politica di dominio quotidiano. L'uso della violenza e i suoi effetti sono

parte di una contraddizione che gli uomini e le donne si portano dentro

da quando e' cominciata sul pianeta una narrazione collettiva. E' bene che

su questa questione, il movimento abbia fatto diverse riflessioni, fino

ad adottare collettivamente delle pratiche riconosciute e condivise, che

si sforzano (non sempre riuscendovi) di produrre altro dall'avversario.

Credo che il superamento dell'eterogenesi dei mezzi e dei fini sia una delle

acquisizioni piu' importanti di questi anni. Non c' e' separazione di mezzi

e fini che possa produrre reale cambiamento e che non comporti una perdita

di umanita' in chi la produce. Su questo, come ho gia' detto, l'articolo

scritto a quattro mani non era sufficientemente chiaro.

Il problema tuttavia e' di duplice natura : cosi' come il fine non giustifica

i mezzi, altrettanto il mezzo non puo' divenire il fine "tout court". Il

mezzo deve far intravedere il fine, deve dunque essere comunicabile e produrre

consenso e aggregazione, senza sovrapporsi totalmente al punto di assolutizzarsi.

Provo con alcuni esempi a farmi capire.

Se assolutizzassimo il mezzo, cosi' come specularmente in passato si assolutizzava

il fine, noi non potremmo neppure spiegare perche' durante il massacro preordinato

dei giorni di Genova, migliaia di noi ad un certo punto e per difendere

se stessi e gli altri hanno reagito alla violenza delle forze dell'ordine.

Voglio dire che Carlo non e' "piu' nostro" perche' in quel drammatico giorno

aveva in mano un estintore, ma non diventa altrettanto "meno nostro" per

lo stesso motivo.

Carlo e' nostro e del mondo perche' voleva cio' che vogliamo noi e lo voleva

senza prefigurare ideologicamente l'uso della violenza, anche se si e' trovato

in circostanze che lo hanno costretto a tentare una difesa personale e collettiva.

Con lui migliaia di altri, che non l'hanno voluto prima e difatti non l'hanno

praticata dopo, successivamente e in diverse circostanze.

Provo a fare un altro esempio. La vittoriosa lotta del popolo boliviano

contro la privatizzazione del gas naturale ha costruito partecipazione popolare,

mobilitazione di massa, scioperi, blocchi stradali e solidarieta'.

Ad un certo punto della lotta, i minatori boliviani hanno messo la dinamite

nei pozzi come forma di pressione. Quella lotta che tutti abbiamo appoggiato

non e' "piu' nostra" perche' ad un certo punto e' stata utilizzata questa

forma di pressione, ma non diventa "meno nostra" per lo stesso motivo.

Se invece io assolutizzo il mezzo, dovrei interrompere l'appoggio e la solidarieta'.

Credo che il fine debba essere sempre l'apertura di spazi di liberta' e

di partecipazione democratica alle mobilitazioni e che i mezzi siano quelli

che in ogni situazione data prefigurano quel fine, ossia siano comunicabili

e producano consenso e aggregazione.

Senza assolutizzazioni, ma con la grande attenzione che la drammaticita'

di ogni situazione richiede e che la speranza di costruire donne e uomini

nuovi necessita.

 

Grazie per l'attenzione.

 

Marco Bersani

 

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Dall'intervista a Liberazione di Fausto Bertinotti del 27-1-'04

Di Rina Gagliardi

A proposito del nostro partito, questa è però soprattutto una fase di discussione impegnata e impegnativa. Come si può vedere dal nostro giornale, al centro di questa discussione c'è il tema della nonviolenza, in gran parte prodotto dal tuo intervento di Venezia, poi rilanciato da Ingrao. Che te ne sembra?

Su Liberazione si va svolgendo un dibattito intenso, ed acceso, che non ha l'eguale nel resto della stampa italiana e che ha per oggetto una delle grandi questioni del nostro tempo. Non accadeva da un pezzo, e non accadeva che riuscissimo ad avere anche interlocuzioni importanti come quelle che abbiamo avuto - cito l'intervista di Pietro Ingrao non solo per l'autorevolezza della sua figura e del suo contributo, ma per dire che oggi abbiamo potenzialità di dialogo e di confronto con l'esterno incomparabilmente superiori al passato.

TTutto questo ci dice, per quanto riguarda il Partito, che convivono sia un grande bisogno sia una diffusa paura: bisogno di ridefinire un'identità collettiva e di ridiscuterla a livello generale, paura, per così dire, di "separarsi da ciò che si ha". Una situazione che - lo dico ovviamente senza trionfalismi di sorta - manifesta una vitalità reale, importante. In nessun caso avrebbe senso rispondere a questa interrogazione collettiva con l'autocensura, il silenzio, la stasi, o una forma qualsiasi di rassicurante paternalismo.

 

Molte sono le critiche - o le resistenze - alla proposta che tu hai avanzato.

Ma in questa circostanza non solo e non tanto, naturalmente, queste critiche o queste opposizioni mi paiono legittime: vado oltre e dico che credo di capirle profondamente. Tra i meriti di Rifondazione comunista, nel corso di tutta la sua vita, c'è sempre stato, del resto, quello di salvaguardare un nucleo di risorse politiche, un patrimonio, senza il quale non c'è futuro per chi pensa che la politica - quella con la P maiuscola - sia la trasformazione del capitalismo. Capisco bene dunque che ci siano molti compagni che si preoccupano di perdere qualcosa di sostanziale, o di prezioso...

 

E tuttavia?

E tuttavia la proposta strategica della nonviolenza, come parte integrante della nostra identità comunista e rivoluzionaria e del processo di riforndazione, mi pare necessaria. Essa, del resto, non è la ripresa di un'idea antica. E' mossa prima di tutto dai grandi mutamenti che sono intervenuti in questo ultimo decennio, sia sul terreno delle soggettività organizzate, sia su quello delle organizzazioni politiche e statuali. Ciò che abbiamo chiamato "nuovo capitalismo" - con i suoi portati della guerra preventiva e infinita, l'effetto di trascinamento sul terrorismo, la minaccia di una vera e propria crisi di civiltà, la crisi stessa, sempre più profonda, della politica - ci propone, insomma, un terreno ineludibile. non solo fare i conti con la nostra grande e terribile storia, ma restituire al comunismo la capacità di essere una prospettiva che attraversa i movimenti e le nuove generazioni. Il comunismo, cioè, non solo come eredità del passato, ma come opzione strategica del futuro. La nonviolenza è una delle componenti necessarie di questa innovazione. Non è un'invenzione, lo ribadisco. Ci viene dai movimenti - dalle giornate di Genova. E' una proposta che si è riaccesa e riattualizzata per riprendere il filo di quella radicalità che caratterizza il Dna del movimento.

 

Molti compagni temono che questa scelta non possa che proiettarsi in una specie di autentico "pentitismo" sul passato. Citano la resistenza partigiana, o la lotta dei palestinesi, per interrogarsi - e interrogarti - sull'espansione nel tempo e nello spazio di una pratica nonviolenta che appare loro, spesso non praticabile. Intanto, vorrei far chiarezza su un punto importante: l'approdo alla nonviolenza che propongo non è di tipo etico. Quindi, a differenza degli assunti morali, non propone un modello di comportamento valido in ogni luogo e in ogni tempo. Io, si badi bene, rispetto la sfera morale, ma so che riguarda le persone, i comportamenti dei singoli, non i partiti. Noi, che siamo un partito politico, proponiamo una dimensione politica: che, quasi per definizione, è qui e ora , hic et nunc . Una discontinuità che, anch'essa, non può essere imposta autoritativamente o dall'alto, dalla mozione di un comitato centrale: essa implica un processo di conquista culturale, di ricerca collettiva, di partecipazione comune. Essa è il disvelamento della natura del potere capitalistico del nostro tempo, più violento, o quasi, di ogni sua costruzione storica conosciuta. Essa allude al comunismo come processo di liberazione - il processo storico possibile e necessario. Una scelta politica, allora, per sua natura, non può essere retrodatata. Parliamo di qui ed ora, dicevo. Non ha senso interrogare i nostri padri e i nostri nonni che hanno fatto la resistenza armata. Non ha senso riscrivere la storia.

Non c'è qui il pericolo di voler avere sempre ragione, ieri quando eravamo affascinati dalla violenza come "levatrice della storia", oggi che ci decliniamo per una scelta nonviolenta?

La storia non la si riscrive: la si riattraversa, però, la si interroga criticamente, la si vaglia anche alla luce delle scelte di oggi. Non per cancellarla, ma per trovare in essa altre possibilità. altre angolazioni, altri esiti possibili. Per non commettere più gli stessi errori, quelli di ieri. Altrimenti, si piomba nell'idea (conservatrice) "che tutto ciò che è razionale è reale" - o si dice quel che diceva Croce, cioè che non si fa la storia con i "se". No, la storia si fa anche con i "se". Sempre per arrivare ad un'opzione del qui ed ora. Senza modelli generali e senza partiti-guida. La nonviolenza, voglio dire, è la scelta che ciascuno, ciascun partito, può compiere per sè: ciò non significa pensarla come valida nello spazio, per tutti i luoghi del mondo. Significa, per parte mia, non dire che il popolo palestinese "deve" o "dovrebbe" praticare la nonviolenza: ma apprezzare le forme di lotta nonviolenta che anche lì ci sono state, come per esempio nella prima Intifada. Capire sempre, condividere, agire secondo le convinzioni che ci siamo dati: questo è quello che mi sento di sostenere.

 

E il Partito?

Il Partito deve comunque essere coinvolto molto di più nel dibattito, così come nella iniziativa concreta. Le gambe sono due, come sempre: l'opposizione sociale e politica, la riflessione politico-culturale. Al Forum mondiale di Bombay è circolato un testo dove si riassumono 170 pratiche di tipo nonviolento: perchè non conoscerlo e studiarlo? Perchè non discuterne? Ma la nonviolenza, secondo me, sta anche in lotte vicinissime: i tranvieri, per esempio, che hanno rotto le regole e riavviato un dialogo con l'utenza e i cittadini. Senza la pratica, voglio dire, qualsiasi discussione, la migliore, rischia di diventare una cattiva discussione. Senza la partecipazione diffusa, non si costruisce nulla, e non innova nulla. Quando dalle commissioni interne si passò ai consigli dei delegati, fu un processo di rottura, doloroso - molti uccisero i padri, un pezzo di passato. Molto si fece e molto si discusse. Alla fine, ne uscì un'esperienza nuova, decisiva.

 

Tra le critiche, bisogna registrare anche quella relativa al Partito europeo. Si dice che non c'è stato un processo davvero democratico, o di coinvolgimento diffuso dell' iniziativa, culminata a Berlino. E anche qui emergono paure...

Il nuovo partito europeo non è una sovrastruttura nella quale annegare l'esperienza vitale del nostro partito. Non è la cancellazione dell'esperienza comunista, per sostituirla con la più generica dizione di sinistra. E' l'idea di guadagnare la dimensione europea come parte quotidiana del conflitto di classe e della lotta di trasformazione. Non per caso l'obiettivo stava nelle scelte congressuali. E' vero: il coinvolgimento del partito è stato finora insufficiente. Ogni passaggio forte della soggettività può contenere questo tipo di pericolo, una insufficienza che va colmata. Ma come la colmiamo? Innescando la partecipazione, oltre che la discussione, o "fermando" il processo? In un'Europa dove ogni mese che passa i governi tagliano un pezzo dello Stato sociale, come un carciofo, ci conviene continuare ciascun partito nella sua battaglia nazionale, o non ci conviene piuttosto tentare di unificare le lotte, come ci chiedono del resto da tempo i movimenti?

 

Ti pongo una domanda di fondo: in un'epoca come questa, innervata dai movimenti, serve ancora un partito, ovvero un partito comunista?

Io penso che un Partito, cioè un Partito comunista, resti uno strumento insostituibile, proprio ai fini di una strategia di trasformazione, di superamento del capitalismo. So bene che c'è una crisi dei partiti, indotta non solo dall'avversario, ma diffusa dall'interno stesso dei movimenti. Ma il partito resta essenziale per un progetto di cambiamento che non può che passare anche attraverso la sfera istituzionale, cioè la mediazione necessaria tra le istanze della protesta sociale e quelle del progetto. Il Partito europeo ha anche questa funzione, riconquistare credibilità ed efficacia politica al partito. Non un Partito qualsiasi, un partito comunista.

 

Rina Gagliardi

Intervento di Lidia Menapace

Per far capire a una mia nipotina che la giustizia è sempre stata un potere che fa giustamente politica e anche che è stata spesso corrotta, le raccontavo la storia di Verre. Dunque Verre al tempo di Cicerone era governatore della Sicilia e aveva rubato tanto che addirittura erano rimasti spogli i templi dell'isola dalle statue d'ora di dei e dee, trasferite nella sua dimora romana. Verre era solito vantarsi di non temere condanne per le sue ruberie perchè -diceva- "Ho rubato troppo perché possano colpirmi", intendendo che aveva rubato abbastanza da comperare anche i giudici. I Siciliani avevano come famiglia tutrica a Roma gli Scipioni un nome illustrissimo e una fama di probità indiscussa. Allo Scipione di turno si rivolgono e chiedono che Verre sia incriminato e processato. Lo Scipione interpellato si rivolge a Cicerone avvocato di fama imperitura. Cicerone ha qualche dubbio, sia perché già altre volte si è attivato contro il potere prepotente (contro Silla) e ha dovuto poi stare lontano dagli affari per qualche tempo e anche perché in Roma l'accusatore aveva cattiva fama e i giuristi più illustri accettavano solo cause nelle quali facevano gli avvocati di difesa. Ma alla fine aggira l'ostacolo accettando come "difensore" dei Siciliani e con ciò acquisendo la protezione degli Scipioni. Sa che Verre è molto potente politicamente e che solo dopo elezioni perse dai suoi sostenitori può avere la speranza di sconfiggerlo e farlo condannare. Chiede perciò per guadagnare tempo un supplemento di istruttoria di un anno con l'orazione "Actio prima in Verrem" e passa un anno in Sicilia ad accumulare prove e a guadagnare tempo. Vengono le elezioni e gli amici di Verre sono sconfitti. Verre a questo punto fugge e Cicerone scrive le altre quattro orazioni dette verrine che non dovette pronunciare mai dato che il processo cadde per latitanza dell'imputato. La nipotina annuisce convinta ma un altro parente, un valligiano della Val di Non, che hanno fama d'essee molto legati al denaro e anche un po' taccagni sbotta: "Giusto! così si deve fare: ho sempre avuto stima per Craxi che andando latitante ci ha fatto risparmiare un mucchio di soldi per processi tirati in lungo all'infinito. Perché Berlusconi adesso che non ha più la protezione dell'immunità non segue il nobile esempio classico?". Vi giro la domanda.

Lidia Menapace

Il pacifismo non è una sorta di quietismo legalitario

 

Pino Ferraris

 

Caro direttore, con il suo breve e lucido intervento sulle Foibe, Bertinotti ha realizzato un atto di innovazione politica che tutti ci aiuta in questi difficili momenti. Penso che troverà ostilità dai replicanti sedicenti di sinistra che proprio niente imparano dalla storia, dagli opportunisti di destra che pensano di poter imitare, a distanza di moltissimi anni, la vecchia disinvoltura di Pietro Nenni: per uscire dal proprio passato basta restituire il premio Stalin e andare con Saragat. Per questo ritengo doveroso esprimere pubblicamente un giudizio positivo su quel discorso.

Io vedo una doppia valenza in queste posizioni di Bertinotti sulla non-violenza. Esse cercano di operare un mutamento di cultura politica del movimento operaio e socialista sul lungo periodo, mentre si inseriscono con grande efficacia nel presente difendendo l'ispirazione pacifista e non violenta dei nuovi movimenti gravemente insidiata dalla spirale perversa della guerra infinita di Bush come modo di produzione di terrorismo e di violenza senza fine...

 

Da anni mi sto ponendo interrogativi che partono dall'ossessivo ricordo del fatto che i due primi esperimenti di "socialismo reale" si sono manifestati con i massacri di operai nella Ruhr e in Baviera da parte del governo socialdemocratico tedesco di Ebert e, pochi anni dopo, con la sanguinosa repressione comunista della rivolta di Kronstadt. Dove sta il vizio genetico di queste antiche tragedie del socialismo politico? L'esperienza comunista ha poi condotto ad una vertigine tragica l'urto tra l'altezza della speranza di liberazione e l'abisso dell'orrore dispotico non lasciando spazi alla rimozione o alle consolatorie mediazioni.

 

Quali sono le deformazioni, le sedimentazioni sub-culturali, i residui di mentalità autoritaria, i riflessi condizionati di pratiche disciplinari, lo stigma di mascolinità combattiva che ha lasciato un secolo nel quale la politica si è sempre fatta nelle trincee della guerra calda o della guerra fredda? Proprio perché ci facciamo carico sino in fondo del nostro passato dobbiamo aprire questo pesante fardello e scavare dentro con lucidità e severità. Non basta rimuoverlo, è da irresponsabili continuare a portarlo sulle spalle.

 

Si coglie un nodo di fondo quando si dice "rifiutiamo la barbarie del nemico". E si cita l'amara e spietata dichiarazione di Rashid. Sono gli stessi concetti espressi da Simone Weil, reduce dalla guerra di Spagna, nella sua lettera a Bernanos: la guerra è un cancro morale così profondo che non risparmia nemmeno i combattenti che sono dalla parte giusta. La barbarie della guerra e la scelta pacifista e non violenta solleva nella sua drammaticità un problema più vasto: come nelle lotte sociali si può evitare di imitare l'avversario? come sfuggire alla risposta simmetrica? come capire che invenzione politica a sinistra significa soprattutto non subire il terreno proposto di chi ti contrasta, significa saper cambiare le regole del gioco, significa proporre la logica alternativa che è propria dei "deboli" contro il tentativo di imporre i binari obbligati del comportamento che è congeniale all'azione dei "forti"?

 

Mi pare poi estremamente fragile e superficiale il ragionamento di coloro che pensano il pacifismo e la non-violenza come una sorta di quietismo legalitario. Per anni siamo stati schiacciati dall'icona dei primi anni 70 che riproduceva il ragazzo di Milano che, in mezzo alla strada, impugnava la P 38. Per me ha avuto un effetto liberatorio un'altra icona, quella del ragazzo che a mani nude e a volto scoperto fermava il carro-armato sulla piazza Tien-an-men. La radicalità illegale, la forza psicologica, lo spessore politico di chi ha fatto quel gesto "non-violento" è incomparabile.

 

Pino Ferrarsi

Non si deve rischiare di ridurre a "terrorismo" qualsiasi "violenza"

 

Piero Maestri

Walter Peruzzi

("Guerre&Pace")

 

"Il massimo di radicalità oggi si può esprimere solo con la non violenza", sostiene Bertinotti, "altrimenti retrocede immediatamente a braccio armato e si inserisce nella dialettica guerra-terrorismo": questa affermazione non ci convince, perché introduce la scelta della nonviolenza in contrapposizione al terrorismo, rischiando pur senza averne l'intenzione di accreditare la strumentale riduzione a "terrorismo" di qualsiasi "violenza". Ci sono invece forme di violenza, da quella di chi si scontra con la polizia per violare le zone rosse fino alla resistenza armata, dalle quali si può dissentire o meno ma che col terrorismo non c'entrano.

Per quanto riguarda in particolare i movimenti di resistenza armata contro eserciti occupanti non si può non partire dal riconoscere, come fa Lidia Menapace, che essi sono "legittimi", il che implica la possibilità di allearsi con loro o di sostenerli, anche se non si condividesse la loro scelta.

 

Al proposito, entrando nel merito, da un lato ci sembra acquisita (senza usare tale acquisizione come metro di giudizio per il passato) la non-neutralità dei mezzi. Vale in economia (il taylorismo non è una tecnica neutrale, usabile indifferentemente dai capitalisti e dai socialisti, ma tende a riprodurre rapporti capitalistici) e vale nel nostro caso: la lotta agli oppressori si conduce anche rifiutando di mutuarne le logiche di dominio e di violenza, se non si vuole (l'esperienza insegna) riprodurle. D'altra parte però il superamento delle tecniche capitaliste (e dello stato e della violenza) se non è rinviabile a un futuro imprecisato non è neppure realizzabile "tutto e subito". È un processo contradditorio le cui tappe e le cui modalità vanno determinate in rapporto allo specifico contesto storico cercando di ridurre sempre più al minimo il ricorso alla violenza. Valga al riguardo la lezione degli zapatisti. E valga lo sforzo in atto anche dentro i movimenti alternativi - uno sforzo sempre più condiviso e da intensificare - per estendere il rifiuto di pratiche violente e di metodi contrastanti con i fini.

 

Altro è il discorso sul terrorismo, cioè sugli assassinii o le stragi indiscriminate di civili. Un reale sostegno ai movimenti di resistenza armata, non solo consente ma richiede di condannare e di chiedere che essi condannino le azioni terroristiche cui talvolta ricorrono o le logiche militariste che li portano a ritenere la morte di civili un "danno collaterale" accettabile. Se poi tali comportamenti diventano una pratica costante e connotante, innescano una deriva terroristica che rende a nostro parere impossibile ogni sostegno e rapporto politico.

 

Il movimento contro la globalizzazione capitalistica ha del resto sempre espresso con chiarezza la sua condanna delle azioni terroristiche e delle reti che le conducono non solo perché il terrorismo distrugge vite umane, ma perché ha come obiettivo l'espropriazione della partecipazione popolare e sociale, che invece rimangono il solo strumento e la sola forza su cui contare. E tuttavia resta pur sempre da ricordare che la principale forma di terrorismo è il "terrorismo di stato", oggi praticato a livello globale soprattutto da Stati uniti, Gran Bretagna, Israele. Rispetto ad esso i vari terrorismi extrastatali sono fenomeni molto più limitati e, di solito, una delle risposte armate ad esso (non la sola, come si è detto) o alla repressione e alla guerra, se si eccettua Al Qaeda (o i gruppi e "poteri" che vanno sotto questo nome), cioè quel terrorismo globale "senza stato"che è al tempo stesso asimmetrico e speculare a quello degli Usa, nei metodi e negli obiettivi di dominio. Resta quindi anche vero che la guerra globale non è la "risposta" - per quanto "sbagliata" - al "terrorismo", ma persegue obiettivi e strategie proprie, con largo ricorso a pratiche terroristiche e ponendosi come la principale causa scatenante degli altri terrorismi e della violenza.

 

Tornando alla questione della nonviolenza, ci pare inoltre che essa vada necessariamente intrecciata all'obiettivo della trasformazione sociale e politica: è su questo obiettivo che va misurata la nostra capacità - innovativa - di costruire un percorso alternativo alla violenza, sperimentando azioni, relazioni e conflitto sociale (ad esempio praticando collettivamente azioni che "impediscano" l'applicazione della legge Bossi-Fini o colpiscano chiaramente la cosiddetta macchina della guerra o generalizzino gli scioperi "selvaggi" e disobbedendo in generale a leggi ingiuste).

 

E questo con la consapevolezza che se le rivoluzioni "violente" del 20° secolo non hanno prodotto, in generale, quel mondo diverso che avevano come obiettivo, allo stesso tempo non ci sono esempi di trasformazioni nonviolente che non abbiano a loro volta conosciuto involuzioni e derive illiberali e anti-democratiche. Nel mondo dell'associazionismo nonviolento si continua a salutare il 1989 come "rivoluzione nonviolenta" senza chiedersi come mai nelle società dell'Est sia poi prevalso, senza una resistenza e opposizione popolare, un sistema sociale che faceva del liberismo e dell'esclusione politica e sociale la sua bandiera.

 

In questo senso non ci sentiamo di condividere l'idea (che ci sembra esprimere Ingrao) che la causa degli orrori - reali! - della nostra storia sia il loro carico di violenza: ci sembra invece che la violenza sia una conseguenza - necessaria - delle scelte di espropriazione politica che le classi dirigenti hanno promosso e dei rapporti di potere che si andavano determinando; pur sapendo che la scelta dell'uso della forza (non sempre "obbligata") determina a sua volta l'organizzazione sociale e politica.

 

Usare il metro di giudizio della partecipazione e del rifiuto delle pratiche di avanguardia - come suggerisce l'intervento di Bernocchi, Cannavò e altri - ci sembra allora corretto, anche in questo caso come orizzonte entro cui collocare la nostra sperimentazione di iniziative necessarie ed "efficaci", sapendo che la scelta nonviolenta non è meno radicale, ma al contrario richiede una maggiore radicalità nella difesa dei principi e dei valori.

 

Occorre insieme innovare anche le nostre proposte politiche sulla difesa. E' evidente infatti che non avrebbe senso scegliere la strada della nonviolenza e non proporsi un superamento degli eserciti...

 

In Rifondazione, e in qualche modo anche nel movimento, qualcuno ancora sostiene che l'Europa unita debba esprimere una "difesa comune" anche armata, per meglio contrapporsi agli Stati uniti: e questa posizione non è estranea a chi sembra aver sposato la nonviolenza come scelta strategica. Una vera contraddizione - che rischia di seppellire il dibattito sulla nonviolenza e di renderlo subalterno alle "compatibilità" dell'Ue - mentre la questione andrebbe invece affrontata dal punto di vista di una nostra idea di difesa popolare nonviolenta e di presenza internazionale non armata, che molti hanno tentato di sperimentare in questi anni.

 

E questa riflessione deve essere avanzata anche nel confronto con eventuali alleati (dalla Margherita al PdCI) certo lontani da una scelta nonviolenta, visto che hanno partecipato alla guerra della Nato e non si oppongono all'idea di un esercito europeo (interessante che Folena stesso si ponga il problema nel suo contributo al dibattito).

 

Piero Maestri

Walter Peruzzi

("Guerre&Pace")

Un modo diverso di porre il problema dell'egemonia

 

Pasquale Voza

 

Quando Gramsci affermava negli anni Trenta che, a suo avviso, ormai si era passati, storicamente parlando, dalla guerra di movimento alla guerra di posizione (con un uso critico e straniante di queste metafore militari) e che, sotto questo profilo, la grandiosa rivoluzione d'Ottobre si poteva considerare l'ultima guerra di movimento, e che inoltre, per quanto concerneva la "rivoluzione in Occidente", la svolta epocale era data dall'emergere inedito del problema dell'egemonia (in un senso profondamente rinnovato rispetto alla pronunzia leninista), ebbene egli non indicava un assoluto (attraverso cui magari rileggere storicisticamente il passato), ma elaborava e proponeva una grande questione teorico e politica per il presente.

A me sembra che la questione della nonviolenza, su cui si sta riflettendo e discutendo dentro e fuori del nostro partito, dopo la fertile 'provocazione' intellettuale di Bertinotti, sia intimamente connessa con il problema dell'egemonia oggi. Si potrebbe dire che la nonviolenza è un modo diverso, forse 'necessariamente' diverso, di porre in questo tempo storico il problema dell'egemonia, il problema della costruzione di un'egemonia alternativa attraverso la critica pratica (soggetti politici e movimenti) dell'egemonia (in crisi-ristrutturazione) della globalizzazione capitalistica, segnata da una guerra costituente e da una logica neo-liberista a dominante imperiale. (Non va trascurato il fatto che, purtroppo, la parola egemonia è stata abbastanza sfortunata, è stata molto fraintesa - o egemonismo prevaricante o mero fatto culturale e ideale - e comunque è risultata sempre difficile e ostica, anche a sinistra).

 

Non dico che nonviolenza ed egemonia siano la stessa cosa: dico che l'una sta dentro l'altra. Se separiamo le due cose, allora rischiamo di ridurre il problema della nonviolenza al solo problema, se pur importante, delle forme di lotta. E' stato ricordato in questo dibattito (da Franco Russo) il Sessantotto, il cui paradigma più innovativo e originale, presto oscurato dall'accamparsi dell'ideologia "emme-elle" ("marxista-leninista") della costellazione dei "gruppi", consistette nella ri-definizione o ri-fondazione della politica (la "politicizzazione della vita quotidiana", come si diceva con estrema radicalità politica), consistette cioè nella individuazione di un problema di fondo, quello della costituzione politica dei soggetti, vecchi e nuovi, capaci di agire una lotta molecolare contro lo sviluppo neo-capitalistico, contro il nuovo rapporto scienza-capitale. Non a caso, alla morte rapida del Sessantotto subentrarono tante forme contratte ed esasperate, più o meno geometricamente potenti, di autonomia del politico, tante teorie e pratiche di "attacco la cuore dello Stato" o al cuore del potere multinazionale.

 

L'attualità della nonviolenza sta oggi proprio nella diffusione "imperiale" della violenza visibile e invisibile, nella scissione, sempre più grave e strutturale, tra il sociale e il politico, vera forma di un nuovo americanismo, che può al tempo stesso produrre un particolare conformismo di massa o inchiodare a un antagonismo meramente difensivo e / o ribellistico. Di qui la necessità di dire no ad ogni teoria e pratica (perdente!) di attacco al cuore o di contro-potere, forse pure a talune forme, un po' simboliche e post-moderne, di assalto alle "zone rosse" (veri e propri simulacri usa e getta) del potere, e dire invece sì alla via maestra di una distruzione critica di massa della selvaggia e raffinata violenza del capitalismo globalizzato. E la nonviolenza non può non essere un tratto costitutivo di quest'opera egemonica di distruzione critica. Ma allora, prendere il potere? (espressione emblematica di una cultura politica, di un'idea sostitutiva di potere). Per dirla con uno slogan, il potere non si prende, si distrugge, politicamente e socialmente.

 

Tutto ciò non è idealismo, è una prospettiva teorico-politica, è una sfida a noi stessi, che, come è stato osservato in risposta al cattivo realismo di talune domande, non implica alcuna assurda censura né nei confronti della forma della resistenza armata nel passato e nel presente né nei confronti della radicalità delle teorie e delle pratiche della "disobbedienza" (tra le 'risposte' più significative, v. quelle di Martino e di Russo-Spena).

 

Ha ragione Burgio (nell'articolo apparso su "il manifesto") quando invita, con fermezza, a guardare, nella storia del Novecento, alla grande differenza tra "aggressione" (capitalistica) e "difesa" (del movimento operaio): semmai - sia detto per inciso - mi risulta meno chiaro quando, con linguaggio un tantino letterario e quasi psicologico, dimissionario sul piano conoscitivo, invita a guardare al gulag e alle purghe come frutto del "trionfo dell'arbitrio" e della "paranoia del potere dispotico".

 

Ciò detto, resta in tutta la sua enormità il problema dell'efficacia (egemonica) della politica: nostra e del movimento o dei movimenti. Perciò il paradigma della nonviolenza, come paradigma interno all'egemonia, non va confuso con l'idea, suggestiva e utopistica, di una costruzione reticolare di relazioni comunitarie (Revelli), e nemmeno con l'idea di una sorta di pasoliniano "paese nel paese" (del resto, per il Pasolini "corsaro" e apocalittico il paese comnunista era destinato ad essere fagocitato e omologato dalla "tolleranza repressiva" dell'altro paese e del suo sistema).

 

In conclusione: all'epica tutta descrittiva dell'aforisma "la violenza levatrice della storia" preferisco opporre l'asimmetrico aforisma femminista "mettere al mondo il mondo", da intendersi come il massimo della criticità, della radicalità e della lotta.

 

Pasquale Voza

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da liberazione del 28-1-'04

 

MA SI PUO' COSTRUIRE QUALCOSA A PARTIRE DA UN CUMULO DI MACERIE?

Gianluigi Pegolo (Responsabile  DIPARTIMENTO REGIONI E AUTONOMIE LOCALI PRC)

 

Confesso che il dibattito avviatosi su "Liberazione" pone un problema di non facile soluzione, e vale a dire l'individuazione di quale sia l'effettivo oggetto del contendere. Dato il grande spazio concesso al tema della "non violenza" si potrebbe pensare che questo sia il cuore del problema, in verità esso è solo un tassello di un dibattito ben più ampio. Per i temi e il modo con cui questi sono stati affrontati a me pare che, di fatto, la questione che è rimessa in campo sia la solita e, cioè, se abbia senso impegnarsi per la costruzione di un partito comunista, a meno di non concepire tale costruzione come la salvaguardia di un puro simulacro di cui si conservano i simboli mentre se ne svuotano i contenuti. Ma veniamo ad alcuni punti essenziali.

E cominciamo pure dalla questione della violenza. Molti fra quanti sono intervenuti (da Tronti, a Raniero La valle, ecc) hanno espresso posizioni che condivido. Che senso ha oggi questa palingenesi della non violenza? Se si vuole polemizzare con comportamenti sbagliati a sinistra che praticano (soprattutto simbolicamente) forme di lotta discutibili sarebbe sufficiente richiamare queste forze nei momenti dovuti (ma, guarda caso, ce n'e voluto prima di smettere di civettare con queste forme di protesta). Se si vuole teorizzare che la guerra preventiva e il terrorismo esauriscono il campo della violenza possibile bisognerebbe allora per lo meno spiegare che fine ha fatto il concetto di resistenza. In ogni caso, che senso ha assumere la non violenza come categoria metastorica? E se, come ha posto Ingrao (utilizzato il più delle volte solo per le affermazioni che tornano comodo), ci si trovasse nella necessità di reagire all'aggressione?

 

Marginalmente, vorrei tornare sulla vicenda delle Foibe e dei fatti di Venezia. Da quando in qua uno degli errori fondamentali che avrebbe commesso la sinistra sarebbe stato quello di "angelizzare" la resistenza? Forse che il problema fondamentale che abbiamo di fronte è di contrastare l'apologia della violenza resistenziale? Non scherziamo. Se vi è oggi un problema è semmai quello di respingere un'iniziativa revisionistica che punta a fare di tutta un'erba un fascio, mettendo repubblichini e partigiani sulla stessa barca, in nome di una comune ispirazione patriottica o del rispetto che si deve comunque alla vita umana. Vorrei anche mi si spiegasse come mai a Venezia i nostri rappresentanti istituzionali abbiano accettato la modifica del nome di una piazza al fine di celebrare i martiri delle foibe.

 

E, da questo punto di vista, mi permetto di chiedere: da oggi in poi i nostri amministratori in giro per l'Italia, di fronte ad iniziative analoghe promosse spesso dai DS (il più delle volte per fare l'occhiolino all'elettorato di destra), cosa dovranno fare? Forse accodarsi?

 

Le interpretazioni date nel partito di questo dibattito sulla violenza non mi hanno convinto. Alcuni hanno insinuato che si trattasse del prezzo da pagare per entrare nel salotto buono della borghesia, nella prospettiva dell'entrata al governo. A me pare che vi sia qualcosa di più profondo, e cioè il tentativo di definire un nuovo profilo di questo partito e del suo ruolo. Consideriamo alcune affermazioni emerse nel dibattito. Il compagno Bertinotti su una recente intervista su Il manifesto ha testualmente detto: "Vorrei vederlo in faccia uno che oggi dica voglio fare un partito marxista o leninista". Come debba essere intesa questa frase (per me sorprendente) lo s'intuisce successivamente dove, di fronte alla domanda sul senso che a questo punto assume il riferimento al comunismo, la risposta è assai indicativa: "la parola comunista ha un valore, ma non dice "io vengo da li", bensì "io vado la". Quindi, il comunismo ha un senso se fa "tabula rasa" della sua storia. In questa storia, naturalmente, non c'è solo Stalin, c'è Lenin e anche il nostro povero Gramsci, che ora comprendiamo come sia stato frettolosamente cancellato dal nostro statuto.

 

La domanda da porsi è la seguente: ma si può costruire qualcosa a partire da un cumulo di macerie? La risposta che ci viene è non meno sconcertante. Essa sta nel riferirsi all'assunzione dell'esperienza pratica dei movimenti, escludendo ogni riferimento ad alcun elemento teorico dato, ma anche semplicemente ad ogni riflessione sull'esperienza del passato. In questo contesto, è il movimento a farsi soggetto d'egemonia. E' il movimento, insomma, che si assume il compito di svolgere il ruolo di intellettuale collettivo e, in ultima analisi, di guidare la trasformazione. Ma qui sorge una prima questione e cioè quella della presa del potere. In che modo, insomma, questo movimento può trasformare la società, a maggior ragione se ormai gli stati nazionali non esistono praticamente più, se il nuovo potere imperiale è tanto forte quanto spazialmente inafferrabile? In primo luogo, mi pare, che a questo quesito si tenti di rispondere attraverso alcune scelte: con l'assunzione della centralità delle nuove "moltitudini" e considerando praticamente azzerata la dimensione della sfera politico-istituzionale; in secondo luogo con l'assolutizzazione, come forma di lotta, della non violenza, scelta considerata obbligata di fronte agli enormi squilibri nei rapporti di forza con l'impero, ed infine, col rifiuto della presa del potere come occupazione della sfera politico istituzionale. Qui il cerchio si chiude.

 

A questo punto, però, il trascendimento del capitalismo non si comprende proprio da cosa nasca. Non si giova più di una contraddizione principale (quella fra capitale e lavoro), non è supportato più da soggetti sociali ben definiti, non può avvalersi delle contraddizioni interimperialistiche, non ha avversari ben riconoscibili e aggredibili. Si capisce, allora, perché parlando di comunismo si finisce con l'alludere ad un non meglio precisato "di la da venire", ad un affascinante, quanto vago, '"altro mondo possibile" i cui connotati restano, per l'appunto, ancora largamente indefiniti.

 

Gianluigi Pegolo

 

Intervento di Nichi Vendola (deputato del PRC)

 

Quanti spettri si aggirano nel nostro dibattito! Sono le nostre biografie, talvolta giocate a tumulare il futuro nei sepolcri della tradizione. Sono le ombre sinistre dell'ortodossia, sempre accaldate dai sudori dello storicismo. Sono i fantasmi della nostra sconfitta, esorcizzati dal restauro pedante della dottrina.

