dal sito:
www.geocities.com/comunautilus/interventi/nonviolenza.htm
14-12-'01
Perché una scelta nonviolenta
Roberto Silvi
In Italia il dibattito sulla nonviolenza si è esteso a
macchia d'olio, da quando il movimento antiglobalizzazione sembra averne fatto
il suo strumento di battaglia. E questo è avvenuto in maniera tanto più
naturale quanto più profondo e lacerante è stato, negli anni settanta il
confronto sull'uso della violenza.
A parte la maldestraggine dei vari goffi tentativi di
farne una bandiera da parte degli improvvisati o radicati leader del movimento
quali Agnoletto o Casarini, il movimento, nella sua maggioranza, mi sembra
decisamente orientato sull'uso di una nonviolenza attiva, non soggiogata alle
regole del gioco e tutta tesa a imporre dei reali cambiamenti di rotta.
Sulle gesticolazioni 'mitopoietiche' delle tute
bianche, già è stato detto molto per un verso dal mio amico Oreste Scalzone in
varie occasioni e durante la teleconferenza che ha tenuto al DAMM di Napoli, e,
in maniera precisa e come sempre pertinente, in un altro senso da Adriano Sofri
nella polemica che lo ha visto confrontato a Casarini.
Quindi, messe da parte queste critiche che già sono
state espresse sicuramente meglio di quanto possa fare io, mi interesserebbe
dare il mio contributo a quanto si discute oggi proprio all'interno dei centri
sociali o nei luoghi di associazione dove si vuole ancora 'cambiare la
società', dove ancora le patenti disuguaglianze sociali sono vissute come
ingiustizie, dove lo sviluppo basato sulla sola logica del profitto è visto con
sospetto e se ne discutono le conseguenze negative sull'equilibrio ecologico
mondiale, sui rapporti umani, sull'impoverimento crescente di ampie zone del
pianeta e sulla mancanza di assistenza sanitaria nelle regioni più povere del
mondo, dove ancora si discute di quali strumenti utilizzare per arrivare a
cambiare tutto questo.
Io sono stato implicato nei movimenti della lotta
armata degli anni '70 in Italia e ho collezionato anch'io i miei bravi anni di
condanna per banda armata, quindi non vorrei che questa mia filippica a favore
della nonviolenza e della disobbedienza civile fosse presa in maniera distorta.
Già sento le orecchie fischiarmi per i commenti del tipo: "ci mancava solo
lui, che diritto ha di parlare... ci poteva pensare prima... chissà che
interessi ha... forse si vuole rifare una verginità."
Di verginità tardiva non ne ho bisogno, anche perché
diffido di chi pensa di aver avuto sempre ragione. Di interessi personali non
ne ho, visto che la mia pena me la sono scontata tutta senza chiedere niente a
nessuno né rinnegare niente, e inoltre non ho mai brigato nei sottoboschi
politici. Inoltre credo che nessuno più di chi abbia sparato possa sapere
quanto può essere inutile, se non controproducente la sua azione.
Ho letto su Lo straniero (www.lostraniero.net)
l'articolo recentemente pubblicato di Gorge Lakey: La spada che guarisce: una
difesa della nonviolenza attiva.
Vi ho trovato un interesse particolare perché
l'autore, uno statunitense impegnato da più di vent'anni nelle lotte
nonviolente nel suo paese, pone subito in evidenza tre caratteristiche della
nonviolenza così come la intende lui:
1 - il carattere attivo e non passivo di accettazione
del presente
2 - il suo carattere pragmatico e tattico
3 - la forza di prefigurazione che una tale azione può
avere.
Ecco, su questi tre punti credo ci possa essere
l'adesione più ampia per un'accettazione laica della pratica nonviolenta.
E' difficile pensare che una pratica nonviolenta sia
avulsa da una scelta anche morale, da un riconoscimento dell'altro: 'La
nonviolenza - ha fatto notare Antonio Vigliante, parlando in un convegno del
pensiero e dell'azione di Aldo Capitini - è una rivoluzione per tutti, che,
come ogni rivoluzione, deve combattere contro alcuni, ma lo fa avendo
costantemente presente il loro stesso bene. La premura per l'avversario è
l'essenza della prassi rivoluzionaria nonviolenta, che la distingue da ogni
altra concezione rivoluzionaria'.
Anche se al suo posto scegliamo il termine di
disobbedienza civile, impiegato dal poeta e saggista H. D. Thoreau, alla fine
del XIX secolo, e già ampiamente usato dalle tute bianche per identificare la
loro pratica, secondo me, l'implicazione etica della scelta nonviolenta resta
un punto cruciale con il quale è necessario misurarsi, perché non resti un non
detto, un rimosso, che tuttavia è presente in ogni scelta.
Nell'intervento di Lakey, tuttavia, non c'è nessun
accenno al valore etico di questa scelta, ma solo a quello tattico e alla
redditività che queste azioni hanno rispetto alle scelte violente. Quindi può
costituire una base di confronto anche per coloro che delle scelte etiche non
vogliono sentir parlare.
Per uno come me che ha creduto che la realizzazione
del comunismo avrebbe portato al cambiamento della società e che lo scontro
violento con la borghesia, con l'apparato militare dello stato, fosse
inevitabile, e ci si doveva preparare per poter vincere questo scontro,
accettare questi argomenti può essere difficile, ma uno sguardo attento sulle
esperienze del passato non può che portare alle conclusioni di G. Lakey.
La sua analisi è, infatti, molto convincente, e
risulta chiaro quanto le mobilitazioni non violente per ottenere degli
obiettivi di cambiamento fino al rovesciamento nel loro insieme di imperi che
sembravano incrollabili, come l'Iran dello Scià di Persia o l'India inglese dei
tempi di Ghandi, siano state più efficaci di tante mobilitazioni di guerriglia
guerreggiata.
Restando all'esperienza italiana degli anni '70, mi
sembra che serenamente possiamo dire che le maggiori conquiste, sul piano dei
diritti civili e direttamente operai, siano state ottenute proprio in quel
periodo e con i peggiori governi democristiani, Rumor, Fanfani, Andreotti,
etc... Non è stata la 'presa del potere rivoluzionario' che ha garantito
l'approvazione dello statuto dei lavoratori, degli aumenti salariali, delle
leggi sull'aborto e il divorzio, dell'apertura dei manicomi o delle riforme
delle carceri e della scuola, ma una formidabile mobilitazione di tutto il
paese, a partire dalle fabbriche che hanno portato i livelli di profitto a zero
fino a far temere ai padroni per la tenuta del loro stesso potere. È stata
quella eccezionale stagione di lotte a trasformare fin dentro il suo DNA il
tessuto sociale dell'intero paese.
In questo clima si è inserita l'illusione di poter
rovesciare completamente il sistema, con la forza delle armi, dando corpo a
teorie che solo in pochi casi, e non sempre in modo perfetto, hanno raggiunto
risultati concreti (vedi Cuba), oppure facendo ricorso a schemi teorici
riguardo allo scontro delle classi ancora ottocentesche.
È possibile oggi pensare di avere l'esercito che si
schiera con le lotte operaie come ai tempi della Comune di Parigi, dove fu la
Guardia Nazionale che condusse la rivolta, oggi che gli Stati si dotano
esclusivamente di eserciti professionali? Possiamo ancora pensare al
capovolgimento delle guerre imperialiste in guerre di classe come nell'ottobre
russo del 1917? Credo di no, ma è inseguendo questi miti uniti all'esempio
delle lotte in centro e sud america, che alcuni di noi hanno preso le armi.
Già negli anni '70 il dibattito era molto avanzato sul
fatto che non si trattava tanto di conquistare il 'potere', le strutture di
comando, lo stato, ma di dar vita a quel 'movimento che distrugge e supera lo
stato di cose presenti' che è il comunismo. Già allora si metteva l'accento sul
fatto che l'importante è attivare un movimento perenne nella società, che
sappia partire dai propri bisogni e sappia battersi per trasformarli in diritti
riconosciuti, e, laddove è necessario, anche per vie legislative. La forma
dello stato che li riconosce è relativamente importante perché la sua natura
sarà modificata dalla forza stessa dei movimenti.
A questo punto però ritorna la questione sul come
raggiungere questi obbiettivi, e secondo me, almeno dal punto di vista
puramente tattico, 'pragmatico', bisognerebbe ammettere che quanto affermato da
G. Lakey costituisce il minimo fattore comune su cui convergere, e sposare,
così, la nonviolenza come strumento di lotta.
Personalmente vorrei tuttavia sottolineare
l'importanza del terzo punto che ho individuato nelle argomentazioni di G.
Lakey e cioè la forza di prefigurazione che la lotta nonviolenta contiene in sé
ed è capace di manifestare.
La pratica stessa di mezzi di lotta nonviolenta, dallo
sciopero del lavoro a quello della fame, dalle occupazioni di case alle
manifestazioni, dai sit-in alle marce dimostrative per la pace, etc..., può e
deve risultare una denuncia di un mondo che soprattutto nel secolo scorso ha
raggiunto livelli di ferocia inimmaginabili, tanto da rendere impossibile
citare le atrocità avvenute senza incorrere nell'errore di dimenticarne la
maggioranza. Voglio, tuttavia elencarne velocemente qualcuna delle più
conosciute per evocarne l'orrore: i massacri delle due guerre mondiali con
milioni di morti, il genocidio della Shoa, le bombe su Hiroschima e Nagasaki, i
processi staliniani, i 30.000 morti causati dal colpo di stato in Argentina,
quelli del Cile, in Rwanda, nel Kurdistan, le atrocità delle guerre in
Yugoslavia, l'inestricabile e pazzesco conflitto mediorentiale, fino ad
arrivare alla inaugurazione del nuovo millennio con la spettacolarizzazione
dell'orrore con gli attentati in diretta a New York contro le Twin Towers.
Di fronte a quest'ultima manifestazione della
violenza, ad esempio, è difficile sottrarsi alla pulsione immediata di
solidarizzare con chi viene colpito in maniera così cieca. Come giustificare
una strage così freddamente architettata per distruggere quante più vite umane
possibili unicamente perché americane? Solo una mente guidata dal più feroce
razzismo, ammantato di follia religiosa, può immaginare una cosa simile. Viene
naturale allora pensare che una reazione è legittima, auspicabile, e che sia
completamente fuori luogo una posizione invitante a volgere l'altra guancia.
Solo che a reagire in questo caso è lo stato più potente del mondo, lo stato
che ha fatto di tutto per raggiungere la posizione di leader mondiale dei
sistemi capitalistici, non arretrando di fronte a nulla e rendendosi colpevole
delle peggiori nefandezze, in nome della difesa della democrazia.
Anche se finora è giusto riconoscere che in due mesi
di guerra e di combattimento, a quanto si sa, gli USA hanno fatto un numero di
vittime largamente inferiore a quello fatto in un solo giorno da Bin Laden,
assistiamo comunque a una lotta per la supremazia in uno scontro che passa
sopra le nostre teste per interessi che è perfino difficile individuare sotto
le ideologie 'democratiche' o dell'ottuso isterismo religioso.
Possiamo essere, e lo sono profondamente, solidali col
popolo americano, ferito orribilmente e costretto ad un risveglio brutale
dall'illusione dell'intoccabilità degli USA e dalla retorica della way of life
americana. Ma come si fa a solidarizzare con Bush sapendo ciò che i governi
degli USA hanno fatto finora nel mondo?
Lo potremmo fare come quando nei film western siamo
dalla parte delle tute blu contro i cattivi sudisti, ancora schiavisti, ma lo
facciamo dimenticandoci del genocidio degli indiani sul quale si è fondato
l'intera struttura del nascente stato americano. O come quando assistiamo ad
una partita di calcio e teniamo per la squadra del nostro paese senza pensare
che fino al giorno prima abbiamo detto peste e corna del nostro paese e ci
scordiamo del sistema commerciale che regge lo spettacolo calcistico.
In questo caso, restiamo esterni alla realtà, attori
passivi di qualcosa che non abbiamo determinato noi e di cui accettiamo le
dinamiche interne.
Mutatis mutandis, e mettendoci in una situazione enormemente
più grave, non ci si può chiedere di schierarsi in un conflitto che ci
sorpassa, e che è il punto di arrivo di sistemi portati all'estremo, di cui non
condividiamo la natura, con da una parte la superpotenza americana, che pur
difendendo una civiltà a noi più vicina, è l'espressione stessa dell'arroganza
del capitale, e dall'altra un terrorismo odioso espressione di interressi misti
dove i desideri di vendetta di un miliardario nostalgico della supremazia
ottomana si coniuga con la disperazione di popoli diseredati sotto la bandiera
unificante del fanatismo religioso e dell'antiamericanismo.
In questa scalata della follia, la pratica non
violenta, allora, è già di per sé denuncia dello squilibrio esistente nel
pianeta. È l'unico modo di sottrarsi a tutto questo e dichiarare la propria
estraneità ontologica ad ogni moto di sopraffazione.
Se ciò che si vuole combattere è l'oppressione
dell'uomo sull'uomo, questa è presente nello sfruttamento dei bambini nel
lavoro nero e nella tratta delle nuove schiave sessuali, bianche o nere, nello
sfruttamento in fabbrica e nell'oppressione delle donne, nelle violenze carnali
e nelle coercizioni psicologiche, e il tipo di oppressione non è meno grave se
ad esercitarlo sono soggetti diversi. La pena capitale è un orrore se praticata
negli Stati Uniti o in Cina, gli attentati mortali sono ugualmente terribili se
sono praticati dai kamikaze palestinesi o dai militanti dell'Eta.
Sono banalità che a quanto pare non sono mai ripetute
abbastanza, come quella che il fine, lo faceva notare già A. Camus ne L'uomo in
rivolta, non giustica i mezzi, ma li determina e viceversa sono questi ultimi a
determinarlo.
Uno stato sorto sui massacri e sul sangue non
eserciterà mai un governo libero e tollerante.
In che modo potrebbe avere credibilità una lotta di
'liberazione' che trascura l'oppressione interna esercitata sul proprio stesso
popolo, ad esempio e in particolare, su quel 50% dell'umanità che sono le
donne. Il burka, oggi è il più forte esempio di una guerra che si combatte anche
in nome della liberazione di un popolo in cui la sorte delle donne e il loro
ruolo rischia di essere sacrificato, ancora una volta, in nome delle ragioni
superiori che riguardano l'interesse dei nuovi poteri da stabilire.
La prefigurazione di un modo diverso di intendere i
rapporti umani si farà solo se nelle nostre pratiche di lotta faremo vivere già
nel presente la nostra utopia.
La nonviolenza ci garantisce tutto questo: è una
prassi, capace di metterci al riparo dalle semplificazioni autoritarie, anche
le più intime, e ci costringe ad un confronto reale con l'altro.
Chiamarsi fuori dal balletto dell'orrido, che ci
circonda in modo particolare in questo momento, dichiararsi estranei ad ogni
forma di aggressione ed oppressione, è quanto di più urgente ci resta da fare.