Ma come si fa ad invocare sempre e comunque, come un riparo di fortuna, i tornanti aspri della storia globale pur di non guardare mai in faccia la storia parziale del comunismo novecentesco? Certo che sono avvitati in un nesso inscindibile, la nostra "parte" e il "tutto" di un secolo infuocato, certo che la storia non si taglia a fette con la lama dell'opportunismo, certo che non serve abusare di codici moralistici per recidere la radice del male: ma l'impressione è che ci sia chi preferisca, ancora oggi, l'agiografia al posto del costume critico, la narrazione delle glorie piuttosto che la trattazione degli orrori.

 

Il Gulag è un esito che non consente alibi, giustificazioni, contorsionismi semantici. E non è inscrivibile in nessuna rubrica degli errori e delle degenerazioni: appare come il compimento parossistico di quella statolatria, staliniana e comunista, che capovolse nel sangue il senso stesso di una missione che intendeva liberare le masse dalla separatezza gerarchica della statualità. La centralità esponenziale del primato del Politico (il Partito, la macchina dello Stato, fino al Partito-Stato) è lo snodo, teorico e pratico, di una parabola nata e morta con il Novecento: non a caso, nella straordinaria libertà intellettuale del suo esilio carcerario,

Gramsci intuisce la deriva dello stalinismo e contemporaneamente reagisce alla lettura "crollista" della crisi capitalistica, elabora la teoria dell'egemonia e della "conquista delle casematte", pur mentre si cimenta con le ragioni di lungo periodo della sconfitta del movimento operaio europeo. Il Partito non fu un "moderno Principe" o un "Intellettuale collettivo", come nella suggestiva provocazione gramsciana, ma una nomenclatura autoreferenziale e sacralizzata, un'entità metafisica: sovraordinatrice e indiscutibile. Il Potere non fu sciolto dal fuoco della libertà di massa e dell'autogoverno, ma congelato e cristallizzato da una burocrazia che lavorò alacremente per ibernare ogni movimento sociale e per privatizzare la politica come contenzioso interno ad una casta sacerdotale.

 

Ogni storia ha la sua storia. Ma il Gulag torna come un chiodo fisso in questa parodia tragica del "sogno di una cosa": in Siberia, in Cina, nella Corea del Nord. Come l'icona indicibile di una pedagogia autoritaria e funebre, come punizione salvifica del nemico effettuale e di quello potenziale, come pianificazione della superiore verità di un Politburò o di un Comitato Centrale. Senza rompere qui, dove c'è l'eredità di quella cortina di ferro che possiamo chiamare "autonomia del politico", non saprei come ricominciare a pensare il comunismo: non per civetteria da tardo-utopista, bensì come bisogno e necessità di un pianeta soffocato dal dolore sociale e dalla guerra infinita. Senza questa rottura non saprei neppure rivendicare il "filo rosso" (politico, non solo emotivo e morale) con la vicenda straordinaria di milioni di persone che, nel darsi il nome di comunisti/e, fuoriuscivano dall'anonimato senza storia delle plebi, costruivano la politica come liberazione dall'ingiustizia, introducevano nella modernità le domande più radicali sulle relazioni sociali e sui rapporti di produzione.

 

Occorre volgere lo sguardo all'indietro, non per celebrare e magari sopravvivere. Ma per vivere, per capire, per imparare. Una critica comunista del comunismo novecentesco non è un lusso per il tempo libero, ma la pre-condizione della fatica della rifondazione. E storicizzare non significa giocare a nascondino con i buchi neri della nostra storia, trovare sempre contesti che occultano e omettono a piacimento, ridisegnare i fatti dentro una sorta di esegesi provvidenziale. Altrimenti anche certa ridondanza storicistica diventa una fuga metafisica dalle proprie responsabilità.

 

Ci pesa questo passato, impaccia i nostri passi di libertà: se fossimo un museo, andrebbe bene. Ma siamo un partito che non si sente orfano della P maiuscola, che non si sente depositario del bene e del male, che non intende mai più dispensare sentenze di vita e di morte, che non ha la presunzione di presentarsi come la sintesi matura del movimento e del conflitto sociale. Per crescere, un partito così deve essere agìto e vissuto come uno dei luoghi in cui si pensa e si pratica una grammatica inedita del rapporto tra comunità e libertà.

 

Il Novecento si è schiantato sotto il peso di una sconfitta e di una vittoria. La nostra sconfitta. La vittoria del Capitale come ideologia della fine della storia, cioè della estinzione del pensiero critico e come generalizzazione molecolare dei processi di mercificazione. Il Potere, nel tempo della globalizzazione liberista, non ha un Palazzo d'Inverno ma infinite e stratificate "zone rosse": nella produzione, nella riproduzione, nella gerarchia dei valori e delle forme di coscienza, nel corpo sociale e persino nel corpo individuale. Espugnare ciascuno di questi territori proibiti, sabotare ciascun deposito di comando autoritario, disobbedire alle leggi del diritto del più forte, disarmare la macchina della guerra preventiva e permanente: questi sono i compiti a cui ci ha allenato il "movimento dei movimenti". Sapendo che il capitale del Capitale è nei codici profondi della cultura, dei saperi, dell'immaginario: dove si costruiscono i sogni e gli incubi dell'umanità, dove si eternizza la barriera sociale e si naturalizza l'oppressione, dove si costruisce ogni gerarchia e ogni frattura tra i sessi e tra individui e tra fedi e tra popoli, dove si proietta la vita intera nella guerra e la guerra intera nella vita.

 

Noi siamo figli di una vicenda che indicò alla brutalità necessitata dei mezzi la soglia alta di un fine supremo: trascendere la violenza ontologica del capitalismo. Abbiamo imparato che i mezzi cattivi si mangiano il fine buono, e cioè che i mezzi sempre prefigurano il fine: e non sto parlando dei vietcong o dei partigiani, ma del comunismo che si appropria del monopolio statuale della violenza. Non voglio mettere le brache alla storia, voglio rischiare qualcosa o molto di me stesso nel costruire la più radicale pratica di trascendimento della costituzione materiale e simbolica del potere e della sua violenza: non voglio che il mio antagonismo produca azioni (e immagini) simmetriche alla violenza che combatto. Non voglio che l'ombra del mio avversario (che è una forma del potere e dell'organizzazione sociale) mi divori l'anima, mi disumanizzi, mi faccia smarrire il senso stesso della rivoluzione che sarà, che è già cominciata: non un assalto alla baionetta, ma un processo largo e profondo di costruzione di un "nuovo mondo possibile".

 

Nichi Vendola

 

Nuove forme

di politica

Caro direttore, a rompere il processo storico oggi è proprio la violenza della guerra e del terrorismo. Difatti l'effetto dialettico della guerra della vergogna mossa da Bush contro l'Iraq ha prodotto il trionfo del movimento per la pace che ha attraversato il mondo intero. Gli operatori di pace non sono solo i gruppi pacifisti, ma la società civile mondiale che si è convinta (infine) che la guerra, qualunque guerra, non è la soluzione per nessun problema. Essa è un problema per l'umanità, poiché, se non fosse tenuta a bada, come Hiroshima insegna, metterebbe fine all'umanità. Saper cioè costruire l'alternativa su un terreno "altro" da quello in cui ci vogliono imporre di stare. Scegliere la strada di disertare lo scontro militare per la conquista del potere - ma cercare altresì, come direbbe il subcomandante Marcos - di "destrutturare il potere" attraverso nuove forme della politica e della partecipazione democratica è solo un primo passo per gettare le basi di questa alternativa, l'altro mondo possibile, il nostro non-modello di ciò che con un po' di pudore per l'emozione, chiamiamo ancora comunismo.

Daniele Lombardi Lucca

 

Come rinunciare

all'uso della forza?

Caro direttore, personalmente sarei stato ben lieto di indossare un casco a Genova, dal momento che il mio atteggiamento del tutto inoffensivo non mi ha evitato due punti in testa... Naturale che l'avversario, quanto più ferocemente esercita in tutto il mondo il suo dominio, tanto più chieda ai suoi antagonisti di essere non violenti. Comprensibile è anche la necessità di contrastare l'indebita assimilazione tra conflitto sociale e violenza proclamando la nostra "ispirazione" non violenta. Altra cosa però è la rinuncia all'uso della forza quando ogni altro mezzo è impossibile, e questo non solo per quanto riguarda il passato: cosa accade quando la spinta alla trasformazione sociale si scontra con la resistenza dei poteri costituiti, loro sì capaci di tutto?

Marco Schettini Roma

 

La nonviolenza

è rivoluzione

Caro direttore, contrariamente a quanto sostenuto da Cannavò, Casarini e Bersani, penso che la scelta della nonviolenza come forma di lotta di liberazione dallo sfruttamento strutturale dell'economia capitalista non sia dettata da una lettura idealistica (e pertanto mistificante) della realtà, bensì credo che tale scelta affondi le proprie motivazioni nell'analisi materiale e storica dei modi di produzione e degli attuali rapporti politici e di forza che ne derivano. Lo stato delle cose è dato dalla violenza della classe dominante e dalla guerra militare, economica e sociale scatenata dal capitalismo globale contro la periferia del mondo, contro i diritti dei lavoratori, degli studenti, e contro la dignità di miliardi di persone. Abolirlo oggi significa essere radicalmente diversi. Il sistema si regge sulla violenza permanente: pertanto scegliere la nonviolenza, la pace e la giustizia come pratiche di vita quotidiana e come orizzonte di liberazione significa costruire e fare la rivoluzione.

Matteo Saudino Lega obiettori di coscienza, Torino

 

Il Movimento

fa paura al Sistema

Cara "Liberazione", gli scudi in plexiglas terrorizzano il Sistema? Il taglio delle pompe forse o l'abbattimento delle zone rosse? E' il Movimento, vasto, Mondiale, radicale nei contenuti, capace di cambiare le coscienze, il senso comune, capace di mettere in discussione il Pensiero Unico e di vincere su questo versante (vedi Cancun) che fa paura a Lor Signori. La repressione su pochi, e lo abbiamo detto da sempre, da Genova 2001 in poi, ha lo scopo di delegittimare tutto il Movimento, e questo sì fa paura al Sistema, che vuole far passare tutto il Movimento come violento, e quindi neutralizzarlo, renderlo incapace di mobilitare, di coinvolgere ed in sostanza impedire che si rivoluzionino i rapporti di forza reali nella società. Per disarticolare ed annullare questo Loro progetto noi, ora, che facciamo? Ne sono convinta, la non violenza, senza se e senza ma. Oppure pensate che ci troviamo di fronte ad una situazione come nel '21 con una repressione di massa e sul ciglio di una guerra civile?

Lucia Mielli S. Benedetto del Tronto (Ap)

 

I violenti

sono loro!

Gentilissimi compagni, questo dibattito sulla non-violenza avviene perché veniamo imputati dalla classe dirigente, ingiustamente, come violenti e subiamo questa pressione. Per me la questione è facile. I violenti sono loro! Si attribuisce la violenza alle radici del comunismo (appunto per la pressione borghese), anche tra molti di noi. Ci si dovrebbe domandare che cosa avrebbe dovuto fare quella giovane repubblica, che aveva firmato la pace e chiamava a tutta l'Europa di non combattere, contro gli attacchi dell'Europa borghese e degli Usa? Non difendersi? Mettere giù le armi e provare un'altra volta con manifestazioni pacifiche? Gli argomenti portati avanti dai pacifisti sono astratti ed ignorano i fatti. Noi non siamo violenti perché siamo le vittime della violenza. Questo non significa che non dovremmo difendere i nostri diritti umani con la violenza quando fosse necessario. La questione è coinvolta con lo stato di coscienza del popolo e come questa violenza viene percepita - necessità del momento, o inutile.

Sante Camo New York

 

Il terreno di lotta

non lo scegliamo noi

Caro compagno Curzi, penso che Mario Tronti abbia perfettamente ragione, in particolare quando ritiene che le forme di lotta violenta intraprese dai comunisti nel corso della loro lunga storia non sono state volute dai comunisti stessi e dal movimento operaio, ma essi sono stati costretti ad adottarle perché in tali circostanze quello era il terreno concreto di lotta né ci si poteva estraniare dalla lotta. Potevano forse i partigiani utilizzare metodi non violenti di lotta contro la violenza nazifascista? Sarebbe veramente ingenuo ed antistorico rispondere affermativamente a questa domanda. Come ci insegna il marxismo esiste una fondamentale differenza tra il pentimento, che non ci appartiene, e l'autocritica che è parte integrante del nostro modo di fare politica.

Pablo Genova Pavia

 

Se avessero ragione

le donne?

Caro direttore, vedo i rischi dello schematismo nel modo di porre la questione della nonviolenza (e, tuttavia, mi ha colpito il fatto che le uniche voci di dissenso rispetto ad essa siano voci, e scritti, di segno maschile. Certo, può essere un caso. Ma forse no. E se, ancora una volta, avessero ragione le donne?). L'idealismo lo vedo, al contrario, dalla parte di chi, sorvolando sull'esperienza storica (e sui suoi fallimenti), tratta i temi della "forza", della "rottura rivoluzionaria", del "progetto", dell'"organizzazione" (in altri termini la "teoria della rivoluzione") come propedeutici rispetto all'azione politica nel vivo del movimento reale. Contraddicendo, in tal modo, non solo il Marx che ragiona sulla Comune, ma lo stesso Lenin che costruisce, sperimentando sul campo, sia il partito bolscevico che le politiche successive al 1917, compresa la Nep. Per non parlare di Gramsci, il quale pure fu a suo tempo accusato di idealismo e gradualismo nel suo ragionare sulla complessità del tema della rivoluzione in occidente, la centralità della questione contadina, la conquista della società civile, la reimpostazione in senso non meccanicistico del rapporto fra struttura e sovrastruttura, compiendo qui un'innovazione teorica di non poca portata, poiché giungeva a contemplare il cambiamento strutturale anche a partire dall'azione sovrastrutturale (Cosa è, d'altronde, avvenuto nel '68? E cosa col movimento femminista? E cosa avviene, oggi, col movimento dei movimenti?).

Claudio Buttazzo Bologna

 

E' possibile un'azione

di forza nonviolenta

Gentile direttore, la mia impressione è che ci sia una grande confusione di termini: per esempio si continua a confondere la parola forza con la parola violenza. Ma proprio il caso di Milano ha dimostrato la forza di un'azione nonviolenta che ha consentito ad un attore sociale, la parte più debole, di vincere. Quindi, forza e violenza non sono sovrapponibili: ci può essere un'azione di forza violenta come un'azione di forza nonviolenta. Noi obiettori di coscienza abbiamo fatto la nostra "rivoluzione culturale" cambiando mentalità, atteggiamenti e leggi. E senza fare neanche un morto. A quale prezzo? Con anni di galera scontati nei carceri militari che negli anni sessanta erano tutt'altro che alberghi a tre stelle e, dopo la legge del 1972 che ha finalmente riconosciuto l'obiezione di coscienza, con milioni di ore di servizio civile fatto da decine di migliaia di giovani che hanno servito la "Patria" aiutando le fasce sociali più deboli, occupandosi dell'inquinamento o della protezione ambientale o di quella civile. A chi dice che la nonviolenza è una pratica che non esiste rispondo che non sa o non vuol vedere e se la violenza ha portato tragedie perché vogliamo continuare a "farci del male"?

Sergio Bergami Padova

 

Non porgiamo

l'altra guancia

Caro direttore, se si accetta - e mi pare scontato - la realtà della società divisa in classi, del colonialismo, dell'imperialismo, del nazifascismo, e delle dittature anticomuniste (come "longa manus" yankee), appare in tutta evidenza l'inaudita violenza perpetrata ai danni di milioni di esseri umani, derivata dal feroce sfruttamento quotidiano, dalle guerre di aggressione verso popoli inermi e dalla cancellazione dei più elementari diritti umani. Mi pare inutile in questa sede dilungarci sui crimini del capitalismo come anche su quelli commessi da alcuni regimi totalitari pseudocomunisti, ma credo sia più opportuno affermare il diritto/dovere alla resistenza e alla ribellione contro l'oppressione. Quali forme queste debbano assumere non possono essere codificate "a priori", ma è la Storia stessa a determinarli, in base alle contingenze, ai rapporti di forza, alle scelte collettive e alla cultura di chi si oppone al "tallone di ferro". Altro principio-guida irrinunciabile è senz'altro che i fini non giustificano i mezzi. Nel senso che non sempre tutto è lecito perché attuato contro l'oppressore: crudeltà, stermini indiscriminati contro civili, sono, ad esempio, azioni di aborrire non solo perché eticamente intollerabili, ma perché confondono i connotati tra aggressore e aggredito, tra oppresso e oppressore, perché impediscono un'immediata individuazione tra causa giusta e causa scellerata. In una parola, giusta è la linea di condotta attuata dalla resistenza contro il nazifascismo. Insomma, fini e mezzi debbono coincidere.

Roberto Giuliani

 

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da "il manifesto" del 28 Gennaio 2004

 

Ma i pacifisti fanno politica

Una possibilità L'idea di Bush che fosse possibile intraprendere una successione di guerre, si è ridimensionata grazie alla reazione mondiale al conflitto in Iraq

GIOVANNI PALOMBARINI,

 

L'ampio dibattito che si è aperto a seguito dell'intervento di Venezia sulle foibe di Fausto Bertinotti e dell'intervista di Liberazione a Pietro Ingrao su guerra, violenza e pacifismo ha proposto tematiche di carattere storico e contemporaneamente, intrecciati a considerazioni di prospettiva, due quesiti di assoluta attualità. Per quel che concerne le prime è ovvio che la riflessione finisca per investire, accanto agli storici, soprattutto coloro che in un modo o nell'altro sono stati i protagonisti delle vicende politiche del Novecento. Per tutta una serie di altri soggetti l'idea della violenza, o se si vuole lo schema della rivoluzione come assalto armato al palazzo d'inverno, è infatti superato da tempo. Non si tratta di una questione di "pentimento", bensì più semplicemente del fatto che quello schema non è mai appartenuto ai protagonisti dei movimenti che a livello mondiale propongono oggi l'idea che un altro mondo è possibile: ciò in larga misura per ragioni generazionali, ma anche per effetto dello svilupparsi di tante militanze politiche - concrete esperienze individuali su una serie di specifici problemi - in totale discontinuità, soprattutto dopo l'esperienza e la caduta del socialismo reale, rispetto a quella cultura, a quelle teorie. Ha notato giustamente Bertinotti, a proposito della violenza che a volte viene imposta a questi soggetti, com'è avvenuto a Genova, come i nuovi movimenti rifiutino la stessa spirale repressione-violenza. Dunque, per questi nuovi protagonisti, che si sono fatti vedere sulla scena mondiale da Seattle in poi, non ha molto senso il contenzioso esplicito, che Marco Revelli auspica, con i vecchi paradigmi politici, con l'idea della guerra che si aveva nel Novecento anche a sinistra: per la semplice ragione che per loro si tratta di tematiche già fuori dal loro orizzonte d'azione.

 

I quesiti invece, in quanto riguardano presente e futuro della sinistra, sono di grande interesse e coinvolgono inevitabilmente tutti. E cioè: che cosa si fa contro la violenza armata dell'aggressore (quesito complicato, anche perché, come ricorda Mario Tronti, le guerre recenti sono state spesso intraprese da Stati, o addirittura da coalizioni di Stati, che sono organizzati a democrazia e hanno quindi una loro "legalità"), qual è l'efficacia politica del pacifismo. Due quesiti strettamente legati fra loro, così come i tentativi di risposta che pochi, nella difficile situazione data, si sentono di proporre.

 

L'efficacia politica del pacifismo. Prima di cercare di pensare ai modi, ai meccanismi idonei a dargli forza, ad assicurarne l'efficacia, conviene riaffermare che oggi il pacifismo non è solo un'istanza etica, un'aspirazione di ogni persona degna di questo nome, ma è tout court politica. I milioni di persone che in tutti i continenti sono scesi in piazza nel febbraio 2003 non esprimevano soltanto un'altra idea del mondo, ma l'affermazione di un diritto, quello alla pace, della realizzazione del quale i governi, di qualunque orientamento, venivano politicamente invitati a farsi carico. 110 milioni di persone sulle strade di tutto il mondo con la stessa bandiera costituiscono un fenomeno mai visto: una gigantesca "ola" planetaria durata ventiquattro ore, la seconda superpotenza mondiale ha scritto un quotidiano statunitense.

 

Certo, una superpotenza disarmata, a fronte della prima che ha più di cento basi militari e innumerevoli governi "amici" sparsi per il mondo. Ma basta questo rilievo a considerare il movimento pacifista un fenomeno isolato, senza rilevanza politica o comunque sommerso dal rumore delle armi? E' un quesito che non merita sbrigative risposte riduttive, in primo luogo perché quel movimento è tuttora vivo se è vero, com'è vero, che da allora è ricomparso sulla scena più volte e che il recente social forum di Bombay ha ritenuto possibile indire per il prossimo 20 marzo una giornata mondiale di mobilitazione in occasione dell'anniversario dell'invasione dell'Iraq; e poi perché la prospettiva di convergenze possibili si è già intravista. Il dato è solo iniziale, e però è avvenuto che quel movimento, in alcuni paesi, si sia già avvicinato - certo, ciò non vuol dire che si sia saldato, essendo questo un obiettivo ancora tutto da realizzare - a lotte di altra natura che riguardano rivendicazioni di diritti sociali fondamentali. Quante erano nel nostro paese le bandiere della pace alla manifestazione del marzo 2002 al Circo Massimo o nei cortei degli scioperi generali o a piazza S.Giovanni alla manifestazione dei "girotondi"? E a livello internazionale la presenza delle associazioni pacifiste nei vari social forum è stata forse marginale? Ma poi, la stessa definizione di "associazioni pacifiste" rischia di essere riduttiva, se solo si pensa al loro impegno su altri versanti, come ad esempio quello dei diritti dei migranti. Dunque, la convergenza dei movimenti, la saldatura di quella per la pace ad altre lotte appare possibile.

 

Certo, Alberto Burgio sottolinea come il pacifismo corra il rischio di lasciare il terreno della politica per quello dell'utopia se non si misura con il fatto che, al di là di questo nostro angolo di mondo, vi sono popoli - dai palestinesi agli iracheni - quotidianamente alle prese con la violenza dell'occupazione militare. E però, senza aprire qui il problema delle forme e dei limiti del diritto di resistenza (o quello della disobbedienza, che in effetti il movimento pacifista non ha ancora affrontato), va detto che proprio in Medio Oriente le speranze di pace si sono fatte più concrete da quando i pacifisti del popolo israeliano e di quello palestinese si sono incontrati e hanno proposto al mondo il patto di Ginevra.

 

I meccanismi per incidere sui poteri. Intanto questa crescente convergenza dei movimenti è già uno strumento di possibile efficacia politica, cioè di produzione di risultati concreti contro le politiche di guerra. L'idea dell'amministrazione Bush che fosse possibile intraprendere in tutta tranquillità una successione di guerre a una serie di paesi si è oggi ridimensionata anche per la reazione che a livello mondiale il pacifismo ha determinato in occasione della guerra all'Iraq. E' di tutta evidenza che per i neoconservatori è oggi molto più difficile programmare aggressioni a Siria, Corea, Iran e altri paesi ancora. Va tra l'altro ricordato, a proposito degli Stati Uniti, che in quel paese il pacifismo ha tradizioni importanti, e che dopo lo sbandamento post 11 settembre attualmente ha ripreso voce.

 

Ma poi, è nato di recente a Berlino il partito della sinistra europea. Ovviamente è immaginabile che verranno innanzitutto cercate convergenze su tematiche tipiche, come la difesa dello stato sociale e dei diritti del lavoro dipendente contro le logiche dominanti della precarizzazione a 360 gradi. E però non è pensabile che, proprio nell'ottica di costruire un'alternativa praticabile ai governi di destra o neocentristi legati alle logiche della globalizzazione liberista, quel partito non si ponga il problema del come fare propri i contenuti e i valori, compreso quello della pace, e la complessiva istanza di radicalità del movimento dei movimenti; del come fare avanzare sul terreno della politica quel poderoso insieme di istanze, certamente democratiche e di segno alternativo rispetto alla tendenza in atto, anche per reagire alla violenza delle aggressioni armate.

 

Questa sembra una strada obbligata per qualunque forza politica di sinistra. E sarebbe una stravaganza, arrivati a questo punto di impossibilità anche ideale di contrapporre guerra a guerra, trascurare la possibilità di interpretare anche a livello delle istituzioni, interne e internazionali, valori e istanze nuove, pragmatiche ma piene di contenuti di progresso reale, dei movimenti. O non fare proprie con convinzione, per rafforzarle, le prospettive aperte dal patto di Ginevra.

 

A questo proposito, a proposito dei meccanismi e di istituzioni internazionali. Può passare l'efficacia politica del pacifismo attraverso la riforma e quindi un rilancio del ruolo dell'Onu? Può essere questo un obiettivo realistico delle forze di sinistra? Qui molti scrollano le spalle con un misto di incredulità e delusione. Secondo alcuni la riforma è impossibile. L'aspirazione in tal senso non sarebbe realistica perché gli Stati che hanno oggi una posizione di forza nell'organizzazione non hanno alcun interesse a cambiare, a rinunciare ad esempio al diritto di veto. Questa è però una risposta statica, che non tiene conto di evoluzioni possibili, politicamente configurabili. Certo, è un dato di fatto che quella americana è in termini militari l'unica potenza mondiale, in grado di prescindere dall'Onu. E però. Le ultime iniziative dell'amministrazione Bush, che pure ha ritenuto di poter sviluppare la sua politica imperiale al di fuori di ogni regola del diritto internazionale, si misurano oggi concretamente con difficoltà non previste - secondo molti osservatori l'Iraq è sull'orlo della guerra civile - che ben difficilmente potranno trovare una soluzione senza interventi multinazionali, pensati e realizzati al di fuori della logica dell'occupazione del territorio di questo o di quel paese. Tant'è che l'amministrazione Usa va cercando continuamente, e con disponibilità crescente a qualche cedimento, una copertura proprio dell'Onu.

 

D'altro lato, le ex grandi potenze, abbiano o no il diritto di veto, giunti a questo punto della strapotenza Usa hanno un'oggettiva esigenza di poterla almeno condizionare, se non contenere, attraverso istituzioni internazionali universalmente legittimate e credibili. Questa è una strada ben più realistica di quella, inaccettabile, della costruzione di una potenza armata europea (che, a tacer d'altro, non potrebbe mai raggiungere il potenziale Usa). Dunque, se ciò è vero, sono concrete ragioni di convenienza quelle che dovrebbero spingere in primo luogo l'Ue a fare politica internazionale muovendosi per una nuova valorizzazione dell'Onu. Dunque questo è un terreno sul quale le forze di sinistra - non solo i movimenti, ma anche quanto realisticamente vi è di sinistra politica organizzata in Europa; non solo quelle che Tronti ricomprende nella formula "forze cosiddette antisistema" ma anche, se possibile, quelle della sinistra ufficiale - possono muoversi per contrapporre (e imporre) la legittimità della pace alla "legalità" della guerra.

 

Qui poi sono possibili convergenze con istanze non trascurabili: prima fra tutte quella delle chiese, a cominciare da quella cattolica, che in nome della pace vanno auspicando proprio una riforma dell'Onu.

 

I signori della guerra e i media al loro servizio sono soliti definire l'Onu, con tono sprezzante, "uno dei tanti palazzi di New York". Ma chi vuole contrastarli con qualche efficacia? Per le sinistre europee l'occasione per riprendere l'iniziativa in direzione del rilancio potrebbe essere data dalla circostanza che il segretario dell'Onu ha istituito una commissione, che concluderà i suoi lavori in settembre, per studiare le modifiche di forma e di sostanza da apportare allo statuto dell'organizzazione. La sinistra europea ha anche questa strada per riproporre la legittimità della pace. Sarebbe un peccato se la considerasse un fatto tecnico politicamente irrilevante o comunque irraggiungibile, non influenzabile.

 

Tutto queste dinamiche, se attivate insieme nei movimenti e nelle istituzioni praticabili, possono determinare processi nuovi all'interno della superpotenza Usa? E' ovviamente soprattutto una speranza. E però che in quel paese possa crescere un ceto politico nuovo che sappia rompere con la follia della guerra permanente dipende anche da una simile pressione. Che nella mondializzazione la politica estera abbia un inevitabile primato non significa che agli Stati Uniti convenga riproporre a tempo indeterminato quella - i cui costi, anche in termini di vite umane perdute ogni giorno, sono sotto gli occhi di tutti - che l'amministrazione neoconservatrice sta conducendo al di fuori di ogni regola del diritto internazionale. Qui i cambiamenti dipenderanno anche dalla continuità del pacifismo e dall'iniziativa delle forze che vogliono interpretarne le istanze.

GIOVANNI PALOMBARINI

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da Liberazione del 29-1-'04

 

UN ELEMENTO IRRIDUCIBILE: LA LOTTA DI CLASSE

Bruno Steri

 

C'è qualcosa in questa discussione su violenza e nonviolenza che - al di là di un'apparente evidenza delle tesi in questione - fa pensare a quelle che un filosofo designava come "ruote che girano a vuoto", concetti solo apparentemente pieni e che comunque - sul terreno politico - producono effetti ben concreti, spostando nella fattispecie l'asse strategico e ideale del Prc. A me pare che in ciò vi sia un passo indietro anche rispetto alla ripresa dell'autorevole tradizione del marxismo etico italiano (Della Volpe, Napoleoni), rintracciabile nel recente libro di Bertinotti e Gianni 'Le idee che non muoiono'.

Giustamente, a proposito del ricorso alla natura generica e astratta delle anzidette nozioni, si è parlato di approccio "metastorico" e "metapolitico" (Maitan): aggiungo che esse sono un perfetto esempio di fuorviante semplificazione ideologica. Violenza: nozione passe-partout che sommariamente compendia fenomeni diversissimi (non solo storicamente e politicamente, ma anche eticamente) quali ad esempio il terrorismo e la resistenza all'aggressore. E' comprensibile che Cannavò e gli altri auspichino un'articolazione del discorso che recuperi i "casi concreti": e non perché non comprendano il tema generale della connessione tra violenza e potere (come ritiene Franco Russo), ma perché mi pare vogliano sfuggire alla genericità tutta ideologica di un ragionamento (Revelli) che, dal lato del giudizio storico, mette in un unico sacco tutto un secolo ("di orrori") nonché un'intera cultura ("della violenza" appunto); e, dal lato della prospettiva politica, non sa concretizzare l'auspicio nonviolento in una credibile "politica" (Tronti), in una circostanziata strategia di resistenza all'aggressività imperialista.

Sfuggire alla realtà effettuale è un lusso che possono permettersi (e per fortuna che lo fanno) romanzieri e poeti; ma a chi - come Revelli - intende offrire una concreta alternativa storica a quel che è stato per lui l'antagonismo "muscolare" novecentesco, non è consentito semplicemente di metaforizzare su un "uso della parola e del racconto". Non a caso, pur aderendo all'impostazione nonviolenta ma volendo sfuggire a simili nebbie, Gagliardi/Curzi sono costretti a ricordare che non intendono né indebitamente "proiettare sul passato idee del presente" né criticare chi ricorre alle armi in "luoghi dove la nonviolenza è difficile o pressoché impossibile": non rinunciano ad esempio alla verità storica che in Vietnam, grazie ad una lotta di liberazione armata, l'imperialismo Usa battuto sul campo ha ripiegato e un intero sistema coloniale è imploso.

Fascismi e imperialismi non sono degli accidenti della storia: è da qui che si impone il tema dell'efficacia della nostra azione. Sono convinto che, paradossalmente, il colpo più duro in questa discussione lo abbia inferto proprio Pietro Ingrao, con le sue domande secche: "Cosa si fa contro la violenza armata dell'aggressore? ", "c'è o no un obbligo di resistere anche con le armi, un diritto alla difesa? ", "Come si incide sui poteri? ". Bisogna essere chiari: come dal loro punto di vista hanno intuito Folena e Caldarola, qui è in questione una radice profonda della stessa ispirazione marxiana. E precisamente il fatto che c'è un elemento delle trasformazioni storiche che non attiene alla libera discussione razionale tra soggetti dotati di intelligenza e buona volontà, ma al confronto/scontro tra interessi sociali irriducibili (la "lotta di classe" appunto) da cui in qualche modo quei soggetti sono condizionati.

Tale consapevolezza non ha ovviamente impedito che, ad esempio in Italia, i comunisti abbiano da tempo scelto la pacifica strada della convivenza democratica, così come detta la nostra Costituzione antifascista. Ed oggi il Prc è proteso a cercare un accordo programmatico a sinistra per cacciare il governo delle destre: ma ciò non significa che sia disposto a barattare la sua ragione sociale, la quale - ricordiamolo - sin dall'inizio si identifica con il rifiuto di liquidare tutto ciò che profumi di comunismo.

Bruno Steri

 

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Il comunismo

è convivenza

Caro direttore, credo che ogni comunista debba sentire profondamente il rifiuto della violenza. Lo stesso Marx ha spiegato che il comunismo rappresenta il momento più alto della convivenza umana e della maturità dell'individuo, tanto che ha parlato, in questa fase della vicenda umana, della fine della violenza, della stessa lotta di classe; e quindi del superamento delle classi. Dobbiamo rifiutare, anche nelle lotte quotidiane, ogni forma di violenza ed emarginare chi nelle manifestazioni di piazza usa il casco, il passamontagna, bastoni e via dicendo. Alle manifestazioni, come ha detto Bertinotti al "Corriere della Sera", si va a viso scoperto e senza nessun "orpello". Credo che ogni comunista rifiuti poi il terrorismo. Il terrorismo è abominevole, oltre che politicamente nefasto. Detto questo, credo che vadano accettate e fatte proprie, seppure con spirito critico, le grandi Rivoluzioni che hanno cambiato il mondo e che, in quel contesto, sono state caratterizzate dalla violenza.

Francesco Lusciano Chioggia (Ve)

 

La lezione

di Zanotelli

Caro direttore, conosco Alex Zanotelli, in parte tramite un breve rapporto epistolare, avvenuto anni fa, in parte per averlo letto per tanti anni, sulle pagine di "Nigrizia" e sui suoi libri. Quello che fa Zanotelli è un'opera grande e utile, senza dubbio. Ma è lecito ricordare che la sua filosofia non è tutto. La nonviolenza affronta degnamente molti problemi, ma non li risolve tutti. Quando un popolo è oppresso oltre certi limiti, è suo diritto naturale ribellarsi e rivoltarsi. Ma c'è di più. Non occorre essere rivoluzionari per vedere che la rivoluzione, quando c'è, è un fenomeno inevitabile, è logica conseguenza delle premesse. Date certe condizioni, prima o dopo la rivoluzione si verifica per forza, proprio come lasciando un libro sospeso a mezz'aria, questo non può far altro che cadere. Marx e Lenin non hanno inventato una teoria personale, hanno analizzato, invece, il funzionamento del mondo, proprio come Newton studiò la meccanica e Maxwell studiò l'elettromagnetismo: c'erano già, non sono loro invenzioni. La storia ha sempre mostrato che quando le condizioni la rendono inevitabile, la rivolta e la rivoluzione si manifestano. I rivoluzionari possono accelerare il processo, ma ciò che fanno è solo collaborare ed aiutare un evento inevitabile. Studiare la nonviolenza va benissimo, ma fintanto che essa non sarà accolta sul serio da chi detiene il potere (cosa che, sfortunatamente, non avviene affatto), i comunisti non devono covare illusioni eccessive, e non devono dimenticare Marx e Lenin.

Vincenzo Zamboni Verona

 

Non è un valore

assoluto

Caro Curzi, Bertinotti è stato esplicito nell'affermare che la non violenza non va assunta come valore assoluto e, quindi, non va "pensata come valida in ogni luogo e in ogni tempo". Questa precisazione (forse sollecitata dai dubbi di Ingrao) è di fondamentale importanza, perché si innesta nell'alveo della tradizione comunista italiana, da Gramsci a Berlinguer, che ha sempre ispirato la sua azione politica ai principi della non-violenza senza, però, demonizzare scelte di altri movimenti che, per motivi oggettivi, hanno fatto uso della violenza e "non potevano essere gentili".

Lucio Piccoli Locorotondo (Ba)

 

Il comunismo,

percorso di liberazione

Cari Sandro e cara Rina, ho 29 anni e da poco (dal 2001) mi sono iscritta al Prc. Vorrei dire che ho sempre associato il comunismo all'idea di un percorso, certo tortuoso e non lineare, di emancipazione delle donne e degli uomini di tutto il mondo. Ora seguo con molto interesse il dibattito che si è innescato sulla rifondazione, la violenza la religione e il partito europeo. Sul passato riesco a stento a concepire alcuni giudizi sull'Urss, ma sinceramente non riesco proprio a considerare il Pc cinese interlocutore del movimento. Lasciando da parte i giudizi su un'economia del tutto integrata nell'economia capitalista globale (pensiamo alle zone dove si insediano le multinazionali Hi-Tec), ma è possibile considerare solo errori le migliaia di uomini e donne imprigionati perché sindacalisti, le fucilazioni negli stadi, l'impossibilità di recarsi all'estero. Per non parlare delle condizioni di lavoro e di vita dei cinesi. Se io fossi convinta della bontà di quelle società andrei là a vivere, se li si sono affermati valori e ideali di giustizia e libertà non ci metterei un attimo: farei le valigie e via! Mi chiedo in nome di quale comunismo a volte io milito e mi sforzo di affermare: di quei regimi proprio no, non vorrei essere portatrice e per questo vivo intensamente la rifondazione, il ritorno a Marx disincrostato dalla muffa dottrinaria, la rebeldia zapatista e il movimento altermondialista!

Cristin Casello Cesate

 

Quelle analisi

degli anni Venti

Cara "Liberazione", il dibattito in corso sulle pagine del giornale circa l'ideologia del partito, sta, anche questa volta, trascurando completamente il particolare che, dagli anni '20, una componente del Movimento operaio internazionale, quella della "Sinistra internazionalista", aveva già pienamente compiuto tutte le analisi opportune circa lo stalinismo, l'Urss e le sue degenerazioni, i Gulag e così via. Negli anni '50, il "settario" Bordiga aveva descritto con precisione ciò che sarebbe avvenuto ai tempi di Gorbaciov ed Eltsin. Divinazione? Nossignore! Analisi marxista di una realtà. Se si vuol analizzare il passato, non si può fare a meno di quel patrimonio teorico che aveva visto giusto, e da un punto di vista esclusivamente marxista.