Roberto Silvi
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DISOBBEDIRE NON BASTA
I malintesi della nonviolenza
Paolo Persichetti
Luglio 2002
" La nonviolenza oggi è la forma di mobilitazione
che il movimento assume come proprio paradigma,
sia per la convinzione del profondo intreccio
che deve esistere tra fini e mezzi,
sia perché oggi è l'unico strumento che ci permette di
costruire,
in una realtà complessa, con forti poteri sovranazionali,
quel consenso necessario per modificare le regole del
gioco
e per cambiare questa nostra società ".
Vittorio Agoletto, Il Manifesto 18 Luglio 2002
I tratti addolciti del viso tradivano la sua giovane
età. Si era staccato dal gruppo e in una mano teneva una pietra che scagliò con
tutta la sua forza contro un drappello d'uomini bardati con scudi e mazze,
caschi e stivali, armi da fuoco alla cintola. Quasi appagato da
quell'incosciente gesto di sfida, s'era voltato per riguadagnare le fila dei
suoi compagni. Teneva larghe le braccia mentre le mani erano nude come in
quella foto dell'anarchico diventata un manifesto, quando l'eco d'alcuni colpi
di pistola risuonò nell'aria. I suoi compagni urlavano, mentre un poliziotto
aveva freddamente preso la mira per fucilarlo alle spalle. In quel momento il
suo sorriso si trasformò in una smorfia di dolore. Colpito alla schiena ma
ancora incredulo continuò a camminare ma le sue falcate sembravano oramai passi
di danza. Cadde sull'asfalto solo dopo aver compiuto una piroetta. Era il
giugno del 2001, a Gotebörg. Il "movimento dei movimenti" solo per
poco era scampato al suo primo morto. Un presagio maledetto che si avverò
qualche settimana più tardi a Genova, in piazza Alimonda, dove un altro
giovane, all'incirca della stessa età, venne ucciso da un coetaneo in divisa
con un colpo in mezzo agli occhi. Carlo Giuliani la morte l'ha vista in faccia
mentre gli altri manifestanti avevano avuto il tempo d'indietreggiare di fronte
a quell'arma spianata. Forse era troppo tardi per fermarsi o forse non voleva
arretrare, ma andare fino in fondo per impedire a quel braccio teso, armato e
in divisa di Stato, di continuare la sua minaccia. Due colpi, una quiete
irreale cadde d'improvviso sul campo di battaglia rotta poi da nuove grida,
mentre il corpo di Carlo veniva oltraggiato dalle ruote del Defender dei
carabinieri.
"Fiori velenosi venuti solo per sfasciare"1,
non trovò migliore espressione una dirigente dell'organizzazione
antimondialista ATTAC per liquidare i fatti di Gotebörg. Secca e adirata contro
quella che ai suoi occhi sembrava una teppaglia neoluddista, madame Susan
George, trovò più che normale che una pietra valesse un colpo di pistola tirato
alle spalle. Autoconvocate, quelle orde d'insorti in cerca di sommosse non erano
gradite. Disturbavano le ordinate kermes internazionali, i carnevali di strada,
i convegni compunti dei professionisti dell'associazionismo, questa nuova
burocrazia della società civile che pensa di poter fronteggiare gli irruenti
spiriti animali del capitalismo ultraliberale pervenuto al suo stadio globale
attraverso forme di regolazione economica, strumenti procedurali e regole
etiche. Misure inadeguate quanto l'idea di poter fermare l'Oceano in tempesta
con dei sacchetti di sabbia. Nello stesso periodo, un appello sottoscritto da
intellettuali italiani e francesi, tra cui spiccavano le firme d'alcuni ex
partecipanti ai movimenti politici degli anni Settanta, censurava le violenze e
gli scontri di piazza, in modo particolre le brutalità commesse nei confronti
di merci come "i cassonetti bruciati e le vetrine rotte". Costoro
invocavano manifestazioni ordinate e ottennero nient'altro che le forze
dell'ordine. Decisamente la storia non è intenzionata a smentire quell'adagio
che vuole ogni tragedia ripresentarsi in farsa. Per nulla appagati da tanta
stigmatizzazione etica prim'ancora che politica, prendiparola del Forum sociale
genovese e leaders d'alcune componenti noglobal, sponsorizzati dai loro grandi
elettori mediatici, lanciarono il ritornello infinito, e per giunta dopo un
anno ancora non provato, degli infiltrati. Lo fecero a caldo, sopraffatti dal
pregiudizio e da servile paura, quando il corpo straziato di Carlo Giuliani non
aveva ancora un nome. Nei salotti volanti delle dirette RAI di prima serata che
seguivano il G8 circolava ancora la voce che il giovane ucciso fosse uno
spagnolo, di certo un basco, un black bloc in ogni caso. Gli invitati2, ancora
accaldati per aver sfilato nei cortei del pomeriggio, attaccarono le forze di
polizia colpevoli d'inerzia per aver lasciato devastare la città da bande di
facinorosi vestiti di nero. Le forze dell'ordine avevano assalito i cortei
quando questi sfilavano ancora lungo i percorsi autorizzati, in diversi punti
della città i carabinieri avevano fatto uso d'armi da fuoco, in risposta gli
acuti esponenti noglobal invece di pretendere meno forze dell'ordine invocavano
più forza pubblica in piazza. Sollecitati con tanto ardore, il sabato
successivo le forze di polizia eseguirono con zelo il loro mandato fin dentro
alla Diaz. Immemore o forse ignaro che solo nei paesi dove vi è un controllo
autoritario dello spazio pubblico le forze di polizia organizzano e svolgono il
servizio d'ordine nei cortei, l'arrogante e mai pago presidente della LILA,
Vittorio Agnoletto, pretendeva la tutela poliziesca per le sue sfilate
nonviolente. Solo in tarda serata, sopraggiunta la notizia che quel
manifestante deceduto altri non era che il figlio di un noto sindacalista della
CGIL genovese, il "reprobo" Carlo Giuliani divenne finalmente un
ragazzo da difendere, un imbarazzante martire da far proprio.
Le rughe del conflitto
Tornate le masse, riempite le piazze, anche il
conflitto si è riaffacciato con le sue crudezze, le sue asperità e rugosità. In
verità si è manifestato con un livello di violenza di piazza estremamente basso
e dalle dimensioni sociali ristrette ma sufficienti per essere amplificato e
rimbalzare sui media. Poco, molto poco, rispetto ad altre epoche o latitudini,
a tal punto che si sarebbe potuto liquidare il fenomeno con alcune semplici
domande : quante armi da fuoco si sono viste fino ad ora tra i manifestanti ?
Chi ha invece fatto uso di armi ? Quante molotov sono state lanciate o trovate
a Genova ? Trecentomila manifestanti e forse neanche una decina bottiglie incendiarie,
per giunta di fortuna... Eppure fin da Seattle, le polemiche sulla violenza
hanno accompagnato, ed in parte anche nutrito, i raduni anti G8, fornendo
visibilità mediatica e capacità catalizzatrice al movimento
antiglobalizzazione. Perché tanta ossessiva attenzione nei confronti di forme
di violenza di strada a così bassa intensità ?
Forse una prima ragione la si può trovare nel ruolo
assunto dai media, nel loro potere di decretare ciò che è accaduto e ciò che
non è accaduto. Una dinamica perversa che tende a presentare o privilegiare
come fatto avvenuto solo ciò che può essere venduto sotto forma di spettacolo
sociale. Il G8 di Genova costituisce un esempio paradigmatico in proposito. La
somma delle ragioni esterne (calcoli e attese politiche) e delle dinamiche
interne all'informazione, proprie dell'evento mediatico, hanno prodotto un
crescendo, una sorta di tam tam che ha soffiato lungamente sul fuoco,
attizzando i rumori di rivolta. Genova doveva essere l'appuntamento della
grande sommossa. Questo s'attendevano e volevano i media, quelli di sinistra
per dare una spallata al governo di centrodestra appena insediato, quelli di
destra per demonizzare l'avversario e legittimarsi dietro il riflesso
repressivo della maggioranza silenziosa. Dopo Gotebörg nelle redazioni ci si
era già preparati all'eventualità di nuove vittime, taluni per altro
l'auspicavano politicamente. Le dirette televisive del primo pomeriggio di
venerdi 20 trasudavano delusione per la scarsità degli episodi violenti da
raccontare e mostrare. La manifestazione era ancora eccessivamente tranquilla.
Un oceano di folla non valeva le vetrine di qualche banca. Solo più tardi, i
corrispondenti hanno potuto finalmente appagare la loro sete di vampiri
eccitati con le immagini sanguinolente, i fuochi e gli scontri. Dopo giorni e
giorni di tam tam mediatico che chiamava alla rivolta, ripreso dalle farse
della guerra comunicazionale dichiarata da alcuni gruppi (tute bianche), la
trappola mediatica si è richiusa sul popolo degli ammutinati che si era raccolto
nelle strade di Genova. L'icona del black bloc, emblema del bandito
postmoderno, è stata marchiata col sigillo d'infamia dell'infiltrato e del
provocatore. Lo spettacolo sociale dava vita ad una nuova telenovela infinita
destinata a riproporre ad ogni futuro episodio una sorta di revisionismo
storico in tempo reale.
Frattura ideologica e frattura sociale
Brevemente forse vale ricordare che i movimenti
sociali sono sempre stati il prodotto di una convivenza obbligata, avvolte
d'interesse, tra tendenze e approcci diversi. Pratiche più o meno nonviolente e
condotte violente hanno coabitato ignorandosi o polemizzando, a volte persino
confondendosi. A seconda delle circostanze, l'una è prevalsa sull'altra.
Movimento di massa e forza d'urto; minaccia del numero e violenza dell'atto;
forza delle ragioni e ragioni della forza; spessore e imponenza contro agilità,
visibilità e incisività; guerra di posizione e guerra di movimento. Insomma,
quando appare, un movimento sociale di massa rassomiglia ad un poliedro, forma
geometrica dalle molteplici sfaccettature. Può accadere anche che ci siano
movimenti omogenei o egemonizzati da alcune sue componenti, ma il più delle
volte i movimenti emergono come "plurali", "molteplici",
"variegati". Ora il fenomeno antiglobalizzazione si autodefinisce
"movimento dei movimenti" e costitutivamente si ritiene attraversato
dalla "contaminazione reciproca" delle sue componenti. Niente di più
normale, dunque, che in questa fiera del molteplice vi siano dei settori (allo
stato minoritari) che non escludono o privilegiano il ricorso a forme di
violenza politica o d'azione illegale.
Pertanto la semplice violenza politica di strada, e
prim'ancora l'idea stessa d'azione illegale, vengono maggioritariamente
percepite dalle altre componenti come un tabù inviolabile. Esiste un nodo
ideologico di fondo, egemone nel movimento antiglobal, che identifica la
violenza come una risorsa illegittima e l'illegalità come una soglia
difficilmente valicabile. Questa caratteristica ideologica è dovuta probabilmente
alla sua attuale composizione sociale, predominano infatti le componenti
cristiane e i ceti medi, le organizzazioni non (e para) governamentali, animate
da approcci etici alla regolazione del capitalismo (economia solidale, finanza
etica e previdenza sicura), oppure da pratiche procedurali (bilancio
deliberativo), o ancora da organizzazioni sindacali del mondo agricolo e
contadino, organismi politico-editoriali e settori istituzionali legati a
posizioni sovraniste o fordiste della politica, dello Stato e dell'economia. La
frattura ideologica e politica che si delinea attorno al problema dell'uso
eventuale della violenza e dell'illegalità ripercorre la stessa frattura
sociale che divide il nuovo mondo della precarietà, il popolo dei selvaggi
delle periferie urbane, generato dal capitalismo postfordista, dai ceti medi o
i gruppi sociali dotati di tutele sindacali e corporative che pensano di poter
regolare la globalizzazione ultraliberale.
* * *
Siamo curiosi di capire meglio cosa racchiude questa
cultura che si definisce "nonviolenta", ma che stenta a darsi una
coerenza e un rigore forti. Dietro l'etichetta nonviolenta infatti si
raccolgono posizioni ed argomenti fin troppo eterocliti che fanno pensare a
volte ad un uso strumentale di questo labello positivo, sorta di appellazione
DOC, legittimante agli occhi dei poteri costituiti. Quando il presidente della
LILA (lega italiana per la lotta all'aids), membro di rilievo nazionale del
movimento antiglobal, portavoce del mondo del volontariato, partigiano della
nonviolenza, condanna gli attacchi contro le infrastrutture e le merci
(cassonetti, vetrine di banche e società d'interim, supermercati,
concessionarie auto...) con un'acrimonia tutta particolare, che si avvale di
una stigmatizzazione etica che eccede la semplice censura politica, e poi sfila
- senza esprimere riserve - in un corteo che inneggia a massacri di kamikaze
contro una popolazione civile, qualche cosa in questa presunta cultura della
"nonviolenza" non funziona. Che un cassonetto bruciato possa essere
infinitamente più grave di un giubbetto imbottito di chiodi e d'esplosivo fatto
conflaglare dentro un autobus o nel bel mezzo di un mercato popolare, non ci
persuade.
In Italia, per diciannove anni, un'organizzazione
combattente comunista, le Brigate Rosse, ha praticato la lotta armata,
realizzando attentati mortali e ferimenti contro obiettivi statali, governativi
o legati all'impresa e all'economia capitalista, subendo anche delle perdite.
Questo gruppo ha teorizzato e messo in pratica il rifiuto sistematico del
ricorso a strumenti d'attacco, come l'esplosivo, che rischiassero anche solo
ipoteticamente di colpire nel mucchio, di ferire o uccidere involontariamente
la popolazione civile. Per queste ragioni, essa ha sempre scelto di colpire in
modo ravvicinato e con armi sicure i suoi obiettivi, mettendo ogni volta a
repentaglio i suoi stessi militanti. Iper sanzionati dalla giustizia, gli
uomini e le donne delle Brigate Rosse, come quelli e quelle d'altre
organizzazioni dello stesso tipo, sono stati stigmatizzati e
ultracriminalizzati, tra l'altro anche in nome della nonviolenza, da un tipo di
personale politico che oggi invoca miriadi di giustificazioni e attenuanti per
ridimensionare il reclutamento e poi l'invio di giovani "martiri" imbottiti
di chiodi e tritolo, da parte di capi clan e notabili locali i quali
risparmiano accuratamente i propri figli, per farsi esplodere tra la folla,
spesso appartenente ai ceti più popolari.
Questa nonviolenza a geometria variabile, questa etica
delle latitudini, merita d'essere verificata nella sua pertinenza
etico-filosofica e socio-storica. Troppo spesso gli argomenti da essa sollevati
sono sorretti solo da capovolgimenti di significati, da pregiudizi e malintesi
e da una sospetta connivenza con l'idea di legalità.