Vincenzo Cerceo Trieste

 

La violenza

contro la violenza

Cara "Liberazione", innanzitutto impostare la discussione sul binomio violenza-non violenza mi pare quantomeno improprio. Neanche il più incallito fascista rivendicherebbe l'utilizzo della violenza in quanto tale. Così come in caso di guerra nessuno si autodefinisce guerrafondaio nessuno in relazione alla violenza, se dotato del bene dell'intelletto, si autodefinirà violento. Mi pare ovvio e scontato. A mio avviso, il vero quesito da porre, il vero nodo da sciogliere, è: nella lotta di classe è legittimo l'utilizzo della forza (della forza non della violenza, sono due cose estremamente diverse) per difendersi dalla violenza dell'avversario di classe? La risposta, ovvia e scontata, è sì. Senza scomodare la storia del movimento comunista, dalla Comune di Parigi, passando per la Rivoluzione di Ottobre e dal Vietnam fino ad arrivare ai giorni nostri, decenni di militanza nel movimento dei lavoratori mi hanno insegnato che i lavoratori non amano la violenza ma non amano neanche farsi mettere i piedi in testa.

Enrico Baroni via e-mail

 

Che significa

"rivoluzione"

Caro direttore, interpretare Marx come avesse semplicemente teorizzato una sorta di lungo processo culturale è una forzatura. Volendo citare una nota frase dell'"Ideologia tedesca" è bene far dire a Marx ciò che Marx disse: "...la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun'altra maniera, ma anche perché la classe che l'abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società". Infine, se non si vuole rinunciare a un orientamento strategico anticapitalista e a una uscita da sinistra dalle esperienze di "socialismo realizzato" non si imboccano vie utopistiche - gli "spazi liberati dal mercato", "le isole fuori" dal capitale e dalla guerra - analogamente fumose, disorientanti e compatibili non con il miglior mondo possibile, ma con quello che abbiamo, quanto quelle che il movimento operaio ha conosciuto più di un secolo e mezzo fa. Ma non fu proprio Marx determinante (nella sia analisi e nel suo impegno rivoluzionario) per farlo uscire da quelle pericolose secche?

Gianna Tangolo via e-mail

 

Quando alla violenza

non si può rinunciare

Caro direttore, il dibattito sulla non-violenza che si sta svolgendo su "Liberazione", non può non riguardare la vita del Prc, in quanto la rinuncia ad alcune credenze (come quella secondo la quale "la violenza è la levatrice della storia") compromette la natura del Prc e la sua esistenza come partito di classe del e per il proletarito. La rivoluzione comunista è un'azione collettiva che mira all'abbattimento del capitalismo per una nuova formazione sociale basata sulla giustizia e l'uguaglianza, ma - come scriveva Engels - la rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che ci sia; è l'atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all'altra parte. Con ciò non intendiamo affermare che il marxismo e la sua applicazione implicano necessariamente l'uso della violenza, ma la violenza è qualcosa di conseguenziale a cui non si può rinunciare in determinati periodi storici, quando, cioè, non se ne può fare a meno. Si potrebbe dire agli iracheni di usare strumenti non violenti contro le bombe americane? Si potrebbe dire ai palestinesi di alzare le mani di fronte ai carrarmati israeliani? Decisamente no.

Francesco Saverio Oliverio

Barbara Alessio via e-mail

 

E la trasformazione

individuale?

Caro direttore, accanto al pensiero politico non violento, alla trasformazione sociale, alla creazione di una nuova relazionalità, è necessario pensare anche alla trasformazione individuale, perché in ognuno di noi ci sono i riflessi della violenza, che da sempre ispira, a tutti i livelli, la vita sociale. Per questo abbiamo messo su dei laboratori sperimentali "meditattivi", il raddoppio della consonante sta proprio a significare la simultaneità del lavoro su noi stessi (con la meditazione) e del lavoro politico e sociale (l'azione): due movimenti "eversivi" che devono co-esistere in ognuno di noi, uno rivolto a cambiare la nostra interiorità, l'altro a partecipare attivamente alla vita sociale in modo collaborativo e solidale: un crogiuolo da cui può scaturire un nuovo processo di civilizzazione totalmente disarmato. I laboratori di questo movimento per la pace (gratuiti) si tengono: il pomeriggio del secondo sabato di ogni mese, a Monterappoli (Empoli), via Crudele 2/h (telefono 0571589211; per contatti: e-mail garetti@interfree. it.

Gian Luca Garetti via e-mail

lenin

 

I suoi compiti

e i nostri

Cara "Liberazione", ho conosciuto Lenin quando, ancora adolescente, militavo in Avanguardia Operaia. In quegli anni Lenin era un indiscutibile, lo si leggeva solo per imparare, non certo per sottoporlo al vaglio della critica, ma già a quel tempo faticavo ad entrare nella mentalità del rivoluzionario di professione, nell'adattarmi ad un centralismo democratico che mi sembrava mortificare le minoranze, nell'accettare una disciplina di partito che era pur sempre una "disciplina", e come ogni disciplina, sospetta ad un giovane "ribelle"; il Lenin del "Che fare" e del Partito mi è sempre stato ostico, anche se non potevo tralasciare il fatto che quel Partito, e nessun altro, aveva fatto la Rivoluzione. Il tempo è passato, e nell'epoca dei computer e delle comunicazioni di massa, un partito come quello bolscevico è un improponibile dinosauro della politica; ma quel partito oggi impensabile, era solo la forma storica in cui si organizzavano le avanguardie, la parte più cosciente del proletariato: la forma è passata, ma il problema dell'organizzazione delle avanguardie politiche e sociali e ancora sul campo, e con essa la riflessione sul ruolo della soggettività. Lenin diede le sue risposte ed è difficile negare la loro efficacia; saremo noi in grado dare le nostre risposte? La rifondazione è anche questo.

Claudio Ursella Roma

 

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da Liberazione del 30-1-'04

 

La nonviolenza non significa rinuncia al conflitto

 

Tiziano Rinaldini

 

"Il conflitto sociale è il sale della democrazia". "La democrazia è per i

lavoratori come l'acqua per i pesci". Sono affermazioni che spesso in

questi anni sono state fatte (da alcuni, non molti per la verità) in

particolare in relazione al tentativo di stabilire un rapporto di

dipendenza della violenza politica dal conflitto sociale ed in relazione

alla iniziativa dei metalmeccanici con la scelta della Fiom di rivendicare

la titolarità contrattuale dei lavoratori ed il vincolo del loro consenso

da esercitarsi con il voto segreto nel decidere piattaforme e accordi.

 

Non credo che le si possa assumere come artifizi retorici. Io le prendo

molto sul serio, e a partire da queste vi propongo una riflessione che

vuole essere un contributo alla discussione in corso sulla non violenza,

chiarendo di partenza la mia condivisione della necessità oggi di una

scelta su questo piano di carattere strategico per chiunque si proponga un

processo di trasformazione della realtà (forse) possibile e degno di questo

nome, cioè per affermare principi e condizioni di eguaglianza, solidarietà

e libertà.

 

Le affermazioni che ho richiamato di partenza a me paiono fondate su alcun

presupposti. Il primo è che i lavoratori e le lavoratrici (e cioè gli

uomini e le donne in quanto indissolubilmente partecipati dalla dimensione

lavoro nelle diverse forme in cui ciò si determina in una società

capitalista) sono potenzialmente portatori di un punto di vista altro

rispetto a quello del capitale, e quindi soggetto sociale in grado di

fondare su base materialistica una capacità autonoma (e non in ultima

istanza necessariamente subalterna), che apra quindi spazio alla rimessa in

discussione del complessivo reticolo di domini oppressivi sugli uomini e le

donne.

 

In questo senso, l'antagonismo è un dato costitutivo della realtà in cui

viviamo, non è qualcosa che si decide in un qualche organismo dirigente o

in un dibattito politico-culturale. Ciò che noi possiamo fare è scegliere

come rapportarsi con questo dato di realtà, consapevoli che anche noi siamo

interni a questo antagonismo.

 

L'altro presupposto che voglio richiamare si riferisce al fatto che nessuno

può sostituirsi al soggetto sociale antagonista e potenzialmente

alternativo e nel contempo il soggetto non è semplificabile nelle pur

indispensabili organizzazioni e associazioni che di volta in volta ad esso

si richiamano, e neanche si può pensare che la questione sia risolta con i

movimenti (pur decisivi) o le assemblee che di volta in volta si

determinano. Sono gli uomini e le donne, tutti e tutte, che compongono il

soggetto sociale che debbono poter sempre decidere su ciò che interviene

sulla loro condizione, con una capacità di organizzazioni e associazioni

(avanguardie?) di favorire questa possibilità nel contempo a ciò

attenendosi e vincolandosi.

 

Pare evidente che tutto ciò richiede decisivamente il conflitto sociale, il

quale a sua volta per esprimersi ha assoluto bisogno della democrazia

(l'acqua per i pesci). Senza questo, c'è la guerra e il conflitto di tutti

contro tutti; c'è la negazione o la rimozione dell'antagonismo sociale, le

illusioni di poter sostituire democrazia e conflitto sociale con l'opera

"lungimirante" di avanguardie o con la pur rispettabilissima predicazione

etica.

 

Io credo che sia qui oggi un punto fondante decisivo della ipotesi della

non violenza, la novità del percorso con cui arrivarvi rispetto al passato,

il problema del "salto" posto da Ingrao. Solo una dimensione processuale di

partecipazione che chiami in causa attraverso la democrazia (e quindi il

diritto a decidere attraverso il principio maggioritario) il soggetto

sociale (tutti e tutte) può permettere che le dinamiche di trasformazione e

opposizione siano comunque nelle mani del soggetto sociale stesso, e non

decise da altri per conto loro, riproducendo inevitabilmente le

caratteristiche autoritarie ed oppressive del potere che si mette in

discussione.

 

Un'idea violenta sulle forme della lotta sociale e politica per affermare

opposizioni e alternative riconduce a logiche militari e sospende

inevitabilmente la democrazia e l'esercizio democratico e trasparente del

rapporto con il soggetto sociale. In questo senso oggi non si può che

scommettere sull'ipotesi della non violenza, insieme a quella della

democrazia e del conflitto sociale.

 

E proprio per questo, eviterei una discussione che porti ad approcci

fondamentalisti o ad ambigue distinzioni ("quando ci vuole, ci vuole",

diceva il genitore o la genitrice quando menava il figlio). Ed è proprio

per questo quindi che il discorso sulla non violenza non può che essere

l'opposto di un discorso che introduca riserve o addirittura rinunce al

conflitto sociale ed al riconoscimento dell'antagonismo come dato vitale

della realtà...

 

Continua, me lo auguro, la cultura critica che su basi materialiste a

partire dall'800 riconosce antagonismo e soggetto sociale come presupposto

per una trasformazione dell'esistente con il conflitto sociale e politico.

 

Non ha più prospettive l'ipotesi che ciò possa avvenire con passaggi di

esercizio violento e non democratico del potere.

 

Su questo punto infatti nel percorso storico del movimento operaio (e anche

di altri movimenti), nelle diverse articolazioni (con pur rilevanti

eccezioni minoritarie e a suo tempo sconfitte), il problema non ha mai

trovato soluzione strutturale e strategica riguardo il riconoscimento e

l'accettazione dell'esercizio della democrazia da parte del soggetto

sociale di riferimento come vincolo da darsi nell'esercitare potere. Si

spiega forse in questo il fraintendimento sui lavoratori assunti

essenzialmente come "forza-lavoro" e quindi indistintamente come merce, e

non come uomini e donne irriducibili a merce, qui ed ora, e quindi unici

possibili protagonisti decisori di una trasformazione.

 

Sta in questo una subalternità di fondo alla cultura del capitale e ad una

cultura propria delle dinamiche che si sono costruite per l'avvento e il

consolidamento del capitalismo, con la illusione che alcuni, impadronendosi

di questa cultura, gliela potessero giocare contro per dare (naturalmente,

dopo) al soggetto sociale la possibilità di essere soggetto.

 

Tiziano Rinaldini

 

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Ieri i Partigiani della Pace, oggi i no-global

 

(...) Forse una riflessione sul quel movimento dei Partigiani della Pace

può costituire un contributo alla discussione in corso su violenza e non

violenza nella lotta politica contro le centrali capitaliste dell'attuale

fase della storia.

 

Quel movimento si proponeva due obbiettivi: la messa al bando dell'arma

atomica che era stata usata in modo criminale a Nagasaki e Hiroshima; la

distensione attraverso "l'incontro dei 5 grandi" cioè dei titolari di un

seggio del consiglio di sicurezza dell'ONU per vincere la pace dopo che si

era vinta la guerra.

 

Ma non solo gli obbiettivi erano pacifisti, ma anche il mezzo di

mobilitazione fondamentale di diecine e diecine di milioni di persone

specialmente nei paesi occidentali (in Europa, negli Usa ecc..) era

rappresentato dalla più pacifica e non violenta pratica, cioè quella della

raccolta delle firme, sostenute da grandi manifestazioni di massa

pacifiche. Il movimento era sostenuto da importati iniziative politiche

nell'ambito delle istituzioni locali e aprì un ampio dialogo tra forze

politiche diverse comunisti, socialisti, cattoliche ecc. Nel mezzogiorno e

in Sicilia aderirono per il comitato della pace sacerdoti, esponenti

persino del movimento separatista e di quello anarchico.

 

Questo movimento ebbe come risultato positivo un ripudio di massa dell'uso

delle armi di distruzione che ancora rimane nella coscienza popolare,

impedì di fatto l'uso preventivo della bomba atomica nello scontro tra

paesi capitalistici e l'Unione Sovietica.

 

Nel movimento comunista questa linea fu avversata da coloro che volevano

riprendere la lotta armata come in Grecia, o da coloro che pensavano al

movimento per la pace come un fatto momentaneo e strumentale, mentre invece

bisognava porre mano alla ricostruzione di quella internazionale comunista

che aveva fatto della lotta armata per il potere il cardine e il punto di

sbocco della sua politica.

 

La costituzione del "Cominform" costituiva un primo passo verso una ripresa

di questa linea e la proposta di Stalin di nominare Togliatti a capo della

Cominform tendeva a dare a questo organismo un ruolo conforme a una

tradizione che era stata giustamente abbandonata...

 

Da allora è passato più di mezzo secolo e oggi la situazione è

profondamente mutata anche per la resa del gruppo dirigente dell'Unione

Sovietica di fronte alla strapotere militare dell'America di Reagan ( si

veda la conclusione dell'articolo di Raniero Della Valle) capace di

scatenare la guerra atomica preventiva.

 

Continuano ad esistere le contraddizioni fondamentali su cui ha operato il

movimento comunista nei primi 150 anni della sua esistenza. La

contraddizione derivante dalla alienazione del lavoro salariato e la

contraddizione derivante dallo sviluppo ineguale (questione nazionale,

coloniale, agraria ecc.).

 

Queste contraddizioni si mantengono anche se si presentano in forme

completamente nuove in tutti i luoghi di produzione, nel contesto delle

relazioni tra sviluppo e sottosviluppo, nel rapporto tra Nazioni fortemente

influenzate e sostenute dagli ideali e dallo stato dato dalla rivoluzione

di ottobre e che hanno portato a processi di decolonializzazione e di

indipendenza a partire dalla Cina e dall'India, fino alla vittoria di

Nelson Mandela contro il razzismo in Sud Africa, che chiude un periodo

della storia dell'umanità iniziata con la scoperta dell'America nel 1492.

 

Ma avvertivano che due (non una!) contraddizioni oggi si presentano con

caratteristiche nuove la questione della guerra e la questione

dell'ambiente. La questione della guerra sempre presente nella teoria e

nell'azione dei movimenti originati dal Manifesto del 1848, ha assunto a

seguito della guerra fredda e dello sviluppo tecnologico degli armamenti,

caratteristiche nuove: da un lato per la prima volta nella nostra epoca,

l'umanità, come è stato più volte, ha nelle sue mani armi che possono

provocare la distruzione di se stessa e delle attuali forme di vita sul

pianeta; dall'altro il lungo periodo di guerre e guerreggiate e il lungo

periodo di guerra fredda hanno legato in maniera pressoché indissolubile le

sorti dell'economia capitalistica alla produzione di armi e alla ricerca

scientifica ad essa collegata. L'economia militare è diventata perciò il

perno e lo strumento di regolazione del ciclo economico, la principale

fonte per la ricerca scientifica (a cui viene destinata gran parte delle

risorse pubbliche posseduta dai paesi più industrializzati): diviene così

il regolatore della stessa vira sociale e politica, in quanto a protezione

del sistema militare vengono allestiti enormi apparati di servizi segreti

che finiscono col condizionare l'intera vita associata svuotando il

contenuto democratico delle istituzioni della democrazia occidentale. E

cosi siamo arrivati attuale fase della guerra preventiva e infinita di

Bush, che giustamente viene vista come il pericolo più imminente e

incombente.

 

Ma esiste un'altra grande contraddizione che non era presente nella

coscienza e nell'effettiva realtà di un secolo e mezzo fa o di solo 50 anni

fa, ed è costituita dalla questione ambientale generata dallo sviluppo

produttivo affidata alla legge del profitto;

Essa risulta evidente ogni giorno di più attraverso l'inquinamento

dell'aria, della terra e dell'acqua, l'effetto serra, i processi di

deforestazione massiccia, la desertificazione con la riduzione delle

risorse idriche e la loro privatizzazione, ed è prodotta soprattutto da un

modello di sviluppo energetico basato sul carbone e sul petrolio e su altre

fonti non rinnovabili, che riversano nell'atmosfera i composti del carbone

che la natura nel corso di milioni di secoli aveva immagazzinato nelle

viscere della terra rendendo possibile la vita come oggi la conosciamo sul

nostro pianeta...

 

L'assunzione della questione ambientale da parte del movimento comunista e

da parte del movimento no-global dell'Europa occidentale (l'ambientalismo è

essenzialmente non violento in tutte le sue manifestazioni teoriche e

pratiche) rende più valida l'affermazione di Bertinotti quando dice: " io

non ritengo che la non violenza sia una categoria etica, dunque applicabile

in ogni tempo ed in ogni luogo. Ciò che affermo e che hic et nunc, cioè

nella politica oggi, la non violenza è l'unica modalità per esprimere tutta

la radicalità dei bisogni che si oppongono alla nuova società capitalistica".

 

Nicola Cipolla

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Ma è in corso una guerra civile?

 

Siamo arrivati ai ferri corti?

Caro direttore, non vorrei essere presuntuoso ma ho l'impressione che il

dibattito sulla violenza non sia altro che un diversivo.

 

E' un dato di fatto che il tema sia stato proposto (imposto?)

dall'amministrazione Usa e che la spirale guerra-terrorismo sia una vera

ideologia così come ci viene appunto presentata. Perché viene fatta propria

come interpretazione della realtà?

 

Non parliamo della prepotenza, del dominio, dello arbitrio, della

sopraffazione ma parliamo delle "reazioni violente" dei deboli, dei

dominati, dei sottoposti, dei sopraffatti. Perché confondiamo resistenza

armata e terrorismo, gesti disperati e kamikaze, reazioni di autodifesa e

azioni programmate e finalizzate?

 

E' in corso una guerra civile (ossimoro eloquente) in Europa? Siamo

arrivati ai ferri corti? (bei tempi allora quando, appunto per la misura

dei "ferri", si poteva guardare in faccia il nemico!). La presa del palazzo

incalza?

 

Se questo non è, perché parlare del sesso degli angeli? E per rifondare il

comunismo abbiamo veramente bisogno di partire da questo problema?

 

Non credo, certo è meno impegnativo parlare se sia giusto o no usare la

violenza piuttosto che affrontare il nodo vero e duro della produzione e

del consumo alla "luce della conoscenza scientifica" che già da tempo ha

modificato completamente i riferimenti dell'antropocentrismo universale.

 

Se è vero come è vero che il nostro mondo è un sistema chiuso che vive

soltanto in quanto riceve energia dal sole, perché non viene messo questo

fatto al centro dell'analisi politica?

 

Continuiamo a pensare che la terra sia infinita; benché quotidianamente

tanti uomini le girano comodamente intorno il loro punto di vista non

cambia. Possiamo espanderci senza limite?

 

Secondo me è proprio qui che sta il problema, interiore prima che

esteriore, nel riconoscimento che il meccanismo del potere che genera la

guerra (in tutte le sue forme) deriva dalla incapacità culturale di

accettare la propria limitatezza, il proprio appartenere intrinsecamente ad

un unicum che comprende tutto ciò che chiamiamo vita.

 

Se noi siamo parte, autodefinita intelligente, di questa stupefacente vita

che noi stessi siamo riusciti a conoscere e che dura su questo ciottolo di

universo da quattro miliardi e mezzo di anni e che così tanto tempo ha

impiegato per raggiungere le forme e la complessità che conosciamo, perché

continuiamo a far finta di non sapere quello che sappiamo? Perché

continuiamo a operare contro le leggi fondamentali della fisica e della

biologia?

 

La favola della Genesi sul paradiso terrestre è molto istruttiva a

riguardo: Adamo ed Eva avevano a disposizione tutto per soddisfare i loro

bisogni, il loro "peccato" è stato di orgoglio, voler essere come Dio! (che

cosa altro è quello che sta facendo oggi la tecnologia?).

 

Ma per tornare al nodo duro della produzione e del consumo, come si

affronta? Soltanto con la "lotta di classe"? Veramente crediamo che gli

artefici della storia siano i "Potenti" di turno? Veramente pensiamo che

solo dopo aver "preso il potere" si possano cambiare le linee di fondo

della nostra vita quotidiana?

 

Intanto continuiamo a produrre (sempre di più altrimenti il Pil si

ammoscia!) montagne di oggetti ecologicamente assurdi e a consumarli con

una voracità crescente e mai sazia. Chi deve cambiare il modo di produrre

le cose?

 

Chi può cambiare il modo di consumare?

 

Ogni uomo ha il suo percorso di conoscenza e di azione ed è responsabile di

questo.

 

Vale per la questione della violenza, vale per la vita materiale di tutti i

giorni.

 

Per far traboccare il vaso ci vuole l'ultima goccia ma cosa è l'ultima

goccia senza ciascuna di tutte le altre?

 

Tutti i "grandi" accadimenti, anche quelli socio-politici funzionano così.

 

Non c'è nulla di più avvilente, negli ultimi tempi, della lotta politica

attorno alla "merce-potere" mentre si continua a perpetrare con sempre

maggior accanimento questa specie di stupro incestuoso produttivo che noi

chiamiamo sviluppo.

 

Continuiamo a pensare noi stessi fuori da quell'Unicum che ci fa vivere.

 

Forse abbiamo qualche problema, forse non siamo stati amati da piccoli?

 

Pierino Pennesi Allumiere (Rm)

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Il mio essere comunista

 

Caro direttore, il mio essere comunista a volte mi costringe in ambiti

stretti. Non sopporto le prevaricazioni e non vorrei mai prevaricare su

alcuno. Le certezze si sono dissolte con gli eventi: è democrazia Cuba? E

il mio Che era violento? E il sacrificio di tante e tanti disperati di

Palestina è conseguenza della metodica distruzione delle case da parte del

governo Sharon o ne è la premessa? Il mio essere un nuovo comunista a volte

mi assilla. Forse se tutti ci interrogassimo sulla qualità di vita - intesa

in una nuova prospettiva di confrontarsi con le variabili del vivere

quotidiano - che vogliamo, potremmo riconsiderare le nostre obsolete

convinzioni. Il mio essere una presenza storica nella vita della mia città,

semplicemente come attore di una nuova speranza, mi porta a domandarmi se e

quale futuro posso dare alle prossime generazioni, quando conflitti

semplici vengono distorti in modo iniquo. Mi spiego. A Marghera si vuole

proporre il raddoppio - lo chiamano equilibrio - della produzione di Pvc e

nessuno ne parla, però ad ogni suono di sirena tutti si infuriano. Si

combatte contro l'elettrosmog, e tutti usano i telefonini. Ma nessuno

considera la pericolosità di certe produzioni chimiche, che quelle sì

attentano alla nostra vita. Il mio essere uomo mi costringe in ambiti

sempre più chiusi e bui. Ho dubbi! E chiedo a tutti di risvegliarsi. Di

cercare la non violenza che è in noi e comunque di non rinunciare al

diritto di essere protagonisti.

 

Pino Coppola Marghera-Mestre (Ve)

 

L'origine lontana della scelta di pace

 

Caro Curzi e cara Gagliardi, è con disappunto e rincrescimento che in tante

relazione e interventi dei dirigenti di partito e in tante lettere di

compagni ed amici che vanno ad arricchire il nostro interessante dibattito

sulla non violenza e sulla pace, non venga mai citata l'origine lontana di

questa nostra scelta. Infatti questa scelta fondamentale che si inserisce

nella nostra identità genetica risale al vecchio e glorioso Pci e, in

particolare, al suo segretario generale, Palmiro Togliatti, il quale ebbe a

dichiarare che con l'avvento dell'era nucleare "la pace è irreversibile"

cioè senza se e senza ma.

 

Arnaldo Giacchini via e-mail

 

La rivoluzione non è un pranzo di gala

 

Il movimento operaio, i partiti comunisti e le forze democratiche hanno da

sempre rifiutato l'uso della violenza gratuita, la spirale nichilista del

terrorismo, l'impotenza della lotta armata del piccolo gruppo clandestino e

visionario che scambia l'apparenza per la realtà. Nel comunismo noi abbiamo

sempre visto una prospettiva di lungo periodo, l'utopia che diventa reale,

il luogo che c'è, perché l'analisi marxiana è fondata sulla scienza; vi è

in esso il massimo di radicalità (basti pensare all'idea dell'estinzione

dello stato, alla libertà e all'uguaglianza) coniugata con il passaggio

storico del socialismo, cioè della rottura dei rapporti di produzione

capitalistici che soffocano e distruggono le forze produttive, che

presuppone a sua volta una strategia nella quale non si può escludere il

ricorso alla forza. Come diceva Mao "La rivoluzione non è un pranzo di gala".

 

Salvatore Distefano via e-mail

 

Sul saggio di Nichi Vendola

 

Caro compagno Curzi, ho letto con grande attenzione il breve saggio

anticomunista di Nichi Vendola su "Liberazione" di oggi (28 gennaio, ndr),

dal titolo "L'antagonismo non sia simmetrico alla violenza che vogliamo

combattere". Devo confessare che tale lettura mi ha determinato

un'impegnativa riflessione sulla tanto poetica quanto stravagante filosofia

del/e sul comunismo. A questo punto non posso evitare dal fargli una

sollecita esortazione: si renda il compagno Vendola promotore della prima

internazionale anticomunista di sinistra e magari vestita di rosso alla

quale, naturalmente, io non me la sentirò di aderire.

 

Vittorio Tremolizzo Cannole (Le)

 

Nuove gestioni di potere

 

La partecipazione diretta all'azione e alla lotta (unico vero antidoto alla

violenza del dominio e alla guerra) non potrà crescere se i processi e i

metodi della politica, anche nei movimenti, restano quelli che sono; anche

l'attuale discussione resta tra pochi esperti e specialisti, in fondo. Per

quel che ci spetta, è urgente sperimentare nuove gestioni del potere e

dell'organizzazione a partire da noi, dai nostri modi di comunicare,

discutere e decidere insieme. L'azione esterna è l'ultimo passo, infatti,

di un modo di lavorare insieme, di trovare cooperativamente delle vie

d'uscita, di trasformare positivamente le divergenze e i conflitti, al

nostro interno. La coerenza mezzi-fini, in primo luogo, riguarda proprio

questo. Fare una scelta orientata alla nonviolenza non significa soltanto

inventare azioni e campagne che cambino il mondo senza violenza, ma anche e

soprattutto trasformare la cultura delle relazioni politiche: l'attenzione

alle dinamiche di un gruppo, la condivisione effettiva delle regole, la

diffusione della leadership e dei poteri interni, la ricerca di un vero

consenso, la trasparenza e la lealtà nelle relazioni, la capacità di

esplicitare e valorizzare le differenze e i conflitti.Tutto questo, nel mio

lavoro di formatore, non è un "optional" tra gli altri, ma è al centro: se

vogliamo affrontare la "potenza" dell'avversario possiamo e dobbiamo uscire

dalla passività e dalla delega, re-imparare a gestire il nostro "potere", a

farlo emergere, a metterlo in rapporto con quello degli altri. Credo che

qui si colga ancor più il valore e la difficoltà della sfida che Bertinotti

apre, anche all'interno del suo partito. Ma vale, credo che Revelli abbia

visto giusto (ed anche alcune reazioni "negative" potrebbero stare a

dimostrarlo), per tutte le reti ed organizzazioni presenti nel movimento.

La credibilità di tutti noi, anche verso il mondo, passa da qui, dai

cambiamenti che sapremo realizzare in primo luogo tra noi, in noi stessi.

 

Enrico Euli via e-mail

 

Caro Curzi, la mia età avanzata non mi permette di essere immerso nel

movimento e, forse, di recepire ciò che è più sentito e più utile per il

partito. Però, stimolato dall'intervista di fausto Bertinotti apparsa su

"Liberazione" del 27 gennaio, intendo esprimere alcune opinioni. Dico

subito che l'intervista di Bertinotti mi ha chiarito molti dubbi, ad

esempio quello relativo all'approdo della nonviolenza, che non è di tipo

etico e non propone un modello di comportamento valido in ogni luogo e in

ogni tempo, chiarimento che, almeno in me, elimina non poche perplessità.

Detto questo devo dire con franchezza che non concordo, però, con

l'affermazione che non ha senso interrogare i nostri nonni, i nostri padri,

che hanno fatto la lotta armata. Ora io apprezzo il tentativo di arricchire

la teoria e al progresso della teoria come corpo organico di conoscenze

dello sviluppo storico, sociale ed economico i classici del marxismo hanno

sempre attribuito una importanza fondamentale. Proprio Marx ci insegna che

tutto muta e si trasforma e nulla è eterno, per cui ciò che poteva essere

valido ieri, può non esserlo più oggi.

 

Giuseppe Sacchi Milano

 

Dobbiamo interrogare i nostri nonni

 

Caro Sandro, terrorismo, pacifismo, ma che dibattito è se non siamo capaci

di leggere obiettivamente gli eventi. Se la lettura della cronaca d'oggi o

la storia passata sono falsati da opportunismi politici, falsi moralismi,

paura di compromettersi troppo e di perdere voti. Nell'articolo che firmi

con Rina Gagliardi (18 gennaio) vi incartate con due esempi, del passato

recente, che fanno riflettere. I bambini palestinesi che durante la prima

Intifada si opponevano ai carri armati israeliani con le fionde sono stati

ammazzati dagli stessi carri armati che non guardavano in faccia nessuno.

Si sono smosse le coscienze, ma l'Europa ha messo in campo solo lo sdegno.

Oggi neanche quello. E mentre si adopera per prendere eque distanze, i

bambini continuano a morire. E' vero, la dimensione della tragedia è ormai

nel sangue del popolo palestinese, si eredita di generazione in generazione

e porta all'assurdo. Ma se dialoghi con un palestinese, dolorosamente ti

spiega che hanno quel solo modo di non farsi dimenticare dal mondo, di

chiedere il sostegno dei milioni di pacifisti, affinché in massa vogliano

ancora difendere il diritto di tutti i popoli ad avere una patria, senza

muri e soprusi.

 

Maria Concetta Spinelli

 

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dal manifesto del 30-1-'04

 

Ma perché gli uomini fanno le guerre?

 

CARLA RAVAIOLI

 

Gli studi sull'aggressività umana non hanno mai spiegato perché gli umani,

al contrario di tutti gli altri animali esistenti, si dedicano a lotte

contro i propri simili. Perché, insomma, abbiamo inventato le guerre

 

Con il suo discorso su violenza-e-non Bertinotti fa la cosa giusta. Forse

la cosa più vicina a una vera "rifondazione". Non solo del comunismo ma

della società in toto. Non limitarsi ad auspicare la non-violenza, ma farne

una proposta politica e affermarne la necessità, è il gesto politicamente

più radicale, anzi il più sovversivo, il più carico di conseguenze, e

insieme il più attuale, che oggi si possa compiere. E lo dimostra il fitto

e appassionato dibattito che da un paio di settimane dopo l'intervento del

segretario si svolge su "Liberazione", allargandosi anche sul "manifesto",

ospitando voci di alta autorevolezza (Ingrao per ben due volte) e di

numerosi militanti di base, voci diverse, alcune anche decisamente

dissenzienti, tutte profondamente coinvolte. I più insistono però sulla

violenza come parte della storia e dei comportamenti tradizionali delle

sinistre (da criticare o rivendicare), o come tentazione presente nella

pratica politica d'oggi, tra i giovani sopratttutto. Pochi (ma proprio

questo dice quanto il problema sollevato sia opportuno e chieda

approfondimento) si impegnano sull'intero discorso di Bertinotti, il quale

pone il problema in tutta la sua ampiezza e tutte le sue implicazioni, non

solo con coraggio avventurandosi sul difficile terreno del confronto col

proprio "grande e terribile" passato, ma anche mettendo a fuoco il rischio

che rispondere alla violenza con la violenza comporta: rischio di

somigliare all'avversario, di essere penetrato dalla sua logica e dal suo

linguaggio, di non riuscire più a liberarsene. Proprio questa è invece la

più drastica e proficua "rottura di schema" - come la chiama Ingrao - che

il discorso propone. Schema che certo sta alla radice di quella stessa

lotta armata apparsa ai vecchi comunisti "ineluttabile percorso di

liberazione dallo sfruttamento capitalistico", ciò che a lungo non ha loro

consentito di trovare "una vera distanza critica né dalla violenza né,

certo, dalla guerra". E che ancora oggi condiziona in qualche misura

posizioni e scelte politiche specie tra le sinistre "antagoniste", come

qualche intervento esplicitamente testimonia. E' Marco Revelli in

particolare a misurarsi con questo immane problema, d'altronde a lui

congeniale e più volte affrontato nei suoi libri. Nell'articolo sul

"manifesto" non solo parla di "retroazione che la violenza opera su chi la

pratica", addirittura di "metamorfosi antropologica che la violenza impone

al soggetto che si trova a impiegarla", usando concetti vicini a quelli di

Bertinotti, ma vede nella non-violenza l'unico possibile "nuovo inizio" da

proporre in un'epoca in cui "la guerra è diventata la forma stessa della

vita sociale". E su questa lunghezza d'onda si snoda anche l'intervento di

Paolo Cacciari, per il quale "la nonviolenza va cercata oltre il pacifismo".

 

Al di là della inaudita distruttività raggiunta, in una irresistibile

escalation da Hiroshima in poi, dalle tecnologie belliche. Al di là del

salto epocale segnato dalla geopolica della "guerra preventiva", il quale

in un mondo divenuto unipolare cancella quelle regole internazionali che in

qualche modo potevano contenere la minaccia dell'annientamento totale. Al

di là del terrorismo, surrogato della guerra - dice Raniero La Valle -

divenuta proprietà di un solo padrone. Al di là della guerra ormai

normalmente usata - secondo un'opinione oggi largamente condivisa - come lo

strumento più sicuro per risolvere crisi e depressioni economiche. Al di là

insomma della violenza dispiegata come tale, senza infingimenti, senza

aggettivi intesi a contrabbandarla per altra cosa, se davvero si vuole

"iscrivere la radicalità in una pratica di non violenza", come propone

Bertinotti, non basta dire no alla guerra. Bisogna dire no a un mondo che

la guerra l'ha incorporata come sistema, che della violenza ha fatto la

ricetta del proprio agire quotidiano.

 

I giovani dei movimenti l'hanno capito, quando fanno del loro "No alla

guerra e no al neoliberismo" i due pilastri del loro impegno e la base

imprescindibile di ogni possibile dialogo con le forze politiche

istituzionali. Senza approfondite analisi, semplicemente ma fermamente

proponendo in un unico slogan i due "no", mostrano di sapere che non è

guerra solo quella guerreggiata a suon di bombe, ma lo è anche la morte per

fame, la crescente distanza tra ricchi e poveri, lo sfruttamento sempre più

esoso del lavoro, l'attacco generalizzato allo stato sociale, la negazione

dei diritti civili. Come lo è la perdurante disparità sociale delle donne,

e la indiscriminata dilagante rapina della natura, e la privatizzazione

dell' acqua e dei brevetti su farmaci vitali, e lo sviluppo imposto a

propria immagine e interesse dal Nord al Sud del mondo, e un Occidente che

rappresenta un quinto della popolazione mondiale, ma consuma l'80 % delle

risorse. Il neoliberismo insomma, il modello socioeconomico oggi vincente.

Ma la radice violenta della guerra si può cogliere anche in momenti

apparentemente estranei alla struttura gerarchica del globo, riferibili

alla normalità quotidiana della vita civile o addirittura al benessere in

aumento in non pochi paesi e fascie sociali. Penso all'incrudelire estremo

della competitività, della sfida mortale cui le dinamiche di mercato oggi

obbligano non solo l'imprenditore ma l'intero mondo del lavoro: non è un

caso se determinazione, capacità di comando, aggressività, "grinta", sono

le qualità richieste a chi cerchi occupazione. Penso alla colonizzazione

dell' immaginario collettivo, sistematicamente perpetrata mediante la

pubblicità e la maggior parte dell' informazione, mediante l'imposizione di

modelli funzionali al dogma produttivistico e consumistico. Penso alla

ricaduta di tutto ciò sia nel farsi di esistenze tutte proiettate al

conseguimento di un successo identificato con reddito e consumo, sia nei

rapporti personali, nel confronto con l'altro, anch'esso precipuamente

misurato su questi stessi parametri. Penso a quella sorta di inquinamento

sociale che il predominio di valori individualistici, acquisitivi,

competitivi, induce in ogni ambiente e classe.

 

Sto allineando riflessioni che vorrebbero un discorso ben più ampio e

costruito.

 

E che, portato avanti, andrebbe a parare nella gran disputa sull'

aggressività umana, che ha impegnato intelligenze come Lorenz, Fromm, Jay

Gould, Jonas, Eibesfeld, Giorgio Prodi (per citarne qualcuna), ma non ha

risposto alla domanda come mai gli umani - a differenza di tutti gli altri

animali del creato, che praticano solo lotte "interspecifiche", cioè contro

specie diverse - fin dai più lontani documenti risultino dediti a lotte

"intraspecifiche", cioè contro il propri simili. Perché insomma abbiano

inventato la guerra.

 

Non sarà il dibattito aperto da Bertinotti a dare la risposta. Forse può

essere però occasione per dirci che dopotutto non è scritto da nessuna

parte che ciò che non è stato finora non possa essere. La storia è fatta di

cose che prima non c'erano. E se finora - secondo l'argomento forte di

quanti criticano il pacifismo - il "no alla violenza" chiesto e praticato

da piccoli gruppi non ha portato lontano, forse il risultato può essere

diverso quando a gridarlo sono folle sempre più vaste, da Seattle a Genova,

da Porto Alegre a Firenze, da Cancun a Bombay.

 

CARLA RAVAIOLI

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da http://quotidiano.liberta.it

31-1-'04

 

L'inutilità della violenza

 

di VITTORIO MELANDRI

 

Ho letto sulle pagine de "Il manifesto", dell'attacco subito da

Bertinotti, dal "movimento", per una sua svolta non-violenta. Ho

scoperto così che la mia ingenuità è senza fondo. Ma come, Bertinotti

per approdare alla non-violenza, abbisogna di una svolta?, e il

"movimento", che della violenza, anche quella delle frange più stupide,

annidate al suo interno, è, sempre alla mia vista "corta", apparso come

la prima vittima, non sa far di meglio che attaccarlo? Ho visto

recentemente "Ora o mai più", il bel film di Lucio Pellegrini che fa

ruotare una gradevole vicenda personale, di crescita e formazione,

attorno al tempo del G8 di Genova. Poche sequenze dedicate a quanto

successo nella caserma di Bolzaneto, e difese dal regista, sembra siano

la ragione di una distribuzione a dir poco clandestina; eppure sono

sequenze che colpiscono, soprattutto perché, immerse come sono,

nell'allegria del film, la dicono lunga, sulla bestiale "inutilità"

della violenza; per tutti, sia per chi la subisce, sia per chi crede, di

farsene una forza. Che la necessità di difendersi dalla violenza, sia

ancora confusa con la "fede" nella necessità della violenza, mi lascia

davvero interdetto, e senza credere di peccare di ingenuità. In questi

giorni ha fatto capolino una notizia dall'Argentina: "Una dozzina di

fotografie, scioccanti, che mostrano un campo di prigionia con uomini

nudi e incappucciati, torturati da uomini in divisa... Il governo:

"Scattate in un campo di addestramento nel 1986".L'indagine dimostra che

i commandos venivano preparati con gli stessi supplizi inflitti ai

desaparecidos durante la dittatura." Leggere questa notizia, mi ha fatto

tornare alla mente una frase che avevo letto : "A molti, individui o

popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che "ogni

straniero è nemico". Per lo più questa convinzione giace in fondo agli

animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e

incoordinati, e non sta all'origine di un sistema di pensiero. Ma quando

questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di

un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager:" Primo

Levi, dalla sua prefazione al libro "Se questo è un uomo". E a questo

punto, non so proprio cosa altro aggiungere.

 

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da Liberazione del 31-1-'04

 

MA NON DIPENDE SOLO DA NOI

 

Giuseppe Sacchi Milano

 

Caro direttore, non era mia intenzione intervenire nel dibattito in corso sulla violenza perché non capivo l'opportunità di aprire una discussione di così grosso spessore politico e teorico oggi, alla vigilia di una campagna elettorale impegnativa e con grossi problemi aperti nel paese che angustiano fortemente la maggioranza dei lavoratori e del popolo italiano e richiedono l'impegno di tutto il partito. La mia età avanzata non mi permette di essere immerso nel movimento e, forse, di recepire ciò che è più sentito e più utile per il partito, però, sia pure in modo schematico, per non rubare troppo spazio, ed anche stimolato dall'intervista di Fausto Bertinotti, apparsa su "Liberazione" del 27/1, intendo esprimere alcune opinioni sul tema in discussione.

Dico subito che l'intervista di Bertinotti mi ha chiarito molti dubbi, ad esempio quello relativo all'approdo alla nonviolenza, che non è di tipo etico e non propone un modello di comportamento valido in ogni luogo ed in ogni tempo, chiarimento che, almeno in me elimina non poche perplessità.

 

Detto questo devo dire con franchezza che non concordo, però, con l'affermazione che non ha senso interrogare i nostri nonni, i nostri padri, che hanno fatto la resistenza armata, qui ritengo che ti sbagli, ed è in contraddizione con quanto affermi subito dopo, ossia che la storia non si cancella ma la si interroga criticamente per non commettere gli stessi errori. Mi hanno sempre insegnato che la storia del Movimento Operaio va studiata e conosciuta, non tanto e solo per giudicare le sconfitte e le vittorie, ma per capire il perché di quelle vittorie e di quelle sconfitte, e che anche le sconfitte insegnano molto al Movimento Operaio. Mi hanno insegnato che la teoria è frutto della generalizzazione delle esperienze.

 

Oggi ci si interroga e ci si divide tra chi sostiene che la violenza alle volte è necessaria e chi sostiene che non la si debba praticare mai. Questa discussione in modo diverso l'ho vissuta nel Pci, dopo il ventesimo congresso del Pcus, nel quale si è affermato la possibilità della via democratica al socialismo. Permettetemi un ricordo personale, l'anno successivo ho avuto l'onore (per me era un onore) di far parte della delegazione di studio della realtà socialista. Quella delegazione, diretta dal compagno Longo, ebbe due incontri con la segreteria del Partito dell'Unione Sovietica, allora diretta da Krusciov. In quelle riunioni, tra l'altro, abbiamo anche discusso della via parlamentare ed i sovietici, molto diplomaticamente rimarcarono che noi ponevamo, eccessivamente, l'accento sulla via parlamentare senza considerare l'eventualità che, al di là della nostra volontà, detta via non fosse percorribile a causa di una reazione violenta dell'avversario di classe, in quella eventualità il partito si sarebbe trovato impreparato. Ricordo che sia Suslov che Krusciov ci dissero: "anche noi non volevamo la rivoluzione violenta e per la verità l'Ottobre, tra le rivoluzioni che la storia ha conosciuto, è stata la meno violenta, solo dopo, in presenza dell'aggressione della maggioranza degli Stati capitalisti fummo costretti a ricorrere alla violenza, voi cosa avreste fatto?".

 

Il ricorso alla violenza o meno non dipende, quindi, solo da noi, e questo dobbiamo sempre affermarlo. Ebbene io concordavo, e concordo ancora oggi, con queste posizioni, non perché sono per la violenza, anzi ne sono nemico acerrimo, come nemico acerrimo della violenza è sempre stato il movimento dei lavoratori il quale l'ha sempre subita più che esercitata. Come ai tempi della polizia di Scelba che ha seminato l'Italia di cadaveri di contadini e di operai, dei quali nessuno, purtroppo, oggi più parla. In quegli anni anche i padroni si resero protagonisti di violenze, sia tramite le migliaia di licenziamenti di rappresaglia, dopo il 1948, ed io ero tra questi, ed anche questa è violenza, ma anche sparando di persona sui lavoratori in sciopero colpevoli di rivendicare 10 lire all'ora di aumento, come avvenne alla Geloso di Milano, per non parlare di Mediglia e Somaglia, dove i padroni hanno sparato uccidendo due lavoratori in sciopero per il rinnovo del contratto di lavoro scaduto da due anni, ebbene io mi chiedo come reagirebbe il padronato qualora, come giustamente sostiene Bertinotti, mettessimo in atto un cambiamento del sistema. La strategia della tensione e le stragi degli anni '70 ed '80, dovrebbero indurci ad una riflessione.

 

Comunque a tutte le provocazioni, rappresaglie, delitti del padronato il movimento operaio ha sempre risposto con manifestazioni di massa mai violente. Ricordo la grande marcia silenziosa dei 100 mila metalmeccanici che hanno attraversato il centro di Milano, silenziosi, solo con cartelli che riportavano le loro rivendicazioni, queste e mille altre manifestazioni hanno sempre caratterizzato il movimento dei lavoratori del '900, ed è grazie a questi grandi movimenti che si sono strappati diritti importanti, diritti che oggi tramite il ricatto della fame, la peggiore delle violenze che si possa esercitare sull'uomo, il padronato sta cancellando.

 

Quanto ho detto finora, e numerosi altri esempi che si potrebbero citare, dimostrano l'avversione del movimento operaio per la violenza, anche per ciò stento a capire la ragione dell'apertura di un dibattito su questo tema in questo momento. Si dice che il dibattito si impone dato che la situazione, rispetto al passato è mutata radicalmente, la potenza del nemico di classe è tale che è pia illusione pensare di batterlo con altri mezzi e che i metodi violenti di lotta contaminano chi li pratica. A queste affermazioni non aggiungo niente a quanto sostenuto, in modo certamente più efficace di quanto io possa fare, dal compagno Catone nel suo intervento su "Liberazione".

 

Ora io apprezzo il tentativo di arricchire la teoria, al progresso della teoria come corpo organico di conoscenze dello sviluppo storico, sociale ed economico i classici del marxismo hanno sempre attribuito una importanza fondamentale. Proprio Marx ci insegna che tutto muta e si trasforma e nulla è eterno, per cui ciò che poteva essere valido ieri può non esserlo più oggi. Per cui, ripeto, apprezzo ogni tentativo di aggiornarci sempre, non dimenticando mai, però, gli insegnamenti del passato, e questo non per un attaccamento nostalgico, di vecchio militante, alla storia del passato, ma per una profonda e lucida convinzione che attraverso la conoscenza del passato si può capire meglio il presente e definire il futuro.

 

Giuseppe Sacchi Milano

nonviolenza

Come aiutare

chi si ribella

Caro direttore, ho trovato bellissimo, nella sua argomentazione e nella sua chiarezza l'intervento (e non articolo, perché credo si tratti di un sindacalista e non un redattore di "Liberazione") di Rinaldini. Mi pare un'ottima risposta al pur interessante intervento di Andrea Catone, che confonde, mi pare, la resistenza anche armata, e quindi violenta, di ogni popolo ad un invasore o a chi lo vuol dominare infrangendo le regole della democrazia. Ma è certo che anche in campo internazionale, nulla togliendo alla libertà di chi si rivolta contro un'oppressione comunque guidata dall'esterno, la risposta e l'aiuto da offrire da parte del vasto popolo che ha scelto la pace come idea-guida, popolo di cui noi comunisti siamo non solo parte ma veri propugnatori e organizzatori, debba essere un impegno a sollevare democraticamente la critica e l'indignazione della pubblica opinione, sì da costringere i prepotenti a tornare sui loro passi. A parte ogni altro aiuto materiale, che non comporta più, io credo, l'invio di brigate o brigatisti volontari, come accadde ad esempio per la Spagna nel 1936. In casa nostra, come in ogni altro Paese dove la democrazia è comunque instaurata, la lotta per i nostri diritti e per cambiare la società comporta mobilitazione, scioperi, azioni di disobbedienza civile e battaglia instancabile, ma senza violenza, se non difensiva.

Anneo Sposito via e-mail

 

Un bel dibattito,

andate avanti

Caro Curzi, non capisco davvero come si possa accusare di anticomunismo il compagno Vendola sulla base di uno scritto, che per essere di riflessione e critica sulla nostra storia non la rinnega certamente. Attenti a non cadere nella trappola berlusconiana, al contrario s'intende, che vede in ogni opinione per quanto sfaccettata le stimmate del comunismo. La discussione che si è aperta con l'intervento di Bertinotti è una delle cose più belle che il giornale ha ospitato. Grazie, avanti così.

Gianfranco Giannini Novara

 

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da Liberazione del 1-2-'04

 

Pacifismo, è un fare per la pace non una passività calabrache

 

Pietro Ingrao

 

Il dibattito sulla non-violenza, aperto da Fausto Bertinotti, si sta

sviluppando e allargando sulle colonne di Liberazione e de il manifesto, e

questo davvero è un bene (della discussione avvenuta nella direzione di

"Rifondazione" so troppo poco per esprimere giudizi o porre interrogativi).

 

A me sembra una iniziativa politica urgente e feconda. Personalmente io

però sarei incline a non estenderla ad una riflessione sulla violenza "in

generale" nella vita umana: e non solo perché in un dibattito che assuma

tali dimensioni e livello io ho idee assai più incerte; ma perché mi sembra

che una riflessione sulla violenza debba innanzitutto misurarsi sui

drammatici eventi in corso: sul ritorno imperioso e sconvolgente che ha

avuto sul globo in cui abitiamo la "guerra di massa": nel tempo - non

dimentichiamolo mai - dell'atomica, l'arma suprema, di cui l'uomo della

strada, il semplice cittadino sa quasi nulla. Penso insomma alla nuova

"violenza pubblica", posta in campo dai reggitori degli Stati (o degli

imperi, se volete): l'evento che mi sembra il grande fatto nuovo con cui si

apre questo secolo, e chiama in campo, con urgenza, la risposta degli

spiriti pacifici (per ricorrere a un vocabolario antico).

 

E ciò che mi preme è se e come costruire una strategia e una risposta

politica ai nuovi "signori della guerra": un obiettivo, che certamente sarà

aspro e difficile e per nulla lineare.

 

 

Lotta alla passività

Intanto e prima di tutto, esso chiede una lotta contro la passività. Ci

sono oggi milioni di esseri umani che si limitano a guardare - illudendosi

che il conflitto armato possa essere gestito e patito solo da corpi

speciali, che fanno questo per mestiere o vocazione: e che si possa

lasciare a loro quel compito sanguinoso e grave, se mai - patriotticamente

- rendendogli onore quando cadono e perdono la vita. I campi di battaglia,

a volte e spesso, sono lontani e in certo modo circoscritti: perché dunque

temere l'urto delle armi quando esso non mi tange, non giunge al mio

cortile di casa?

 

Il pacifismo è lotta contro questa illusione: è l'evocazione di una

corresponsabilità, e insieme la coscienza, l'individuazione degli attori:

dei "signori della guerra" e delle forze e delle istituzioni (dei poteri)

che li muovono e li sorreggono. Pacifismo è fissare e diffondere nei popoli

questa mappa. E farne un aspetto centrale della lettura del mondo in cui

oggi viviamo: della sua falsa "innocenza", e del nuovo terribile slancio

che torna a prendere l'uccidere di massa.

 

In questa luce, pacifismo è forse e prima di tutto la questione della

secolare discussione sulle armi: sulle risorse che per esse vengono

impegnate e consumate, e se ciò è paragonabile e compatibile con i mezzi

necessari allo studio, ai saperi, alla scuola, e anche alla salute dei

cittadini. Insomma: aprire di nuovo ed efficacemente un contenzioso sulle

"spese militari" (vi ricordate questa parola?): su quanto costa "l'uccidere

pubblico", e quanto esso si mangia del nostro pane. Non abbiamo troppo

appannato questo tema?

 

Quindi pacifismo oggi è anche trarre fuori dagli armadi finiti in soffitta

una parola antica: disarmo. Ci fu un tempo in cui questa parola era sulla

bocca di molti, ed esso fu nei programmi o nelle promesse dei governi, e -

certo - nelle grandi lotte delle popolazioni e dei cittadini.

 

Oggi quella parola è scomparsa. Pacifismo è resuscitarla: non solo sulle

bocche di tanti, ma nelle battaglie dei Parlamenti, nelle scelte dei

governi: con la coscienza che oggi più ancora - forse - della quantità

delle armi, conta la loro nuova qualità. E riconoscere, rendere pubblici

gli strumenti di morte e i nuovi veleni che sono in mano a chi comanda gli

eserciti, e quali guasti e stermini sono possibili.

 

 

I bilanci militari

Rileggiamo i bilanci di questa e altre repubbliche. Riapriamo il discorso

su dove - forse! - stanno (e come e in mano a chi) gli arsenali atomici.

Portiamo questi temi anche nelle scuole, perché gli adolescenti già

sappiano su che poggia il potere che prepara il loro domani.

 

Lo so: tutto questo - e altro ancora - riguarda il prima della guerra: un

tema che sembra scomparso dalle nostre agende e che il pacifismo - come lo

vedo io - ha l'enorme compito di resuscitare. Forse sbaglio: ma io penso

che abbiamo accettato troppo quietamente il ritorno della guerra di massa.

Non abbiamo fatto scandalo. Non abbiamo misurato ed evocato la gravità

dell'evento.

 

Poi ci sono le guerre che già esistono: sono troppo ingiusto se dico che ad

esse il mondo - e anche un campo di cui noi facciamo parte - in un certo

modo anche a ciò sta adattandosi? Per amaro che sia noi non abbiamo fatto

il possibile per impedire la seconda guerra all'Irak. Né - mi sembra - sia

ancora terminata la guerra in Afghanistan. E poco o nulla io so dirvi delle

molte e crudeli guerre che squassano l'Africa, rispetto a cui la parola

"pacifismo" sembra proprio suonare bizzarra e distante.

 

 

L'art. 11 esiste!

 

Ma c'è stata anche un'assenza che riguarda direttamente noi: noi italiani.

Abbiamo tollerato che in questo Paese fosse gravemente scavalcato ciò che

impone esplicitamente la Costituzione di questa Repubblica, quando

all'articolo 11 consente solamente la guerra di difesa. E l'assurdo, il

ridicolo è che mesi or sono non uno qualsiasi, ma il Presidente della

Repubblica, rompendo un lungo silenzio, ha confessato che sì l'articolo 11

esiste. Dunque esiste ma non vale: e noi abbiamo mandato i nostri soldati

in Irak.

 

 

Il diritto alla resistenza

Quelle truppe italiane - per me - sono aggressori; e pacifismo - nel suo

senso più elementare - è lottare perché cessi quell'aggressione armata.

Quale motivazione più urgente per invocare e costruire una corrente

pacifista? E chiamarla subito a un compito così necessario e bruciante? E

non è questo sopravvenire della guerra preventiva una ragione nuova per

invocare il ritorno al dettato dell'articolo della Costituzione italiana?

Perché non accade? E invece Massimo D'Alema, autorevole dirigente dei Ds,

parla ancora di "astenersi" nel voto prossimo su questa presenza illegale

di truppe italiane in Irak.

 

E qui - bisogna dirlo- s'apre un problema nuovo e aspro per noi pacifisti:

la questione del diritto del popolo irakeno. Noi pacifisti potremmo negare

al popolo irakeno il diritto di resistere, anche con le armi alla mano,

all'aggressore straniero? E però - ecco il dubbio - non rinneghiamo così la

nostra vocazione alla non - violenza?

 

Personalmente io ritengo che non si possa rifiutare a chi nel suo paese è

aggredito da un esercito straniero la possibilità di difendersi e

respingere l'aggressore anche con le armi. Ma penso e spero che l'esistenza

attiva e coraggiosa di una movimento pacifista di respiro internazionale

divenga il luogo costruttivo in cui esplorare, vagliare e decidere quale

sia la strada migliore per assicurare libertà e pace a quel paese aggredito.

 

 

La scelta pacifista

Insomma il pacifismo non è solo una dichiarazione di fede e un mero rigetto

dell'uso delle armi. Non è una strategia delle mani pulite e della pura

speranza nella pace. E' un soggetto politico-sociale capace di intervenire

nei punti di crisi contro la pratica della violenza, e per la

individuazione e la costruzione di vie pacifiche. E' un fare per la pace:

non una passività da calabrache. E la sua efficacia sta proprio nell'agire

(e prevenire) sul conflitto e nel conflitto. E noi, con questa scelta e

questo dibattito sul pacifismo, stiamo cercando ed esplorando le vie per

pensare il conflitto, nelle condizioni - nuovissime - in cui si presenta in

questo inizio di secolo.

 

 

Terrorismo: netta condanna

E qui l'orizzonte si allarga. Io credo che dalla riflessione che sono

venuto sommariamente sviluppando emerga chiaramente l'obbligo (uso

volutamente questa parola così rigida) di una condanna del terrorismo messo

in campo da una parte del mondo arabo ferito. Non solo esso è una via che

si fonda sulla violenza nel senso più crudo e nudo. E' una strada che non

solo dà un alibi- per ipocrita che sia- all'aggressore occidentale, ma

poggia tutta sullo scontro armato, e sulla carta avvelenata delle armi. E'

l'opposto sanguinario della via che il pacifismo propone. Ed un compito

urgente che dobbiamo affrontare è il dibattito e la ricerca sulle vie per

combatterlo. Qui sinora c'è un'assenza nostra, che richiede una riflessione

nuova da avviare: e prima di tutto cerchi di comprendere come il pacifismo

si sia indebolito ad Oriente, proprio là dove si era sviluppata l'azione

fulgida e militante della figura e del pensiero di Gandhi (e non dimentico

- certo - le differenze grandi e la distanza fra il mondo arabo di oggi e

l'India di Gandhi).

 

Penso che in questa luce dobbiamo sconsigliare e combattere anche la strada

povera e dolente dei kamikaze: quell'uso disperato e misero della morte

sacrificale è ancora violenza, per giunta inutile e infeconda, e quasi

dimentica delle dimensioni della lotta.

 

 

Il mondo d'oggi

Al tempo stesso io sento e temo l'inefficacia e la sterilità di questa

critica. Il pacifismo può superare questa sterilità, solo individuando,

costruendo strade diverse dall'urto armato. E la nostra discussione di

questo parla, di questo deve discutere: non una scelta astratta fra pace e

guerra, tra violenza e carità, ma la costruzione di una strategia concreta

contro la violenza nel nostro tempo.

 

Certo: andiamo pure a sfogliare quelle pagine di Lenin e di Gramsci - che

in altro tempo mi parvero così obbliganti e oggi invece mi appaiono così

dubbie - , e a rileggere e resuscitare quel tempo. Ma guardando il mondo

nella sua inaudita e tragica luce di oggi.

 

Pietro Ingrao

 

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nonviolenza

Imparare

dall'esperienza

Caro direttore, il movimento dei lavoratori ha sempre operato per realizzare una società senza violenza. Il ricorso all'uso della forza (storicamente, talvolta, resosi necessario) da parte del movimento operaio è sempre dipeso dalla necessità di autodifendersi (dall'ascesa del fascismo nel nostro paese, alla lotta di resistenza, sino alle lotte antiimperialiste di liberazione nazionale). La scelta strategica della non violenza "qui e ora" (quindi non in senso astratto e assoluto) così come precisata nel corso dell'intervista di Bertinotti apparsa su "Repubblica" e su "Liberazione" il 27/1, deve essere consapevole delle possibili reazioni degli apparati delle classi sociali dominanti di fronte a scelte politiche ed economiche che segnano la trasformazione sociale. In conclusione, l'esperienza anche tragica del passato ci insegna che gli esiti del conflitto di classe sono quasi sempre imprevedibili e che gli accadimenti possono superare anche le volontà pacifiche del movimento operaio (novecentesco e nuovo) e delle sue rappresentanze politiche.

Marco Dal Toso Milano

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da Liberazione del 3-2-'04

 

La non-violenza come estensione della conflittualità

 

Franco Giordano (deputato del PRC)

 

Il dibattito che ha preso corpo sui temi proposti da Bertinotti è diventato

rapidamente un evento culturale e politico che ha sconfinato, anche

autorevolmente, il perimetro della nostra organizzazione. Basti pensare

alle questioni affrontate domenica su Liberazione da Pietro Ingrao.

 

Nella confusione e banalità prevalente del dibattito quotidiano a sinistra

incentrato su improbabili modelli di ingegneria politica è la colpevole

mediocrità sistematica delle proposte emendative alle politiche di governo,

l'occasione che ci viene fornita non può essere sciupata con

interpretazioni legate alla mera congiuntura politica o tese ad introdurre

il "veleno" del sospetto di un corredo teorico funzionale alla

legittimazione di governo.

 

Negli ultimi anni abbiamo provato a ridefinire gli strumenti culturali

della nostra esperienza storica per produrre un'iniziativa politica

alternativa. Per fare politica nel quotidiano abbiamo empiricamente e

processualmente adeguato il nostro bagaglio culturale. Oggi incominciano ad

emergere lineamenti di una nuova identità, il profilo strategico di una

rinnovata forza comunista.

 

La non violenza è una parola chiave. Perché è un mezzo che anticipa il

fine. E' allusiva di un'idea di società e di una modalità di critica del

nuovo capitalismo. Non può essere vista come una variante tattica o come

una temporanea acquisizione, vista la disparità dei rapporti di forza

attualmente esistenti su scala planetaria (questione, peraltro, non certo

irrilevante per chi non intende affidare le aspettative di un altro mondo

ad un improbabile blocco di potenze statuali contrapposte all'egemonia

imperiale Usa). Né l'approdo convinto ad essa può avvenire su di una

sublimazione etica che dispensa giudizi di valore su altri passaggi

storici. E' una scelta politica.

 

La non violenza è la metafora e la pratica del disvelamento dell'enorme

potenziale distruttivo che la globalizzazione capitalistica produce

introiettando permanentemente la guerra come risposta sistematica alle

instabilità e crisi sempre più frequenti. E' il disvelamento delle forme

attuali di dominio e del potere, dello sfruttamento della natura, dei corpi

e delle menti. E' una critica radicale del concentrato autoritario e

violento delle forme di produzione del capitale. La scelta non violenta del

movimento pacifista e del movimento dei movimenti è stata ed è una efficace

modalità di sottrazione dalla spirale repressione-violenza-repressione che

avrebbe sancito il rapido dissolvimento della sua efficacia, della sua

dimensione di massa, della pervasività del consenso.

 

La forza del movimento sta nella sua dimensione mondiale e nel suo

carattere duraturo e permanente di critica globale. La disobbedienza come

processo sociale "declina, per dirla con Daniele Farina, la non violenza in

una forma nuova dalle modalità di lotta conosciute nel passato" e diventa

contagiosa se a praticarla sono gli abitanti della Lucania contro

l'installazione di scorie nucleari, gli autoferrotranvieri, gli occupanti

di case, gli studenti in lotta contro la riforma Moratti e tutti coloro che

stanno animando la conflittualità sociale nel nostro paese. Tutte lotte che

esprimono una prepotente radicalità. Tutte lotte che sfuggono a modelli

imitativi e violenti dell'avversario.

 

Come si vede la non violenza è ben presto divenuta sinonimo di estensione

della conflittualità e della conquista del consenso (ho trovato

assolutamente pertinenti nel dibattito le riflessioni sul concetto di

"egemonia" in Gramsci), di idea molecolare di trasformazione della società.

In realtà la contrapposizione a questa scelta, sicuramente innovativa nella

nostra tradizione, è legata ad una concezione classica di conquista del

potere. Paradossalmente questa concezione è sopravvissuta anche quando non

viene riproposta nelle forme violente. E' la sublimazione dell'autonomia

del politico. E' l'ipotesi del governo che si separa dalla trasformazione

sociale. E' la negazione di una soggettività relegata nell'identificazione

con lo Stato e le sue istituzioni. Ed al rovescio è un'identità che non si

verifica mai socialmente. E' tramandata negli anni e si separa

permanentemente dall'agire politico. E' il sole dell'avvenire che non

illumina e non scalda mai il qui ed ora della tua scelta concreta. E' così

lontano ed immobile che l'arco della tua vita non riuscirà neanche a

carpirne un raggio. Ed è sempre lo stesso anche quando il capitalismo muta

radicalmente la sua morfologia.

 

La stagione dei movimenti che si è aperta da Seattle in poi ha ridato forza

e credibilità ad una critica di massa della globalizzazione capitalistica e

ha posto con forza il tema del suo possibile superamento. Qui sta il

cimento della Rifondazione comunista. Francamente lo storicismo

giustificazionista che sembra animare alcuni degli interventi in questa

discussione tende ad imprigionare le potenzialità trasformatrici di questa

fase in un estenuante lavoro di verifica di congruità con la nostra

tradizione. Il secolo che ci siamo lasciati alle spalle è stato segnato

dalla storia grande e terribile dei tentativi di costruire una società

comunista.

 

Forse, fin dall'inizio, del pensiero di Marx si è teso a privilegiare il

fondamentale concetto di eguaglianza. Quando questo concetto si è inverato

in esperienze statuali ha reso muti ed inerti i soggetti che si sono

battuti per realizzarlo. Poco si è lavorato su quella parte del pensiero

marxiano che parla di libertà. Uguaglianza e libertà devono poter essere

coniugati come coppia indissolubile. Oggi quel concetto esprime per intero

la sua attualità. Libertà intesa come superamento di ogni forma di

alienazione, di ogni modalità di asservimento psicofisico dei lavoratori,

di pieno dispiegamento e crescita delle soggettività. Libertà intesa come

critica di ogni logica produttivistica e di potenza, come valorizzazione e

pratica della differenza sessuale. Non possiamo più separare la nostra

azione dall'anticipazione del mondo che vogliamo se vogliamo ridare senso e

fascino alla parola: comunista.

 

Franco Giordano

 

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comunismo

 

Quello che scriveva

Primo Levi

Caro direttore, Brunello Mantelli replica efficacemente su "l'Unità" del 26 gennaio alle tesi comparative (lager uguale a gulag, ergo nazismo uguale a comunismo) che vengono superficialmente divulgate non solo dalla destra, ma anche da esponenti e settori democratici e di sinistra: non ultimi il professor Galli della Loggia e il "Riformista". A sostegno degli argomenti di Mantelli, è opportuno ricordare quanto ha scritto Primo Levi nel 1976, in appendice all'edizione scolastica di "Se questo è un uomo". Levi rimarca le diverse finalità dei due fenomeni, evidenziando il carattere di unicità storica assunto dal lager nazista dove "si entrava per non uscirne" in quanto preordinato a "cancellare interi popoli e culture". Per raggiungere tale obiettivo i lager si trasformano in "gigantesche macchine di morte" che conducono all'eliminazione fisica di percentuali variabili dal 90 al 98% degli internati. Nei gulag russi, scrive Primo Levi, "la morte dei prigionieri non veniva espressamente ricercata": era un incidente "dovuto alla fame, al freddo, alle infezioni, alla fatica". Prigionieri e carcerieri appartengono allo stesso popolo, parlano la stessa lingua. I prigionieri possono mantenere relazioni con i familiari, è possibile ricevere da casa lettere e pacchi con vivere: "la personalità umana, insomma, non viene denegata e non va totalmente perduta". Nei lager nazisti si instaura, al contrario, un inedito rapporto tra "superuomini" e "sottouomini": la strage di ebrei e zingari è pressoché totale e "non si ferma neppure davanti ai bambini, che furono uccisi nelle camere a gas a centinaia di migliaia, cosa unica fra tutte le atrocità della storia umana". I campi sovietici rappresentano un fenomeno "deplorevole di illegalità e disumanità" estraneo al socialismo, "una barbarica eredità dell'assolutismo zarista" di cui avevano fatto le spese molti dirigenti bolscevichi, compreso lo stesso Stalin. E in effetti è possibile rappresentarsi un socialismo senza gulag: "in molte parti del mondo - conclude Primo Levi - è stato realizzato.

Vittorio Tomasin Rovigo

 

"Il" comunismo

e "quel" comunismo

Caro Curzi, Nichi Vendola ha proprio ragione: troppi spettri si aggirano nel nostro dibattito. C'è chi, purtoppo, continua ad identificare "il" comunismo con "quel" comunismo "reale"; c'è chi pensa di assumerlo da codici e dogmi senza tempo; c'è chi lo conserva come fa un antiquario che aspira ad aumentarne il valore. In tutti questi casi si fa un torto al comunismo che è invece, riprendendo una espressione felice della Gagliardi, non un sogno o una "nostalgia" o una sorta di "imperativo morale" che vale, magari, per il nostro orizzonte individuale o intimo, ma l'unica risposta razionale alla crisi di civiltà, alla violenza devastante, alla regressione sociale che il capitalismo porta con sé. Mettendo la parola Rifondazione davanti a Comunista (termine insostituibile, a scanso di equivoci) scegliemmo di lanciare una sfida persa da "quel" comunismo staliniano che non seppe dare pace, libertà, uguaglianza e giustizia a milioni di donne e uomini. Non rinnego nulla della nostra storia, ma come ha dichiarato Ingrao, "nel cercare dove sbagliammo mi sento più vivo e più forte". E non sarò affatto dispiaciuto se per questo qualcuno mi iscriverà all'Internazionale di Nichi Vendola per la costruzione di un nuovo mondo possibile

Salvatore Serra Racale (Le)

 

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da Liberazione del 4-2-'04

 

Dove va il nostro partito?

(dalle idee alla politica)

Marco Ferrando (direzione nazionale del PRC)

 

Non violenza, religione, partito della sinistra europea non rappresentano ambiti separati di dibattito ma tre diverse angolazioni di un unico tema di fondo: dove va il nostro partito? Un interrogativo che non riguarda solamente il cielo stellato delle idee, ma il terreno concreto della politica. Un interrogativo che chiama in causa la svolta politica di prospettiva che da un anno la maggioranza dirigente del Prc ha varato: la prospettiva di un governo comune con l'Ulivo e, quindi, di scioglimento dell'opposizione comunista in Italia.

E' mia precisa convinzione che questa svolta politica sia la base materiale della svolta culturale in atto, il suo alimento, la sua cifra. E che senza cogliere questa connessione si rischi non solo di "distrarre" il partito con la finzione, fosse pure involontaria, di un dibattito culturale separato, ma di disperdere senso e ragione dello stesso confronto teorico e dei suoi contenuti. Del resto: quando mai nella lunga storia del movimento operaio i dibattiti "teorici" sono stati avulsi dai confronti politici di linea sulla stessa dislocazione di classe dei comunisti?

 

"Ritorno a Marx"

nel nome

della "non violenza"?

"E' a priori indispensabile l'aperto riconoscimento della necessità dell'uso della forza, sia in singoli episodi della lotta di classe come per la conquista finale del potere statale: è la forza che può prestare anche alla nostra attività pacifica e legale la sua particolare energia ed efficacia" (Violenza e legalità, 1902). Così Rosa Luxemburg - assunta incredibilmente come icona del nuovo partito non comunista della sinistra europea- polemizzava un secolo fa con le "nuove" teorie "non violente" della socialdemocrazia belga.

Come si vede il tema teorico della violenza ha una lunga storia politica nella vicenda del movimento operaio. E contrariamente a quanto si cerca di suggerire non ha mai riguardato la questione dei mezzi, se non di riflesso, ma essenzialmente la questione dei fini.

"Riforma sociale o rivoluzione?", così scriveva Rosa. La quale chiariva che l'alternativa non riguarda affatto la diversità dei mezzi (più lenti o più rapidi) per raggiungere i medesimi fini, ma proprio la diversità dell'obiettivo: o la conquista rivoluzionaria del potere politico da parte delle classi subalterne come leva della trasformazione socialista, o "inessenziali modifiche dell'ordinamento capitalista". Questo è stato sempre il discrimine di fondo tra rivoluzionari e riformisti, non altro. Ed ha attraversato, in forme diverse, due secoli di storia. Perfino il movimento operaio pre-marxista ne fu segnato: come nella lotta della sinistra "babuvista" in Francia contro il riformismo istituzionale di L. Blanc, o nella lotta dell'ala radicale del cartismo inglese contro la sua componente più moderata (che opponeva la "forza morale" alla "forza fisica"). Ma fu soprattutto Marx e il marxismo rivoluzionario, sin dal Manifesto del '48, a sancire la rottura con quello che definì "socialismo borghese": che "ha cercato di distogliere la classe operaia da ogni moto rivoluzionario in nome di semplici miglioramenti amministrativi che non cambiano affatto i rapporti di produzione tra capitale e lavoro ma, nel migliore dei casi, diminuiscono alla borghesia le spese del suo dominio" (Il Manifesto). Ed è sempre il Manifesto, com'è noto, a rivendicare la centralità della conquista del potere politico come "elevarsi del proletariato in classe dominante", possibile "solo con l'abbattimento violento di ogni ordinamento sociale esistente": e ciò in polemica proprio col pacifismo riformistico delle vecchie sette del socialismo utopista che "respingendo ogni azione rivoluzionaria vogliono raggiungere il loro scopo con mezzi pacifici e cercano, con piccoli e vani esperimenti, di aprire la strada al nuovo vangelo sociale con la potenza dell'esempio" (Il Manifesto). Peraltro fu Marx a vedere nell'organizzazione e nella forza della Comune di Parigi, quale prima esperienza della dittatura del proletariato, "la forma finalmente scoperta dell'emancipazione del lavoro": attribuendo oltretutto le ragioni della sua sconfitta non certo già all'uso della violenza ma, al contrario, ad una politica troppo difensiva, anche sotto il profilo militare. E al riformista positivista di nome Duhring che con la predica della "non violenza" minacciava di influenzare il movimento operaio tedesco, fu Engels a contrapporre la difesa rigorosa del marxismo: "Per Duhring la violenza è il male assoluto: ogni uso di violenza avvilisce colui che la usa, egli dice: ma che la violenza abbia nella società anche un'altra funzione, una funzione rivoluzionaria, che essa sia secondo le parole di Marx, la levatrice di ogni vecchia società gravida di una nuova... in Duhring non si trova neppure una parola. E questa mentalità di predicatore, fiacca ed insipida, ha la pretesa di imporsi al partito più rivoluzionario che la storia conosca?" (Anti-Duhring, 1878).

Siamo sinceri: teorizzare il "ritorno a Marx" nel nome della "non violenza" è davvero un'operazione insostenibile e, francamente, grottesca.

 

Le vie "pacifiche"

di socialdemocrazia

e stalinismo

E' vero invece che la "non violenza" e più in generale il pacifismo strategico ha costituito un tema centrale della battaglia politica e culturale antimarxista per oltre un secolo. E non per astratte ragioni etiche, ma in funzione della salvaguardia della società borghese o della riconciliazione con essa.