Della nonviolenza come declinazione dell'Etica
Per sostenere le ragioni della nonviolenza alcuni
autori ricorrono ad argomenti sorretti da quella che i testi definiscono etica
della convinzione anteposta all'etica della responsabilità, entrambe fondate su
logiche razionali ma che privilegiano fattori diversi: per esempio, la
coincidenza dei mezzi col fine, di contro all'asimmetria dei mezzi dal
risultato. Ragione morale contro ragione cinica insomma. Accade spesso, dunque,
che il tema della nonviolenza venga affrontato sulla base di convinzioni etiche
o religiose. Nella maggioranza dei casi, infatti, la pertinenza, o meglio la
superiorità di questo metodo è affermata facendo un uso diretto di argomenti
morali oppure lasciandosi ispirare da questi, ma pescando ragioni e tesi su un
piano storico o pragmatico.
Altri autori però, resi più accorti nella scelta dei
loro argomenti dalla fragilità delle dimostrazioni morali di fronte alle
repliche dell'esperienza storica, privilegiano nuove strategie argomentative,
preferendo ricorrere alla ragione strumentale, per spiegare come la nonviolenza
si sia mostrata storicamente più efficace e per questo (dunque su una base
puramente utilitarista) superiore. In fondo, lo stesso Gandhi usava dire che se
posto di fronte al dilemma della scelta tra passività e attività violenta,
avrebbe preferito la violenza poiché comunque questa restava una forma
d'azione. E l'azione contro ogni passività era ai suoi occhi il bene superiore3
. Ed è vero che conquistata l'indipendenza, la nazione indiana non ebbe
difficoltà a dotarsi di uno Stato con un esercito, una polizia, dei tribunali,
delle prigioni. L'esperienza gandhiana si risolse in un incredibile paradosso,
l'abile inversione dei termini propri all'etica della responsabilità: i mezzi
al posto dei fini e i fini al posto dei mezzi. In luogo dei tradizionali metodi
dettati da un utilitarismo pragmatico (che non escludono l'uso della forza),
egli sostituì dei mezzi morali come la nonviolenza per dare spazio a dei fini
che sopprimendo gli obbiettivi etici nonviolenti suscitavano la nascita di uno
Stato, organismo che per definizione costitutiva esercita il monopolio della
forza legittima. L'essenza della concezione gandhiana della politica si risolve
in una sorta d'invito continuo all'azione, alla lotta contro la servitù
volontaria. Quella gandhiana è stata un'etica suprema della mobilitazione,
dell'agire, della sottrazione dell'uomo alla passività e alla remissione, a
quella che si può definire come una vera e propria "malattia della volontà".
In Gandhi c'è l'idea che l'essenza della dignità umana stia nel prendersi in
carico, nello stringere tra le mani la propria vita e il proprio destino.
L'uomo è in piedi solo quando sa camminare sulle proprie gambe e scegliere
autonomamente la propria strada, altrimenti resta un mammifero supino. La
lezione gandhiana traduceva a suo modo una tradizione filosofica che almeno
dalla modernità vede iscritti pensatori della portata di Spinoza, Rousseau, La
Boetie, Marx.
La nonviolenza, intesa come comportamento fuoriuscito
da una pratica che s'ispira all'etica della convinzione, è posta di fronte ad
una insormontabile contraddizione: l'assunto etico per avere validità
intrinseca, ovvero per rispondere al criterio di coerenza interna, deve
intendersi come assoluto. Esso non può trascegliere, adattarsi alle
circostanze. Fu questo il grande dramma dei pacifisti nonviolenti del
Novecento, in particolare di fronte alla seconda guerra mondiale. Molti alla
fine raggiunsero, sulla base d'una scelta duramente meditata, le fila della
Resistenza anti-nazifascista. Presero le armi insomma. Altri, restarono
rigorosamente nonviolenti. Non vollero farsi coinvolgere dal conflitto, nemmeno
di fronte alle nefandezze naziste, ai campi di concentramento. Molti di loro
erano rimasti segnati da quel macello di carne umana che fu il primo conflitto
mondiale. Avevano assistito a quell'orribile guerra, alle decimazioni decise
dagli Stati maggiori contro le truppe insubordinate, agli assalti suicidi
contro le linee nemiche. "Mai più !", s'erano detti. Les chemin des
dames, in Francia, luogo mitico come da noi furono le alture del Carso, evoca
immagini terribili d'uomini immersi nel fango intriso di sangue, dove orde di
soldati venivano lanciati all'assalto e obbligati a calpestare i corpi dei
propri compagni falciati dal fuoco nemico, per giorni e giorni, settimane
intere. In Italia, le truppe venivano sospinte in avanti a suon di cannonate
sulle retrovie, sparate non dal fuoco nemico ma da quello amico su ordine degli
Alti comandi, mentre i carabinieri seguivano e arrestavano, fucilando sul campo
chi rimaneva in trincea o s'imboscava nelle buche sotto i cadaveri. In Francia,
a causa della loro scelta pacifista, molti militanti nonviolenti furono
processati, comunque invisi perché sospettati di connivenza con la repubblica
nazional-fascista di Vichy, che firmò l'armistizio e poi collaborò attivamente
col nazismo.
Ora la nonviolenza etica, per le ragioni
"predittive" che la caratterizzano (l'evocazione qui e ora, hic et
nunc, della società che sarà domani), per la sua pretesa d'anticipare nei
metodi una delle regole della società futura, dovrebbe condurre ad una rottura
drastica, nettissima (non a caso Thoreau propugnava il rifiuto di pagare le
tasse e l'obiezione di coscienza) con qualsiasi ordine costituito che
esprimesse violenza, dunque innanzitutto con quell'organo che per definizione
esercita la "violenza legittima", ovvero la coercizione legale, quale
è lo Stato. Ogni atteggiamento che non fosse coerente con questa condotta
verrebbe in qualche modo a trasgredire l'enunciato etico adeguando il proprio
comportamento a ragioni d'opportunità inammissibili secondo i presupposti
morali affermati. Il nonviolento non dovrebbe credere, ne tanto meno
rispettare, i codici di procedura e i codici penali, i tribunali, la
magistratura, per quello che esprimono e rappresentano: la legalità. E la
legalità è per definizione l'esercizio procedurale di una dose (che s'accresce
secondo le esigenze) di coercizione e violenza ritenuta necessaria alla regolazione
sociale.
E se delle ragioni - anche comprensibili -
d'opportunità vengono evocate, allora si abbandona il terreno dell'etica della
convinzione per entrare in quello della responsabilità. Ovvero si sceglie di
attuare una strategia i cui mezzi sono (nella fattispecie l'accettazione
passiva di una violenza statuale sovrastante), per forza maggiore, non
completamente conformi con i fini. Insomma, l'opzione nonviolenta diverrebbe
una delle tante strategie dotate di tattiche duttili, fatte di compromessi, ragioni
di circostanza, opportunità, ecc. In questo caso, poi, sarebbe ancora più
sospetto un atteggiamento di censura netta della violenza esercitata da
soggetti deboli, oppositori, contestatori, in ogni caso non appartenenti alle
classi dominanti (detentrici del potere economico-finanziario e politico),
senza un'eguale condanna aperta e un'azione di disobbedienza attiva e
corrispettiva verso lo Stato. Non solo quando questi esercita materialmente
violenza attiva, ma per il fatto stesso d'esistere in quanto istituzione. E se
anche solo per brevità, tralasciamo il fatto che lo Stato sia quel grande Moloc
che si è imposto grazie ad una violenza originaria potentissima e irresistibile
che ha travolto le forme d'organizzazione sociale preesistenti, non si può non ricordare
che lo Stato di diritto contemporaneo esprime tuttora quella che alcune teorie
sociologiche chiamano la violenza simbolica. Ovvero: "quella violenza
dolce, invisibile, sconosciuta come tale, scelta quanto subita" (Pierre
Bourdieu, Le Sens pratique, Minuit, Parigi 1980). Una violenza mascherata che
cela dietro una falsa naturalità gerarchie di valori, saperi, una somma
d'ineguaglianze storicamente costruite che esprimono un rapporto di dominazione
il più delle volte interiorizzato dai dominati.
Della nonviolenza come ragione pratica
La letteratura nonviolenta non risparmia argomenti in
favore della possibilità d'affermare l'efficacia delle sue ragioni e dei suoi
metodi sulla base d'un presupposto puramente " pragmatico ", ovvero
l'analisi di pratiche storiche concrete, misurando " quali siano i mezzi
che hanno maggiori possibilità di ridurre sofferenza, aumentare la giustizia e
creare una nuova società "4. Terreno impervio, quasi improbo, quello delle
pratiche concrete, accidentato da numerosi malintesi, confusioni ed equivoci
storici, dovuti essenzialmente alla scarsa sistematicità del "pensiero
nonviolento", al suo carattere spesso approssimato, poco aduso al rigore
del concetto.
Una prima difficoltà sorge con i codici linguistici.
Infatti, i riferimenti non sono affatto gli stessi tra i termini del dibattito
che circola in Nord America e il dibattito Europeo. Testi della letteratura
nonviolenta statunitense definiscono " metodi convenzionali " della
lotta politica: le campagne elettorali, la propaganda politica, le azioni
legali, le petizioni, la compilazione di lettere pubbliche, le attività di
lobbing. Questi metodi sono ritenuti: altra cosa dall'azione nonviolenta, la
quale definisce innanzitutto le " manifestazioni che hanno origine a livello
popolare, quando le persone hanno bisogno d'agitazione di piazza per conseguire
uno scopo"5. Questa definizione "a maglie larghe" sembra voler
dire che l'azione nonviolenta si distingue dai metodi tradizionali perché non
produce delega politica, non chiede mediazioni rappresentative ma si fonda
sull'azione diretta, la partecipazione attiva dei soggetti popolari (e perché
no delle classi medie ?); in secondo luogo, perché i requisiti di questa azione
non tengono conto dei limiti imposti dal codice penale. Insomma, l'azione
nonviolenta se ne infischia d'essere illegale. Se presa alla lettera, questa
concezione della nonviolenza solleva numerosi problemi rispetto all'accezione
che di essa viene fatta in Europa ed in modo particolare in Italia, dove i
gruppi sedicenti nonviolenti fanno larga incetta di metodi
"convenzionali", di deleghe e d'incoronazioni mediatiche e
governamentali (vedi Genova), e confondono la nonviolenza con il rispetto
pedissequo del codice penale.
Un secondo problema d'ordine storico sorge quando
vengono citate alcune forme d'azione ritenute nonviolente: manifestazioni,
sit-in (presidi), occupazioni e scioperi, boicottaggi 6. Ecco che una parte
dell'arsenale più tradizionale delle pratiche esercitate nella storia del
movimento operaio e dai gruppi politici a lui ispiratesi dal 1848 ad oggi
(anarchici, socialisti, comunisti, di varia natura e credo, scuola,
Internazionale - ma anche prima, si vedano i Luddisti, come spiega lo storico
inglese Edward Thompson in, La formation de la classe ouvrière anglaise. Essi
infatti non distruggevano solo i macchinari di fabbrica ma organizzavano
scioperi, manifestazioni, praticando le prime forme d'agitazione politica
operaia), diventano di colpo gli strumenti privilegiati dell'azione
nonviolenta. Difficilmente si può contestare che queste forme di lotta
appartengono al patrimonio genetico della cultura politica figlia del movimento
operaio, il quale si è distinto storicamente dall'adesione teorica e pratica
alla nonviolenza. Il movimento operaio è stato insurrezionale, rivoluzionario,
violento, oppure riformista, legalista, istituzionale, ma solo marginalmente
nonviolento (nonviolente, forse, possono essere ritenute le società
filantropiche, o quelle fabiane e cartiste inglesi che si battevano per un
riconoscimento dei diritti politici agli albori del movimento operaio, con
strategie petizionarie. Strumenti che però la letteratura nonviolenta più
radicale considera oggi convenzionali).
Le strade sono larghe, c'è posto per chiunque voglia
condividere, gomito a gomito, i marciapiedi e le piazze, aderire o fare uso
dello sciopero, delle occupazioni, dei presisdi ecc., ciò detto, però, è
evidente che non può essere intrattenuta la confusione tra nonviolenza e
semplice partecipazione a manifestazioni cosiddette "pacifiche",
ovvero l'azione di massa, più o meno legale a seconda delle epoche e degli
ordinamenti costituzionali. Una condotta condivisa trasversalmente dai più
diversi orizzonti politici, sociali e religiosi. Se nonviolenza è sfilare
legalmente e pacificamente lungo le strade, oppure occupare provvisoriamente
delle piazze, previa autorizzazione fornita dalla questura, allora anche la
manifestazione di Forza Italia del 19 novembre 2001, a Piazza del Popolo, era
una iniziativa nonviolenta, al pari delle manifestazioni dei poliziotti
francesi, che nello scorso dicembre hanno riempito le piazze rivendicando più
soldi per le loro tasche e più prigione per gli altri cittadini. Qualunque
manifestazione pacifica e legale, quelle attuate dalle forze di governo, come
quelle dell'opposizione parlamentare, ovvero da forze politiche che non fanno
minimamente cenno nei loro programmi, proclami e statuti, alla nonviolenza, che
mai hanno contestato l'esercizio della violenza monopolistica da parte dello
Stato e dei suoi apparati coercitivi, sarebbero l'espressione di pratiche
nonviolente. Si arriverebbe al paradosso che si potrebbe manifestare in un modo
ritenuto nonviolento l'adesione ed il sostegno ad una guerra. Evidentemente, in
questo tipo di ragionamento, qualcosa non va !
Sciopero e nonviolenza
É un errore includere lo sciopero del lavoro come
quello della fame nella lotta nonviolenta. E se il primo non è affatto
ascrivibile come metodo peculiare alla tradizione nonviolenta, il secondo pur
essendo una delle forme più identitarie delle condotte nonviolente, è ben
lontano dall'essere un comportamento privo di violenza.
Lo sciopero del lavoro nella sua essenza è un'azione
d'insubordinazione profonda, di confronto brutale tra rapporti di forza che
sovente esula tutte le forme e le procedure: incrociare le braccia, tutti
insieme, per bloccare la produzione delle merci padronali. Lo sciopero è un
attacco durissimo alla proprietà, all'essenza della valorizzazione del
capitale, poiché intacca le merci nel cuore della loro produzione mettendone in
gioco la sopravvivenza. Proprio per questo la reazione padronale è stata sempre
ferrea, senza risparmio di mezzi repressivi: venivano organizzate le serrate,
reclutati i crumiri, organizzate le provocazioni di uomini di mano prezzolati,
sollecitato l'invio della polizia, dell'esercito, lo scatenamento della
magistratura. Gli operai allora furono costretti a difendere il loro sciopero,
per non essere sconfitti prima di cominciare. Lo dovettero difendere
conquistando l'autonomia gestionale e dunque politica delle società di mutuo
soccorso, che erano nate, con Bismarck in Germania ed il secondo impero in
Francia, come cinghie di trasmissione dirette del controllo statale sulla
condizione operaia, attraverso la presidenza d'ufficio attribuita a commissari
di polizia o a notabili fedeli. Nacquero poi i picchetti (ovvero il fatto
d'impedire ai non scioperanti con l'intimidazione del numero, la presenza e la
forza fisica, di entrare nei luoghi di lavoro. Infrazione prevista dal codice
penale), le occupazioni (invasione per mezzo d'effrazione, intimidazione e
forza fisica di proprietà altrui. Infrazione sanzionata dal codice penale), i
boicottaggi e i sabotaggi (distruzione di beni e proprietà altrui. Infrazione
perseguita dal codice penale), attorno ai quali per quasi due secoli si sono
svolte lotte durissime, drammatiche, intrise di sangue, prigione e miseria,
anche quando lo sciopero è infine divenuto un diritto tutelato
costituzionalmente. Lo sciopero è stato e resta tutt'ora (seppur con
attenuazioni, modalità e impieghi differenti) lo strumento comune a tutte le
anime del movimento operaio, ma in particolare lo sciopero generale è stato un
riferimento quasi mitico che ha alimentato gli universi ideologici più ribelli,
contestatari e rivoluzionari : si pensi alla pratica divenuta a volte mito,
dello "sciopero insurrezionale", l'elemento che doveva innescare
"l'ora x", l'assalto finale (le officine Putilov nel 1917, quelle
Fiat nel 1943), il connubio tra violenza insurrezionale e sciopero generale
propugnato dal socialista George Sorel, autore del famoso libro, Grève générale
et violence.
Lo sciopero della fame, poi, è semplicemente una forma
di violenza mutata di segno, non più aggressiva ma autoagressiva. E' autofagia
del corpo che comincia a nutrirsi dei grassi residui, i grassi bruni e poi di
quelli che avvolgono gli organi vitali. Lo sciopero della fame è l'essenza
ultima della vita nuda in rivolta, stadio finale d'un ammasso di carni messo ai
margini, d'una esistenza ridotta a semplice carcassa che pur vedendosi
dimagrire riesce ancora a sentirsi pesante. Chiuso ogni spazio alla parola e
all'azione, resta il corpo nudo da mettere in gioco. Parola e azione agiscono
in una comunità, entrano in rete, ma quando non c'è più possibilità di
relazione, il corpo divorandosi diventa uno strumento di parola, forma ultima
ed estrema d'insubordinazione. Lo sciopero della fame è accettabile quando a
praticarla sono individui ridotti alla loro carcassa, prigionieri o schiavi in
nude celle sotto sorveglianza, ma diventa una strategia del ricatto, moralmente
disprezzabile, quando è impiegato demagogicamente da deputati e portaborse
sotto i riflettori dei media. Altra cosa sono poi i digiuni propri della
tradizione ascetica e spiritualista, iscritta nella cultura di molte religioni
rivelate o senza theos, percorsi di purificazione intima, di testimonianza
individuale, d'autismo politico o d'anoressia sociale. Una "bulimia
dell'anima" che odia il proprio corpo, lo trova sudicio e vuole
liberarsene, elevandosi dalla sostanza terrena oppure fondendosi col resto
della materia naturale. Questa "fuga da se stessi" è difficilmente
conciliabile con i parametri della razionalità politica Occidentale, in ogni
caso è solo demagogia fatta col corpo voler iscrivere la natura asociale dei
digiuni purificatori nelle pratiche della lotta politica che conosciamo e
pratichiamo, o addirittura in quella del ceto politico-istituzionale.
La nonviolenza nella storia: un bilancio
Due sono gli episodi storici di maggiore importanza
che appartengono alle fondamenta della cultura e dell'immaginario nonviolento:
Il primo è legato alla nascita della nazione indiana.
Incontestabilmente l'episodio storico dove maggiore è stata la presenza della
strategia nonviolenta. Non c'è qui lo spazio per svolgere un'analisi storica
appropiata, ma quantomeno vanno fatte alcune osservazioni che ci consigliano
d'usare delle cautele di fronte al mito fondatore (tipico di ogni nazionalismo)
della nazione indiana. Se l'icona di Gandhi gioca il ruolo di grande padre
(espressione saliente di quella che Max Weber chiamava " legittimità
carismatica ", potere simbolico magnetico del profeta che può essere ben
più lungimirante e equo del demos, ma certo non è sinonimo di potere
democratico rappresentativo, partecipativo o diretto...), la nonviolenza è un
mito delle origini. Mito lontano e assai paradossale per un paese che da allora
non ha finito d'essere straziato da miriadi di conflitti nazional-religiosi e
massacri indicibili (secessione del Pakistan e guerra latente perpetua ai suoi
confini, rivolta Sik, irredentismo del Kashimir, guerra del Bangladesh), fino
al punto di dotarsi della bomba atomica. La strategia Gandhiana si è potuta
avvalere del fatto che il partito del Congresso condivideva parte della
gestione del potere coloniale inglese. Seppur subalterna, l'elite indiana aveva
posti di comando nell'amministrazione. Ciò ha senza dubbio favorito lo sviluppo
di una strategia di lotta per l'indipendenza che procedesse per vie interne,
appoggiandosi a forme organizzate di non collaborazione. Gandhi elaborò una
strategia adattata ad un'India troppo povera e inferiore tecnologicamente per
affrontare una guerra guerreggiata. Il ricorso all'imponenza del numero contro
l'esigua minoranza dei colonizzatori doveva permettere la cacciata del ceto
degli amministratori e degli affaristi che gestivano l'impero coloniale e le
sue truppe. La forza del numero aveva margini per incidere nel negoziato
avanzato dall'elite indiana anglofona, espressione d'un emergente capitalismo
autoctono. Il contesto internazionale favorì la decolonizzazione, sostituita da
un nuovo assetto più moderno dell'economia mondiale. La decolonizzazione
inglese, francese, portoghese è un processo storico che s'avvia dopo la seconda
guerra mondiale sotto l'emergere del nuovo binomio delle potenze mondiali
fuoriuscito vincitore dal conflitto: USA e URSS. Gli inglesi s'eclissano dietro
l'emergere del nuovo assetto dell'imperialismo economico statunitense. Il ruolo
giocato dall'Unione Sovietica, limitrofa e divenuta l'alleato di riferimento
dell'India nella regione, ebbe un peso importante. Il tipo di rivendicazione
avanzata, ovvero l'edificazione nazionale (mal riuscita per altro), contribuì
alla praticabilità della strategia nonviolenta. In effetti, se all'interno
delle forze indipendentiste indiane fosse sorto un movimento d'ispirazione
socialista, capace d'organizzare le masse contadine attorno alla rivendicazione
dell'espropriazione dei latifondi, difficilmente avremmo ricordato l'epopea
indiana come una lotta nonviolenta. E quanto fosse fragile, e per nulla
predittiva, quella strategia, lo dimostrano i tragici avvenimenti successivi:
partiti gli Inglesi scoppiò la guerra civile, seguita dalla guerra di
secessione con i mussulmani (che diede vita al Pachistan), segnata da massacri
religiosi ignominiosi e dall'assassinio dello stesso Gandhi. La sopravvivenza
della società castale è una ulteriore conferma del fallimento della esperienza
nonviolenta, mostratasi incapace d'edificare quei nuovi rapporti umani e
sociali, fondati sulla riconoscenza dell'altro, ch'essa prefigura e dunque sul
superamento d'una società suddivisa gerarchicamente dalla nascita e
compartimentata in modo stagno. Paradossalmente la nonviolenza sembra aver
contribuito, contro i suoi stessi intenti, ad accrescere quel sentimento
d'acquiescenza e di passività che ha rafforzato la percezione della naturalità
delle caste e minato l'opportunità d'una rivolta mossa dalla difesa della
dignità umana.
L'altro esempio è fornito dalla stagione di lotte per
i diritti civili negli USA. Nel caso delle lotte patrocinate dal pastore (anche
lui ucciso) Luther king, vi è il desiderio d'iscriversi in una comunità
nazionale riconosciuta dai rivendicatori (i neri) ma che pertanto li esclude.
Insomma l'obiettivo spiega anche il metodo rivendicativo: pacifista,
integrazionista, con una violazione a bassa intensità della legalità, fatto di
possenti episodi d'insubordinazione sociale di massa, boicottaggio e
schermaglia giuridica. La battaglia si limitava ad abolire l'apartheid per entrare
a pieno titolo nella società ambita, non per cambiarla dalle fondamenta. E
forse, la battaglia per i diritti civili è stato il solo terreno di lotta
politica possibile, in un contesto animato dalla "guerra fredda"
esterna che trovava il suo corrispettivo interno nella guerra civile camuffata
contro il comunismo, che fu il maccartismo. I limiti di questa battaglia, il
fatto che essa sia rimasta incompiuta, sono riconosciuti anche nella
letteratura nonviolenta, che non esita a evocare "il razzismo che imperversa
ancora" e l'assenza di "vittorie rilevanti"7. L'affermazione
dell'eguaglianza formale non ha trovato un suo corrispettivo nell'eguaglianza
reale tra le diverse comunità. Le classi sociali in possesso di un minore
capitale economico e culturale si trovano ancora maggioritariamente nella
comunità nera e in quella ispanica. La battaglia per i diritti civili è servita
da volano per l'ascesa e l'allargamento della società dei consumi alle nuovi
classi medie nere. Negli anni 70, le politiche economiche keynesiane hanno
visto nell'integrazione della comunità nera le potenzialità per un nuovo
allargamento dei consumi interni e dunque della domanda. L'affirmative action,
è stata la traduzione legislativa delle lotte per i diritti civili, attraverso
l'introduzione del principio di discriminazione positiva. In effetti, delle
popolazioni danneggiate storicamente da pratiche sociali, culturali e
istituzionali, discriminatorie e segregazioniste, vedevano riconosciuto il loro
diritto al risarcimento, attraverso delle norme che introducevano procedure
privilegiate, quote prestabilite, trattamenti specifici, che favorissero la
piena integrazione ed il rapido recupero dell'handicap sociale subito. Questa
strategia, abbandonata successivamente con l'arrivo della reaganomics, permise
l'emergere di una classe media nera, di una nuova borghesia black.
Paradossalmente, il gretto spirito comunitario ha più tardi introdotto la
proliferazione delle identità comunitarie, presunte o reali (occorreva infatti
essere riconosciuti come appartenenti ad una comunità vittimizzata per poter
usufruire dei vantaggi dell'affirmative act), suscitando la rivalità tra
comunità svantaggiate. In particolare si è insediato una sorta d'oligopolio che
tende ad escludere le nuove comunità meno favorite, a non riconoscerle in
quanto tali, per evitare di ridurre i vantaggi dovuti alla posizione di rendita
offerta dalle pratiche di discriminazione positiva. In realtà, I limiti della
battaglia per i diritti civili non sono dovuti alle forme di lotta impiegate ma
ai presupposti teorici che le muovevano, ai limiti politici e culturali, alla
gestione ispirata da gruppi religiosi cristiani, al loro carattere prettamente
morale.
Nel corso degli anni 80 e 90, si sono sviluppate in
Europa importanti lotte per i sans-papiers, attorno ai quali si sono raccolte
gran parte delle famiglie politiche della sinistra, senza che emergessero
divisioni sulle forme di lotta. Anzi, i gruppi più radicali, caratterizzati da
una maggiore propensione alla violenza, si sono distinti tra quelli più
accanitamente conseguenti nelle azioni d'appoggio ai clandestini, ai
boicottaggi, alle occupazioni di luoghi, uffici amministrativi, centri di
ritenzione e aeroporti, dove venivano realizzate le espulsioni (che nel lessico
attuale verrebbero definite di disobbedienza, ma che all'epoca erano ancora
percepite come pratiche tradizionali di lotta sociale). Al contrario, molti
gruppi "nonviolenti" si sono caratterizzati per il fatto di limitare
la loro azione al solo ricorso a procedure legali. Si palesa il dubbio che
dietro l'ideologia della nonviolenza si celi, in realtà e sempre più, il tabù
della legalità.
La nonviolenza attribuita : ovvero l'invenzione del
successo della pratica nonviolenta
Gli esempi storici finora affrontati sono pertinenti.
Si può discutere della loro portata, dei loro risultati effettivi: la vittoria
della borghesia nazionale in India, accompagnata dalla costruzione di una
società ultraviolenta e polarizzata socialmente; o ancora, l'emergenza d'una
classe media nera negli USA che vede i suoi diritti rispettati, contrariamente
a quanto avviene per il resto dei neri e degli ispanici di condizione
proletaria o sottoproletaria. Si può dibattere della portata universale di
queste lotte, ovvero del loro valore paradigmatico, della esportabilità o meno
dei loro metodi oltre che dei loro contenuti (che abbiamo visto essere, gli uni
e gli altri, assai modesti), ma incontestabilmente queste esperienze
appartengono al patrimonio storico e culturale della tradizione che si
definisce pacifista e nonviolenta.
Grossi problemi sopravvengono, invece, quando per dare
forza al proprio discorso la letteratura nonviolenta cerca esempi storici
altrove: nella rivoluzione komeinista che ha cacciato la scia di Persia in
Iran, per esempio, oppure nella recente sconfitta di Slobodan Milosevic in
Serbia, o ancora nella cacciata del dittatore Marcos dalle Filippine, tra gli
zapatisti in Chiapas, con Solidarnosc in Polonia. O ancora quando addirittura
si prova a spiegare l'arrivo al poter dell'ANC in Sud Africa con una presunta
adesione ad una opzione politica nonviolenta, o quando si cita l'arrivo al
potere del populista Chavez in Venezuela. Stranamente però, tra i diversi
eventi evocati c'è un solo episodio che viene sistematicamente dimenticato: la
"rivoluzione dei garofani" del 1975 in Portogallo. Forse perché
quell'evento fu realizzato da militari, da comunisti che avevano applicato una
strategia "entrista" nell'esercito, infiltrandolo, conquistando gran
parte dei suoi quadri intermedi fino a decretare il giorno dell'insurrezione,
del colpo di Stato. Un complotto rivelatosi incruento, viste le condizioni di
decomposizione della società coloniale che caratterizzava il Portogallo
dell'epoca. Non si sparò nemmeno un colpo di fucile, anzi i soldati sfilarono acclamati
dalla popolazione con dei garofani infilati nelle canne delle loro armi, a
dimostrazione che dei militanti rivoluzionari, dotati di un esercito, armati di
una cultura che disdegna la nonviolenza, possono ritrovarsi vincitori senza
bisogno di sparare un colpo. L'esatto contrario dell'India. A riprova del fatto
che la natura violenta o nonviolenta di un evento dipende meno dalle
convinzioni e dalle intenzioni dei soggetti che s'affrontano che dalle
condizioni storiche che si presentano.