Ciò è avvenuto, in primo luogo, dall'esterno del movimento operaio: laddove ad esempio il celebrato Gandhi -già sostenitore dell'imperialismo inglese nella prima guerra mondiale, nella guerra anti-boeri e nella repressione sanguinosa della rivolta degli zulù in Sudafrica- elevò la bandiera della non violenza anche in opposizione al bolscevismo "a difesa del principio della proprietà privata e di Dio". Ma è avvenuto anche dall'interno del movimento operaio e socialista. Tutto il revisionismo positivista che si sviluppò nella II Internazionale, a partire da Bernstein, sotto la pressione della burocrazia parlamentare della socialdemocrazia tedesca, elaborò la teoria della "via legale e pacifica" al socialismo come paravento ideologico del proprio adattamento al capitalismo: ciò che significherà, naturalmente nel nome... della "non violenza", il voto ai crediti di guerra, la repressione armata della rivoluzione tedesca, l'assassinio della Luxemburg e di Liebnecht. E' appena il caso di ricordare che il biasimato "comunismo novecentesco" di Lenin, Trotsky (e della stessa Luxemburg) nacque e si sviluppò esattamente nel segno del (vero) ritorno a Marx contro quella deriva.

Così lo stalinismo approderà alla "via pacifica al socialismo" lungo le orme della vecchia II Internazionale per dare copertura teorica alla svolta di governo dei fronti popolari con la borghesia liberale e alla propria integrazione progressiva nella democrazia borghese: ciò che significò, a difesa della "nuova" via... pacifica, la soppressione spietata non solo dei comunisti rivoluzionari ma di tutte le forze di classe che contrastavano la sua politica (Spagna, '36-'39), per di più spianando spesso la via alla peggiore violenza reazionaria. O vogliamo separare la sacrosanta denuncia degli orrori dello stalinismo dalla politica per cui vennero consumati?

 

Comunismo in cielo,

ministri in terra

Ecco allora, a me pare, il lato abnorme della celebrazione ideologica della "non violenza" come nuovo asse identitario del nostro partito.

L'enormità non sta solamente -ciò che già è stato giustamente osservato- nello scarto tra questa ideologia e la cruda e immediata materialità dello scontro di classe internazionale, tanto più nella svolta d'epoca segnata dal ritorno prepotente delle politiche di potenza dell'imperialismo. Né solamente nello scarto con l'esperienza storica della lotta di classe di generazioni e di popoli oppressi. Né solamente nella pretesa, tutta idealistica, e davvero non nuova, di individuare nella violenza, astrattamente intesa, il peccato originario della storia umana al di là e al di sopra della storia reale: ciò che ad esempio consente l'assurda equiparazione di leninismo e stalinismo, entro un'unica filiera "culturale" ("la violenza"), e a dispetto della loro contrapposizione materiale (sociale e politica) nella storia.

L'enormità sta soprattutto nella prospettiva che la nuova ideologia di fatto rivela, in profonda continuità con il riformismo storico novecentesco: l'adattamento "critico" a questa società e a questo mondo, alle sue istituzioni e ai suoi governi borghesi "riformisti" (oggi oltretutto controriformatori). Naturalmente, come sempre, nel nome di "un nuovo mondo possibile" e delle migliori suggestioni etiche e filosofiche. Ma dentro un processo in cui lo stesso riferimento al comunismo slitta sempre più su un piano metafisico e celeste, perciò compatibile con il richiamo religioso e con la sua esaltazione: liberando il campo, nel mondo terreno, per le più disinvolte prospettive ministeriali. Perché proprio questa è la legge fisica della storia: chi respinge la conquista del potere dei lavoratori, magari nel nome della "non violenza", finisce col chiedere ministri nei governi della borghesia, che sono massimi organizzatori di violenza.

 

L'urgenza

di un congresso

straordinario

Già, la borghesia.

Sullo sfondo di un capitalismo italiano che vive, come ovunque, sulla violenza quotidiana dello sfruttamento, della frode, di un nuovo militarismo coloniale, il centro liberale dell'Ulivo e la sua stampa -già sostenitori di tutte le imprese imperialiste dell'ultimo decennio- mostrano esplicito apprezzamento per la svolta della "non violenza" da parte di Bertinotti, dentro il plauso per la più generale svolta di governo del Prc. Di più: vedono e applaudono in tutto questo la "Bad Godesberg" del Prc.

Si sbagliano, "non capiscono" da poveri ingenui la trama rivoluzionaria del nuovo disegno? Oppure capiscono sin troppo bene, la valenza politica del nuovo corso e il segnale rassicurante che configura: un comunismo ridotto alla terra promessa dell'al di là e il realismo di ministri ed assessori nella valle di lacrime dell'al di qua?

La verità -a me pare- è che la sola prospettiva di un governo con l'Ulivo e i suoi banchieri sotto la guida di Prodi già trascina alla deriva l'intero impianto politico-culturale del partito. Cosa mai comporterebbe la realizzazione pratica di quel governo se non la messa in discussione della ragione stessa del Prc e la distruzione definitiva della rifondazione?

Per questo credo che il congresso straordinario si confermi, una volta di più, come un'urgente necessità per tutto il nostro partito.

Marco Ferrando

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non-violenza

La non-collaborazione

all'ingiustizia

Carissimi, domenica 1 febbraio, Ingrao su "Liberazione", proponendo un pacifismo attivo e nonviolento come metodo, ammetteva, come eccezione di necessità, la resistenza armata irakena. Certo, in assenza di una locale cultura ed esperienza nonviolenta, vale ciò che diceva Gandhi agli indiani: piuttosto di subire (che è collaborazione alla violenza) meglio rispondere con la violenza; meglio violenti che codardi; ma avvertiva che c'è una via migliore, la forza popolare nonviolenta della noncollaborazione all'ingiustizia (poiché ogni potere, anche il più violento, ha un essenziale bisogno di collaborazione), e che la violenza propria non difende mai veramente dalla violenza altrui, perché la imita e la estende, perché se ne contamina e finisce per confermarla. Perciò, l'aiuto migliore alle lotte popolari giuste è la comunicazione della teoria e prassi della nonviolenza forte e attiva, quindi delle esperienze storiche reali, non poche, di lotte popolari nonviolente di difesa e liberazione.

Enrico Peyretti via e-mail

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Dal manifesto del 4-2-'04

 

Quella levatrice da abbandonare

 

ROMANO MADERA

 

La violenza come "levatrice della storia" doveva servire a farla finita con

gli orrori e liberare i lavoratori dal capitalismo. Ma poi ha prodotto solo

disastri e oggi è tutta interna alle logiche di guerra. Per questo la

sinistra avrebbe bisogno di una vera rivoluzione culturale. Assumendo

esplicitamente l'orizzonte pacifista etica politica, segnare una distanza

dall'esistente con una pratica di pace

è il presupposto per non essere complici del capitalismo.

Alla sinistra servirebbe una vera rivoluzione culturale, niente di meno.

Lo penso e lo scrivo da più di venticinque anni, e mi sono stufato, ma

l'invito del Manifesto a intervenire sulle proposte di reindirizzare quel

che rimane della tradizione comunista verso un pacifismo conseguente, nei

mezzi che sceglie, ai fini che propone, mi sollecita a riprendere il

discorso. Ingrao centra il suo intervento sul ruolo che l'orizzonte

possibile della violenza armata, come strappo decisivo per fuoriuscire dal

capitalismo, ha avuto nella storia del movimento comunista. E chiama

giustamente all'autocritica, anche per mettere a fuoco obiettivi e metodi

di una politica alternativa al dominio del capitalismo globale e alla

dottrina della guerra preventiva come metodo per governarne le crisi.

Proporrei di andare più a fondo nella questione della violenza come

"levatrice della storia": la levatrice doveva affrettare il parto e rendere

meno dolorose e pericolose le doglie (ai tempi di Marx le morti delle donne

per parto erano, si sa, frequentissime). C'è la fretta di finirla con

l'orrore, in quella speranza nella violenza terapeutica: la politica doveva

servire a togliere di mezzo l'oppressione degli stati nazionali che

impedivano ai proletari di tutto il mondo di unirsi. Non era uno slogan

quello dell'unità internazionale, era invece, in Marx, la conseguenza di

una delle sue analisi più penetranti: nell'ultimo paragrafo della prima

parte del Manifesto del partito comunista aveva scritto che "il lavoro

salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza dei lavoratori fra loro".

E' questa la frase che occorrerebbe rimeditare a lungo, pensandone le

conseguenze possibili, oggi, fuori dalla fretta di uscire dall'orrore, che

si è rivelata - macchiando, anche se non annullando, grandiose e

indimenticabili conquiste di civiltà - orrore su orrore, soprattutto nel

movimento comunista. La violenza politica non ha prodotto, alla lunga,

nessun superamento del capitalismo, da nessuna parte (anche perché non si

può superarlo se non "in tutto il mondo", altrimenti la concorrenza dei

lavoratori fra loro ricostituisce subito il fondamento del lavoro

salariato, cioè il rapporto di capitale). E non si può giustificare quella

violenza con la resistenza a mali ancor più funesti, come mi sembra possa

conseguire dal rifiuto orgoglioso di Tronti al "pentimento": si può

pensarla nel versante di lotta democratica e anticoloniale come interna

alle trasformazioni della civiltà della accumulazione economica, si deve

abbandonarla, nel versante interno ai paesi cosiddetti socialisti e ai

partiti comunisti, come prova di una pratica politica oppressiva e

corruttrice. Ma oltre che in quanto levatrice, cioè mezzo di risparmio di

tempo del dolore collettivo, la violenza è stata giustificata come

strumento delle avanguardie per annullare i mezzi di consenso più potenti

in mano alla classe dominante e alla sua cultura. Insomma come una sorta di

cordone sanitario per vaccinare la ancora debole coscienza di classe delle

masse, per dal loro il tempo - di nuovo questa ossessione non casuale,

anche se i comunardi ce l'avevano con gli orologi ! - di maturare. La

coscienza di diritto dell'intellettuale collettivo, il partito, che tiene a

balia la coscienza di fatto della classe.

 

Questa convinzione, a sua volta, poggia sul postulato materialista che la

coscienza è creata dalle condizioni storico-sociali dalle quali viene

forgiata. E dalla postilla decisiva, e giacobina, che le avanguardie devono

affrettare la creazione di tali condizioni. Senza discutere questa vetusta,

ma seria convinzione, mi limito a invitare a riflettere che tutto questo

iperrealismo, materialista o politicista, ha portato comunque a risultato

meno che zero dal punto di vista del superamento del capitalismo. Meno che

zero perché col comunismo ha perso credibilità ogni alternativa globale di

superamento del capitalismo: anche quella dei movimenti è per ora timorosa

di esporre una sua strategia non solo anticapitalistica, ma

dell'oltrecapitalismo. Persino la ricerca intellettuale, la più economica

su questi terreni da visionari, difetta. Di fronte alla disfatta e, quel

che più conta, di fronte al capitalismo globale che sta mettendo in

soffitta ogni regolazione politico-economica, tanto da spaventare i

capitalisti più lucidi e più seri, non è realisticamente in campo nessuna

alternativa mondiale di sistema, perché di questo si trattava, da Marx in

poi. Non solo per la spaventosa, siderale distanza nei rapporti di forza,

ma perché la costruzione di una coscienza mondiale in grado di abolire la

concorrenza fra i lavoratori (fra i popoli, i sessi, le generazioni, gli

individui) non può crescere in pochi anni così in profondità da candidarsi

a un diverso governo del mondo. E' dura, ma è così, ed è sempre troppo

tardi rimandare questa presa di coscienza.

 

Sotto sotto è proprio questo confinamento nell'utopia a far tralasciare il

pensiero e il discorso della "rivoluzione". Si finisce a fare discorsi

etici, non politici, secondo molti. E l'etica è inutile, scrive ancora

Tronti, per i compiti dell'oggi, e su questo, preso dal "che fare", anche

Ingrao pare concordare. Non è forse tempo di riconsiderare, invece, questa

pretesa di verità? Se la fretta di creare le condizioni materiali per una

coscienza di classe internazionale liberatoria non ha sortito che disastri

e sconfitte, se oggi insieme ai militanti di sinistra sfilano religiosi di

ogni confessione, non si può pensare che esista una relativa autonomia

dell'etica e dello spirito (o della posizione culturale) dalle condizioni

storico-sociali, ed è proprio in questo spazio che può coltivarsi e

affinarsi la prospettiva politica e la qualità umana che prepari

l'attraversamento del capitalismo verso un patto planetario di equilibrio e

di pace che promuova l'autorealizzazione solidale di tutti con tutti

(questo è il modo con il quale ribattezzo l'ideale comunista)? Una specie

di rivisitazione del socialismo utopistico, etico e religioso, si dirà. E

perché no ? Perché non ricorrere, in tempi così miseri e aspri per il

progetto di liberazione, a tutte le risorse? E se non si impara a lavorare

su di sé, sullo stile di vita delle relazioni, innanzitutto all'interno del

nostro campo, sarà mai possibile intravvedere nei nostri mezzi l'annuncio

dei nostri fini? E' questa una linea di pace seria e profonda, che pratica

la pace invece di predicarla soltanto agli altri, esponendosi con ciò al

legittimo sospetto che si tratti di mera tattica politica. In realtà

bisogna abbandonare radicalmente l'idea di fare, anche simbolicamente, la

guerra alla guerra, si tratta di superare la politica che è "contro": anche

Bush siamo noi, ricordava già durante la prima guerra del golfo a proposito

di Bush padre, quel geniale maestro buddhista che è Thich Nhat Hahn

(pacifista durante la guerra in Vietnam, candidato al Nobel, partecipante

ai negoziati di Parigi sul Vietnam e ancora costretto all'esilio dal

governo vietnamita, e soprattutto: amorevole terapeuta dei reduci

americani, oltre che vietnamiti, della guerra di allora). Profumi d'incenso

d'anima bella? Perché no? Forse l'incenso brucia più finemente delle

scintille delle armi le scorie di quella concorrenza di tutti fra tutti che

è la radice dell'oppressione universale, che è la vera radice del potere di

Bush e del consenso popolare in tutto il mondo a tutti i predicatori di

guerre giuste e ingiuste. In definitiva pensare a fondo quella frase di

Marx, che in forma sintetica è la chiave teorica anche de Il Capitale, vuol

dire andare oltre Marx, muovere verso l'orizzonte che ricongiunge la sua

aspirazione alla nostra, pur se per strade diverse: proprio perché la

radice del dominio cosale e impersonale del capitale è la reciproca,

universale concorrenza fra gli uomini, il suo superamento significa niente

di meno che una profondissima trasformazione del sentire e del pensare

degli uomini, secondo lo stesso spirito dei grandi profeti

dell'universalismo pacifico, da Buddha a Gesù di Nazareth. Finché saremo

servi della nostra egoità e di Mammona saremo anche compartecipi concause

del permanere della civiltà capitalistica. Per concludere: con ciò, si

dirà, non si fa più politica, ma cultura, etica, filosofia, religione. E

perché non potrebbe nascere una simile politica? Ma nell'immediato?

L'immediato più immediato siamo noi stessi, per prima cosa; seconda cosa,

una chiara, tenace, indefettibile posizione, capace di questa finalità, non

ha più bisogno di trovare surrogati rivoluzionari nella massimizzazione

degli interessi immediati, anzi, può tranquillamente e coerentemente

coniugarsi con le alleanze più ampie possibili per ciò che è qui ed ora

conseguibile: una rivoluzione culturale vera non ha paura, anzi può

ritenere corrispondente alla coscienza media collettiva reale, un'alleanza

che va dai capitalisti più avveduti circa i rischi della deregulation - per

intenderci, la linea di George Soros - fino ai democratici, ai

socialdemocratici e ai movimenti. Un esempio? Nella politica internazionale

odierna, se si ha in mente l'obiettivo di trasformazione di civiltà,

l'avvicinamento dei popoli europei e le forme istituzionali della loro

unità dovrebbero essere il primo punto in agenda. Non c'è in vista altra

forza credibile per moderare gli effetti del capitalismo selvaggio e del

monopolio Usa della politica internazionale.

 

ROMANO MADERA

 

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I dribbling del movimento

La disobbedienza prevede flessibilità. Per praticare la vera nonviolenza

 

LUCA CASARINI

 

Il dibattito su violenza/nonviolenza appare assurdo. Possiamo scomodare le

grandi narrazioni, le uscite dai secoli dei secoli, ma non ce n'è. Messa

così, con lo spiritualismo metafisico che dovrebbe coprire il "vero" del

mondo che attraversiamo tutti i giorni, è anche un imbroglio. Chi pone ai

movimenti il nodo della "violenza", non esclude invece la mediazione e

l'accordo con chi la guerra, anzi le guerre, con bombardieri, missili,

soldati e morti le ha fatte e le farà. A fianco delle interviste contro il

casco ai cortei, rimane il silenzio sulla vergogna dei carabinieri di

Ganzer, della polizia che arresta e usa pistole, gas tossici, manganelli

contro chi protesta. Poi dove sarebbe tutta questa violenza dei movimenti?

In uno scudo, in una protezione corporea se si sfida un cordone di celere?

E' vero ai cortei si può andare anche senza casco, dipende da cosa si deve

fare. Come davanti ad un filo spinato di un lager dello stato pieno di

migranti. Se si deve provare a tagliarlo ci vuole una trancia. Se si deve

bloccare una strada ci vuole la gente che si metta in mezzo, come quella

volta dei treni delle armi. Se poi c'è il rischio che la polizia carichi,

si potrebbe decidere, come a Termini Imerese, di fare una barricata.

Dipende tutto da cosa si vuole fare. Non è un "cosa" che guarda solo a sé

stessa, ma questo, come dice Palombarini, il movimento non ha bisogno di

ribadirlo, perché da Seattle in poi, lo fa parlando a molti, per fare con

altri un altro mondo possibile. Quindi se a un corteo si va solo per

sventolare delle bandiere, i caschi non servono. Ma se si vuole fare

un'azione, anche minima, di disobbedienza alle leggi, che tutti definiscono

ingiuste e da non rispettare, bisogna sapere che la polizia può

"nonviolentemente" spaccarti la testa, quindi è meglio proteggersi. Se poi

si decide di violare una zona rossa, se è un muro come al Cpt di Bologna,

una scala è meglio del casco. E così via.

 

In Italia si discute di come fermare la polizia quando ti aggredisce, di

come disobbedire a leggi ingiuste, di come si difende una casa occupata.

Tutto questo è essere violenti? E allora che i nonviolenti propongano come

fare a fare le stesse cose in un altro modo, senza tanto menarla. Sarebbe

un bel contributo perché nessuno ha la ricetta perfetta e definitiva. Ma

sempre a patto che riteniamo importante e giusto violare leggi ingiuste,

oltre che sventolare bandiere. Quella che Pisanu chiama la "violenza

politica", aiutato nel concetto anche da dibattiti come questo, in realtà

sono le pratiche di illegalità diffusa, o "nuova legalità dal basso", di

disobbedienza e azione diretta, di boicottaggio, che sono parte

fondamentale dello spirito costituente del movimento che contesta la

legittimità dell'Impero, in ogni parte del globo. Quindi pare molto più

sensato ed utile a tutti mettersi insieme, con pratiche e culture diverse,

con ruoli anche diversi, magari uno con il casco e l'altro con una tessera

da parlamentare, e provare a produrre un unico "linguaggio", temporaneo,

che destrutturi il potere, lo metta in difficoltà, allarghi i comportamenti

di diserzione alla guerra, interna ed esterna, colleghi mille forme di

sciopero sociale e resistenza.

 

Allo stesso modo la coppia guerra/terrorismo è un altro imbroglio. Non è

vero che tutto ciò che resiste alla guerra è terrorismo. Per cercare la

pace, dobbiamo boicottare attivamente la guerra. Che è fatta in Iraq

dell'occupazione militare da cui la gente cerca anche di difendersi, e per

questo viene ammazzata per strada, anche se manifesta con le mani alzate.

Così come i bimbi di Gaza in Palestina. E difronte a queste tragedie, non è

accettabile liquidare tutto con una formuletta. Il 20 marzo in tutto il

mondo scenderemo nelle piazze. Dovremo portare con noi l'idea forza che un

altro mondo è possibile, non solo lo slogan. L'idea che è giusto ribellarsi

alla barbarie, costruire spazi pubblici e pratiche contrapposti alle leggi

dominanti. Chi produce il terrore, con i bombardieri o con il secondo

celere, non ha difronte Al Quaeda. Quella ce l'ha dentro. Non ha nemmeno

difronte pacchi infiammabili spediti a destra e a manca per posta, e

nemmeno militanti filo-haideriani che scrivono le rivendicazioni degli Nta.

Quelli li ha al suo fianco. Difronte ha le pratiche sociali dei movimenti,

in tutto il mondo. Si aspetta che non facciamo nulla, si aspetta che ci

basti un seggio per denunciare l'orrore. E' possibile invece che si trovi

dinnanzi a un affare serio, a una moltitudine globale che non rispetta più

i comandi. Che mette l'intelligenza della cooperazione al servizio di un

cambiamento radicale. Che vive di comportamenti sociali in antitesi al

neoliberismo, dal consumo critico alla distruzione dei cpt, dai sit-in

all'invasione delle sedi delle multinazionali della guerra. Dall'accensione

delle telestreet al taglio dei tralicci dell'inquinamento elettromagnetico.

Allo sciopero, che è "selvaggio" solo perché non è "addomesticato" dai

padroni. Chi l'ha detto che tutto questo non può stare assieme, se

l'obiettivo è comune? Forse Pisanu, forse chi ha condannato la lotta dei

tranvieri, forse la polizia, ma loro che cosa c'entrano con il dibattito

del movimento?

 

Abbiamo, dopo questo primo ciclo di lotte globali, costruito un "luogo in

comune", il movimento, ed è ora che assumiamo seriamente questo dato.

Assumiamoci la responsabilità di essere parte di un qualcosa che non è

istituzionale e non segue le regole del gioco. Se c'è un dibattito da

aprire con urgenza è quello sulla violenza della polizia, dei carabinieri,

è quello sulla restrizione dei diritti e delle libertà che è in atto,

applicata anche da giudici che fanno i girotondi, dalle precettazioni agli

arresti, confino e sorveglianza speciale per chi fa i picchetti, occupa

case, partecipa a manifestazioni. Per chi disobbedisce, con o senza il

casco. La guerra interna è anche questo. Speriamo che con la stessa

profusione di interviste, saggi e convegni dedicati al tema della violenza

e nonviolenza, si apra su questo un dibattito forte. Pensando a Genova, al

2 marzo, a un processo politico contro il movimento.

 

LUCA CASARINI

 

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Da Liberazione del 4-2-'04

 

NON VIOLENZA E MINISTERI

 

di Marco Ferrando (direzione nazionale del PRC)

Associazione marxista rivoluzionaria PROGETTO COMUNISTA

 

Non violenza, religione, partito della sinistra europea non rappresentano ambiti separati di dibattito ma tre diverse angolazioni di un unico tema di fondo: dove va il nostro partito? Un interrogativo che non riguarda solamente il cielo stellato delle idee, ma il terreno concreto della politica. Un interrogativo che chiama in causa la svolta politica di prospettiva che da un anno la maggioranza dirigente del Prc ha varato: la prospettiva di un governo comune con l'Ulivo e, quindi, di scioglimento dell'opposizione comunista in Italia.

E' mia precisa convinzione che questa svolta politica sia la base materiale della svolta culturale in atto, il suo alimento, la sua cifra. E che senza cogliere questa connessione si rischi non solo di "distrarre" il partito con la finzione, fosse pure involontaria, di un dibattito culturale separato, ma di disperdere senso e ragione dello stesso confronto teorico e dei suoi contenuti. Del resto: quando mai nella lunga storia del movimento operaio i dibattiti "teorici" sono stati avulsi dai confronti politici di linea sulla stessa dislocazione di classe dei comunisti?

 

"RITORNO A MARX" NEL NOME DELLA "NON VIOLENZA"?

"E' a priori indispensabile l'aperto riconoscimento della necessità dell'uso della forza, sia in singoli episodi della lotta di classe come per la conquista finale del potere statale: è la forza che può prestare anche alla nostra attività pacifica e legale la sua particolare energia ed efficacia." (Violenza e legalità, 1902). Così Rosa Luxemburg -assunta incredibilmente come icona del nuovo partito non comunista della sinistra europea- polemizzava un secolo fa con le "nuove" teorie "non violente" della socialdemocrazia belga.

Come si vede il tema teorico della violenza ha una lunga storia politica nella vicenda del movimento operaio. E contrariamente a quanto si cerca di suggerire non ha mai riguardato la questione dei mezzi, se non di riflesso, ma essenzialmente la questione dei fini.

"Riforma sociale o rivoluzione?", così scriveva Rosa. La quale chiariva che l'alternativa non riguarda affatto la diversità dei mezzi (più lenti o più rapidi) per raggiungere i medesimi fini, ma proprio la diversità dell'obiettivo: o la conquista rivoluzionaria del potere politico da parte delle classi subalterne come leva della trasformazione socialista, o "inessenziali modifiche dell'ordinamento capitalista". Questo è stato sempre il discrimine di fondo tra rivoluzionari e riformisti, non altro. Ed ha attraversato, in forme diverse, due secoli di storia. Perfino il movimento operaio pre-marxista ne fu segnato: come nella lotta della sinistra "babuvista" in Francia contro il riformismo istituzionale di L. Blanc, o nella lotta dell'ala radicale del cartismo inglese contro la sua componente più moderata (che opponeva la "forza morale" alla "forza fisica"). Ma fu soprattutto Marx e il marxismo rivoluzionario, sin dal Manifesto del '48, a sancire la rottura con quello che definì "socialismo borghese": che "ha cercato di distogliere la classe operaia da ogni moto rivoluzionario in nome di semplici miglioramenti amministrativi che non cambiano affatto i rapporti di produzione tra capitale e lavoro ma, nel migliore dei casi, diminuiscono alla borghesia le spese del suo dominio" (Il Manifesto). Ed è sempre il Manifesto, com'è noto, a rivendicare la centralità della conquista del potere politico come "elevarsi del proletariato in classe dominante", possibile "solo con l'abbattimento violento di ogni ordinamento sociale esistente": e ciò in polemica proprio col pacifismo riformistico delle vecchie sette del socialismo utopista che "respingendo ogni azione rivoluzionaria vogliono raggiungere il loro scopo con mezzi pacifici e cercano, con piccoli e vani esperimenti, di aprire la strada al nuovo vangelo sociale con la potenza dell'esempio" (Il Manifesto). Peraltro fu Marx a vedere nell'organizzazione e nella forza della Comune di Parigi, quale prima esperienza della dittatura del proletariato, "la forma finalmente scoperta dell'emancipazione del lavoro": attribuendo oltretutto le ragioni della sua sconfitta non certo già all'uso della violenza ma, al contrario, ad una politica troppo difensiva, anche sotto il profilo militare. E al riformista positivista di nome Duhring che con la predica della "non violenza" minacciava di influenzare il movimento operaio tedesco, fu Engels a contrapporre la difesa rigorosa del marxismo: "Per Duhring la violenza è il male assoluto: ogni uso di violenza avvilisce colui che la usa, egli dice: ma che la violenza abbia nella società anche un'altra funzione, una funzione rivoluzionaria, che essa sia secondo le parole di Marx, la levatrice di ogni vecchia società gravida di una nuova... in Duhring non si trova neppure una parola. E questa mentalità di predicatore, fiacca ed insipida, ha la pretesa di imporsi al partito più rivoluzionario che la storia conosca?" (Anti-Duhring, 1878).

Siamo sinceri: teorizzare il "ritorno a Marx" nel nome della "non violenza" è davvero un'operazione insostenibile e, francamente, grottesca.

 

LE VIE "PACIFICHE" DI SOCIALDEMOCRAZIA E STALINISMO

E' vero invece che la "non violenza" e più in generale il pacifismo strategico ha costituito un tema centrale della battaglia politica e culturale antimarxista per oltre un secolo. E non per astratte ragioni etiche, ma in funzione della salvaguardia della società borghese o della riconciliazione con essa.

Ciò è avvenuto, in primo luogo, dall'esterno del movimento operaio: laddove ad esempio il celebrato Gandhi -già sostenitore dell'imperialismo inglese nella prima guerra mondiale, nella guerra anti-boeri e nella repressione sanguinosa della rivolta degli zulù in Sudafrica- elevò la bandiera della non violenza anche in opposizione al bolscevismo "a difesa del principio della proprietà privata e di Dio."

Ma è avvenuto anche dall'interno del movimento operaio e socialista. Tutto il revisionismo positivista che si sviluppò nella II Internazionale, a partire da Bernstein, sotto la pressione della burocrazia parlamentare della socialdemocrazia tedesca, elaborò la teoria della "via legale e pacifica" al socialismo come paravento ideologico del proprio adattamento al capitalismo: ciò che significherà, naturalmente nel nome... della "non violenza", il voto ai crediti di guerra, la repressione armata della rivoluzione tedesca, l'assassinio della Luxemburg e di Liebnecht. E' appena il caso di ricordare che il biasimato "comunismo novecentesco" di Lenin, Trotsky (e della stessa Luxemburg) nacque e si sviluppò esattamente nel segno del (vero) ritorno a Marx contro quella deriva.

Così lo stalinismo approderà alla "via pacifica al socialismo" lungo le orme della vecchia II Internazionale per dare copertura teorica alla svolta di governo dei fronti popolari con la borghesia liberale e alla propria integrazione progressiva nella democrazia borghese: ciò che significò, a difesa della "nuova" via... pacifica, la soppressione spietata non solo dei comunisti rivoluzionari ma di tutte le forze di classe che contrastavano la sua politica (Spagna, '36-'39), per di più spianando spesso la via alla peggiore violenza reazionaria. O vogliamo separare la sacrosanta denuncia degli orrori dello stalinismo dalla politica per cui vennero consumati?

 

COMUNISMO IN CIELO, MINISTRI IN TERRA

Ecco allora, a me pare, il lato abnorme della celebrazione ideologica della "non violenza" come nuovo asse identitario del nostro partito.

L'enormità non sta solamente -ciò che già è stato giustamente osservato- nello scarto tra questa ideologia e la cruda e immediata materialità dello scontro di classe internazionale, tanto più nella svolta d'epoca segnata dal ritorno prepotente delle politiche di potenza dell'imperialismo. Né solamente nello scarto con l'esperienza storica della lotta di classe di generazioni e di popoli oppressi. Né solamente nella pretesa, tutta idealistica, e davvero non nuova, di individuare nella violenza, astrattamente intesa, il peccato originario della storia umana al di là e al di sopra della storia reale: ciò che ad esempio consente l'assurda equiparazione di leninismo e stalinismo, entro un'unica filiera "culturale" ("la violenza"), e a dispetto della loro contrapposizione materiale (sociale e politica) nella storia.

L'enormità sta soprattutto nella prospettiva che la nuova ideologia di fatto rivela, in profonda continuità con il riformismo storico novecentesco: l'adattamento "critico" a questa società e a questo mondo, alle sue istituzioni e ai suoi governi borghesi "riformisti" (oggi oltretutto controriformatori). Naturalmente, come sempre, nel nome di "un nuovo mondo possibile" e delle migliori suggestioni etiche e filosofiche. Ma dentro un processo in cui lo stesso riferimento al comunismo slitta sempre più su un piano metafisico e celeste, perciò compatibile con il richiamo religioso e con la sua esaltazione: liberando il campo, nel mondo terreno, per le più disinvolte prospettive ministeriali. Perché proprio questa è la legge fisica della storia: chi respinge la conquista del potere dei lavoratori, magari nel nome della "non violenza", finisce col chiedere ministri nei governi della borghesia, che sono massimi organizzatori di violenza.

 

L'URGENZA DI UN CONGRESSO STRAORDINARIO

Già, la borghesia.

Sullo sfondo di un capitalismo italiano che vive, come ovunque, sulla violenza quotidiana dello sfruttamento, della frode, di un nuovo militarismo coloniale, il centro liberale dell'Ulivo e la sua stampa -già sostenitori di tutte le imprese imperialiste dell'ultimo decennio- mostrano esplicito apprezzamento per la svolta della "non violenza" da parte di Bertinotti, dentro il plauso per la più generale svolta di governo del Prc. Di più: vedono e applaudono in tutto questo la "Bad Godesberg" del Prc.

Si sbagliano, "non capiscono" da poveri ingenui la trama rivoluzionaria del nuovo disegno? Oppure capiscono sin troppo bene, la valenza politica del nuovo corso e il segnale rassicurante che configura: un comunismo ridotto alla terra promessa dell'al di là e il realismo di ministri ed assessori nella valle di lacrime dell'al di qua?

La verità -a me pare- è che la sola prospettiva di un governo con l'Ulivo e i suoi banchieri sotto la guida di Prodi già trascina alla deriva l'intero impianto politico-culturale del partito. Cosa mai comporterebbe la realizzazione pratica di quel governo se non la messa in discussione della ragione stessa del Prc e la distruzione definitiva della rifondazione?

Per questo credo che il congresso straordinario si confermi, una volta di più, come un'urgente necessità per tutto il nostro partito.

 

Marco Ferrando

 

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dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com

4-2-'04

RICOMINCIAMO dal MOVIMENTO

 

di

 

Marco Bascetta, Piero Bernocchi, Vito Buda, Beppe Caccia ,Salvatore Cannavò,

Francesco Caruso, Luca Casarini, Bruno Ciccaglione, Danilo Corradi,

Nicola Delussu, Gianmarco De Pieri, Nunzio d'Erme, Marco D'Ubaldo,

Riccardo Germani, Pierpaolo Leonardi, Guido Lutrario, Severo Lutrario,

Piero Maestri, Vilma Mazza, Sandro Metz, Sandro Mezzadra, Stafano Molteni,

Felice Mometti, Luciano Muhlbauer, Andrea Olivieri, Marina Pagliuzza,

Bruno Paladini, Luigia Pasi, Francesco Raparelli, Maurizio Ricciardi,

Claudio Robba, don Vitaliano della Sala, Manlio Vicini

 

Nelle ultime settimane la discussione molto partecipata sulle modalità di

azione dei movimenti, sul rapporto tra mezzi e fini, sulla natura della non

violenza e sulle sue forme di espressione ha evidenziato una volta di più la

complessità dei problemi che abbiamo di fronte, ma anche lo spessore della

riflessione in corso nei movimenti stessi.Dobbiamo tuttavia rilevare che

,frequentemente, la confusione di diversi piani e l'astrattezza dei principi

rischiano di sospingere verso atteggiamenti manichei, incomprensioni, e

situazioni di stallo se non di paralisi. Il movimento del resto ha già

dimostrato come sia possibile praticare strade che non sono "violente" senza

per questo sposare la nonviolenza come principio assolutizzante, ma

soprattutto ha dimostrato, da Genova in poi, come sia possibile far

convergere culture e pratiche diverse una volta che si accettino terreni

comuni di mobilitazione e obiettivi, diremmo fini, condivisi.

 

L'insorgenza e la diffusione di conflitti sociali in forte attrito con le

regole stabilite dai rapporti di forza dominanti (che li tacciano di

comportamenti violenti) indicano inoltre un nuovo terreno, più concreto e

vissuto, sul quale la discussione potrebbe essere riarticolata.

 

Riteniamo che questo costituisca un orizzonte imprescindibile per

l'assemblea del 7 e 8 febbraio a Bologna, che rischierebbe altrimenti di

arenarsi tra retorica, astrattezza e buoni sentimenti. Solo la

consapevolezza dello stato particolare della fase in cui ci troviamo, e

dunque una buona partecipazione e una discussione utile, possono consentire

di fare di questa assemblea un positivo punto di svolta.

 

Il movimento, pur conservando capacità di intervento e di elaborazione in

diversi ambiti settoriali, si trova infatti nella difficoltà evidente di

fronteggiare l'articolazione sempre più pervasiva e insidiosa tra guerra

globale permanente e "guerra interna", espressa nelle politiche di sicurezza

e di riduzione degli spazi democratici, nonché l'intensificazione

dell'attacco neoliberista ai redditi, ai salari e alle condizioni del

lavoro. In una simile situazione ogni contemplazione narcisistica della

propria forza e permanenza, ma anche ogni chiusura della discussione sul

piano interno della polemica tra componenti, sarebbe esiziale. E offrirebbe

il fianco a forme strumentali di rappresentanza, finendo col confinarci in

uno spazio separato da quelle lotte sociali che in Italia e in Europa

investono concretamente gli assetti neoliberisti, individuati e combattuti

sul piano generale dal movimento: dagli autoferrotranvieri ai lavoratori di

Fiumicino, dalla difesa del tempo pieno nella scuola alla rivolta in

Inghilterra contro la supertassazione universitaria voluta da Blair, dalla

mobilitazione contro la legge sulla fecondazione assistita (che avrà momenti

molto significativi di espressione proprio a Bologna, nelle stesse giornate

del 7 e dell'8 febbraio, e che dovrà vedere la partecipazione del movimento

nel suo insieme alla manifestazione prevista nel pomeriggio del 7 febbraio )

alla giornata di lotta dei migranti in Europa del 31 gennaio, dagli

intermittenti dello spettacolo in Francia alla mobilitazione permanente dei

metalmeccanici italiani, che tenta di riqualificare dal basso la

contrattazione.

 

Nel rapporto con queste realtà e con altre emergenti potrebbe ricostituirsi

quella dimensione pubblica di confronto, elaborazione, costruzione di

percorsi e di lotte cui aveva potentemente alluso, moltiplicandosi in tutto

il paese, l'esperienza dei social forum subito dopo le giornate di Genova, e

che dobbiamo sempre ricercare. Ci si offre, forse, l'opportunità di un

felice ritorno a uno "spirito costituente", che sia in grado di segnare una

positiva discontinuità con le stesse forme di organizzazione e di

rappresentanza di cui il movimento si è dotato dopo il social forum europeo

di Firenze e che oggi risultano non più adeguate. E' quello spirito, da

Seattle a Genova, che ha permesso che si riaprisse la fase dei movimenti di

conflitto e progetto sul piano globale e in questo paese, e ciò è stato

addirittura sottolineato nel "nome comune" che molti gli hanno dato:

movimento dei movimenti. Oggi le nuove condizioni in cui ci troviamo

richiamano alla necessità di parlare di "movimento" come luogo in comune,

mai scontato o cristallizzato, per i molteplici attori di un conflitto

sociale plurale, ampio, articolato, la cui ricomposizione politica e

materiale è quel mondo possibile "altro" di cui tutti parliamo.

 

Lo stato attuale ci impone dunque di promuovere la più ampia mobilitazione

possibile, non anteponendo "affezioni identitarie" e confortevoli

reiterazioni del già noto, per fare dell'assemblea di Bologna un momento di

reale rinnovamento e l'occasione per un salto di qualità. Si tratta tra

l'altro di individuare strumenti e campagne che mettano maggiormente in

relazione le forze vive del movimento e che possano finalmente valorizzare

quella che in questi anni abbiamo definito "l'eccedenza", la disponibilità

alla mobilitazione che la semplice somma delle reti organizzate, dei

sindacati o dei partiti non può rappresentare.

 

Tre assi ci sembrano presentarsi come priorità, tanto sul piano dell'analisi

quanto su quello della pratica, entrambi bisognosi di dotarsi di strumenti

inediti. Attorno ad essi occorre a nostro parere sperimentare forme di

discussione e di confronto tra i diversi tavoli tematici e le diverse realtà

sensibilità di movimento.

 

Il primo asse riguarda la capacità di collegare, sulla spinta delle lotte

sociali in corso, le istanze dei migranti e i conflitti del lavoro, che

sempre più sta diventando un campo indeterminato di precarietà e di

negazione di ogni spazio di libertà. L'obiettivo è a nostro parere quello di

inventare forme di organizzazione e di lotta che rispecchino la complessità

sociale del presente, non limitandosi alla sola difesa dei diritti esistenti

ma ponendo con forza la questione della loro espansione e sapendo declinare

in forme offensive lo stesso scontro sociale. I temi della democrazia del e

nel lavoro, la questione del reddito sociale, la rinnovata centralità del

salario, decurtato da un decennio di fallimentare concertazione sindacale,

costituiscono un terreno su cui possono essere contrastate la debolezza e la

ricattabilità del lavoro contemporaneo, forzando in avanti il quadro delle

compatibilità e delle "regole del gioco". L'occasione del primo maggio può

essere un primo momento in cui sperimentare queste convergenze.

 

Il secondo è costituito dalla guerra globale - che abbiamo anche definito

"guerra economica, sociale e militare" - e che si intreccia anche con

l'attacco portato ai movimenti, alle garanzie democratiche, alle libertà

individuali (ancora una volta in particolare contro i migranti) e alle loro

forme di espressione. Una delle sfide, in questa luce, consiste nel

costruire una mobilitazione "permanente" contro la guerra, all'altezza della

sua natura, e che non si esaurisca nella semplice

testimonianza/rappresentanza di un'opinione pubblica pacifista. Occorre

darsi strumenti, campagne e obiettivi, anche sul piano sociale, che

attraversino le grandi scadenze collettive e guardino oltre. E' importante

che in questa mobilitazione si tenga presente anche il "fronte interno", a

partire dalla scadenza del 2 marzo (l'inizio del processo contro i

manifestanti di Genova).

 

Centrale e prioritaria è la costruzione della mobilitazione planetaria del

20 marzo contro la guerra e l'occupazione dell'Irak, proposta dai movimenti

contro la guerra statunitensi, assunta a Parigi e rilanciata su scala

globale a Mumbai.

 

Il terzo asse riguarda la difesa e la costruzione di beni e dimensioni

comuni, intesi sia come risorse date sia come spazi politici e decisionali,

sociali e produttivi. Numerosi sono i fronti in cui si articola questo terzo

asse: la lotta contro la privatizzazione delle risorse (dall'acqua al

petrolio) e dei servizi; l'opposizione alla lenta e costante demolizione

della scuola pubblica, per affermare l'autonomia dei saperi e della

formazione a tutti i suoi livelli; la lotta contro l'estensione, ormai

incontrollata della proprietà intellettuale; la capacità del movimento di

condizionare la distribuzione delle risorse e le forme dell'organizzazione

sociale dalle politiche municipali al processo costituente europeo; la

definizione di nuove e più efficaci modalità di azione del movimento

transnazionale in vista dei prossimi forum europeo e mondiale.

 

L'assemblea di Bologna ci sembra dunque una buona occasione per aprire una

nuova fase nella vita del movimento, per de-ritualizzare le sue modalità

decisionali e le sue sedi e per provare così a costruire un percorso più

inclusivo, più ampio, più in sintonia con le recenti mobilitazioni e con le

domande nuove che il conflitto sociale pone. Un modo per riprendere il

percorso di espansione del movimento, preservandone l'unità e valorizzandone

la radicalità, i due elementi che ne hanno caratterizzato l'origine e la

crescita. Ma anche garantendone una completa autonomia dal quadro politico e

dalle vicende relative alle sfere istituzionali, non perché queste siano

indifferenti ma per salvaguardare la politicità stessa del movimento che si

fonda su contenuti e forme di organizzazione autodeterminati. Si tratta di

un aspetto che, soprattutto dopo il grande successo di Mumbai, contribuisce

a costruire le condizioni indispensabili a progettare un futuro possibile.

 

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dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com

5-2-'04

Walter Saresini

 

Cari amici e compagni\e non sò dove vivete voi ma io non vedo tutta questa

potenziale  forza per concretizzare il vostro "manifesto", conosco molti di

quelli\e che hanno firmato il documento sottostante, persone alle quali

voglio bene e stimo profondamente, ma , mi sembra che le cose scritte siano

più il tentativo di dare una linea che un contributo ad una qualsiasi

discussione politica, e da triumplino , penso che si stia dicendo: " queste

cose ci possono dividere, quindi è meglio discuterne poco"

Io non sono confuso nè mi astraggo nella discussione politica tra mezzi e

fini,

anzi , credo sempre più che obbligarmi ad essere attiguo, costretto, a stare

tra mezzi e fini sia la tensione necessaria per rimanere in un ambito

politico e sociale, che altrimenti non accetterei per principio prima ancora

che per pratica politica.

 

Carissimi, mi state forse dicendo che la discussione tra le varie pratiche

non è strategicamente vincente, o sbaglio?

 

Sappiate che io penso che un argomento di tale peso ed entità non possa

essere liquidato in alcune pagine documentarie, seppur interessanti, e che i

firmatari del "manifesto" non possono essere rappresentanti di una base

attiva che per sua definizione pur non esprimendosi enuncia nel suo concreto

pratiche che non necessarimente alludono al vostro "manifesto".

 

Sulla base del vostro documento, io prendo atto di una volontà, che se fosse

accettata dalla assemblea di Bologna, mi escluderebbe da un percorso che io

ho sempre sperato: quello del divenire costruendo.

Se così fosse, continuerei ad impegnarmi fino alla campagna " disarmiamo

exa"( per la quale ho dato il mio impegno e la mia parola) e poi tristemente

mi ritirerei nella mia valle di lacrime.

Credo che le cose da discutere  a Bologna debbano essere molto pratiche,

attinenti alle realtà locali( campagne, iniziative ecc..). Tali iniziative

però devono portare in sè il carico del mezzo e del fine, altrimenti ogni

realtà locale si potrebbe sentire solo strumento e non protagonista di un

percorso, perchè così come voi impostate il vostro "manifesto", prelude al

concetto che alcuni dirigono ed altri , assieme a voi faranno.

 

Con stima ed affetto Walter Saresini

 

Aggiungo io: cosa si decide a Bologna se non c'è un dibattito franco e

aperto nelle "periferie"? che senso ha un documento, firmato tra l'altro

solo da alcune persone, in cui traspare forte la direzione che si vuol far

prendere al dibattito?

Non pensate che forse lo stato attuale del movimento (maluccio, o no?) sia

in gran parte dovuto ANCHE  al non aver voluto discutere di quel che ci ha

diviso continuando un pò ciecamente e a testa bassa su quel che ci univa?

Forse un pò tutte/i abbiamo abdicato al cercare di spiegare le nostre

posizioni e a tentare di capire quelle degli altri. Non sto parlando di

autocoscienza, di catechismo o di altro.

Ho sempre creduto che un mondo diverso si può costruire solo con modalità

diverse in cui non ci siano imposizioni, forzature....questo non significa

rinunciare alla forza delle proprie idee, non significa porgere l'altra

guancia tanto per capirci!

Dirigere il dibattito porta in sè un alto rischio di perdere ancora pezzi,

di restare sempre di meno e di far diventare i momenti di incontro come

quello di Bologna uno dei tanti santuari vuoti.

 

Questo breve intervento a caldo può sembrare forse solo sul metodo, ma a

voler ben leggere si può trovare anche altro.

 

Federica

 

 

dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com

Piero Maestri

6-2-'04

 

Essendo tra i firmatari del contributo "Ricominciamo dal

movimento" vorrei provare a esprimervi appunto alcune riflessioni -

non tanto per "rispondervi", quanto per vedere se riusciamo a

capirci.

 

Personalmente non credo che il contributo abbia lo scopo di "dare

la linea" e nemmeno di prefigurare una sorta di "alleanza" tra

alcune aree - e in questo modo precostituire il dibattito e le

conclusioni dell'assemblea di Bologna.

Lo scopo era esattamente un altro - esprimere alcune riflessioni

che, partendo dalla valutazione di una difficoltà del movimento (che

mi sembra esistere, o no?) proponesse alcuni nodi di dibattito -

non per questo voler evitare di discuterne altri.

Ovviamente il contributo può non essere riuscito ad aprire una

riflessione - che comunque è affidata all'assemblea- ma certamente

non voleva "liquidarla" e nemmeno chiuderla.

 

L'assemblea di sabato e domenica dovrebbe essere l'occasione per

un dibattito a tutto campo, ma soprattutto per cercare di costruire

tutte/i assieme obiettivi, percorsi, campagne, iniziative e luoghi

condivisi. Il contrario di quanto voi dite vorremmo (tra l'altro quello

che dico riguarda solamente me, ovviamente).

 

Se guardiamo ai temi proposti - ad esempio sulla questione

"guerra" - cosa c'è di così diverso dalla riflessione che finora

abbiamo fatto assieme, e dal tentativo di dare gambe alle iniziative

permanenti contro la guerra, che non si esauriscano nella grandi (e

necessarie) manifestazioni.

Su questo - per quanto mi riguarda - vorei cercare di dare il mio

contributo all'assemblea, anche a partire dale proposte di Nella e

da quanto abbiamo discusso in questi ultimi due anni (sulla

necessità di una campagna per "smilitarizzare la politica",

affrontando e ostacolando le spese militari, la produzione e il

commercio degli armamenti, le basi militari ecc. ecc.).

Perchè questo dovrebbe escludere le periferie? anzi, se non si

creano sul territorio quei luoghi di iniziativa, nessuna campagna

avrà alcun risultato, nessuna iniziativa supererà il livello della

"visibilità", senza per questo creare una stabile presenza e,

appunto, permanenza del movimento.

Questa discussione dovrà anche affrontare il come si vuole fare la

strada assieme, quindi anche le azioni, i "mezzi" - senza liquidare

questa discussione in un confropnto ideologico (chwe a volte mi

sembra prevalere).

 

Spiace che questo contributo sia vissuto come "forzatura" - perchè

è all'assemblea che si affida una discussione e una decisione di

percorso.

Aver firmato assieme ad altre/i quel contributo, insisto, non

significa auspicare che l'assemblea si esaurirsca in un

"referendum" pro o contro, o in una ricerca di adesioni - al contrario

auspico che siano trasparenti e chiare le posizioni di ognuno,

facendo lo sforzo di arrivare ad una possibile "sintesi" nella

condivisione di campagne e iniziative.

 

un abbraccio, Piero Maestri

 

da "il manifesto" del 06 Febbraio 2004

 

Un movimento per il movimento

Ritiro delle truppe, ma anche gli autoferrotranvieri. Un appello in vista dell'assemblea dei Forum sociali

B. V.,

 

Il primo elemento che colpisce è l'eterogeneità delle firme. In quaranta hanno infatti finora firmato un appello-invito alla discussione per la prossima assemblea nazionale dei forum sociali che si terrà sabato e domenica prossima a Bologna. Molti sono attivisti del sindacalismo di base, altri Disobbedienti, altri militanti di Rifondazione comunista, alcuni sono consiglieri comunali eletti come indipendenti con Rifondazione comunista o con i Verdi, altri, infine, sono "cani sciolti". In ogni caso, unanime è la convinzione, al di là delle differenti culture e pratiche politiche, che sia il "movimento" il "luogo comune" di una discussione che abbia come sfondo i conflitti in corso e le campagne nazionali e internazionali che diano corpo a quell'"altro mondo possibile" la cui necessità è stata lanciata con forza nell'ultimo Forum sociale mondiale che si è tenuto a Mumbai. Da Sandro Mezzadra a don Vitaliano della Sala, da Piero Bernocchi a Luca Casarini, da Salvatore Cannavò a Pierpaolo Leonardi, da Laura Tartarini a Nunzio D'Erme, da Bruno Palladini a Francesco Raparelli, solo per citarne alcuni, tutti si sono trovati d'accordo nel fissare nero su bianco alcuni temi che caratterizzano lo "stato particolare" del movimento dei movimenti: dai conflitti degli autoferrotranvieri a quello dei lavoratori di Fiumicino, dalle battaglie in difesa della scuola pubblica alle lotte contro la privatizzazione dei servizi sociali e delle risorse. Dalla centralità della battaglia salariale alla questione del reddito sociale minimo. Dal ritiro delle truppe italiane in Iraq alla mobilitazioni a favore dei migranti.

 

In altri termini, c'è il timore che a Bologna questi temi passino in secondo piano a favore di rassicuranti dichiarazioni di principio. Un appello quindi che invita l'assemblea di Bologna a prendere al parola su quanto sta accadendo in Italia. Il punto di partenza - il testo dell'appello è stato pubblicato sui siti: www.sherwood.it e italy.indymedia.org - cerca di far chiarezza sulla discussione attorno alle forme di lotta del movimento e rifiuta, secondo i firmatari dell'appello, il tono "astratto" che spesso ha avuto la querelle su violenza e nonviolenza. Per i firmatari dell'appello, sbaglia chi continua a vedere un pericolo di una deriva violenta di settori del movimento, rivendicando invece le pratiche di resistenza messe in campo dal "movimento dei movimenti" da Seattle in poi.

 

Ma ciò che l'appello a cuore è appunto "lo stato particolare" del movimento. Le mobilitazioni di Scanzano, degli autoferrotranvieri, quelle dei precari, dei ricercatori universitari sono sicuramente il risultato di un "processo di politicizzazione" che il movimento è riuscito a mettere in campo. E che questo ha smosso le acque anche nel centrosinistra. Ma è proprio perché tutto si è rimesso in movimento che, si legge nell'appello, "l'insorgenza e la diffusione dei conflitti sociali" si è trovata "in forte attrito con le regole stabilite dai rapporti di forza dominanti" e che tali conflitti indicano un "nuovo terreno, più concreto e vissuto, sul quale la discussione potrebbe essere riarticolata".

 

In altri termini, sono le condizioni materiali del neoliberismo che devono essere la bussola che orienta l'azione del movimento, considerando di conseguenza il rapporto con i partiti di centrosinistra a partire dalle forme di conflittualità che si danno nelle società.

 

A Bologna si discuterà della mobilitazione mondiale del 20 marzo per chiedere la fine dell'occupazione dell'Iraq. Obiettivo condiviso, ovviamente, ma non si può, secondo i firmatari dell'appello, giungere a questo appuntamento senza ricordare anche le misure di "guerra interna" messe in atto dai governi europei. Il riferimento è alle legislazioni nazionali e sovranazionali che limitato la libertà di movimento di uomini e donne e ad alcune misure di "lotta al terrorismo" che potrebbero tradursi in una limitazione dei diritti civili e politici, in Italia come in Europa.

 

 

da Liberazione del 6-2-'04

 

Conflitto: non riducibile a logiche di gerarchia militare

 

Giorgio Cremaschi

 

La discussione aperta da Fausto Bertinotti sulla non violenza ha

finito per toccare temi e sentimenti vastissimi. Sento allora

necessaria una sua tematizzazione, ed anche una individuazione degli

interlocutori.

Stiamo parlando tra noi, che lottiamo contro il liberismo e siamo

contro la guerra, senza se e senza ma. Chi fa buon viso alle

decisioni del Fondo Monetario Internazionale, a causa delle quali

possono morire di inedia intere popolazioni; chi fa la guerra

umanitaria; chi si astiene sulla partecipazione alla guerra

preventiva del governo Bush: tutti costoro non hanno titolo morale e

politico per predicare la non violenza.

 

Dobbiamo cogliere il disgusto che certe ipocrisie provocano

soprattutto nei più giovani, indisponibili, più di noi ieri, ad

accettare sofisticazioni morali in veste di astuzia politica. Bisogna

condividere questo sentimento, sennò non ci si fa capire.

 

Pietro Ingrao, nei suoi due interventi, ci ha come sempre, aiutato

non solo a distinguere e a mettere ordine nella discussione, ma a

collocare essa sul terreno dell'agire politico. Voglio tentare di

seguirlo.

 

 

1 - La violenza del potere

al servizio degli oppressi

E' questo il tema che più tocca chi viene dal e chi si richiama al

comunismo del Novecento. Pensavo che dopo il crollo del socialismo

reale nell'Urss e nei paesi satelliti e dopo la sua mutazione in

capitalismo autoritario in Cina, molto fosse già acquisito. Forse non

è così. E non tanto per il giudizio sugli orrori dello stalinismo,

che in parte sgorgano da un momento e da una specificità storica,

sociale, civile. Quanto piuttosto per una questione ben più di fondo,

che può persino ripresentarsi oggi, di fronte alla moderna, tremenda

brutalità del capitalismo globalizzato. Per Lenin, come per Marx, la

lotta per la liberazione degli oppressi giustifica il ricorso alla

dittatura rivoluzionaria. Così come fecero ed insegnarono i giacobini

nel difendere la rivoluzione francese.

 

L'esperienza ci ha insegnato che così gli oppressi sottoscrivono un

patto con il diavolo. Possono sconfiggere l'avversario, ma ne

assumono le sembianze. E con l'uso degli stessi mezzi di coloro che

combattono, travolgono i propri stessi fini.

 

Lo aveva lucidamente previsto dal carcere una donna, Rosa Luxemburg,

quando i bolscevichi, nel 1918, sciolsero l'Assemblea costituente:

l'unico vero parlamento democratico mai avuto dalla Russia, compresi

i giorni nostri e la finta democrazia di Putin. La Luxemburg scriveva

che Lenin e Trozky (Stalin fu irrilevante nell'Ottobre) sottoponevano

la dittatura del proletariato a quella del partito. Alla quale si

sarebbe sostituita quella del comitato centrale, a sua volta

soppiantata da quella di un uomo solo. A questa lucida profezia non

c'è altro da aggiungere.

 

La dittatura rivoluzionaria non è solo una reazione alla violenza

sovvertitrice degli oppressori. E' stata anche una scelta. Essa

nasceva dall'idea giacobina di rivoluzionare la società dall'alto,

affidando il potere politico ad avanguardie illuminate, in grado di

supplire ai vuoti nella coscienza e nell'esperienza delle masse. E'

questo apparato concettuale, dal quale Marx ed Engels tentarono di

staccarsi nell'estrema maturità senza riuscirci del tutto, che è oggi

politicamente inservibile.

 

La liberazione dal capitalismo non può avvenire usando le forme, i

poteri, le violenze, della rivoluzione borghese. Questo ha insegnato

l'esperienza. La liberazione delle persone dall'oppressione del

mercato e dallo sfruttamento deve avvenire per vie diverse,

incompatibili con l'uso per buoni fini della dittatura rivoluzionaria

e del potere dell'avanguardia. Non è una considerazione rivolta solo

al passato. La fiumana di lavoratrici e lavoratori dei popoli più

lontani, che ha invaso le vie del Forum Sociale di Mumbai, ci spinge

a trovare sin d'ora le vie di questo percorso di liberazione.

 

La scelta della democrazia radicale, della partecipazione e del

consenso. Il riconoscimento del valore insostituibile del conflitto

sociale, così come di quello tra i sessi, per costituire e affermare

le soggettività. La costruzione di forme della politica che non

rispecchino l'esercito e la vita militare, nelle quali non viga il

principio assoluto della delega e del comando e dove il rischio e le

difficoltà siano spartite con giustizia. In sintesi la costruzione di

una politica corrispondente all'ambizione del processo di liberazione

che si vuole costruire. Questa mi pare la necessità che abbiamo di

fronte, per emancipare definitivamente la lotta contro lo

sfruttamento capitalistico dalle illusioni e dai guasti della

dittatura rivoluzionaria.

 

 

2 - L'efficacia dell'azione non violenta contro la guerra

Proprio perché stiamo discutendo di politica, è giusto interrogarci

sull'efficacia dell'azione non violenta di fronte a poteri impegnati

oggi nell'organizzazione e nella diffusione della guerra.

 

Pietro Ingrao ci ricorda giustamente che la resistenza armata

all'occupante in Iraq è giustificata, e legittima per lo stesso

diritto internazionale. Essa non può essere chiamata terrorismo. Ma

il terrorismo esiste, come forza e progetto autonomo.

 

E' singolare se ci si pensa. Tutte le principali guerre dell'ultimo

decennio sono state promosse dagli Stati Uniti contro loro precedenti

alleati. Bin Laden e i talebani sono stati decisivi per sconfiggere

l'Urss in Afghanistan. Saddam ha fermato la rivoluzione iraniana. Il

fondamentalismo islamico ha combattuto il nazionalismo arabo. In

Somalia, gli attuali nemici dell'Occidente, anni fa erano in armi

contro il governo filo-sovietico dell'Etiopia. Persino Milosevich

oggi ci appare come un utile attore nella disgregazione del

socialismo reale.

 

Solo nel cortile di casa dell'America Latina gli Stati Uniti sono

impegnati contro gli avversari di sempre. Ma nel resto del mondo, dal

1991 ad oggi, le guerre hanno visto scontrarsi tra loro vincitori

della guerra fredda. Anche l'Europa è così sotto tiro.

 

Per questo i paragoni con il passato, quando non sono puramente figli

della propaganda bellica, non ci aiutano a capire. Non ci sono nuovi

Hitler in campo, ma non c'è neppure una guerra partigiana

paragonabile alla resistenza antifascista o al Vietnam. E' tutto

diverso, è tutto più sporco. Quando una giovane madre palestinese

benestante si mette una cintura di esplosivo e si fa esplodere per

uccidere, siamo in un'altra dimensione rispetto a tutto ciò che da

noi in Occidente intendiamo come terrorismo.

 

Respingere con orrore questi atti è per noi sin troppo facile. Ma

come fermarli? Con Guantanamo, con la riduzione dei diritti civili

per i musulmani ed i migranti, come sta avvenendo in tutto

l'Occidente? Qui c'è lo spazio per l'azione politica. Per il rifiuto

radicale non solo della guerra al terrorismo, ma del progetto

politico di dominio sul mondo che sta dietro di essa. Bisogna lottare

contro la difesa armata dei privilegi dei ricchi dell'Occidente. Solo

affermando il valore insostituibile ed irrinunciabile di ogni persona

umana, si può impedire che le persone siano usate come bombe. Se per

il nostro Occidente quelle persone valgono meno delle merci, allora

il suicidio omicida può diventare il momento estremo dell'identità.

C'è qualcosa che accomuna liberismo e guerra da un lato,

fondamentalismo terrorista dall'altro: la riduzione della persona a

strumento bellico. Occorre allora l'opposizione alla guerra si

trasformi in azione politica, affinché entrambi i contendenti siano

sconfitti. Deve perdere Bush (con Blair e tutti gli altri), deve

perdere Bin Laden. Non basta affermare il principio della pace,

occorre costruire una politica che sconfigga chi fa la guerra. E'

questo il tema che ha di fronte il movimento a partire

dall'appuntamento mondiale del 20 marzo. Passare dalla richiesta

della pace, all'azione pacifica, ma radicalmente determinata, per

rovesciare la guerra e la logica di guerra questo è il campo

dell'iniziativa e dell'elaborazione.

 

 

3 - Lotte sociali

ed azione diretta

Quando un metalmeccanico sciopera la prima domanda che si pone con

angoscia è: "Come ci facciamo sentire ora? ". Viviamo in un mondo dai

mille occhi ed orecchi elettronici, eppure mai come ora c'è stata

tanta sordità e cecità di fronte al conflitto sociale. Anche per

farsi sentire i movimenti hanno sempre più utilizzato lo strumento

dell'azione diretta ed esemplare, la violazione delle regole

costituite. Così fanno i militanti di Greenpeace, così i

disobbedienti. Così si sono fermati i treni durante la guerra. Così i

lavoratori che perdono il posto bloccano l'autostrada o i viali

dell'aeroporto. Così si afferma un diritto anche bloccando il

deposito del tram. Tutte queste non sono azioni violente, sono modi

per farsi ascoltare, per non farsi cancellare. Sono la reazione alla

violenza di un sistema di potere che rimuove e censura i conflitti.

 

Il movimento e le lotte sociali in Italia non sono in alcun modo

accostabili alla violenza e al terrorismo. Dopo Genova non c'è stata

una reazione militare di una parte del movimento, al quale

dall'inizio partecipano la Fiom, l'Arci, il sindacalismo di base,

forze radicali e associazioni cattoliche non violente, e poi la Cgil

e tanti altri ancora. Questo è un fatto politico decisivo da sbattere

in faccia ai teoremi reazionari del Governo e alla repressione.

 

C'è però anche qui una grande questione politica. Chi decide? Nelle

lotte operaie si cerca di decidere assieme cosa si fa, dove si va,

come si va. Violare le zone rosse del capitalismo liberista può

essere necessario. Ma è una discussione e una scelta che riguarda

tutto il movimento, non la pratica di avanguardie. Questa a me pare

la questione più importante, rispetto a quella dei caschi. Io non lo

porto, ma il problema non è se e chi lo porta, ma se il casco finisce

per distinguere un'avanguardia separata. Il casco non fa grado.

 

Mi pare che alla fine la vera conclusione di queste schematiche

considerazioni sia soprattutto una: stiamo provando a scrivere una

storia nuova. Che non può essere letta e giudicata con occhiali

adatti a letture passate. E' davvero superata una certa concezione

delle avanguardie e delle loro funzioni. E' davvero inaccettabile la

riduzione del conflitto alle logiche e alle gerarchie dello scontro

militare. Almeno se si assume il punto di vista della liberazione

dall'oppressione capitalista. Perché, e non è un caso, proprio le

forze del neoconservatorismo Usa paiono oggi agire come

un'avanguardia mondiale che vuole imporsi con la guerra permanente.

 

Ma se questa è la premessa, il resto è ancora quasi tutto da

definire. Sarà l'esperienza dei movimenti, un poco alla volta, a

tradursi in una nuova politica. Proprio per questo, però, bisogna

sempre capire, accettare le differenze. Non si possono buttar via le

pagelle e poi continuare a dare i voti come prima.

 

Giorgio Cremaschi

 

 

da Liberazione del 7-2-'04

 

Movimento: tutelarne l'unità e valorizzarne la radicalità

 

Alfio Nicotra (del comitato politico nazionale del PRC)

 

L'arresto di Nunzio D'Erme e degli altri compagni della disobbedienza

romana si inquadrano in un preciso progetto di criminalizzazione del

movimento e di chiunque agisce il conflitto sociale. Si arresta a

Roma per presunte violenze, per poter far assolvere a Genova gli

autori di ben più concrete e documentate devastazioni, torture,

sequestri di persona e pestaggi. Si vuole rovesciare come un guanto

la verità. Già Carlo Giuliani è stato ucciso dall'incidentale impatto

di un proiettile sparato in aria e deviato da un calcinaccio.

L'inferno della Diaz e Bolzaneto non è mai esistito e se è esistito

il teorema dei nuovi arresti tende a giustificarlo a posteriori,

essendo chiaro chi sono le vittime ( le forze dell'ordine) e chi i

violenti ( i no global). Da questa vera e propria campagna a sostegno

della "verità di regime" costruita a suon di mandati di cattura,

qualcuno vorrebbe piegare o usare strumentalmente il dibattito sulla

scelta rivoluzionaria della nonviolenza. Sgombrare il campo da queste

strumentalizzazioni è decisivo: il Prc come larga parte del movimento

chiede con forza l'immediata scarcerazione dei compagni e la pronta

restituzioni ai loro affetti, lavoro ed impegno politico.

Già il movimento aveva messo a tema e discusso, con vivacità e senza

reticenze, sui fatti del 4 Ottobre. I caschi e gli scudi erano

tornati la prima volta dopo Genova in una manifestazione che volevamo

partecipata e di massa. Una scelta che aveva diviso e non certamente

perché scudi e caschi rappresentino in alcun modo strumenti di offesa

e violenza. In via Tolemaide e in Piazza Alimonda avevamo scoperto

che essi, di fronte alla brutalità della repressione, non servono

neanche a proteggersi. Riponemmo quegli strumenti da"cavalieri

medioevali" come scrisse Heidi Giuliani, perché il Medio Evo era

fuori da noi. Alla barbarie della globalizzazione neoliberista

contrapponemmo un'altro mondo possibile riempiendo di mobilitazioni

di massa ogni angolo del pianeta. Il movimento è cresciuto, la stessa

disobbedienza da pratica di elitè è diventata pratica di massa (gli

operai della Fiat, la rivolta di Scansano, l'insubordinazione degli

autoferrotranvieri etc.). La radicalità e l'estensione della

mobilitazione per la pace "senza se e senza ma" non hanno fermato le

armate di Bush, ma hanno impedito che la guerra infinita sfondasse

nelle coscienze dei popoli. A dispetto del bombardamento mediatico e

dei fiumi di menzogne costruite dagli appositi uffici propaganda del

Pentagono, l'opinione pubblica resta radicalmente e in larga

maggioranza contro la guerra. E' un fatto straordinario, senza

precedenti. Il nostro errore è stato non comprenderlo appieno

credendo che la guerra fosse finita con l'annuncio trionfale di Bush

su una portaerei. La guerra è infinita davvero. Divora ancora i suoi

protagonisti.

 

Il 4 Ottobre ci furono alcune semplificazioni come il ritenere che

una conferenza dell'Unione Europea avesse la stessa illegittimità

nella percezione popolare del G8. Dietro ancora c'era un filone di

pensiero che chiedeva di "tornare a Seattle", all'azione eclatante e

al rito della violazione simbolica delle zone rosse. Ma a Seattle è

possibile tornare soltanto tagliando la foresta di alberi cresciuta

dai semi gettati durante i giorni della contestazione al WTO, proprio

nella cittadina nordamericana. Tornare a Seattle nelle modalità e

nelle forme di allora significa negare il percorso che Seattle ha

aperto. Alcuni hanno voluto indicare nel "gigantismo" del movimento

un limite e un inevitabile corrompersi della sua radicalità. Come se

la radicalità si misurasse in vetrine infrante o nella capacità di

reggere la confrontation - a volte necessaria ma non per questo da

ricercare ad ogni costo- con la polizia.

 

Ho avuto il privilegio, nel settembre scorso, di essere sulle

cancellate divelte al km zero della zona hotelera di Cancun. I buchi

della barriera erano stati sostituiti da un muro di poliziotti con

scudi e manganelli. Ho visto un contadino di Via Campesina togliere

dalle mani di un giovane studente una pietra che voleva

lanciare. "Con puro corpo compagno" gli ha detto e con semplice corpo

si è lanciato sugli scudi. Qualcosa di profondo sta avvenendo anche

nei movimenti del sud del mondo, più abituati all'uso della violenza

perché costretti dalla ferocia della repressione. C'è una

consapevolezza che le modalità di lotta non sono "neutre". Violenza e

nonviolenza infatti pari non sono. Lo zapatismo ci ha insegnato che

anche quando l'uso delle armi diventa necessario esso serve soltanto

per riprendersi la parola. Nel "fuego y la palabra" vi è la violenza

secolare dell'olvido (l'essere dimenticati, cancellati dal diritto di

esistenza) ed il tornare ad esistere alla luce del sole. "Siamo

diventati esercito affinché non ci siano più eserciti". Il paradosso

zapatista ci parla di mezzi e fini come mai nessuna guerriglia

novecentesca aveva fatto. I mezzi possono invalidare anche i fini

specialmente se i primi si chiamano armi. D'altronde il militarismo è

stato motivo di degenerazione non solo del socialismo reale ma anche

di tante democrazie liberali. Rompere lo schema della "violenza

necessaria" è oggi un obbligo anche laddove la scelta delle armi ti

viene imposta. Non di assoluto ideologico si tratta ma di una scelta

che parla già oggi dell'altro mondo possibile.

 

Questa consapevolezza così forte ha consentito al movimento dei

movimenti di superare il tentativo operato dopo l'11 Settembre 2001

di cancellare e criminalizzare chiunque si ponesse fuori dalle

compatibilità imperiali. Il terrorismo è usato come straordinario

pretesto per reprimere ogni conflitto e attore sociale. Il Patriot

Act, approvato un mese dopo l'abbattimento delle torri, è diventato

lo schema guida sul quale sta prosperando una legislazione

antiterrorismo a livello planetario. Il governo Bush estende alla

vita civile dentro e fuori gli Usa, la dottrina della guerra

preventiva. Si controllano telefoni, computer, si prelevano impronte

digitali di massa costruendo enormi archivi informatizzati di una

schedatura globale. L'FBI è dovunque, anche nelle sale di controllo

dei nostri aeroporti. Il confine tra attività di consenso e attività

criminale è sempre più tenue trasformando la disobbedienza civile in

reato. I desaparecidos sono codificati e tollerati dall'alta corte di

giustizia Usa. Guantanamo sta sostituendo Cesare Beccaria nella

concezione stessa del diritto. Il movimento non ha avuto esitazioni

dal comprendere che guerra e terrorismo rappresentano una coppia

formidabile che autoalimentandosi viaggia come uno schiacciasassi

sulle speranze di liberazione dei popoli. Non a caso il comitato

delle vittime dell'11 Settembre, dal quale è nata la campagna "not in

my name" ha aperto il Forum Sociale Europeo di Firenze. Il fatto che

il terrorismo sia un sottoprodotto della guerra infinita e della

globalizzazione neoliberista non ci impedisce di avvertirlo come

nostro irriducibile nemico. "I terroristi e Bush- scrive Arundhati

Roy- potrebbero mettere insieme le loro ipocrisie e costituirsi in

società. Entrambi scaricano sulle popolazioni la responsabilità dei

loro atti. Entrambi condividono i principi della colpa collettiva e

della punizione collettiva. Le loro azioni si favoriscono

vicendevolmente. "

 

Questa consapevolezza è stata centrale per costruire la mobilitazione

contro la guerra all'Afghanistan prima e all'Iraq poi.

 

Mettere in discussione questa acquisizione significa minare la strada

di una analoga, radicale e unitaria mobilitazione per il 20 Marzo

prossimo. Questo non significa non contestualizzare, non vedere le

differenze tra atti di resistenza all'invasore (anche se fatte con

modalità inaccettabili come quello dei kamikaze) e le stragi nelle

moschee, sinagoghe, scuole e mercati. Ma ogni equiparazione tra la

resistenza armata irachena e la resistenza italiana o quella

vietnamita è inammissibile. Non è una questione di legittimità - il

diritto di resistenza è sancito dalle convenzioni internazionali- è

che non la possiamo condividerla politicamente. La resistenza del Cln

aveva un progetto di costruire un Italia democratica che arrivasse a

scrivere nella sua carta costituente il ripudio della guerra. I

Vietcong volevano un Vietnam unito e socialista. Cosa vogliano invece

le varie fazioni armate irachene? C'è di tutto, compreso un sorgente

fascismo arabo che punta alla confessionalizzazione dello Stato per

meglio dominare sui popoli ed impedire una equa e solidale

ripartizione delle ricchezze. "Il nemico del mio nemico è mio amico"

la tesi di spregiudicata tattica enunciata da Deng Xiao Ping non ha

mai funzionato nella pratica. Il movimento, nel momento in cui

sviluppa tutta la sua opposizione alla guerra e chiede la fine

dell'invasione, si pone il problema di dare voce e sostegno alle

tante forze anche se ancora esili, che nella società civile irachena

si battono contro l'invasore ma anche per un'altro Iraq possibile.

Non possiamo ripetere decenni dopo l'errore di Adriano Sofri e del

gruppo dirigente di Lotta Continua che sostenne in modo acritico la

rivoluzione komeinista in Iran solo perché era antiamericana.

 

Chi ha voluto inserire nel dibattito sulla nonviolenza la necessità

di una rottura con le posizioni del movimento sul terrorismo, forse

aveva un'altro obiettivo più terra terra. Mettere in discussione il

percorso di avvicinamento tra Prc e Ulivo. Sarebbe più onesto parlare

di questo - e di questa discussione tutti noi abbiamo bisogno- che

giocare alla distinzione sul terrorismo e considerare Bertinotti un

succube del disegno di criminalizzazione del dissenso operato dalla

centrali imperialistiche.

 

Alfio Nicotra

 

 

 

 

Da Liberazione del 8-2-'04

 

Contrastare l'offensiva revisionista e anticomunista

Claudio Grassi (segreteria del PRC - responsabile politiche nelle istituzioni)

 

Una domanda sorge spontanea pensando a questo dibattito sulla violenza e la non-violenza. Una domanda che potrebbe apparire retorica o provocatoria. Non lo è. Davvero si stenta ad afferrare il filo di una discussione che ha coinvolto i temi più disparati, sviluppandosi lungo linee polemiche che ben di rado ormai si incontrano in punti condivisi e comprensibili. C'è di tutto: la non-violenza come filosofia e pratica politica; il pacifismo come teoria e come forma della prassi; il giudizio sulla Resistenza e sulle guerre imperialistiche di ieri e di oggi; la critica dei poteri; l'analisi della repressione del dissenso e del conflitto sociale: forse sarebbe il caso di semplificare e di cercare di mettere un po' d'ordine.