Per evocare in modo pertinente il contributo eventuale
fornito dalla nonviolenza in episodi storici di sollevaione nazionale, lotta
per l'indipendenza o in cambiamenti di regime, occorre quantomeno la
compresenza di due elementi:
1) la presenza d'attori che teorizzino e pratichino in
forma magioritaria questa strategia. Tale circostanza è riscontrabile solo in
India e negli Usa degli anni 60. Nelle altre circostanze citate, non vi è un
solo movimento che abbia giocato un ruolo politico importante, che possa
ritenersi nonviolento. Vi sono forze politiche, gruppi di pressione, blocchi
sociali, partiti religiosi, eserciti guerriglieri, che grazie a contesti
particolari in alcuni casi sono riusciti a conquistare il potere senza il
bisogno d'organizzarsi violentemente (e certo non per edificare una società
nonviolenta), ma usufruendo dell'appoggio o della neutralità di polizia e forze
armate o del sostegno internazionale d'altri Stati ;
2) la realizzazione degli esiti prefigurati dalla
strategia nonviolenta, ovvero la presenza di relazioni sociali nuove, fondate
sul riconoscimento dell'altro, sulla parità e la simmetria reciproca. Insomma,
la disparizione di rapporti sorretti da forme di dominazione e prevaricazione
di natura sociale, economica, politica, sessuale, culturale, religiosa.
In nessuno degli esempi sopra citati si sono
presentate queste condizioni. Per comprendere quanto è avvenuto risulta più
utile fare ricorso a concetti come quello di "implosione" (crollo
interno o implosione geopolitica) di di "moto sociale".
In Iran il regime dello Scia s'è decomposto sotto la
spinta complessa di movimenti di massa interni, nei quali v'erano milizie
armate e gruppi che praticavano attentati. Queste forze percepivano la
modernizzazione autoritaria dello Scia come la cappa plumbea imposta dalla
colonizzazione Occidentale e in particolare dagli USA sulla società. Il tutto è
avvenuto in un tremendo bagno di sangue, con l'avvio immediato della guerra
civile tra islamisti e gruppi della sinistra, poi sconfitti e costretti alle
prigioni e all'esilio. Per non parlare della guerra decennale con l'Irak e
degli effetti iperviolenti sul medio Oriente e sull'Europa dovuti alla
diffusione del fondamentalismo schiita, solo recentemente scavalcato da quello
di scuola walabita legato al fondamentalismo saudita. Milosevic ha perso le
elezioni, non è stato scacciato da gruppi nonviolenti. Anzi, gruppi
paramilitari hanno attaccato il parlamento dandolo alla fiamme nei giorni in
cui il presidente serbo rifiutava di riconoscere il risultato elettorale. La
destra nazionalista, che tanta parte ha avuto nella guerra in Bosnia e in
Kosovo è sempre lì. La neutralità dell'esercito non va confusa con l'improvviso
sbocciare d'una stagione nonviolenta. Le Filippine di Marcos, divenuto inviso
all'establishement USA, sono state il teatro di scontri di piazza con
spargimento di sangue. Assembramenti di popolazione, moti, manifestazioni e
scioperi, insomma un conflitto a media intensità violenta non è sinonimo della
migliore nonviolenza, che per altro nessuno reclamava. Gli zapatisti sono un
esercito armato che il 1 gennaio 1994 ha dato vita ad una insurrezione con
numerosi morti. Marcos porta un passamontagna per significare il suo status di
combattente clandestino e gira armato di M16, non è il miglior esempio da invocare
come icona della nonviolenza. Solidarnosc era un potentissimo sindacato-partito
(finanziato con enormi risorse dall'Occidente) che raccoglieva nel suo seno la
quasi totalità dell'opposizione al regime socialista polacco. Anche se ha
praticato in prevalenza forme " pacifiche " di lotta, il suo
programma politico non era nonviolento e tantomeno gli obiettivi realizzati
(tra cui l'entrata nella Nato). Nel suo seno v'era di tutto, dagli
ultraliberali, ai populisti cattolici, dai fondamentalisti religiosi, ai gruppi
d'estrema destra, ai monarchici, con tracce persino di qualche "
democratico ". L'ANC non ha mai introdotto nel suo programma la
nonviolenza, ha semplicemente rinunciato alla lotta armata quando, durante
l'epoca Gorbacev, si erano create le condizioni di una trattativa seria che
prevedeva la liberazione di Mandela e l'avvio di un processo di superamento de
l'apartheid, cioè quando l'essenziale del suo programma stava per compiersi.
L'abbandono della lotta armata da parte di alcuni movimenti ha sempre
corrisposto ad un passaggio a forme di lotta politiche di tipo tradizionale,
ovvero legale, non certo nonviolento. È il caso dell'Ira irlandese, che ha
rinunciato gradualmente alle armi quando, attraverso la sua ala legale, è
pervenuta ad ottenere importanti obiettivi politici (e soprattutto si sono
ridotti i finanziamenti della comunità irlandese residente negli Stati Uniti).
Chavez è un ex paracadutista divenuto leader populista negli anni 90 dopo aver
essere stato incarcerato per un tentato golpe. Di fronte alla perdita di
credibilità della classe politica corrotta, ammantato della sua aureola di
eroe, ha vinto le elezioni. Non è un bell'esempio di nonviolenza. Sarebbe come
dire che Berlusconi è un nonviolento perché grazie alle sue televisioni usa metodi
pacifici di persuasione e con questi ha ottenuto il consenso degli elettori.
Violenza o nonviolenza ? La virtù inesistente del
modello unico
Il problema sollevato dal dilemma violenza/nonviolenza
sta, in realtà, nel aver mal posto fin dall'inizio i termini del dibattito tra
forme di lotta, trasformandole da strumenti, quali esse sono, in rivelatori
ideologici, in mezzi intrinsecamente dotati di fini. È questo il rischio
inevitabile che si incorre quando la politica è declinata sulla base di un
credo etico, quando l'azione si risolve in una messa in forma della morale,
qualunque essa sia. In fondo, da questo punto di vista quei pacifisti che a
Genova alzavano le mani in segno di resa davanti alla polizia non sono diversi
dai militanti del black bloc, che devastano sistematicamente dei simboli del
capitalismo, tutto sommato secondari e irrilevanti, senza porsi minimamente
l'idea di comunicare, alleare, allargare il fronte e costruire consenso attorno
a se. Queste due realtà, solo in apparenza opposte, sono l'espressione di una
condotta simettrica dettata dal rapporto puramente etico col proprio agire. Ne
deriva una forma di psicorigidità, un'autoreferenzialità estrema che mette in
avanti la propria purezza, la propria coerenza, una sorta d'autocompiacimento estetico,
l'accordo ossessivamente necessario, e in ultima analisi il solo che conta
sempre, tra mezzi e fini che finisce per fare del fine un mezzo. La realtà non
conta, il contesto storico, l'analisi dei processi vengono ignorati. La
politica è uno specchio in cui rimirare la propria limpida nettezza. Pretesto
per " esprimere semplicemente se stessi " come fa l'artista nel corso
di una performance. Ciò che è veramente decisivo è il proprio comportamento, la
propria perfettibilità etica. È il mondo che deve modellarsi al proprio credo.
Si tratta di una purezza totalitaria, intollerante, chiusa, ben altra cosa
della contaminazione tanto decantata. La nonviolenza (come l'iperviolenza
contro le merci ma non le persone. Quelli del blocco nero sono in questo altamente
etici) da esercizio di virtù diventa esternazione del vizio, un desiderio di
sublime che fa " peccare d'autocompiacimento ", nutrendo i pacifisti
d'una saccente autosufficienza che li porta a considerarsi " più giusti e
virtuosi degli altri " e dunque " refrattari al dibattito onesto e
pragmatico " a tal punto d'accomodarsi in una " ideologia morale che
possa evitar loro un'aperta considerazione delle alternative ".
L'importante è testimoniare, testimoniare se stessi in pratiche che sempre più
si riducono ad " atti ritualizzati, infrazioni garbate, ad una
minimizzazione estrema del rischio"8. In questo senso è pertinente
l'espressione impiegata da Ward Churchill nel suo libro intitolato: "
Pacifismo come patologia " della volontà.
L'errore sta nel pensare che esista un modello unico e
virtuoso, assoluto, di lotta che possa essere valido comunque e dovunque, a
seconda delle latitudini e delle epoche (come pensavano le Brigate Rosse o
altre organizzazioni comuniste combattenti). In questo senso, nonviolenti e
violentisti s'equivalgono. Gorge Lakey ribadisce una ovvietà quando ricorda che
" la violenza non è il marchio della radicalità o del fervore
rivoluzionario perché è usata costantemente per gli scopi più disparati
"9. Infatti, filosofi come Michael Walzer, partigiano della teoria della
" guerra giusta " (Guerres justes et injustes, Belin, Parigi 1999)
spostano il dibattito sul piano della legittimità e dell'illegittimità delle
ragioni che la motivano. Non esiste una forma prefigurativa, un metodo che possa
riassumere in se il fine, il modello di società futura. E se è questa
l'ambizione che riassume la pratica nonviolenta, occorre riconoscere il suo
sistematico fallimento storico. Di contro, è possibile pensare alla nonviolenza
come ad un ulteriore risorsa da poter impiegare in circostanze e contesti che
facciano di questo strumento un'arma opportuna. La scelta delle forme di lotta
è questione complessa e articolata da affrontare secondo i momenti e le
condizioni storiche. La migliore delle strategie è quella fondata sulla scelta
ponderata delle tattiche più opportune ed efficaci a seconda delle esigenze e
dei compiti politici. Senza preclusione alcuna. Ciò detto, non si può ignorare
che sul piano storico l'uso della forza, con il suo ampio ventaglio di sfumature,
dalle più sottili alle più intense, s'è mostrata sovente una risorsa decisiva.
Stati, nazioni, popoli, regimi produttivi, ordini sociali, sistemi di dominio,
rivoluzioni liberatrici, si sono succeduti e confrontati attraverso scontri il
più delle volte senza mezzi termini. La storia è una immensa valle ricoperta di
ossa, scriveva Hegel. Occorre pensare a dispositivi di riduzione della
violenza, a forme che ne riducano il più possibile il ricorso, che ne attenuino
la portata, che ne canalizzino le forme, ma non si può esulare da un confronto
realista con questo problema.
La proposta nonviolenta e il suo inadeguato contributo
alla critica del potere
Una delle ragioni forti poste a fondamento della
scelta nonviolenta è la rinuncia ad esercitare forme di potere. La nonviolenza
più radicale e integrale, rivendica la sua totale asimmetria rispetto
all'esercizio del potere. Essa non si pretende un contropotere ma, rifiutando
ogni forma di simmetria e concorrenza, si vuole altro dalla logica del potere stesso.
Secondo i suoi sostenitori, attraverso il metodo nonviolento si otterrebbe con
successo il passaggio dal potere esercitato " su " (dominazione), al
potere esercitato " con " (cooperazione con gli altri) oppure al
potere " dall'interno " (forza psicologica e spirituale)10. Ma il
ricorso ad un brillante escamotage sintattico non risolve il dilemma del
potere, la natura della sua origine. Anche un potere che fuoriesce solamente
dal l'interno, e che con altri linguaggi potremmo chiamare fine dell'acquiescenza,
termine della dominazione introiettata, presa di coscienza, emancipazione,
fuoriuscita dall'alienazione, conquista della coscienza per se, assunzione del
principio d'autonomia, non sorge per semplice germinazione spontanea, ma è
frutto d'un incontro con l'esterno, con l'altro da se. E questo processo di
scambio non è esente dal rischio di subire condizionamenti imposti da forme
sublimali di potere: il potere simbolico, il potere carismatico, forme di
legittimazione che captano la volontà ben più del corpo, grazie
all'ineguaglianza economica, alla dissimetria delle competenze e dei saperi,
che stabiliscono differenze e gerarchie. Non è sufficiente sostituire delle
particelle grammaticali per risolvere l'inevitabile momento del contrasto,
della contrapposizione tra poteri diversi. Come evitare di soccombere, quando
un'azione fondata sul potere "dall'interno" o dal potere
"con", incontra nel suo cammino l'ostacolo del potere esercitato
"su" e dunque contro ? Che fare quando il rapporto di forza si fa
fisico e chi sta lottando non vuole semplicemente testimoniare se stesso, ma
innanzitutto non vuole soccombere? " Non collaborare " è la premessa
dell'azione, non il suo esito. Disobbedire è solo il primo passo di un lungo
percorso, è ancora un momento reattivo sprovvisto d'autonomia. Disobbedire non
basta.
Nonviolenza o legalitarismo ?
In occidente l'impiego più consistente della
nonviolenza è rivendicato dai cristiani che guardano alle persecuzioni dei loro
primi adepti come ad un momento fondatore della pratica nonviolenta. Il
"martirio" di Massimiliano, il primo obiettore di coscienza, e da
loro percepito come un glorioso esempio. Non abbiamo qui lo spazio sufficiente
per indagare la reale pertinenza della nozione passiva di martirio con quella
attiva di nonviolenza. Certo è che questa sovrapposizione la dice lunga sui
sottintesi culturali che le differenti accezioni della nonviolenza racchiudono.
La concezione sacrificale del martirio, dietro la sofferenza terrena della sua
prova, racchiude una compiaciuta idea di piacere masochista suscitata dalla
prospettiva dal trapasso definitivo nel regno dei cieli. Subire e soffrire, più
che un atto fisico di resistenza umana, è una prova di solidità religiosa, un
atto di fede intimamente sorretto da un segreto piacere perverso. Anche se la
storia della Chiesa come dei movimenti religiosi riformatori e protestanti,
oltre che la testimonianza delle sacre scritture, della teologia e del diritto
canonico, rappresentano delle fonti ambivalenti per la tradizione nonviolenta, l'intreccio
tra ideologia e pratiche nonviolente con la cultura religiosa resta un fatto
avverato. Lo è a tal punto che la distinzione introdotta da Lutero tra la
violenza individuale, da condannare, e quella statale o collettiva, da
accettare per l'interesse della comunità, resta a tutt'oggi il vero nucleo
concettuale che ispira l'essenza della cultura nonviolenta. Ovvero un'ideologia
che doma l'autonomia degli individui, li priva del loro libero arbitrio
sottomettendoli alla legge del monopolio statale.
A origini illustri e lontane l'atteggiamento di molta
parte dei nonviolenti italiani, i quali piuttosto che rivolgere il loro impegno
verso la delegittimazione di quei poteri forti che possono avvalersi della
protezione e dell'esercizio della violenza legittima, privilegiano lo zelo
discriminatorio nei confronti di chi, lottando contro quei poteri, ricorre a
strategie diverse. In effetti, troppo spesso in Italia viene chiamata
nonviolenza un tipo di cultura politica che si è costruita sul rifiuto della
violenza politica dei movimenti sociali sovversivi degli anni 70. Il rigetto
della violenza contro il potere, violenza venuta dal basso, ha segnato questa
cultura addomesticata sbilanciandola verso un atteggiamento fin troppo
compiacente con le istituzioni, titolari di quella violenza legittima
esercitata dall'alto. In questo modo s'è radicata l'idea che legalità e la
nonviolenza fossero, in fondo, la stessa cosa o comunque ch'esse si trovassero
dalla stessa parte dello schieramento. Un malizioso malinteso che ha fatto
della nonviolenza e del pacifismo un comportamento subalterno, domesticato,
fondamentalmente acquiescente all'ordine costituito.
È questo il grande "malinteso" che
egemonizza la nonviolenza italiana e che fa di molti pacifisti dei pacificati o
dei pacificatori. Spetta ai militanti più sinceri e autentici di questa
corrente risolverlo.
Paolo Persichetti
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Lettera di Adriano Sofri a Fausto Bertinotti
pubblicata
dall'Unità domenica 2 novembre 2003
Caro Fausto Bertinotti,
non ti sembri indiscreta la mia proposta di discutere
alla buona che cosa significhi al giorno d'oggi il nome: comunismo. Succede che
le parole siano costrette a trascinare una magra esistenza postuma,
nell'universale abitudine a credere di sapere che cosa significhino, e a non
parlarne più. Vera o no, era un bel caso di umor nero la notizia dell'altro
giorno sulla decisione del Cremlino di cambiare la cravatta alla mummia di
Lenin. A suo tempo io feci un vasto e sentito uso della parola: comunismo. Tu
lo fai ancora, benchè l'idea che il comunismo vada rifondato alluda, accanto a
una inclinazione conservatrice, alla constatazione di un affondamento. Oggi la
sinistra subisce le sue divisioni, invece di metterle a frutto o tenerle a
bada. A volte se ne rallegra, perchè il settarismo ha radici profonde, e perchè
la rendita di posizione, grande o piccola, conviene a chi vivacchi contento del
suo gruzzolo: magari dicendo di voler cambiare il mondo dalle fondamenta, e
tenendo aperto il suo botteghino. Ci vuol altro per fare i conti coi mali del
mondo. Altro anche dalla tradizionale devozione -verbale almeno- all'unità
eccetera. Ci vuole un'alleanza enorme, poco meno che della specie. I newglobal
alludono a volte a questa confederazione universale; e d'altra parte spesso
ospitano aggressivi ritorni di faziosità, di settarismo, di narcisismo. Ora fra
te e me c'è una influente differenza, perchè io faccio i conti solo con me
stesso mentre tu rendi conto a una comunità militante di cui sei responsabile.
Ma, dentro questi limiti, possiamo forse discutere costruttivamente. Lo spunto
mi è venuto da una tua intervista a Franco Cangini della Nazione, e piuttosto
dal titolo -che forse sollecita dolcemente, come succede ai titoli, la tua
intenzione: "Bertinotti: 'Lo ammetto, il comunismo ha fallito'." Non
intendo legarti a un'intervista, tanto più che non ho un fine polemico. Provo a
dire molto elementarmente che cosa penso. C'è un comunismo come aspirazione
all'uguaglianza fra gli esseri umani, e all'armonia con la natura -più
esattamente, al ripristino di una uguaglianza originaria dalla quale la storia
non avrebbe fatto che allontanarci. Questa utopica accezione di comunismo è
destinata a non realizzarsi mai e a risorgere sempre, con la potenza di un
sogno. Di questo comunismo si può parlare, come già si fece dell'anarchismo,
come di una infanzia del movimento che mira a rendere il mondo più giusto. Con
l'avvertenza che in passato la maturità di quella infanzia, generosa e ingenua,
era additata in un socialismo (o comunismo) come scienza, sul modello delle
scienze naturali, pretesa foriera di errori madornali nell'interpretazione del
mondo, e di disastri micidiali nella sua trasformazione.
Alla prova del potere, conquistato in Russia e tentato
nel resto dell'Europa alla fine della Prima Guerra, il comunismo si
caratterizzò come una tecnica della presa del potere (anche quella
"scientifica": le fasi della crisi sociale, la trasformazione della
guerra fra gli Stati in guerra civile, il dualismo di potere, lo sciopero
generale e l'insurrezione ecc.), e come una concezione della transizione di
sistema che sacrificava la libertà (dilazionandola) all'uguaglianza. Non credo
che si possa ancora dare gran credito all'idea che l'abbandono dell'espansione
mondiale della rivoluzione e la ritirata verso il socialismo in un paese solo
spieghino la supposta degenerazione del comunismo, come tu sembri ripetere.
Comunque, il comunismo al potere, e la sua espansione per via solo raramente
rivoluzionaria (soprattutto in Cina) e piuttosto per via statalista e
militarista, come nella costellazione di satelliti europeo-centrale e
orientale, si è definito, per antitesi al capitalismo, accantonando la
questione della libertà civile e personale, e mettendo al centro la conduzione
collettivistica. Il comunismo era ormai la proprietà statale dei mezzi di
produzione, il primato (morale, per giunta) dell'industria pesante e l'economia
pianificata. Già la formula leniniana -di emergenza, certo, nessuno ha ceduto
allo spirito dell'emergenza quanto i comunisti al potere- secondo cui il
comunismo era il Soviet più l'elettrificazione, mostrava la corda. Che in
questa versione non avesse più niente del sogno originario di una società di
liberi e uguali, benchè potesse ancora travolgere i cuori di poveri e sfruttati
grazie alla potenza di simboli e propaganda, è evidente. Restavano Stalingrado,
e Stalin. Anche che il comunismo non avesse più a che fare con la sopravvivenza
della denominazione nel Pci, al costo della famosa doppiezza e della protratta
dipendenza dall'Urss, è giudizio sul quale ci metteremo facilmente d'accordo,
credo. Il nome restava, a buon diritto, come il crocifisso nell'aula di Ofena,
in un paese scristianizzato. Quando noi, estremisti della fine degli anni '60 e
dei '70, riparlammo di comunismo, lo facemmo in due modi, ambedue di fiato
corto. In un caso, riesumando la tradizione minoritaria ed eretica (eretica
almeno perchè sconfitta e perseguitata a morte) del movimento operaio, e
immaginando una forma di democrazia consiliare un po' libresca, un po'
moralista, assai anacronistica. In un altro caso, si scelse il realismo
antiutopico della citazione marxiana secondo cui il comunismo "è il
movimento reale che abolisce lo stato di cose presente". Suona bene, ma,
mutato in slogan, è una metafisica provvidenziale, o, piuttosto, una
tautologia. Il movimento reale è il movimento reale come una rosa è una rosa,
comunque sia, e non abolisce lo stato delle cose, lo modifica, e resta da vedere
come. La predilezione per quello slogan mostrava l'incapacità di definire il
comunismo, se non attraverso se stesso. La formula sul "movimento reale
che abolisce lo stato di cose presente" è una dichiarazione di rinuncia.
Lo storicismo più banale dichiarava razionale la realtà, lo slogan sul
movimento reale dichiara razionale la sua abolizione... Dopo l'inaridimento
della nuova sinistra, e poi il crollo dell'impero sovietico, il comunismo è
rimasto, stalinismi e marxismi-leninismi a parte, come una bandiera di fedeltà
morale o sentimentale, nella testata del Manifesto, o nel titolo di partiti
come il tuo, o nell'orgoglio di persone che non accettano di cedere a un
anticomunismo maramaldo o ignorante. Stimabile sentimento, che però accantonava
sia l'eventualità che la fede nel comunismo si traducesse in un'esistenza
personale comunista, sia la corrispondenza con una peculiare idea di società.
Tu oggi dici che "in realtà, il comunismo non è stato mai messo in
pratica": è quello che dicevano quelli come me quando ci riprovarono, sul
serio, trentacinque anni fa, più o meno. Ancora un piccolo sforzo -psicologico,
essenzialmente- e dirai che "in realtà il comunismo non può essere messo
in pratica": il che non gli toglie affatto dignità, anzi.
Se oggi il comunismo è un'aspirazione o una nostalgia
o una bandiera di coerenza, ma non un'idea di società nè un processo che vi
conduca, la questione vera si sposta sulla struttura logica (e psicologica e
morale) di cui l'opposizione fra comunismo e capitalismo era espressione. Il
comunismo rivoluzionario era infatti il rovesciamento del capitalismo. A sua
volta, per così dire, il capitalismo (e la sua forma politica ideale, la
democrazia liberale) ha bisogno del comunismo per esistere come un sistema
organico e preferibile. L' esaurimento del comunismo può mettere in mostra la
degradazione del capitalismo da "sistema" all'enorme guazzabuglio cui
è approdata una storia del genere umano sospinta dal caso, dalla violenza,
dall'inerzia e dall'imprevedibilità. Enorme guazzabuglio che la potenza degli
interessi parziali e la miopia delle scelte e abitudini culturali hanno
condotto alle soglie della rovina universale. Si è riluttanti ad ammettere un
paesaggio così disordinato e ignobile, e a rinunciare a un'aspirazione
all'antagonismo e all'alterità. A differenza dal comunismo, il capitalismo non
è fallito se non nel senso di essersi annullato, diventando tutto. Così, non
importa che l'altro mondo possibile, quando non significhi un mondo migliore, o
meno peggiore, ma un mondo rifatto dalle fondamenta, quando cioè conservi una
tensione alla palingenesi, prenda o no il nome di comunismo: quello che conta è
la durata o la reviviscenza di una metafisica antagonista e dicotomica. Nel
"movimento dei movimenti" coabitano ambedue le spinte. Tu, che vi hai
visto -con sincerità e generosità, del resto: non ho alcuna ragione per
dubitarne- la fausta occasione per rigenerare un pensiero e una condotta
politica ereditata e asfittica, una trasfusione di sangue, una specie, lasciami
dire così, di colpo di fortuna in extremis -o oltre- per uscire dal deserto, ti
impegni tuttavia a fomentarne la tensione antagonista. Ma antagonismo a che
cosa? Al capitalismo? E dunque continuando a riconoscervi una razionalità (sia
pure iniqua) di sistema? E in nome di quale sistema alternativo? Ricavo da
quello che dici che la categoria che definisce il mondo cui opporsi dalle
fondamenta sia diventato il liberismo. Ma occorre una gran forzatura a mettere
sullo stesso piano il liberismo, e a maggior ragione il liberalismo (come fai
nell'intervista citata), e il comunismo: nella teoria, e soprattutto nella
pratica, dal momento che per regalare al capitalismo contemporaneo una fedeltà
coerente e rigorosa al liberismo bisogna essere ben prodighi. E' un'illusione
deformante che il liberismo costituisca il nemico sistematico da battere,
secondo un'aggiornata dicotomia liberismo-antiliberismo (protezionismo è parola
che non si userebbe volentieri). Ma il liberismo è spesso un'ideologia,
corvéable à merci. Già oggi si vende male. "La differenza -dici- è che io
ammetto la sconfitta del comunismo storico, mentre loro negano quella del
liberalismo". Ma con il "comunismo storico" è l'idea di
rivoluzione, dell'altro mondo, del mondo nuovo, che è fallita: mentre l'eventualità
di un grado maggiore di libertà e di giustizia ha a che fare con la
modificazione del guazzabuglio vigente. Vuol dire di volta in volta correre ai
ripari, soccorrere, correggere, riformare, anche secondo un disegno di
conversione radicale di modi di pensiero e di esistenza materiale. Anzi, senza
una simile conversione è spacciato il pianeta, non qualche suo continente, nè
qualche sua classe. Ma a condizione di rinunciare alla palingenesi
rivoluzionaria, perchè almeno questo è provato, che l'inerzia delle cose accumulate
lungo i millenni tiene ostaggi il pianeta e la società in un equilibrio assurdo
ma così delicato che a maneggiarlo bruscamente si rischia il disastro. Il
giudizio discriminante, oggi, riguarda l'intollerabile iniquità del mondo, e la
suicida corsa alla sua distruzione. Bisogna separare la diagnosi e la prognosi
radicale dalla terapia duttile, la malattia mortale dalla medicina dolce -una
contraddizione in termini, in apparenza almeno. Ma il vincolo fra diagnosi
radicale e metodi rivoluzionari destina alla rovina. Fa riuscire l'operazione
-ammesso che riesca- e crepare il paziente.
Lasciami proporre un'ultima osservazione sulla ragione
profonda del tuo, e non solo tuo, attaccamento alla logica dell'alterità: è un
desiderio di assolutezza. Mi rifaccio a una appassionata lettera personale che
avesti la gentilezza di scrivermi all'indomani della guerra in Iraq. Mi
spiegavi come il passaggio dall'imperialismo all'impero avesse comportato il
passaggio dalla solidarietà con le lotte antimperialiste alle pratiche della
nonviolenza e della disobbedienza. La coppia guerra-terrorismo, dicevi,
"non lascia più alla violenza alcuna possibilità di essere
liberatrice". E' vero, ma era già vero. Ci siamo arrivati, per strade
diverse, in date diverse, quando ci siamo arrivati. Soprattutto, la Rivelazione
deve lasciarci ammettere che non ci sono così limpidamente "loro",
quelli della coppia guerra-terrorismo, e "noi", quelli della
nonviolenza e della pace. L'antagonismo fra guerra e pace offre una solida
frontiera: ma poi bisogna metter fine alle guerre, soccorrere i pericolanti,
far rispettare il diritto la libertà e la dignità, avere una polizia, un codice
e un tribunale. E non barattare ancora una volta, a tempi scaduti, l'amore per
la libertà con il ripudio dell'ingiustizia: che fu il destino dei comunismi
storici, con l'effetto di decapitare con un colpo solo libertà e giustizia.
Adriano Sofri
Risposta di Fausto Bertinotti ad Adriano Sofri
pubblicata
dall'Unità domenica 9 novembre 2003
Caro Sofri,
ti sono sinceramente grato per la sollecitazione
offerta dalla tua impegnativa lettera. Essa mi induce ad un confronto e ad una
riflessione su questioni di fondo e di definizione della politica. Mi indica
l'esigenza, con la quale concordo pienamente, di uscire dalla politica politicante
che segna tanta parte del nostro tempo, di evitare il pragmatismo o la
riduzione dei grandi pensieri nei sentieri solitari dei percorsi individuali.
Chiedere conto del perché un partito si definisce
comunista -anche se questa domanda viene avanzata per sostenere la necessità di
abbandonare questa definizione - sottolinea comunque la volontà di fare una
discussione impegnativa sulla società in cui viviamo. Eludere la domanda
significherebbe accettare quell'impoverimento della politica al quale ha così
tanto contribuito coloro chi ha abbandonato l'idea della trasformazione sociale
accettando la miseria dell'esistente.
Né basta, a mio parere, per rispondere alle tue
importanti domande, la sottolineatura che noi non parliamo di comunismo ma di
"rifondazione comunista". E la parola "rifondazione" dice
della impossibilità stessa di una continuità e della necessità di ricostruire
dalle fondamenta. Ma, anche perciò, non basta. Noi che ci definiamo comunisti
abbiamo il dovere di dire in che direzione intendiamo muoverci e quale sia il
senso della nostra ricerca. Le risposte possono essere incomplete, ma devono
essere date. Vale per noi in questo momento della storia il verso di Montale:
"Non domandarci la formula che il mondo possa aprirti/ sì qualche storta sillaba
e secca come un ramo/ codesto solo oggi possiamo dirti/ ciò che non siamo, ciò
che non vogliamo."