Di che cosa discutiamo parlando di non-violenza? Secondo alcuni, di un concetto e di una forma dell'agire politico adeguati sempre e dovunque. Posto così, è un tema impraticabile in una prospettiva politica. Se non si vogliono produrre discorsi fini a se stessi, occorre contestualizzare, riferirsi a situazioni determinate. Ma anche la posizione di chi ritiene che "oggi nel mondo globale in cui siamo precipitati, la forma più estrema dell'antagonismo, quella davvero irriducibile e non mediabile, è l'azione "non-violenta"" (Marco Revelli su "Carta") appare a dir poco discutibile. Si argomenta, a suo sostegno, che l'assunzione della non-violenza è necessaria perché vi è la "guerra permanente" e "preventiva" e perché la superiorità militare degli Stati Uniti non consentirebbe altre strade. Ma in questa materia è opportuno evitare toni dogmatici e assumere l'onere dell'argomentazione razionale. C'è una sola via per mantenersi su questo terreno: spiegare come si pensa di fermare i bombardamenti, i cingolati, i missili e la disseminazione dell'uranio impoverito.

Si ripete da più parti che oggi tutto è nuovo, che il mondo è cambiato di sana pianta e impone concezioni nuove. È davvero così, o è la nostra memoria che si accorcia e che si indebolisce? Se tornassimo con il pensiero agli ultimi atti della Seconda guerra mondiale e all'immediato dopoguerra, avremmo materia per riflettere su queste presunte cesure radicali. Allora davvero la storia cambiò. Illuminato dai sinistri bagliori di Hiroshima e Nagasaki, il mondo fu costretto a guardare in faccia una novità assoluta e atroce. Per la prima volta nella storia la distruzione del genere umano era divenuta concretamente possibile. Pian piano la consapevolezza di questo salto di qualità si diffuse e vi fu anche tra i comunisti italiani chi valutò attentamente le sue conseguenze. A Bergamo, nel '53, Togliatti tenne un memorabile discorso incentrato su questi temi: la bomba atomica, l'enorme divario di potenza che essa istituiva nei rapporti internazionali, la impellente necessità di una lotta dei popoli per il disarmo e la pace. Ma in quel discorso non si commetteva l'errore di generalizzare. Nemmeno la bomba riduceva a un minimo comune denominatore i diversi conflitti: né sul piano della logica che li determinava, né in relazione al loro dispiegarsi. Imponeva l'accumulazione di coscienza critica, non consentiva il ricorso a rigidi schemi, a parole d'ordine unilaterali.

Ma forse c'è dell'altro, in questo dibattito. Si suggerisce, da parte di qualcuno, che il tema è la forma della lotta politica adeguata qui e ora: nel nostro paese, in Europa, nell'Occidente capitalistico. Se davvero le cose stessero in questi termini, verrebbe da dire che ci si sarebbe potuti risparmiare tanta fatica e tanta carta, talmente ovvio è - almeno per noi - che oggi, in questa parte del mondo, la lotta sociale e politica deve ricorrere esclusivamente agli strumenti pacifici del confronto, pur aspro, delle idee; della libera manifestazione delle proprie istanze; della mobilitazione di massa; dello sciopero; della protesta e della disobbedienza civile. E talmente ovvio è - per noi - che se il conflitto sociale e politico non è sempre scevro da violenza, la responsabilità di ciò incombe in primo luogo a chi controlla gli apparati coercitivi dello Stato.

Proprio questa evidenza legittima tuttavia una riflessione: che tutto questo dibattere di non-violenza serva in realtà a parlar d'altro: che la non-violenza sia soltanto una parte di un ragionamento più complesso. La sensazione è che siamo - di nuovo - alle prese con la discussione sulla nostra storia e sulla nostra identità di comunisti. Se è così, è bene essere chiari, almeno tra di noi. Riflettere sulla nostra esperienza, indagarne i limiti, cercare di comprendere le cause delle nostre sconfitte: questo non è solo utile, è anche indispensabile. Purché si abbia la consapevolezza che l'errore più grave che potremmo commettere oggi - nella giusta ricerca di una rifondazione del pensiero e della prassi comunista all'altezza dei tempi - sarebbe accodarci alla voga liquidazionista oggi imperante. C'è un grande patrimonio alle nostre spalle: di esperienze, di idee, di valore, di passioni. Un grande patrimonio storico che dev'essere in primo luogo rivendicato e riconosciuto per la straordinaria influenza che ha esercitato nel corso degli ultimi 150 anni ai fini del riscatto di miliardi di essere umani.

Anche questa smania di trascinare "il Novecento" sul banco degli imputati è pericolosa, oltre che poco comprensibile. Come si può ridurre un secolo a un unico motivo? "Un'immane violenza", si dice. E si getta tutto in un calderone che allontana la possibilità di capire. Ma il Novecento è stato anche il secolo delle grandi rivoluzioni operaie e contadine, queste sì "inizio" di una nuova storia!

Oggi è di moda la critica dell'"assalto al cielo", cioè dell'idea che una società possa essere trasformata anche attraverso il comando politico. Discuterne, naturalmente, non fa male. Ma certo non giovano le semplificazioni caricaturali. Un nome dovrebbe bastare a sgombrare il campo da ogni equivoco: non è stato Gramsci - il bolscevico, il leninista - a insegnarci che la società è un campo di poteri diffusi e che la distinzione tra società e Stato (quella che oggi agitano, come fosse un dogma, i nuovi critici anarchici dell'idea comunista) è uno strumento teorico - un modello - e non una realtà di fatto?

Con ciò non si tratta, naturalmente, di chiudere il discorso: semmai di aprirlo in modo serio, una volta per tutte. Certo la storia nostra ha conosciuto sconfitte e gravi errori. Che vanno analizzati, di cui occorre cercare le cause, dai quali dobbiamo trarre insegnamento. Ma anche in questo caso c'è una questione ineludibile che deve essere posta: bisogna chiedersi se, senza quell'"assalto" di cui oggi tanti compagni sembrano voler chiedere scusa, il mondo sarebbe stato migliore o peggiore: sarebbero stati possibili - per fare solo pochi esempi - le lotte anticoloniali, la rivoluzione cinese, lo stesso sistema di welfare in Europa?

Cercare ancora: certo. Altrimenti nessuna rifondazione sarà mai possibile. Ma altro è una ricerca seria, severa, rigorosa, tutt'altra cosa una sommaria liquidazione della nostra storia. A questa ci siamo sempre opposti e sempre ci opporremo con tutta la forza delle nostre convizioni e passioni, che sappiamo radicate in questo partito e in tanti compagni che al nostro partito guardano con rispetto e fiducia. Basta con le autocritiche a senso unico, basta con i mea culpa! Perché piuttosto non chiediamo agli altri di fare i conti con il loro passato? Di chi furono figli il fascismo, il nazismo, la Shoah? A chi debbono la morte i milioni di vittime della Corea, del Vietnam, dell'Algeria, dell'America Latina? E che dire dell'indulgenza vaticana verso i fascismi?

Mi chiedo come pensiamo di attrarre verso le nostre idee i giovani se non facciamo altro che denigrarle, cospargendoci il capo di cenere per ogni nostro atto, per il fatto stesso di dirci ancora comunisti. E mi chiedo anche come pensiamo di rispondere a Berlusconi che attacca a testa bassa persino il comunismo "meno palese" di chi "rinnega il proprio passato, si lava pilatescamente le mani per tutti gli orrori e i delitti di cui si è macchiato, ma ancor oggi vuole l'eliminazione dell'avversario": cosa gli diremo, che è troppo severo, che siamo cambiati, che abbiamo compreso quanto pessimi fossero i nostri padri e fratelli maggiori?

Qui nessuno intende "angelizzare" alcunché. Si tratta solo di contrastare un'offensiva revisionista e anticomunista che punta a demolire le ragioni stesse della nostra esistenza e delle nostre battaglie. O ci siamo scordati del "chi sa parli" e delle "ragioni dei ragazzi di Salò"? Abbiamo già dimenticato i continui attacchi alla Resistenza, mossi da chi cercava una legittimazione a buon prezzo? L'opportunismo servile di chi, pur di accedere al governo, ha preso distanza da una storia di cui avrebbe dovuto andar fiero, perché è la storia della liberazione di questo paese e della costruzione della sua democrazia? Non c'è futuro per chi non serba memoria del proprio passato, che non è "piombo", bensì radice e consistenza. Non è libertà quella di chi si sbarazza della propria storia, bensì disorientamento immemore.

Questa smania di gettar via il peso della storia accecò molti quindici anni fa. La fine della Guerra fredda e la scomparsa del "campo socialista" furono scambiate per una "grande opportunità": fu invece l'inizio di una fase di grave arretramento del movimento di classe in tutto il mondo, e della ripresa in grande stile del colonialismo e delle guerre imperialistiche: ci sarà bene un nesso tra quella fretta di disfarsi dell'eredità storica del "secolo breve" e la sconvolgente incapacità di leggere le tendenze in atto che accomunò un intero gruppo dirigente.

E anche noi oggi, stiamo attenti, perché non è affatto scontato che siamo in grado di interpretare correttamente quanto sta avvenendo. Che cosa ci suggerisce, per esempio, la discussione tra noi sul "terrorismo" e la resistenza irachena? Che ci sono - se non altro - stili di analisi diversi, che si riflettono in differenti idee delle cause e degli effetti. Chi dice che è sbagliato parlare di una "spirale guerra-terrorismo" non ha esitazioni nel condannare le azioni terroristiche dei kamikaze e gli attentati dinamitardi che mietono vittime tra la popolazione civile. Ma il punto è un altro. Sta nel collocare tutto questo discorso sullo sfondo di una guerra coloniale e imperialistica, che ha a sua volta cause ben precise: il profilarsi, dinanzi alla superpotenza Usa, di altri avversari sulla scena del mondo; la necessità "preventiva" di controllare le maggiori riserve energetiche del pianeta; l'enorme influenza politica del "militare-industriale"; il disastroso deficit del bilancio Usa; il peso di una cerchia politico-intellettuale vicina al Likud e determinata nel sostenere ad ogni costo le mire colonialiste della destra israeliana. Ma se questo è il quadro, occorre allora dire con chiarezza che quella delle popolazioni occupate, saccheggiate, schiacciate dal tallone militare è innanzi tutto resistenza contro l'occupazione, sacrosanta lotta per la liberazione. E non solo.

Quanto sta avvenendo in Iraq oggi è importante per tutto il mondo, a cominciare dal Sud del pianeta. La resistenza irachena parla ai popoli che sono nel mirino degli Stati Uniti: dice loro che la superpotenza non è invincibile, che non è così ovvio che dopo un Iraq venga una Siria o un Iran, quasi si trattasse di passeggiate al sole. In questo senso, proprio la resistenza contro le forze di occupazione è un aiuto alla pace.

Lo hanno capito bene, non per caso, i rappresentanti dei popoli riunitisi a Bombay. Nel documento conclusivo del Forum sociale mondiale la denuncia della guerra e del colonialismo è netta, senza tentennamenti, così come è forte e univoca la solidarietà verso le popolazioni oppresse, il loro anelito all'indipendenza, le loro lotte di liberazione. Al di là di qualsiasi sottigliezza, l'esperienza materiale della sopraffazione produce consapevolezza. E permette di non scambiare le lucciole del nuovo imperialismo per le lanterne di un presunto impero che non dovrebbe più incantare nessuno, fuorché - ovviamente - Bush e chi condivide i suoi paranoici sogni di gloria.

Claudio Grassi

 

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dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com

8-2-'04

 

Gianni Zampieri - cittadini del mondo

 

 

A quanto scrisse Alberto Burgio su ilmanifesto (25.01.2004) ho

risposto   così:

 

"" Primo. Ci sono esempi storici di azioni nonviolente riuscite.

Gandhi e     le sue lotte in Sudafrica e soprattutto in India, ma

addirittura in piena    seconda guerra mondiale quando in un paese

nordico (sto cercando i    riferimenti bibliografici) (( aggiungo ora:

trattasi della Norvegia sotto il   regime nazista di Quisling )) gli

insegnanti rifiutarono di eseguire un   ordine  dei nazisti occupanti.

Certamente molti altri casi non sono stati   scritti  nei libri di

storia solo perché la storia è scritta o fatta scrivere dai

dominanti, non dai dominati, e i dominanti hanno interesse a negare o

tacere che il loro dominio possa anche solo essere stato messo in

discussione. Quando il potere non può sostenere che una guerra è

giusta o santa, dice che è necessaria ed in ultima ipotesi quantomeno

inevitabile. Non a caso si perpetua la diceria che la guerra

"scoppia",    così come arriva un temporale, senza alcuna possibilità

di evitarla.    Sono le regole del gioco del potere e ognuno sceglie

se stare o meno    al gioco.

 

Secondo. Difficile stabilire se i successi e gli insuccessi della

nonviolenza siano maggiori o minori di quelli della lotta armata, sia

valutati nel breve che nel lungo periodo. Non è dimostrato né

dimostrabile, ma possiamo seriamente dubitare che una risposta

nonviolenta al nazismo avrebbe provocato un'ecatombe maggiore dei

cinquanta e passa milioni di morti della seconda guerra mondiale. Con

quell'ecatombe non ci siamo veramente né definitivamente liberati

dal    nazismo e dal fascismo; probabilmente lo avremmo fatto in tempi

più    lunghi ma più radicalmente, nel senso che avremmo più

efficacemente    estirpate le sue radici, con metodi nonviolenti, che

richiedono una    ampia partecipazione popolare e quindi una crescita

etica e culturale    dei cittadini.    Ma poi perché chiedere alla

nonviolenza una certezza di risultati che la    guerra non ha mai

dato?

 

Terzo. L'impero sovietico, da molti paragonato ed anzi valutato più

potente del terzo Reich, è crollato senza alcuna guerra e così pure la

dittatura di Pinochet è stata superata. Forse non dimostrano che la

nonviolenza è efficace, ma che non è necessaria la violenza per

abbattere o cambiare un regime dispotico.    Probabilmente esagerava

Etienne de la Boetie (scritto tra il 1546 ed il    1548)  "I tiranni,

se non si presta loro obbedienza, allora senza alcuna    lotta, senza

colpo ferire rimangono nudi ed impotenti, ridotti ad un    niente,

proprio come un albero che non ricevendo più linfa vitale dalle

radici subito rinsecchisce e muore; non c'è bisogno di sforzarsi a

fare    qualcosa per il proprio bene, è già sufficiente che non si

faccia nulla a    proprio danno."    Ma c'è del vero se quattrocento

anni dopo un grande comunista e un    grande prete affermano

sostanzialmente la stessa cosa:   Don Luigi Sturzo, dall'esilio di

Parigi (1932): "se la gran parte dei    cittadini fossero obiettori,

cesserebbero le guerre."

 

Antonio Gramsci (.) : "Quello che accade, accade non tanto

perché una minoranza vuole che  accada quanto piuttosto perché    la

gran parte dei cittadini ha rinunciato  alle sue responsabilità e ha

lasciato che le cose accadessero."

 

Qualcuno può assicurare ai palestinesi, ai colombiani, ai cubani ed

agli    iracheni, che prima o poi vinceranno militarmente?

 

Quarto. La "metamorfosi antropologica" non colpisce normalmente i

semplici soldatini o i partigiani, entrambi in qualche modo

"costretti" ad    usare la violenza con le armi, ma colpisce spesso i

capi, i vertici    decisionali i quali, una volta sperimentato che la

guerra ha conseguito    risultati per loro positivi e che loro non ne

hanno subìto conseguenze    gravi, sono ancora più propensi a

considerare la guerra come un    normale strumento della politica.

 

 

Quinto. E' certo che Hiroshima e l'olocausto hanno segnato una novità

storica assoluta, come lo è l'avvento di una unica, per ora,

superpotenza mondiale. Di fronte alle "novità" si può cercare qualche

indicazione ma non certo la soluzione nel passato. Se ci fosse,

molto    probabilmente non saremmo in questa situazione.    Facendo

tesoro delle esperienze storiche, seriamente indagate,    occorre

invece sperimentare vie nuove, con strumenti nuovi, tenendo    conto

dalla cultura attuale e anche dei nuovi strumenti di    comunicazione.

Oggi nei paesi avanzati, quelli più vicini al potere    politico

globale in quanto a potere del consenso, la quasi totalità dei

cittadini sa leggere e scrivere.

 

Ultimo. Prendendo da Marx, da Gandhi e da quant'altri quello che

serve, senza sterili o dannosi dogmatismi e ortodossie. I rapporti di

forza tra l'unica superpotenza militare-politica-economica e l'altra

possibile superpotenza costituita dall'opinione pubblica, o meglio

dalla    moltitudine dei cittadini del mondo, sono tali per cui la

prima può    continuare ad usare la guerra per imporre il proprio

volere, ma solo    finché riesce ad avere e governare il consenso,

attivo o passivo, della    grande maggioranza dei cittadini.

 

Non resta che dare voce ai cittadini del mondo, in un modo praticabile

da tutti, con una mobilitazione permanente, crescente e non

sporadica,    per non dover continuamente ricominciare da capo né

disperderci    solamente in mille piccole battaglie particolari.

 

Una proposta in questo senso è il PATTO TRA I CITTADINI DEL

MONDO che trovate su www.deicittadinidelmondo.it

 

Se i 110 milioni di cittadini che hanno manifestato per la pace il 15

febbraio scorso sottoscrivessero il Patto (magari riscrivendolo in

mille    forme), lo rinnovassero poi ogni anno e nel frattempo si

impegnassero    per farlo sottoscrivere agli amici, senza bisogno di

muoversi molto da    casa, avremmo in poco tempo avviato una mai

vista campagna  permanente per la pace, i diritti umani ed uno sviluppo

equo e sostenibile.

 

Goffredo Fofi ("Ritratto di Kurt Vonnegut" - Le Monde Diplomatique/il

manifesto, marzo 2003): "Se così è la vita, e questi sono i limiti,

e    queste le pulsioni di morte, e queste le aberrazioni del potere

che    nascono dall'interno della nostra tecnologica società, c'è da

aspettarsi    il peggio, è ovvio. Ma chissà, qualche nuovo arrivato,

qualche ingenuo    zuccone, qualche divino idiota, potrebbe ancora

trovare la chiave di    una possibile soluzione, e il mondo seguirlo."

 

 

E' possibile che io sia solo un idiota e certamente non divino, ma

sono    quasi otto anni che cerco di convincere qualcuno e siamo fermi

ad una    quarantina di persone. Non spero di essere "seguito" da

nessuno, ma    spero che qualcuno raccolga la proposta ed

ventualmente la modifichi,    la perfezioni e la riproponga in modo più

adeguato ed efficace.

 

Vero è che ho poche speranze perfino che questo scritto

appaia sul    mio giornale - mio perché sono abbonato e socio da

diversi anni -    magari con la scusa che ho superato le famigerate

trenta righe. Più    probabilmente per il fatto che non sono e non

voglio essere a capo di    alcunché né rappresento nessuno oltre a me

stesso, cioè non faccio    parte della nomenklatura

politico-movimentista e nemmeno sono un    professore

dell'intellighenzia di sinistra. Credo sì di essere di sinistra,    ma

sono un semplice ragionere in pensione che da circa trent'anni si

batte e si sbatte per qualche causa persa, convinto però che ancora

non lo sia del tutto.    ""

 

..........

 

Naturalmente, come previsto e scritto, i compagni del manifesto hanno

scelto, almeno fin'ora, di non pubblicare questo intervento.

 

Quanto sopra in parte risponde anche ad Andrea Catone, al quale

vorrei solo aggiungere:

 

Primo. Stalin, se si potesse, lo butterei proprio via. Peccato, per

tutti ed   anche o forse ancor più per i comunisti, che sia esistito.

Degli altri,   come di Marx, di Gandhi, di Machiavelli, di Spinoza o

di Gesù Cristo,   prendo quello che condivido e butto quello che no;

tenendo in sospeso   quello che non capisco. Comunque ho ben saldo

in

testa che nessuno   di loro aveva in tasca tutta la verità, o se

l'aveva non ce l'ha detta, o se   l'ha detta noi non l'abbiamo fin'ora

compresa, così come del resto   nessuno di noi ce l'ha, ma tutti la

cerchiamo.

 

Secondo. Accettare l'invincibilità degli USA non significa essere

subalterni all'egemonia USA, ma più semplicemente prendere atto della

realtà. Se non sbaglio è di Mao l'indicazione: se il tuo nemico è

troppo   forte, non sfidarlo con la forza; siediti lungo il fiume e

aspetta di veder   passare il suo cadavere. Ho appena sbirciato

un'articolo sulle   conseguenze ancora oggi tremende del defoliante

orange usato dagli   USA in Vietnam. Davvero il prezzo non ancora del

tutto pagato valeva   la candela? Leggendo poi che anche il Vietnam si

avvia, sulle orme   della grande Cina di Mao, a rincorrere il modello

unico... meglio stare   zitti, per non piangere.

 

Terzo. La scelta della non violenza non mi impedisce di essere

solidale   con chiunque resista all'ingiustizia e all'oppressione,

anche se costretto   o indotto all'uso della forza. Vorrei però

riuscire a comunicargli la mia   angoscia per le sofferenze che ancora

gli verranno dall'esser stato o   dall'essersi cacciato nel vicolo

cieco della violenza.

 

Quarto. Sulla attuale "resistenza" irachena personalmente non sono

riuscito a capirne la vera natura. Mi risulta difficile credere che

sia una   autentica resistenza democratica e popolare, perché non

ricordo che   sotto Saddam Hussein vi fosse qualche movimento

democratico e   popolare di opposizione ad un regime che certamente

non era né   democratico né popolare. Nemmeno si capisce se ad

alimentarla siano   i quadri dell'ex regime, o ineressi esterni

conflittuali con quelli degli   occupanti o entrambi. Che tale

"resistenza" lotti anche per i diritti degli   altri popoli minacciati

dall'imperialismo, fino a prova contraria, mi   sembra solo una

dichiarazione demagogica, non so nemmeno se fatta   propria dalla

stessa "resistenza" irachena.

 

Quinto. "Se si generalizzasse questa idea che il mezzo usato dai

dominatori ... " Appunto, caro Andrea Catone, non bisogna

generalizzare ed estendere a tutti i mezzi usati dai dominatori il

giudizio   che si dà sul mezzo "violenza". Se così facessimo, non solo

dovremmo   essere luddisti, ma semplicemente non dovremmo

nemmeno

respirare   la stessa aria che respirano i dominatori.

 

Sesto. Credo che data la complessità e la gravità del problema, sia

rischioso che qualcuno tenti o pretenda di definire una volta per

tutte la   casistica certa di quando e in che misura è ammissibile

l'uso della   forza. Dobbiamo tuttavia cercare di farlo, proprio per

stabilire e poi   perfezionare le "regole del gioco" della umana

convivenza. Per questo   nel PATTO TRA I CITTADINI DEL MONDO   (

www.deicittadinidelmondo.it)  dopo il personale:   "Mi impegno a non

partecipare personalmente ad azioni di guerra e mi   oppongo che altri

lo faccia o si prepari a farlo, anche per difendere veri   o presunti

diritti e interessi miei o della collettività cui appartengo."   il

testo prosegue con:   "Acconsento all'uso della forza, personale od

organizzata, non   intenzionalmente omicida, per scopi strettamente

difensivi della vita e   dei diritti fondamentali delle persone e dei

popoli."

 

Settimo. Le parole di Gramsci :"Quello che accade, accade non tanto

perché una minoranza vuole che accada quanto piuttosto perché  la

gran parte dei cittadini ha rinunciato  alle sue responsabilità e ha

lasciato che le cose accadessero" valgono o no anche per un

"imperialismo ferocissimo e spietato" ? Io credo di sì e credo che

l'unica   "forza" in grado di contrastarlo e vincerlo non sia alcun

apparato   militare guidato da alcun consiglio o partito

rivoluzionario, bensì proprio   e solo "la gran parte dei cittadini"

che non rinunci alle sue   responsabilità. Le scorciatoie non hanno

mai funzionato e tantomeno   funzioneranno ora.   Non sarà la pratica

non violenta a rafforzare l'egemonia   dell'imperialismo, ma

l'indifferenza o l'ignavia di cittadini non   responsabili.

 

Gianni Zampieri - cittadini del mondo

 

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dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com

9-2-'04

 

Sono un ventenne che ha iniziato a far politica dopo essere stato a Genova nel 2001, quindi sono di parte perché anche grazie a quella esperienza ho una naturale repulsione verso la violenza. Però cerco sempre di analizzare la realtà e le possibilità per cambiarla, senza pregiudizi né chiusure mentali. E forse sono avvantaggiato rispetto a chi ha vissuto realtà diverse e magari fa più fatica a cambiare idea, anche se sono sicuramente svantaggiato perché ho avuto meno esperienze e quindi meno elementi di analisi. Il rapporto tra i fini e i mezzi mi affascina da quando ho studiato Macchiavelli, che non condivido rispetto alla massima "i fini giustificano i mezzi" ma apprezzo per altri spunti, ad esempio la possibilità di influire per metà sulla realtà, anche se io credo si possa influire totalmente. E dato che secondo me sono strettamente collegati, spesso anche difficili da distinguere, ritengo fondamentale chiarire i primi, per ragionare seriamente sui secondi. Secondo me, senza avere nessuna pretesa di completezza, gli obbiettivi di un "nuovo comunismo" dovrebbero essere:

-una società in cui il potere sia distribuito equamente a tutti, e le decisioni vengano prese da chiunque venga influenzato da esse;

-una società senza violenza (fisica e psicologica, individuale e collettiva), perché non ce ne sarà più bisogno;

-una società senza classi, perché tutti saremo uguali e ci divideremo il lavoro in modo equo e vario e coopereremo, e per questo non ci sentiremo sfruttati e avremo la possibilità di realizzarci completamente (come singoli e come comunità), anche grazie ad una istruzione continua per tutti;

-una società senza povertà, perché con l'attuale sviluppo delle forze produttive possiamo soddisfare ampiamente i bisogni di tutti, anche di quelli che verranno;

-una società che si sviluppi in modo ambientalmente sostenibile, perché vivremo in una logica in cui l'ambiente è parte di noi, quindi non da sfruttare;

-una società senza discriminazioni di provenienza, di sesso, di orientamento sessuale, di opinione politica, di fede religiosa, di comportamento, perché siamo tutti uguali;

La domanda da porci è: per raggiungere questi fini (e altri che ho tralasciato) che mezzi dobbiamo usare? Io penso, e spero, che si possa ottenerli in modo nonviolento, perché altrimenti non solo sarebbe una lotta difficilissima per i mezzi di cui oggi dispone il potere, ma io non credo che vorrei, e riuscirei a parteciparvi, perché mi "corromperei" con la violenza, pratica così lontana da me e dagli obbiettivi che mi pongo che mi allontanerebbe da loro, così come allontanerebbe moltssime persone che vogliono un mondo migliore, e sappiamo bene che la rivoluzione non si può fare in pochi.

Comunque il dibattito non è che all'inizio, e mi sono già iscritto al convegno del 28 e 29 febbraio a Venezia, e invito tutti a farlo, perché scrivere è comodo e veloce, ma parlare faccia a faccia è tutta un'altra cosa.

Dario Ballardini

 

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Da Liberazione del 10-2-'04

 

La cultura delle libertà e le sue ricadute sulle nostre pratiche

Graziella Mascia

 

Caro Sandro, metto da parte le grandi questioni introdotte dal dibattito su violenza - nonviolenza, per concentrarmi un attimo su un punto che può apparire minore, ma che a mio avviso è parimenti indicativo della sfida culturale proposta dal segretario. Se la categoria della nonviolenza ci interessa, come a me interessa, per disegnare il mondo che vorremmo, penso per esempio che questa dovrebbe essere strettamente correlata a una forte cultura delle libertà, che rifiuta ogni forma di autoritarismo, di proibizionismo o di qualsiasi logica di potenza in nome di un fine superiore. Non alludo ad alcune esperienze tragiche del ‘900, che darei per scontate, ma più semplicemente alla nostra cultura politica dell'oggi, alle forme gerarchiche che spesso si tende a riprodurre, alla logica "militare", che a volte caratterizza il nostro linguaggio e persino le modalità della politica. Mi riferisco al condizionamento esterno che il nostro avversario può agire su di noi, non solo per le grandi questioni richiamate da Bertinotti, quanto alla nostra banale quotidianità, laddove predichiamo a destra e a sinistra i principi irrinunciabili dei diritti umani e poi siamo disponibili a metterli in discussione quando riguarda coloro che noi consideriamo "nemici" o "un pericolo superiore".

Un es. per tutti: il nostro partito ha, un anno fa, votato in parlamento contro la legge sul 41bis, relativa al carcere duro per mafiosi e terroristi. Ma, alcuni anni fa, la necessità di contrastare il fenomeno mafioso, e quindi di interrompere qualsiasi collegamento tra il dentro e il fuori, ci aveva invece portato a condividere l'idea del doppio binario in nome di una necessità superiore. Su questa come su altre questioni, si è da tempo sviluppato un vero percorso di rifondazione. Così, abbiamo votato, soli, nel parlamento europeo e in quello italiano contro una legge antiterrorismo di carattere emergenziale e che tende a colpire il conflitto sociale. Così non ci facciamo coinvolgere in una sorta di "furia antiberlusconiana", in nome della quale bisognerebbe votare per un mandato di cattura europeo, assolutamente incostituzionale, solo perché, per ragioni diverse dalle nostre, lo stesso "cavaliere" non lo condividerebbe, e tantomeno ci siamo fatti catturare da una idea di affidamento totale all'Europa, in nome di una generica legalità, mentre si introducono in costituzione europea, sul piano giuridico, pesanti restringimenti delle garanzie previste dalla nostra costituzione. Un impianto culturale, cioè, che ci consente di leggere ogni questione tenendo ferma la barra delle garanzie giuridiche e individuali e che ci consente di non cadere nella trappola emergenziale che nel passato ha coinvolto invece la sinistra, una parte della quale è ancora lì intrappolata. Se nel centro sinistra ci si rende disponibile a discutere sul carattere della guerra o su quello della lotta al terrorismo, per cui si sacrificano principi fondamentali, attiene a un rifiuto di mettersi in discussione, proprio a partire dalla storia di questi decenni.

Sottolineo questi aspetti per due ragioni: 1) perché in Italia e nel mondo esiste una emergenza garanzie e considero questa un impegno prioritario delle sinistre e del movimento; 2) perché la società che vorremmo, nonviolenta nel senso pieno del termine, chiede in modo indissolubile il pieno riconoscimento dei diritti fondamentali a tutte e a tutti, compresi quelli individuali che, in nome del bene collettivo, una volta si consideravano "liberali" o sovrastrutturali. Diritti che ci dovrebbero stare molto a cuore, laddove pensiamo a una società che mette a disposizione di tutti gli strumenti per una libera scelta in ogni vicenda privata, e per questo rinuncia a legiferare sui comportamenti individuali. Anche questo è stato per le sinistre un approdo faticoso, sulle questioni dell'aborto, come quelle delle droghe. E, nonostante la rivoluzione prodotta dal movimento femminista e del pensiero della differenza, è facile, anche a sinistra, incorrere ancora in una logica che pretende di "dettare legge" sulla base di una morale, come la legge sulla fecondazione assistita insegna.

Non affronto poi argomenti quali: "siamo contro la pena di morte, ma.. ", oppure "siamo per recupero e la risocializzazione di chi ha sbagliato e ha commesso reati", salvo poi, anche a sinistra, invocare il carcere per il "nemico", o considerare necessaria la detenzione per un bene supremo quale la sicurezza.

Tutto ciò per dire che, mentre respingiamo al mittente accuse o prediche sulle nostre presunte pratiche violente o illegali, che ci vengono dal governo o da altri, contemporaneamente dovremmo essere molto interessati a ragionare sulle nostre contraddizioni, sul condizionamento esterno che abbiamo introiettato. Perché, se dalle grandi questioni, a scalare fino alle piccole, il fine dovesse giustificare il mezzo, la catena non si interromperebbe mai, fino incidere sulle modalità della politica.

Se ragioniamo cioè sulla democrazia che vorremmo realizzare, sulla politica come progetto, come soggettività organizzata, come partecipazione delle classi, delle masse, dei popoli, delle persone, dovremmo prima di tutto agire noi modalità e pratiche che le rendano possibile.

E allora, non va taciuto che, mentre il movimento dei movimenti ha messo in campo una straordinaria ricchezza di pensieri, esperienze, storie, e per questo suscita anche un "concreto sogno" circa la possibilità di un nuovo mondo, le assemblee dei social forum o come li vogliamo chiamare, come l'ultima a Bologna, si propongono spesso esattamente come palco in cui sfilano al microfono tutte le competizioni muscolari possibili, e dove si sviluppa un pesante gioco di potere misurato sul messaggio urlato o su una presunta radicalità, non rapportata sul reale contenuto o sulla sua efficacia, ma invece su slogan spesso demagogici e ininfluenti.

Quanto cioè, che per altri versi, a volte incontriamo nelle piazze, laddove sporadiche pratiche simboliche o addirittura mass-mediatiche pretendono di parlare a nome di una "moltitudine" che in realtà viene emarginata da una logica avanguardista classica, che proprio il movimento ci dice di lasciarci alle spalle.

Se queste considerazioni hanno un senso, anche il dibattito sulle pratiche e la loro coerenza con il dibattito della nonviolenza può indirizzarsi su un percorso diverso da quello che, a mio avviso, sulla base di un progetto più politicista che altro, alcuni pretendono di leggere. Un percorso cioè che non rinuncia alla filosofia della "disobbedienza", ma al contrario la esalta come scelta di una generazione che contesta "uno stato di cose presenti" che consideriamo illegittimo, e che quindi ci legittima nelle nostre "illegalità".

Saremmo così più forti o più deboli, nel far valere le nostre ragioni e a contestare radicalmente i tanti luoghi di potere a-democratico che decidono senza essere stati mai delegati a farlo? Saremmo così più forti o più deboli nel denunciare e respingere le tante forme di repressione palesi o quelle che più subdolamente utilizzano con "fantasia" gli articoli del codice penale? Sarebbe così più difficile o più facile tenere insieme le tante diversità del movimento in un riconoscimento reciproco di culture politiche e di pratiche?

Per me questo è proprio l'insegnamento di Genova e di quella straordinaria e tragica esperienza che ha segnato la vita di tante persone. Anche per questo, considero irrinunciabile che tutti coloro che in questo movimento hanno fatto un tratto di strada insieme si ritrovino a Genova il 2 marzo, per dire ancora una volta che i 26 compagni indagati sono invece vittime, quanto noi, di una repressione che continua, e in cui riconosciamo una regia internazionale. Per dire che questa straordinaria novità rappresentata dal movimento mondiale è incancellabile. Ma ognuno di noi ha la responsabilità di averne cura.

E se il dibattito promosso dal segretario può avere una ricaduta sulle nostre esperienze concrete è in questa direzione, e non certo nell'agevolare le intenzioni di chi vorrebbe dividere il movimento in buoni e cattivi. Al contrario, questo tentativo, reiterato ininterrottamente da prima di Genova fino ad oggi, ha potuto essere respinto proprio da una capacità di contaminazione che ci ha interrogato reciprocamente in tutti questi anni. Per questo, ho considerato e considero irricevibile in sé e dannosa sul movimento la dichiarazione di Luca Casarini, quando sostiene che "il dibattito aperto da Bertinotti apre uno spazio al ministro dell'interno nella criminalizzazione del movimento".

E' un grave errore introdurre elementi di divisione, peraltro insostenibili. Come è un grave errore limitarsi a urlare contro la repressione chiudendosi in una sorta di vittimistico autoisolamento. Viceversa, è necessario e possibile, nonostante la forza dell'avversario e il pensiero debole di tanti vicini di casa, cogliere le connessioni che uniscono la nostra difesa dei tanti soggetti che ne sono vittime - da esponenti del movimento, agli immigrati, ai lavoratori che praticano scioperi "selvaggi" - alle lotte in corso in diverse categorie del pubblico impiego che si oppongono ai processi di militarizzazione, dai vigili del fuoco agli agenti di polizia penitenziaria. Lotte che fin qui vedono schierate organizzazioni come Rdb e Cgil, ma che ci dicono di una possibilità di ampliamento. Ed è proprio ad un allargamento del fronte che dobbiamo puntare, non rinunciando mai a convincere anche coloro che ci sembrano impermeabili. Anche in questo il movimento insegna.

Graziella Mascia

 

Rovesciare la macchina della violenza su chi la detiene

 

Nicola Fratoianni

Che cosa è questo dibattito su violenza e nonviolenza che da tempo occupa l'attenzione di tanti e tante di noi? Come e perché si è prodotto? Come entra in connessione col movimento e con la sua discussione? Andiamo per ordine. Mi è parso che il centro di questa discussione riguardi il potere e la sua natura nel nostro tempo. Mi è parso che a partire dalla messa a fuoco di questo punto, il dibattito si sia sviluppato attorno al rapporto tra i mezzi e i fini e che questi due elementi siano intimamente correlati. Quello che ci si chiede è una parola chiara sulla possibilità di pensare alla trasformazione e alla costruzione dell'altro mondo possibile a partire dall'idea che, la leva attraverso cui dispiegare questa possibilità sia rappresentata dalla conquista e dall'esercizio verticale e concentrato del potere. E' da questa domanda e dalla risposta che ne scaturisce che deriva l'insieme della discussione. Se infatti pensassimo ancora di poter immaginare la rivoluzione come appropriazione del potere e per questa via determinare in modo meccanico la liberazione e la costruzione di un mondo migliore nessuna discussione sul rapporto tra mezzi e fini avrebbe senso. Invece, il problema sta proprio qui. Quel "carattere retroattivo" che la violenza esercita su chi la utilizza dice molto sul pericolo insito in una certa idea del potere e della sua composizione materiale. Un'idea che si è costruita nel novecento come risposta simmetrica e antagonistica all'esercizio violento del dominio e del potere da parte del capitalismo.