Vorrei però fare una premessa. Quel a cui assistiamo
in questi anni é un cambiamento del mondo, della sua organizzazione sociale e
politica, dei rapporti sociali ed economici talmente forte che nessuna grande
cultura del '900 può resistere senza una ridefinizione. Pensiamo alla parola
riformismo. Essa ha assunto un significato così vasto, potrei dire multiuso, da
potere essere rivendicato da destra e da sinistra e da potere assumere i
significati più diversi. Oggi, per fare un esempio, si parla di riforma delle
pensioni, sia per dire che vanno tagliate, sia che vanno difese o migliorate.
Lo stesso vale per i suoi significati generali.
Eppure il riformismo é stata una idea precisa del
movimento operaio del '900. I riformisti per un lungo periodo hanno avuto lo
stesso obiettivo dei rivoluzionari, il socialismo, ma pensavano di perseguirlo
in altri modi e con una gradualità. Anche quando abbandonano l'idea socialista
mantengono l'idea di eguaglianza e sottolineano il riferimento alla classe
operaia quale soggetto principale della trasformazione sociale. Ancora Brandt
-ricordiamolo- diceva che la socialdemocrazia non é l'officina di riparazione
del capitalismo.
Oggi questa idea di riformismo é travolta, cooptata
nel pensiero unico, sussunta e fagogitata dalla idea di modernizzazione. E
tutto questo é stato possibile anche perché é mancata una ricerca e una
elaborazione che qualificasse diversamente il riformismo, lo ridefinisse come
progetto politico non omologabile alla modernizzazione.
Ecco, su un diverso ordine di problemi, un compito
simile a quello cui avrebbero dovuto assolvere i riformisti tocca a noi, a chi
pensa che il termine comunista abbia e possa avere un uso nella politica del
nostro tempo.
In questo quadro, la richiesta di fare i conti con il
nostro passato, col passato di comunisti, non solo é legittima, ma scaturisce
proprio dall'esigenza di ridefinirci comunisti nell'oggi e quindi nasce da
un'analisi critica della società contemporanea. Se il comunismo fosse un cane
morto, se fosse inscindibilmente legato ad un'epoca storica passata, se fosse
figlio dello sviluppo industriale e non del capitalismo, se fosse consegnato
nel ciclo fordista, non avremmo motivo di esaminare così spietatamente,
lucidamente quello che c'é dietro di noi. O meglio lo faremmo, ma solo per un
interesse tutto storico. Se invece nella società che ci circonda rintracciamo,
come rintracciamo, problemi e bisogni che hanno a che fare con quelli proposti
dalla nascita del comunismo, allora fare i conti con la nostra storia diventa
necessario per sapere che cosa é vivo e che cosa é morto, per poter di nuovo
porre - se non risolvere - il problema della società futura. L'Angelus novus non
é solo una metafora della modernità, ma del proletariato. Esso guarda le
macerie e si rivolge al futuro. In quella torsione del corpo sta il suo
messaggio e il suo avvenire.
La possibilità che il comunismo sia più di una
bandiera o di una nostalgia sta quindi proprio nell'analisi della società in
cui viviamo. Nella tua lettera c'é un'affermazione che mi convince pienamente.
Tu dici che siamo in una fase dello sviluppo che ci ha condotto "vicino
alle soglie della rovina universale". E' vero, siamo proprio di fronte ad
una crisi di civiltà. Basterebbe avere a mente la terribile tenaglia nella
quale oggi il pianeta é stretto per saperlo. La guerra preventiva è entrata nel
nostro tempo e lo sconvolge fino a plasmarlo. E' una guerra infinita e
indefinita che l'impero promuove e alimenta per ricostituirsi quando è
manifesta la sua incapacità di governare il mondo col consenso. E' la guerra
della globalizzazione della crisi. La guerra favorisce l'estensione del
terrorismo che porta alla guerra che a sua volta genera nuovo terrorismo. Siamo
di fronte ad una crisi che ha caratteristiche terribili e devastanti per
l'umanità. Da cosa é generata questa crisi? A mio parere proprio dalla natura
di questa modernizzazione. Essa non si é rivelata, come qualcuno ha voluto credere,
come l'avvento del regno della libertà dopo la caduta del muro, né il luogo
della crescita e del progresso. Questa globalizzazione ha provocato un fatto
inedito nella storia dell'umanità. La separazione dell'innovazione dal
progresso sociale e civile , della tecnologia dal miglioramento delle
condizioni di vita, della scienza dalle possibilità di avanzamento per
l'umanità e per la natura.
Tu chiami tutto questo "guazzabuglio" e
alludi a qualcosa di confuso, di irrazionale nel quale il capitalismo ha estinto
se stesso, ad un caos che domina le nostre esistenze e ci avvicina alla rovina
del pianeta. Ma questo é il punto. E' davvero così? Possiamo parlare davvero di
caos o in tutto questo c'é una ratio, una necessità indotta dai rapporti
sociali? Insomma c'é un ordine che produce questa crisi di civiltà? C'è una
logica in questa follia? A mio parere sì e basta guardare ai passaggi di questa
ultima fase della nostra storia per rendersene conto.
Quando finisce il ciclo fordista e keinesiano e crolla
l'intero sistema dei paesi dell'est si sviluppa un mutamento di fondo che
possiamo definire una rivoluzione capitalistica restauratrice. In essa il
dominio della scienza e della tecnica é assoluto. A questo tutti sono
sottoposti in una catena e in una consequenzialità che arriva alla
manipolazione del gene. In nome di questo dominio avanza e si afferma l'idea di
poter abbattere ogni barriera culturale, nazionale, religiosa e di fare del
lavoro la variabile dipendente dell'intero sistema. In questa modernizzazione la
nozione di sfruttamento si dilata oltre i confini del 900, alle persone e alla
natura. Sfruttamento allargato, che coinvolge soggetti sociali, individui,
ambiente, che va al di là di ogni limite mai immaginato. Esso si raggiunge
prima attuando una vera e propria operazione egemonica, poi imponendo l'ordine
della guerra. Prima promettendo progresso, benessere, nuova libertà, cioè un
mondo finalmente migliore per tutti dopo la caduta del muro e il dispiegarsi
dell'innovazione. Poi, di fronte all'impossibilità di raggiungere questi
obiettivi, c'è una rapida e violenta conversione: la guerra come unico modo per
imporre a tutto il pianeta una modernizzazione violenta, squilibrante,
distruttiva ma , nell'apparenza che prendono i processi dominanti, senza alternativa.
Lo sviluppo non si realizza, i progetti saltano per
aria da molti punti, compreso uno imprevedibile. Una gran parte delle
popolazioni del pianeta rifiuta di essere inclusa nell'ordine globale, non
accetta i modelli che si vuole imporre, rifiuta la nuova civilizzazione.
E' evidente allora che sotto quel caos o quel
guazzabuglio, dietro quel disordine c'è in realtà un ordine. E' l'ordine
dell'impresa e del mercato. Non siamo, come tu dici, fuori dal capitalismo che
ha ammazzato se stesso, ma al contrario di fronte ad un nuovo paradigma
capitalistico. Non siamo di fronte alla scomparsa, ma ad una iperestensione del
capitalismo. Non siamo di fronte ad una evaporazione del potere politico che
governa questi processi, ma alla costruzione di un nuovo ordine mondiale. Non
siamo di fronte ad una nuova scienza. La mucca pazza non é il frutto del caos,
ma di uno sfruttamento che arriva alla natura, la modifica e la può
distruggere. Esso é così assolutizzato che persino alcune certezze del
movimento operaio vengono messe in discussione, in alcuni casi spazzate via
come quella del progresso legato allo sviluppo delle forze produttive.
Quello che tu chiami caos insomma, é il prodotto di
una instabilità e precarietà determinata dalla contraddizione che questo stesso
sviluppo produce e che non é in grado di governare appunto se non attraverso il
disordine e la guerra, con le conseguenze di crisi di civiltà che abbiamo sotto
gli occhi.
In questo quadro il liberismo non é la categoria
astratta che ci consente una alterità, che - come tu dici - ci da la realtà a
cui opporci di opporci. Esso é, come la guerra, la cultura politica e la
politica sottesa alla natura profonda di questa globalizzazione capitalistica,
cioè quella più funzionale ad essa, incurante delle tesi che l'hanno inspirata.
A questo quadro già in sè drammatico aggiungo un
elemento. Di fronte a questo caos o a questa crisi di civiltà, la catastrofe é
fra le cose possibili. E' possibile cioè che l'umanità non sia in grado di
opporsi a questo processo che porterebbe ad un esito catastrofico. E non vedo,
non immagino alcuna possibilità catartica, alcuna possibilità cioè di una
soluzione salvifica e liberatrice, che nasca meccanicamente da un possibile
crollo di civiltà. Sarebbe, al contrario, l'avverarsi dell'altra profezia di
Marx, quella secondo la quale la mancata costruzione di un'altra società
darebbe luogo alla rovina di entrambe le classi in lotta. Semmai si potrebbe
pensare che è proprio nel nostro tempo , il tempo della globalizzazione, che
cova l'alternativa tra il socialismo e la barbarie.
E qui che nasce per noi la questione del comunismo o
del comunismo oggi. Il problema é grande, così grande che tu stesso lo riassumi
in un interrogativo di civiltà che ti fa chiamare in causa il movimento
newglobal, la sua aspirazione all'alterità e al nuovo mondo possibile.
Chiediamoci: perché il movimento new global é così cresciuto? Perché ha intuito
quel che anche tu pensi, cioè che deve formarsi una nuova alleanza, l'alleanza
della specie. Solo che per il movimento questa per potersi affermare non può
essere indistinta , ma deve fondarsi sulla critica e sulla contestazione di
massa a questo modello sociale e di sviluppo. Deve cioè opporsi a questa
modernizzazione capitalistica, deve costruire l'antagonismo a quello che tu
vedi come un guazzabuglio e che per me, come per il movimento, é la
globalizzazione. Questo movimento ha un progetto. Questo movimento ha già in
atto una contesa con questa modernizzazione capitalistica, di questa contesa
esso vive.
E' vero esso non parte dalla contestazione del modo di
produzione capitalistico per arrivare a vederne le contraddizioni che genera
sulla società e sulla natura. Il movimento fa un processo inverso. Parte da
queste contraddizioni ma arriva a disvelarne le cause di fondo. Il progetto di
nuovo comunismo può rinascere da qui. E può discutere a partire da qui quel che
può accettare e ciò che deve rifiutare del 900. E la politica, la politica di
chi vuole il cambiamento, non può che cominciare da qui. Dalla individuazione
della assolutizzazione del profitto come causa principale della devastazione.
Dalla necessità di una trascendimento della società capitalistica al fine di
evitare la barbarie.
Per noi parlare di comunismo significa parlare di
idee, culture, processi e soggetti assai diversi da quelli che hanno
caratterizzato il 900. In questo secolo grande e terribile l'idea di comunismo
è stata legata ad una sorta di ineluttabilità, ad una attesa messianica. Su
questa attesa e su queste certezze si è fondata la strategia, si è puntato alla
conquista del potere e alla costruzione delle società postrivoluzionarie
attraverso l'assolutizzazione dello stato. Il proletariato si "è
fatto" partito organizzando il potere. Il comunismo reale è stato tutto
ciò, ma il movimento operaio è stato anche molto altro.
Oggi noi parliamo di processo aperto e indefinito. Un
processo nel quale vediamo i problemi irrisolti, ma non pretendiamo di dare una
risposta ora, non pretendiamo di costruire organicamente e scientificamente una
strategia per sempre e inequivocabilmente vincente. Parliamo di processualità,
non di una ineluttabilità. Siamo consapevoli del fatto che non è detto che ciò
proponiamo diventi "storia". Ci serve un ritorno a Marx, al Marx più
radicale nella critica alla politica e nell'idea di cambiamento e di
liberazione della persona. E affidiamo la risposta ai processi, se ci si
intende, alla lotta di classe, più che alle definizioni. Eccetto che su un
punto, sul quale invece sentiamo di dover cominciare a rispondere da subito,
quello del soggetto rivoluzionario. Il 900 ha visto nel proletariato il centro
dell'ingresso delle masse nella politica. Oggi occorre un ridefinizione. Nel
movimento c'è un annuncio di questa soggettività, ma é appunto un annuncio,
soltanto l'indicazione di una pista di ricerca. Il profilo del nuovo
proletariato non ci viene semplicemente dalla sua collocazione sociologica nel
processo produttivo, che pure vede una radicale mutazione nella composizione e
nel modo di essere del mondo del lavoro, ma nella costruzione dell'antagonismo,
all'interno di un processo che tende a formare una nuova soggettività critica e
una nuova critica dell'economia.
E il movimento dei movimenti assume pienamente la
processualità della costruzione. Esso da più importanza alla critica all'esistente
rispetto alla definizione del modello finale. E' anche questo un fatto nuovo.
Questo atteggiamento consente la liberazione da quel compromesso che nel 900 il
movimento operaio aveva pattuito con lo sviluppo, con la scienza e con la
tecnica. Consente una radicalità più libera anche se più a rischio perché meno
indirizzata. Consente, infine, di oltrepassare davvero senza remore, senza
nostalgie e senza finzioni il 9OO dicendo ciò che in esso é vivo e ciò che é
morto e quali problemi irrisolti ci consegna.
Il secolo appena passato é stato sul versante della
trasformazione della società capitalistica essenzialmente tre cose: il
socialismo reale, i movimenti di massa e le teorie e la cultura del movimento
operaio. Il primo é morto. Le altre due, se pure duramente provate dalla
sconfitta non solo sono vive ma, oggi, sono interrogate dal movimento dei
movimenti. So bene che esse sono vissute sovente interconnesse nella risultante
della storia delle masse. E so pure che i tragici errori, e persino i crimini, accumulati
nella nostra storia non sono da esse facilmente espungibili senza determinare
vuoti drammatici nell'immaginazione di un futuro liberato e senza che si ponga
al comunismo un gigantesco problema irrisolto, quello della transizione. I
movimenti di massa e la cultura del movimento operaio non sono però un abbaglio
e tanto meno un errore della storia che si può cancellare con facilità. Ma la
rinnovata critica all'economia capitalista della globalizzazione e alla sua
organizzazione sociale e politica per prospettare il loro trascendimento chiede
l'incontro del movimento con l'uscita da sinistra dal 900. Ed ecco, caro Sofri
che siamo arrivati al punto: l'eguaglianza e l'aspirazione ad essa mai dismessa
da milioni di donne e di uomini. Questo alla fine è il nodo da affrontare.