Decostruire questa idea significa rompere l'attesa, significa introdurre nell'immediato del conflitto i tratti dell'alternativa, significa in termini radicali porre sotto critica la radice dei rapporti sociali capitalistici a partire dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, dell'uomo sulla donna, degli uomini sulla natura. E' questa del resto, un'idea del potere che il movimento, da Seattle in poi, ha potentemente messo in discussione. Ma tutto questo significa anche altro. Implica rompere anche con un'idea verticale e gerarchica dell'organizzazione modellata in fin dei conti su un immaginario combattente, ripensare il rapporto tra autorganizzazione, cooperazione e rappresentanza, tra governo e conflitto. Ci propone in realtà un terreno fecondo di ricerca sulla natura della democrazia e sulle forme stesse della politica.

Tutto il contrario insomma di un dibattito astratto e confinato in una dimensione accademica. Del resto, se qualcuno non se ne fosse accorto, la portata della discussione e la sua attualità è determinata da quello che succede intorno a noi. L'irruzione della guerra nella sua forma preventiva, globale e permanente, la naturalizzazione della violenza come forma stessa delle relazioni sociali, punta a cancellare lo spazio del conflitto, a sterilizzare la dimensione della politica come strumento collettivo di trasformazione. La violenza si propone come terreno privilegiato del potere, come strumento normativo e diffuso della globalizzazione neoliberista.

Tutto questo, ci viene detto da alcuni, piomba dall'alto e come un macigno sul movimento imponendo un dibattito inutile e dannoso. Trovo che questo schema vada semplicemente rovesciato. Mi sembra che la natura della discussione emerga dal movimento e dai conflitti che ha saputo incontrare e moltiplicare in questi anni. Non si tratta, è fin troppo evidente, di un'invenzione improvvisa ma semmai, al contrario, della ripresa e dell'approfondimento di un ragionamento e di una ricerca tutta interna al flusso vivo delle lotte. E' proprio nella valorizzazione della radicalità fortissima del conflitto, nella sua forza di trascinamento e di attrazione che trova ragione questo dibattito. Non si tratta in alcun modo di esercitare un richiamo alla compatibilità o alla passività ma di trovare lo spazio nel quale declinare in forma attualizzata la necessità, questa si strategica e inaggirabile, di rovesciare la macchina di violenza su chi la detiene e la esercita in modo sempre più massiccio.

Del resto dove sta la compatibilità o la passività nelle giornate del luglio 2001 di Genova a cui, tutti insieme abbiamo dato vita e nelle quali migliaia di persone hanno resistito difendendo quella democrazia così pesantemente sospesa. Dove sta nell'esperienza del Trainstopping, lotta radicalissima e allo stesso tempo praticata in modo nonviolento, nelle lotte dei tranvieri capaci di rovesciare l'ordine del discorso mettendo al centro la dignità del lavoro, nella rivolta di Scansano che reintroduce l'insubordinazione e la disobbedienza adirittura nella dimensione di un'intera comunità disposta a mettersi in gioco contro la minaccia delle scorie nucleari. E ancora nelle lotte per la casa che pongono al centro un'idea altra dell'abitare e della città, nello scontro durissimo che la Fiom conduce da tempo sulla democrazia del lavoro e contro la concertazione con migliaia di vertenze in tutto il paese. Tutto questo parla di noi e di quello che abbiamo concretamente praticato in questi anni, non di un futuro lontano al quale affidare le proprie speranze. In questo qui ed ora, in queste esperienze vissute, la disobbedienza ha mostrato una straordinaria capacità di diffondersi, di contaminare soggetti, lotte e linguaggi diversi tra di loro. E' a questa eccededenza, a questa irriducibilità del conflitto come espressione viva dei bisogni negati che si oppone, oggi, una vasta e pericolosa ondata di repressione. La moltiplicazione degli interventi giudiziari, di polizia, delle forme di controllo e di restrizione delle libertà dice della necessità di riaffermare l'ordine e la legalità come elementi statici e indiscutibili. A questo attacco il movimento deve offrire una risposta efficace. Dobbiamo saper imporre, senza alcun passo indietro, la legittimità del conflitto allargando e non restringendo il fronte.

Il mondo che vogliamo non ci verrà regalato da nessuno. E' per questo però che abbiamo una grande possibilità. C'è un aspetto di questa discussione che non ho affrontato e che riguarda l'indagine critica e coraggiosa su tanta parte della storia del comunismo novecentesco. Mi chiedo ora se questo non dipenda da un fatto molto semplice: non l'ho vissuta. Credo che in questo dibattito e nelle possibilità che ci consegna ci sia anche il tratto di una nuova generazione politica forse un po' più libera di scrivere la propria storia e il proprio futuro.

Nicola Fratoianni

 

Non-violenza, pratica di lotta, non di rassegnazione

Peter Behrens

 

Dell'intervento del compagno Bertinotti a Venezia ho un'opinione decisamente negativa. Tanto per cominciare è stato un intervento già preparato, le sue conclusioni erano pronte da prima del convegno e non hanno tenuto nessun conto degli interventi del convegno stesso, soprattutto dei due più interni all'argomento "foibe", quello di Joze Pirivec e quello di Giacomo Scotti, che hanno, entrambi, detto cose addirittura in antitesi con certi "assunti storici" dati per scontati da Bertinotti. In secondo luogo, come tutto il convegno, era una cosa da fare "prima" dell'intitolazione del piazzale di Mestre e non dopo, quasi costretti dai fatti e obbligati a ripiegare in qualche modo sulle posizioni dettate da "centrosocialisti" e diessini vari. In terzo luogo ho dovuto rilevare la scarsezza di approfondimento storico sull'argomento: dire che «il nostro storico Spazzali ha detto che a Basovizza ci sono 600 morti perciò va bene così» (anche se non nel corso del dibattito ma negli incontri di corridoio) è cosa sconcertante; Spazzali non è "storico nostro", ma della destra, anche se democratica e, soprattutto, non risulta aver mai detto dell'esistenza dei 600 morti a Basovizza.

In quarto è stato politicamente intempestivo, perché andare a valutare oggi, con conclusioni di quel tipo, le cose significa dare spazio ed avallare le tesi della destra radicale: voglio vedere come farà Bertinotti ed il partito a rifiutare la proposta della giornata della memoria delle foibe istriane fatta da Fini, con tutti i falsi storici, politici e morali e con l'automatica rivalutazione dei fascisti locali che quella proposta comporta.

Ma ora scenderò nei dettagli, scusandomi per l'incompletezza della trattazione, anche perché la cosa per essere fatta seriamente dovrebbe avere più voci, ma soprattutto molto più tempo. Certo su questi argomenti bisognerebbe fare molta, molta chiarezza.

Quando in un confronto una delle parti comincia col meschinizzare le idee dell'altra il confronto comincia molto male, soprattutto se a farlo è la parte "più forte", quella che è nelle posizioni più visibili e più rappresentative. Però questa posizione "ridicolizzante" è anche il segno che le convinzioni di chi discute sono deboli e poco difendibili se non con metodi discutibili, in quanto la ragione le può smontare e dimostrarne la pochezza, sia storica che politica. Quindi spero che le posizioni che ora rileverò del nostro segretario siano solo una caduta di stile e non la ricerca di questo metodo di demonizzazione dell'"avversario", cosa che nel passato ha troppe volte attraversato i partiti comunisti e, questa si, cosa sulla quale bisognerebbe fare non tanto autocritica quanto autoriforma.

La differenza tra fascismo e antifascismo non è certo data solo dai numeri dei morti, e nessuno ha mai osato sostenere una cosa del genere. Però per capire (non giustificare) i fatti del passato si deve fare ricerca storica e capire cosa è successo, scremandolo dai falsi della propaganda, che in queste terre è stata purtroppo molto attiva sia prima che dopo la guerra. Fare ricerca storica però significa anche confrontarsi con i fatti, ed i fatti sono dati anche dai numeri. Perché, nel rispetto di ogni vita umana, sapere se si tratta di un omicidio, di 10 morti, di 100, mille o diecimila ha un valore molto diverso, sia dal punto di vista storico che da quello giuridico (omicidio, omicidio plurimo, strage, genocidio sono valori sia storici che giuridici diversissimi). Liquidare la cosa dicendo che «ci sono molti tra noi che su una questione così scottante e così drammatica come quella delle foibe si azzuffano su una questione di numeri» o «la manipolazione verso il basso (dei numeri dei morti, ndr) tende a configurare l'idea che in quelle fosse ci fossero solo fascisti colpevoli» è un modo rapido ma semplicistico di affrontare la questione. Modo che è sbagliato e fuorviante per ogni possibile analisi. Certo è buono per demonizzare chi vuole fare la ricerca storica, soprattutto quando questa non collima con la scelte politiche che si sono volute assumere anche contro i risultati della ricerca stessa. Ma così facendo si fa un pessimo servizio alla storia ed uno ancora peggiore alla politica. Altrettanto semplicistico è il discorso sul "vuoto di potere" e sullo "scontro tra poteri" che hanno portato a questi fatti. Certo, queste componenti ci furono, ma durante la Resistenza vi fu anche contemporaneità di poteri. C'era la gerarchia militare degli uni ma c'era anche il volontariato, il rispetto, la collaborazione degli altri. Le repubbliche partigiane, le zone libere, le aree controllate e tutelate, con le armi e con le battaglie furono luogo di autogestione e palestre di gestione democratica, ancorché in armi. Vi furono anche vendette, ma gli atti individuali agli individui vanno ascritti. A Trieste e nell'Istria, soprattutto nel '45 furono anche molto limitate nel numero reale. Tanto che, e questa è storia, vi furono proteste da parte proletaria perché non si lasciava fare come altrove in Italia, dove valeva il decreto luogotenenziale che autorizzava all'uccisione di tutti i volontari delle truppe di Salò. E scusate se è poco. Comunque il discorso del confronto tra "poteri" diversi esiste continuamente. Anche oggi il dire "un altro mondo è possibile" (slogan che andrebbe almeno specificato con un auspicio concreto, perché anche il fascismo è possibile "altro" rispetto all'attuale governo) significa scontro di poteri. Fare politica significa scontro di poteri, tra quello che esiste con le sue regole vigenti e quello auspicato, con le regole che si propongono. Dietro questa spiegazione dei fenomeni esiste solo, scusate il bisticcio, banale banalizzazione, che nel non spiegare nulla lascia liberi tutti di dire ciò che si vuole. Certo permette di fare il successivo salto logico dei "regimi contrapposti" che si sarebbero affrontati a Trieste, cioè degli estremismi opposti, fascismo e movimento partigiano comunista, che portano entrambi a lutti e distruzioni. Forse non era questa la volontà di Bertinotti, ma è questa la sola lettura possibile delle sue parole.

La critica dei crimini del fascismo non è mai servita, tra i compagni seri, a giustificazione per non fare i conti con la nostra storia né per darsi alla vendetta ed alla distruzione indiscriminati, dove fare giustizia da parte delle autorità, con metodi anche criticabili, è e deve rimanere altro dalla vendetta personale. Gli storici seri hanno sempre cercato di collegare tra loro i fatti e di capire il perché del succedersi degli avvenimenti. Dire che una cosa avvenuta è stata il motore di cose successive non è giustificazionismo, è studio storico. Nulla accade a partire da un punto, senza fatti precedenti. Così in ogni rivolta, in ogni tensione sociale nei secoli, vi sono fenomeni che hanno portato al punto di rottura, che lo hanno determinato e che hanno, in parte, determinato il tipo di azione. Imporre, per il fascismo, di dimenticarlo, pena rischiare di passare tra i "giustificazionisti dei nostri errori" è antistorico, dire che questo può portare ad aspetti negativi è chiudere la porta in faccia all'analisi storica dei fatti e criminalizzare chi la fa. Certo sta agli uomini, anche ai compagni, non crearsi miti intoccabili ma ricordare sempre che tutti, noi come chi ci ha preceduto, siamo solo umani con pregi e difetti. Ma detto questo, sulla resistenza, bisogna sempre ricordare che vi fu chi combatté (magari per motivi personali "buoni") dalla parte della sopraffazione fisica e morale, dalla parte del "superuomo" con diritto di vita e di morte, dello sfruttamento del lavoro schiavizzato, del diritto di eliminare intere etnie e gruppi perché considerati inferiori e chi lottò (magari con motivazioni personali abiette) contro tutto ciò, anche con le sue contraddizioni. E questa è storia, non esaltazione. Comunque, se si vuole vedere il male bisogna vederlo in ogni luogo in cui si annida. Ad esempio bisognerebbe, cosa mai fatta, affrontare il tema della "doppia resistenza", di chi partecipò per arrivare alla rivoluzione sociale, con un mito (forse errato) di socialismo, e chi partecipò su posizioni chiaramente reazionarie, di legame con la monarchia e con il capitalismo, con il criminale di guerra Badoglio, contro il movimento proletario. Dire che Sogno, la Franchi, la Osoppo erano gruppi reazionari, favorevoli al cambio della guardia dirigente, non al cambiamento della società, che a volte (molto spesso) trovavano linee di accordo con i fascisti e con i capitalisti contro i partigiani rossi, lasciandoli massacrare o isolandoli è dire fatti. Fu giusto reagire e si reagì nella maniera giusta? Non spetta a noi giudicare. Successe. Possiamo valutare i risultati, e dire che non furono positivi.

Sapere dove si poteva evitare di commettere abusi, e quali siano stati commessi, è importante per evitare in futuro di commetterne. Ma se proprio si voleva fare questa presa di coscienza perché non si sono prese ad esempio altre situazioni, dove gli ordini precisi erano di "fucilare" tutti i volontari della Rsi, senza distinzione? I partigiani jugoslavi (serbi, croati, sloveni, italiani, tedeschi, ecc.) hanno, invece, come riconosciuto da tutti, anche dagli storici di destra, sempre operato con sistemi di Stato. Ogni arresto doveva avere delle prove concrete per venir mantenuto. Ogni arrestato doveva risultare accusato da almeno tre accusatori di crimini precisi. Che poi in alcuni casi ci siano stati abusi di singole persone è cosa che riguarda loro e va oltre quelle che erano le precise disposizioni dei vertici, che chiaramente dicevano di colpire in base al fascismo e non in base all'etnia e invitavano i comandanti a frenare l'eccessiva solerzia di alcuni attivisti. Processi contro gli eccessi li fecero, e quanti, gli stessi jugoslavi anche nel corso della guerra. Comunque non si può, neppure in questo caso, colpevolizzare il movimento. A meno che non si intenda sostenere che "italiano" è comunque più buono che "salvo" e che era meglio essere fascisti ma italiani che jugoslavi e comunisti.

Il problema della violenza è stato, poi, affrontato molto superficialmente e su fatti lontani. La non violenza è certamente un fatto positivo. Se posso ottenere delle cose senza ricorrere a coercizioni è bene. Ma a volte già solo per chiedere e farsi sentire si deve gridare. E' violenza? Gli scioperi di questi giorni per certe persone sono violenza: contro le regole, contro le persone, contro le cose. E seguendo la logica in senso stretto si può concludere che è vero. Lo sciopero è una forma di coartazione, di ricatto, di pressione: quindi di violenza. Ma se noi conquistiamo dei successi democraticamente, ad esempio il Cile di Allende, cosa dobbiamo poi fare? Lo sciopero con sit-in per bloccare ogni movimento? Buona ipotesi, ma resta ipotesi che non ha mai visto luce dei fatti. Certo, fino a quando la via politica è praticabile e può dare dei risultati si deve perseguire la via politica. Cedere al mito del "vietkong vince perché spara" (oggi Zapatista con le armi) è stato deleterio in passato e sarebbe ancor più deleterio oggi. Esiste oggi un fermento, al quale dobbiamo garantire lo spazio di agibilità. Un fermento che non deve percorrere la strada dell'estremismo, giustamente definita a suo tempo "malattia infantile del comunismo". Un fermento che deve poter crescere, deve poter svilupparsi nelle forme e nelle direzioni positive che collettivamente saprà trovare e sviluppare. Con l'aiuto anche della conoscenza degli errori del passato, che è il miglior modo per evitarne la ripetizione. Cosa che significa sostanzialmente anche con la conoscenza del passato, non con la sua demonizzazione. E con la conoscenza del pensiero dei compagni che hanno fornito strumenti teorici al movimento proletario. Essere "nuovi" non significa dover ogni volta ripensare tutto di nuovo, ricostruire tutto ogni volta da zero. I pensatori del passato costituiscono un trampolino per il futuro. Significa passare il tempo a studiare e non fare? No, significa non dichiarare ad ogni piè sospinto chiuse certe esperienze e sepolti certi valori ed autori (Marx, Lelin, …), significa non esorcizzare come mefitico un passato, quello delle lotte di liberazione di intere società, solo perché gli esiti non sono stati quelli che oggi, a cose fatte, noi avremmo desiderato.

Ma riprendiamo col convegno. Auschwitz e Hiroschima sono veramente diverse come dice Bertinotti? No, strutturalmente no. Sono entrambe frutto del capitalismo, delle sue necessità e delle sue volontà. Esattamente come Dresda e Amburgo. Volontà di vincere la guerra, ma non necessariamente con meno lutti. Anzi, con una quota di distruzione di popolazione civile non combattente tale da terrorizzare chi avesse intenzione di proseguire, per esempio, sulla via dell'espansione non dell'Onu ma dell'Urss. Probabilmente questa espansione non avrebbe avuto risultati positivi, viste le degenerazioni dei partiti, anche di quelli comunisti, nell'Europa pre e post-bellica, ma noi possiamo parlarne solo col "se". Certo è invece che il trionfo del capitalismo ha portato enormi danni alle società umane. Lo stato agonico in cui versa il sud America e, ancor più, tutta l'Africa (con decine di milioni di morti per fame, malattie e guerre) da decenni è un esempio evidente degli effetti devastanti del colonialismo prima e dell'imperialismo poi messi in campo dal sistema capitalista.


Non si capisce perché noi si debba continuamente fare ammenda dei morti dei gulag (morti che pesano, e come, anche sul nostro presente, ma dei quali non abbiamo mai esaltato l'uccisione e che mai abbiamo contribuito a far arrestare), mentre nessuno addossi mai, nemmeno tra i compagni, quei morti africani, sudamericani ecc. al capitale, che si guarda sempre molto bene dal riconoscerli come frutto necessario e non eliminabile del suo sistema. E' questo un modo di dire "voi uccidete più di noi"? No, si tratta solo di sapere che certe cose sono state fatte cedendo, nella maggior parte dei casi, al frutto degli anatemi settari e demonizzanti gruppi e movimenti interi, dobbiamo imparare, volendo cambiare la società, a non ricadere in questi errori. Ma tenere sempre presente che mentre noi soffriamo per quei morti il capitale continua a farne ogni giorno migliaia senza mai soffrire per loro.

Nella lotta poi, è vero che oggi il fascismo non è più il nemico? Solo se si considera il fascismo come un corpo a sé stante. Ma se si vede nel fascismo solo una delle forme del capitale, come la guerra e come il terrorismo, allora ci si rende conto che bisogna sì combattere il sintomo più evidente e minaccioso del sistema (e che oggi questo è la guerra più che il fascismo) ma che per vincere si deve combattere il capitalismo e la sua iniqua ripartizione dei beni. Altrimenti sarebbe come combattere con l'aspirina le sofferenze date da un cancro.

Peter Behrens

NON-VIOLENZA, IL DIBATTITO ORA DIVENTA UN LIBRO

 

Alessandro Curzi
Rina Gagliardi 

Con gli interventi di oggi, si chiude il dibattito sulla non-violenza, scaturito due mesi fa dalle conclusioni di Bertinotti al convegno del Prc a Venezia sulle foibe e dal primo intervento di Pietro Ingrao. Ci scusiamo per le centinaia di lettere e contributi che non abbiamo potuto pubblicare, e per i tagli ai quali abbiamo dovuto sottoporre spesso quelli pubblicati. Intanto preannunciamo che entro il mese "Liberazione" pubblicherà un volume con la raccolta di tutti gli interventi e i "materiali" per la discussione. Ne anticipiamo oggi l'introduzione di Alessandro Curzi e Rina Gagliardi

 

Questo libro nasce da un dibattito ricco, intenso e appassionato su un tema cruciale del nostro tempo: la natura degli strumenti necessari per la trasformazione di un mondo sempre più in preda alla guerra e alla violenza. E' possibile oggi scegliere la nonviolenza come arma di lotta vincente? Come, anzi, l'arma più efficace che abbiamo a disposizione per mutare radicalmente la società e innescare un processo rivoluzionario, nel quale i mezzi usati finalmente non siano in flagrante contraddizione con i fini che si perseguono? Non resta vero, al contrario, che se si vuole spezzare la ferocia dell'attuale dominio capitalistico non si possono escludere a priori momenti violenti? E che un'opzione nonviolenta rischia di rimpiombare i movimenti - e i partiti comunisti e alternativi - in una visione classicamente gradualista, moderata, subalterna?

Su questi interrogativi - antichi, ma in realtà nuovissimi - si è sviluppata per quasi due mesi la discussione su "Liberazione", che ha coinvolto centinaia di persone, militanti di Rifondazione comunista e militanti no global, esponenti del pacifismo e della sinistra, intellettuali di grande prestigio e "semplici" lettori. Essa è stata suscitata, come è noto, dallo stesso Segretario del Prc: concludendo un impegnativo convegno sulle foibe, il 13 dicembre 2003 a Venezia, Fausto Bertinotti ha avanzato una proposta strategica di nonviolenza, rivolta al movimento ma anche al partito, nell'ottica di una rinnovata identità comunista. Il testo è uscito, in versione pressochè integrale, su "Liberazione" del 4 gennaio 2004. Pochi giorni dopo, Pietro Ingrao, in una lunga intervista, ha rilanciato il tema con forza e autorevolezza. Il dibattito si è allargato anche al "manifesto" ed ha assunto via via una dimensione imponente.

Ci pare di poter dire che raramente sulla stampa italiana si discute non solo con tanta libertà e passione, ma con una ricchezza di argomentazioni così vasta. Certo, le posizioni che si confrontano restano lontane, anche perché attorno al nodo violenza \non violenza si dipanano (e si intrecciano) molte e problematiche dimensioni. Quella del presente, prima di tutto: il qui e ora della lotta sociale e politica nei paesi di capitalismo maturo, ma anche il qui e ora della lotta dei popoli aggrediti od oppressi dal dominio imperiale. Quella del passato - la storia del ‘900, la cultura politica dei comunisti e del movimento operaio, il bilancio da tracciare. E quella del futuro da costruire. Questioni di tale rilevanza politica e culturale, che chiedono un'ulteriore intensificazione della ricerca, un ulteriore lavoro collettivo. Intanto, è stato accumulato un "materiale" significativo, che offriamo alla riflessione di tutti.


Un'ultima questione: questo dibattito è un "lusso" criticabile, una ridondanza, una fuga, in un momento così difficile dal punto di vista politico e sociale? Ce lo siamo domandati anche noi. Ma la risposta ci è parsa subito evidente: no che non è un lusso. Il nodo violenza \nonviolenza è, in realtà, attualissimo e tutto politico. Vive nelle lotte di questi mesi, come ci insegnano gli autoferrotranvieri di Milano, gli operai di Terni, gli occupanti delle case, i professori, gli studenti e i bambini che si oppongono alla controriforma della scuola. Perciò è bene che viva nei nostri luoghi di aggregazione e sulle colonne dei nostri giornali.

Alessandro Curzi
Rina Gagliardi 

 

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Da Liberazione del 11-2-'04

 

Non possiamo non dirci non-violenti

Gennaro Migliore

Il nostro dibattito sulla nonviolenza si situa in un tornante stretto della nostra storia politica. Siamo immersi in un flusso costante di lotte sociali e politiche. Il "Paese in rivolta", come titolava giustamente Liberazione, che da Scanzano arriva allo sciopero della sanità e passa per gli autoferrotranvieri, non è il frutto occasionale di resistenze isolate, bensì il riflesso di una più generale (e mondiale) contrapposizione alla devastazione sistemica prodotta dalla globalizzazione neoliberista. E' il rifiuto radicale di soggiacere alle ferree leggi dettate dal pensiero unico del mercato, alla logica di dominio molecolare imposta dalla vandea neoconservatrice, allevata nel lungo ciclo di restaurazione neocapitalista ed esplosa nella sua più manifesta violenza con il dispiegamento di uomini, menti e mezzi nella guerra preventiva di Bush.

Volenti o nolenti, non possiamo fare a meno di confrontarci con questo dato di realtà. Ogni interpretazione che si affidi a schemi ereditati dalla nostra storia, recente o remota, è destinata a produrre effetti inconcludenti, o perché vittima di un'impotenza dettata dalla sproporzione delle forze in campo o perché condannata alla semplice testimonianza di un mondo più giusto, che avremmo voluto e che non siamo riusciti a costruire.

Sta qui, a mio parere, la cogenza di una discussione che i più avvertiti hanno collocato nella riflessione sulla Rifondazione, ma che, forse, sarebbe ancora più giusto inserire nel ripensamento più generale della soggettività politica.

Come si definisce, quindi, la nuova soggettività che può contrastare l'aggressione neoliberista e guerrafondaia? Se non tentassimo di rispondere a questa domanda, ci collocheremmo ai margini della sfida che ci siamo posti e, più immediatamente, saremmo inessenziali nello sviluppo del movimento di contestazione alla globalizzazione. Ovviamente le risposte possono essere diverse, ma non si può negare che l'assunzione della nonviolenza sia una possibile, forse la più radicale. Innanzitutto lo è perché non è riassumibile, a dispetto dell'etimologia, in un concetto negativo, insomma nel contrario della violenza e, come giustamente rilevava Ingrao, in una pratica rinunciataria e "calabrache". L'introduzione stessa del termine nonviolenza Ë legata ad un'imprecisa traduzione del termine ghandiano cui si richiama, che potrebbe altresì essere tradotta con "forza della verità". Inoltre la sua concreta sperimentazione, pratica e teorica, si è sempre misurata con una consapevole presa di coscienza di chi non accetta di rimandare sine die l'atto salvifico della presa del potere. Essere nonviolenti significa prendere parte, sempre e soprattutto collettivamente, nella determinazione del proprio futuro. Per usare la stessa terminologia provocatoria di Paolo Cacciari, è certamente una discussione "provvidenziale", perché riguarda direttamente il nostro destino.

E' una scelta, non una condizione esistenziale. Non pretendo, infatti, di dare giudizi su chi, oggettivamente non è o non può o non vuole seguire questa tesi, dai movimenti di resistenza guerriglieri alle forme di resistenza sociali più radicali. Ma sono interrogati tutti dall'evoluzione delle forme del potere, dalla sua progressiva inaccessibilità e collocazione in punti inconosciuti attraverso la nostra esperienza. Storicamente, la stessa costruzione della democrazia borghese è stata una risposta alla messa in discussione del potere assoluto, così come la presa del Palazzo d'Inverno è stata l'inveramento di un pensiero nato per raggiungere la liberazione dell'uomo sull'uomo.

Oggi però sono in crisi tutte le teorie di presa del potere diretto (qualcuno può forse associare le legittime resistenze di guerriglia della Colombia o anche del Chiapas alle tesi fochiste? Oppure disconoscere il fallimento del socialismo reale?) ed, infatti, ci s'interroga molto di più su come trasformare il potere e rendere la democrazia partecipativa e praticabile. Gli stessi palestinesi sono interrogati dalla militarizzazione della seconda Intifada, sia in termini di efficacia che per quanto attiene all'introiezione della replica violenta, vista come un terreno infecondo per la costruzione di una nuova società, come ha scritto in maniera illuminante Alì Rashid sulle pagine del nostro giornale. In questo contesto, pur riconoscendo la validità e la legalità internazionale della resistenza alle invasioni, non possiamo dire che la resistenza irakena sia l'omogeneo e conseguente frutto di un processo di liberazione. Ci sembra piuttosto un terreno di degenerazione della coppia guerra-terrorismo, che sta a dimostrare ancor di più la distruttività d'ogni guerra ed occupazione.

La nonviolenza non è solo l'eredità del pensiero ghandiano, ma, oggi, è il terreno su cui si sono rincontrati i pensieri e le pratiche antisistemiche dello scorcio finale del secolo passato: dal femminismo al pacifismo, fino a giungere all'ecologia. La nonviolenza s'impasta di critica alla neutralità della scienza, che bisogna contrastare come condensato di una geometrica potenza di dominio "oggettivo", e di critica alla società patriarcale. E' un percorso di liberazione dalle forme di potere imposte dall'esterno, ma anche una contestazione dei nostri stereotipi culturali e psicologici.

La nonviolenza è, infine, una pratica che impone la responsabilità, individuale e collettiva. Siamo così sicuri che potremmo dirci disobbedienti, disertori, sabotatori del sistema se non avessimo una pratica nonviolenta? Non credo che il conflitto sia messo in discussione da questa pratica, anzi ne è alimentato mentre è alleggerito dal fardello "eroico" delle avanguardie. Non si tratta di affievolire i contenuti, ma di radicalizzarli nella coscienza collettiva e per far ciò il gesto esemplare, quand'anche solo mimato in un'insopportabile rappresentazione della "guerra", è destinato alla minorità.

Il movimento italiano sta vivendo questa discussione come centrale per il suo sviluppo e ciò non è casuale. Non solo perché chi l'avanza è una sua parte fondamentale, il nostro partito, ma perché coglie la necessità di rendersi sempre più potenza espressiva di contestazione e non mera rappresentazione delle forze che lo animano.

Gennaro Migliore

Il nodo vero è la rifondazione comunista

La discussione avviata sulla violenza rappresenta a mio parere un vero passo in avanti sulla strada della rifondazione comunista. Non solo una analisi critica della nostra storia - elemento fondativo della nostra identità di partito - ma un tentativo di dare forma e sostanza ad una nuova identità comunista. Come tutte le discussioni di fondo, che scatenano passioni e discussioni, vari elementi si mischiano: la politica, l'identità, il rapporto con la nostra storia. Non discutiamo quindi solo della nostra prassi, ma anche della nostra cultura politica, della nostra ideologia si potrebbe dire.

In particolare mi pare che le acquisizioni più significative siano:
In primo luogo una rimessa al centro dell'obiettivo: il comunismo. Questa discussione rimette al centro il comunismo come lotta per la costruzione di una società di "liberi ed eguali". Noi lottiamo per una società in cui venga abolito il dominio di classe e ogni altra forma di dominio "dell'uomo sull'uomo". Una società dove il superamento dei rapporti sociali capitalistici permetta la liberazione dell'uomo e della donna. Credo di poter dire che l'ideale comunista che ci anima e ci guida nella lotta, l'uomo nuovo che vogliamo costruire, è radicalmente nonviolento. Mi è ben chiaro che noi oggi non siamo nel comunismo e che il nostro problema è la lotta dentro questa società intrisa di violenza e di sfruttamento fino al midollo. Non possiamo però mai dimenticare quale è il nostro fine, la nostra bussola, altrimenti rischiamo di andare fuori pista, di perdere per strada quell'idea di liberazione che è costitutiva non solo della politica ma dell'antropologia comunista. Da questo punto di vista mi pare legittimo affermare che la violenza è in se tendenzialmente disumanizzante, incorpora in se elementi di quella disumanizzazione che vogliamo combattere. La violenza non è quindi neutra. Devo dire che quasi tutti i partigiani che ho conosciuto lo sapevano e avevano ben chiaro il problema.

In secondo luogo, abbiamo capito che nella battaglia politica i mezzi che si utilizzano non sono indifferenti rispetto ai fini che si vogliono determinare. Vi è un legame tra mezzi e fini, tra strumenti e obiettivo. Lo possiamo vedere osservando l'esperienza storica e lo dobbiamo sapere se non vogliamo trasformare il nostro ideale comunista in una specie di religione (intesa proprio come oppio dei popoli), in cui oggi si può fare qualsiasi cosa in nome di un domani paradisiaco. Se siamo materialisti, dobbiamo sapere che non vi può essere una dissociazione tra cosa facciamo oggi e cosa vogliamo costruire. Non ritengo possibile una totale coincidenza tra mezzi e fini, ma a questo occorre tendere; nelle nostre lotte deve essere riconoscibile l'obiettivo per cui lottiamo.

In terzo luogo una chiarificazione sull'attuale fase dello sviluppo capitalistico che ci troviamo a fronteggiare. Noi oggi abbiamo di fronte un capitalismo che non essendo in grado di produrre consenso ed integrazione sociale, si fonda sulla logica della guerra ed elegge a proprio nemico il terrorismo. Un capitalismo cioè che tenta di distruggere il terreno della politica, inteso come terreno della lotta e dell'espressione delle masse, per trasformare ogni protesta sociale e ogni conflitto in un problema di ordine pubblico e di terrorismo. Il capitalismo è entrato in contraddizione pesante con i bisogni sociali che esso stesso ha concorso a determinare. La democrazia viene svuotata e la politica tendenzialmente azzerata. In questo contesto, la scelta tendenzialmente nonviolenta non rappresenta l'attività autoconsolatoria di anime pie che hanno rinunciato a trasformare la società, ma la strada potenzialmente più efficace per combattere il capitalismo. Intanto perchè rende più complicato per l'avversario di classe usare contro di noi il suo potenziale distruttivo; in secondo luogo perchè rende tendenzialmente più efficace la comunicazione delle nostre ragioni. La lotta degli autoferrotranvieri come quella di Scanzano e Terni, come pure - pur con tutti i distinguo - quella zapatista, mi pare ci dicano qualcosa in proposito. Oggi, una efficace lotta al potere non avviene sul terreno di una impossibile costruzione di una potenza identica e contraria; è praticabile nell'allargamento e nella qualificazione politica del movimento di massa, al fine di ridurre la possibilità per il potere di utilizzare il suo potenziale distruttivo.

Questo apre il problema del rapporto con la storia. Questa posizione vuol dire rinnegare il nostro passato e considerarlo un cumulo di macerie da gettare? No. Vuol dire che la nostra storia non deve essere sacralizzata, ma analizzata criticamente alla luce dei risultati che si sono ottenuti; ricercare le possibili alternative, le discussioni che vi sono state e che hanno proposto strade diverse da quelle seguite. Vuol dire però anche andare oltre. Noi oggi sappiamo cose che i nostri padri e i nostri nonni non sapevano; che non potevano sapere. I compagni e le compagne che hanno fatto la rivoluzione Russa hanno lottato per il comunismo e invece hanno realizzato una cosa molto diversa. Vuol dire che non dovevano fare la rivoluzione (come predicava Kautsky in nome dell'ortodossia) o che l'esito negativo era iscritto nella loro opera? No, mille volte no. Ma noi oggi sappiamo come è andata a finire e abbiamo il dovere politico e morale di capire dove si è sbagliato; di capire se vi sono oggi le condizioni per fare diversamente da cosa è stato fatto ieri. Se siamo dei materialisti, dei comunisti, l'unico modo che abbiamo per onorare il valore morale e politico delle generazioni di rivoluzionari che ci hanno preceduto è quello di imparare dai loro errori, per non ripeterli; è quello di analizzare le modifiche del capitalismo per trovare le contraddizioni nuove su cui far leva per rovesciarlo. Se non vogliamo rendere inutile il sacrificio di milioni e milioni di compagni e compagne dobbiamo capire e cambiare. O il marxismo è una scienza che ci permette - come in tutte le scienze - di imparare dal passato, oppure diventa una ideologia religiosa, che può dare una risposta effimera al problema dell'identità personale ma non a quello della trasformazione della società.

Non è la prima volta che i comunisti si pongono questo problema: Marx analizzò la Comune di Parigi pur non condividendo la scelta dell'insurrezione e ne trasse insegnamenti fondamentali. Lenin, dopo l'appoggio dei partiti socialisti alla guerra, ruppe con la II internazionale (di cui aveva fatto parte) e cambiò il nome da socialisti a comunisti, per segnare fino in fondo la necessità di un nuovo inizio. Così come il partito comunista di massa nato dopo la resistenza era assai diverso dal PCd'I degli anni '20. Così come la CGIL dopo la sconfitta alla FIAT del 55 fece autocritica e cambio radicalmente l'impostazione contrattuale; nuovamente il sindacato nel '69/70, di fronte ad un ciclo di lotte che la stessa modifica del '56 aveva favorito, cambiò radicalmente la propria organizzazione di fabbrica. La storia migliore del movimento operaio e comunista è la storia di chi sa imparare dai propri errori, non per dare giudizi morali sul passato ma per essere più efficaci nella trasformazione sociale.

Questa discussione sulla nonviolenza ci consegna allora non solo la necessità di proseguire su questo percorso di rifondazione per precisare, limare, sperimentare e correggere. Ci chiede anche di contrastare quelle posizioni che in nome di una presunta ortodossia mettono in realtà in discussione la necessità e la possibilità di lavorare alla rifondazione di una ipotesi comunista. Se ogni riflessione critica sul passato è tacciata di liquidazionismo, è evidente che non è possibile alcuna ricerca e alcuna rifondazione. Se una riflessione aperta da Bertinotti contro il revisionismo storico, in nome dell'antifascismo e della rifondazione comunista viene accostata alla scelta occhettiana della bolognina, il dato costitutivo della rifondazione è negato in radice. Fino ad oggi la battaglia politica nel nostro partito è avvenuta principalmente sul terreno della linea politica. Oggi non è così e usando argomenti di destra e di sinistra si mette in discussione, a mio parere, la scelta di fondo del partito, quella della rifondazione. La costruzione di una nuova identità comunista, dentro un percorso di rifondazione, è quindi il vero oggetto del contendere. Proponiamo di farlo non in un suicida ripiegamento interno, ma entrando in sintonia con i movimenti di massa, analizzando le modifiche del capitale e imparando dalla nostra storia, che non deve esser imbalsamata ma ci deve aiutare a trovare la strada giusta; perchè non siamo dei sacerdoti, custodi di un vecchio culto, ma rivoluzionari comunisti che vogliono camminare domandando.

Paolo Ferrero

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