Questo é il problema che la politica deve risolvere se non si vuole rivelare
servile al potere costituito e -quel che é peggio- ad una organizzazione della
società che si propone come eterna e eternamente in grado di organizzare lo sfruttamento
e l'alienazione mentre può scavare la fossa all'intera umanità. Non saprei come
chiamare questo compito se non comunismo. Spero di essere riuscito a dirti
perché, secondo me, esso non risponda solo ad un dover essere e non rappresenti
solo un utopia, ma possa costituire il fondamento di un lavoro politico. Grazie
Fausto Bertinotti
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da Carta, 13/11/2003
Lettera aperta di Marco Revelli a Fausto Bertinotti
C aro Fausto,
devo dirti che, pur condividendo integralmente il
contenuto della tua intervista, mi è dispiaciuto - e mi ha provocato una certa
amarezza - il modo con cui mi hai tirato in ballo su Repubblica di domenica 2
novembre. Da te mi sarei aspettato che almeno andassi a leggere il testo
completo delle mie dichiarazioni su l'Avvenire anziché fermarti alle due righe
citate da D'Avanzo [sempre su Repubblica], prima di fare i riferimenti
"postali" che hai fatto. Avresti potuto constatare che lì dicevo
esattamente le cose che pensi tu:
1] Che questo movimento è del tutto estraneo alle
logiche e alle complicità con la lotta armata. Che non ha senso parlare come
fanno i media di un qualche rapporto, sia pur minimo, tra Br e "no
global", per ragioni anagrafiche, culturali, esistenziali prima ancora che
politiche ["Frequento le assemblee dei no-global, conosco il loro
linguaggio: non ho mai sentito non dico un elogio, ma neanche una
giustificazione delle strategie terroristiche": cito da quell'intervista
letteralmente, e per maggior chiarezza te ne mando in allegato anche una
copia]; e - a proposito di Segio - aggiungevo di non aver alcun elemento per
"avallarne" le ipotesi di infiltrazione o fiancheggiamento occulto
[occorrerebbe avere un apparato di intelligence per ciò, e nessuno di noi
semplici cittadini ne è in grado]. Dunque, nessun errore di indirizzo, per
usare la tua espressione.
2] Aggiungevo però anche di essere d'accordo con Segio
quando dice "che è mancata una seria riflessione nel movimento e nella
sinistra", sul tema della violenza e più in generale su una concezione
della politica come "espressione della forza". E, per non essere
frainteso, precisavo di non credere che questo "ritardo" fosse dovuto
a pelose ragioni di "omertà". Dunque, se non sbaglio, esattamente ciò
che tu metti al centro della tua intervista su "Repubblica". O no?
3] Introducevo poi una terza cosa, e cioè che se una
critica può essere mossa al movimento [nome che non mi piace perché non dà
conto della sua natura d'arcipelago, articolata ed eterogenea, ma che ormai i
media usano, identificandolo con Disobbedienti, Cobas, Rifondazione, un po' di
Cgil e di correntone Ds, ecc.], questa è di non aver posto al centro della
propria attenzione l'opzione per la non violenza. Di non aver fatto - per
riprendere il titolo della mia intervista incriminata sull'Avvenire - "una
scelta netta per la non-violenza come strumento politico".
Qui, ti assicuro, l'indirizzo era preciso, e la
volontà di far giungere il messaggio più che meditata. Perché credo [e in
questo mi sembri del tutto consonante anche tu] che sia finito il tempo delle
mediazioni o delle reticenze su questo tema. Che sia il momento di ridiscutere
a fondo il rapporto tra mezzi e fini. Che non ci si possa più accontentare della
convergenza sui fini, che tutti bene o male condividiamo, e su cui il dibattito
si fa stucchevole; ma sia venuto piuttosto il momento di affrontare la
questione dei mezzi, del tipo di strumenti e di pratiche con cui perseguire
quei fini.
Non possiamo più accontentarci della vecchia idea del
movimento operaio novecentesco che i mezzi siano, per così dire,
"neutrali". Che si giudichino solo in base alla loro efficacia. Che
siano tanto più accettabili anzi doverosi quanto più avvicinano il momento del
successo [della vittoria, della presa del potere, del danno massimo inferto
all'avversario]. Pensare così significa assumere fino in fondo la logica della
Tecnica, su cui il capitalismo è vincente. È il modo con cui quella logica si
impadronisce anche dei suoi avversari, e li piega alle proprie ragioni. Credo
che si debba dire, oggi, chiaramente, che quel nuovo mondo che noi riteniamo
possibile può essere costruito solo con mezzi che non ne neghino le ragioni di
fondo, la natura stessa: con mezzi, cioè, che non solo combattano la violenza
altrui, ma che la escludano dal nostro orizzonte. Con mezzi, appunto,
non-violenti.
Credo anche che sia venuto il momento di dire con
tutta la chiarezza di cui siamo capaci che oggi - e sottolineo oggi , non ieri,
non nel "secolo breve", non nel 1943 o nel 1935 -; oggi, nell'epoca
dello "spazio imperiale", delle "guerre umanitarie", delle
invasioni e dei bombardamenti motivati con la diffusione della democrazia e
della "libertà"; oggi, nel mondo globale in cui siamo precipitati, la
forma più estrema dell'antagonismo, quella davvero irriducibile e non
mediabile, è l'azione "non-violenta". Perché è l'unica non
assimilabile all'agire dell'avversario. Quella che marca anche nei
comportamenti quotidiani, nei minimi gesti, la diversità dai Bush, dai Blair,
dai Berlusconi, dai bin Laden, dai Saddam Hussein, e via mostrizzando... E
porta incisa nel proprio essere la diversità del progetto che persegue.
la parabola delle avanguardie
Quella, d'altra parte, che non si piega a compromessi
[pur praticando l'arte della mediazione], che non ne deve accettare, anzi che
non ne può accettare senza trasformarsi in altro da sé. E quindi che reca in sé
una cifra di intransigenza che è stata di tutte le avanguardie rivoluzionarie
al loro nascere ma che in tutte si è purtroppo spenta nel corso dell'azione,
man mano che essa paradossalmente trionfava, fino a rovesciarsi nel proprio
contrario al momento [rari momenti] del trionfo, proprio in conseguenza della
retroazione dei mezzi "di potenza" impiegati in dosi sempre maggiori.
Oggi possiamo davvero presentarci [innanzitutto
davanti a noi stessi] come radicalmente "altri" rispetto a quelli che
stanno condannando a morte l'umanità e il pianeta, e che per questo
combattiamo, solo se incarniamo un tipo di agire radicalmente e
qualitativamente "altro" rispetto a loro. Incominciando, appunto, dai
mezzi che usiamo. Oggi, ne sono convinto, si può essere tanto più radicali nel
progetto e nell'agire, quanto più si è indiscutibilmente e strategicamente
"non violenti" nelle pratiche e negli strumenti utilizzati.
Occorre uno scatto in più
Ecco perché credo che non sia sufficiente la condanna
della violenza [in genere di quella degli altri, siano essi i nemici esterni, i
Bush, Sharon, Blair, ecc., o quelli "interni", br, lottarmatisti,
black bloc, ecc., sugli uni più esplicita, sugli altri magari un po' più
reticente ma in genere più o meno ritualmente recitata]. Che occorra uno scatto
in più, in positivo, verso l'assunzione strategica e discriminante della
non-violenza.
Ho trovato tracce di questi segnali nella tua
riflessione più recente. Ma non dirmi che questo è un patrimonio acquisito nel
cosiddetto movimento. Nemmeno nelle componenti a noi più vicine. Nemmeno,
vorrei dire, in noi stessi, nelle nostre identità personali ancora divise tra i
due secoli in cui ci è toccato di vivere [mi è molto piaciuto il tuo
riferimento alla Battaglia di Algeri]. È un passaggio che va costruito, con
fatica, forse anche con dolore. Mettendo in conto strappi, lacerazioni, cadute.
E qui forse tra noi due c'è quella differenza che già
nella nostra conversazione su "Oltre il Novecento" per Carta era
emersa, di ruoli, di responsabilità: tu, "politico" - weberianamente
incatenato all'"etica dei risultati", costretto a pensare agli
effetti che le tue parole produrranno nella realtà qui e ora, nelle tue file
stesse, nelle alleanze, nelle prossime settimane, nelle prossime scadenze
politiche di movimento e di organizzazione. Io "free lance" del tutto
libero da ciò, padrone di sproloquiare tenendo come orizzonte il futuro
anteriore e ignorando la durezza vischiosa del presente, saltando le tappe
tattiche, leggendo magari le notizie - come diceva un matto in un dibattito
torinese - "sul Corriere della Sera di dopodomani", avendo già
archiviato come obsoleti quello di
oggi e di domani.
Forse per questo io avverto più di quanto non mi pare
faccia tu, l'urgenza di fare chiarezza, ad ogni costo, anche a costo di essere
fraintesi, a costo di rompere equilibri e di strappare. Credo che bisogna
andare giù duri oggi, e tagliare ogni possibile equivoco alla radice sulla
questione della "non violenza senza se e senza ma", perché il tempo è
spaventosamente stretto, e si deve fare in fretta, e siamo disperatamente
lontani da un livello anche solo accettabile di dibattito.
Quando leggo certe interviste, quando sento le cose
dette anche in questi giorni, rozze, assurde, disumane, questa logica
parossistica dell'"amico-nemico" portata fino alla struttura del
linguaggio; questa autoreferenzialità torpida e assoluta, di piccoli capi che
parlano solo per i propri accoliti, nel chiuso delle proprie file e dei propri
santuari blindati, senza neppure sapere quali linguaggi "altri" usino
quelli che sono fuori, e sono tanti, e sarebbero con noi se solo offrissimo
un'immagine meno ottusa e terrifica, quando leggo questo mi cascano le braccia.
Tu fai bene a usare l'esempio della donna incinta per
misurare la legittimazione di una piazza. Perfetto. Ma ci sono anche piazze
verbali, luoghi del confronto pubblico, appunto agorà. Hai visto anche tu
Repubblica nei giorni precedenti alla tua intervista: chi può stare nella
stessa piazza ad ascoltare senza scappare ululando? Dobbiamo crescere in
fretta, se vogliamo fare qualcosa di serio per questo mondo sempre più
"impossibile".
E forse davvero questo ci può aiutare a ridurre le
nostre distanze "funzionali".
Può darsi davvero che la velocità del tempo storico
che ci trascina, finisca nonostante tutto per avvicinare i nostri due ruoli e
le nostre diverse "temporalità". Per costringerci a misurarci con le
stesse cose, dal momento che "dopodomani" è già ieri, e il pericolo
che la logica della guerra riempia del tutto lo spazio imperiale è qui, nella
quotidianità, come è qui la morte del pianeta, il tempo che impazzisce insieme
ai governanti del mondo, i poli che si sciolgono [quello artico e quello
antartico, non i nostri miseri moncherini di vita politica] come neve al sole,
l'aria che manca e l'acqua che costerà come petrolio.
L'arcipelago dei movimenti
L'arcipelago dei movimenti è l'unico, fragile ma
esteso ben oltre i confini delle nostre acciaccate culture politiche, punto
d'appoggio su cui immaginare di sollevarci da questa caduta. È un bene troppo
prezioso per lasciarlo in balia della chiacchiera televisiva e dei giochi
feroci della politique politicienne .
Mi piacerebbe ragionare pacatamente con te su questo
inedito "che fare?". Ti ho appena spedito un libro dal titolo
pessimistico - "La politica perduta" -, in realtà più ottimista di
quanto possa sembrare, perché suggerisce una linea di ricostruzione dell'idea
di politica oltre il naufragio di quella che chiamo la "politica dei
moderni", il paradigma che da Hobbes a Lenin ha dominato il percorso della
modernità. Vogliamo usarlo come "occasione" per ricominciare a "cercare
insieme" comunicando? Ne sarei felice.
Per intanto un affettuoso saluto con l'amicizia di sempre
Marco Revelli
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Risposta di Fausto Bertinotti a Marco Revelli pubblicata
sul n. 43 di Carta del 27 novembre 2003
Caro Marco,
è vero, spesso i tempi della politica e l'esposizione
mediatica vincono sulle buone ragioni. Ma non c'è fretta, né consuetudine al
commento quotidiano a ciò che appare dai quotidiani che possa giustificare un
mancato approfondimento: commentare una tua frase stralciata dal suo contesto è
una superficialità di cui mi scuso.
Ma possiamo utilizzare positivamente questo episodio e
vederne il lato positivo. Esso ci consente di proseguire un dialogo e di verificare
una profonda consonanza.
C'è un punto che ci unisce ed è un punto centrale del
ragionamento di entrambi: in questo tempo e in questo spazio la non violenza è
la condizione essenziale per portare alla luce e far vivere la radicalità di
una critica alla società contemporanea.
La critica che oggi possiamo fare a questo capitalismo
in questa parte del mondo può prendere corpo e forma, può far nascere nuove
relazioni sociali, può diventare critica al potere, può esprimersi in forme di
autogoverno solo all'interno di una idea non violenta del mondo e dei rapporti
umani.
Il motivo lo abbiamo ben presente entrambi. C'è una
nuova organizzazione bipolare del monopolio della violenza in cui guerra e il
terrorismo si alimentano reciprocamente. E non c'è alcuno spazio fra i due se
non è uno spazio realmente e completamente alternativo, se non esprime il
rifiuto radicale di entrambi nei fini e nei mezzi.
E' vero, c'è stato un tempo nella nostra storia i cui
i mezzi potevano essere autonomi dai fini. E' vero che questa autonomia ha
portato a terribili e catastrofiche conseguenze, ma quei mezzi allora - in un
altro tempo - hanno prodotto un cambiamento, hanno modificato il sistema di
potere, hanno fatto pensare che il mondo poteva cambiare. Oggi quegli stessi
mezzi sono del tutto inefficaci e non hanno alcuna possibilità. Non riescono a
produrre neppure nell'immaginario un'alternativa di società. Essi riconducono
inevitabilmente ad uno dei due poli della spirale che può distruggere il mondo.
Se questa tenaglia non viene spezzata le conseguenze
saranno ancora più drammatiche. Potremmo nei prossimi mesi addirittura
assistere ad una cancellazione della politica intesa come possibilità di
intervenire sul mondo e di trasformarlo. Se ci sarà, come appare possibile, una
guerra di religione, la politica sarà del tutto oscurata da un durissimo
conflitto di civiltà. Unici protagonisti di questa contesa saranno appunto la
guerra e il terrorismo, che si autoelegeranno a punti di riferimento di intere
aree del mondo e che arbitrariamente si proporranno come rappresentanti dei
popoli di questo conflitto di civiltà.
Oggi anche in Italia viviamo una grande difficoltà. La
pietas per i morti di Nassiriya, il dolore e la tragedia che tutti sentiamo sta
diventando la legittimazione di una scelta per la guerra, la impossibilità per
le forze politiche e per gran parte della popolazione di metterla in
discussione.
L'attentato alla sinagoga di Istanbul che è venuto
qualche giorno dopo è apparso come un moltiplicatore drammatico, un segnale
ancora più inquietante sia per chi è stato colpito - gli ebrei, la sinagoga -
sia perché ha messo in luce che le potenze distruttrici sono effettivamente
due, che il terrorismo ha una potenza devastatrice né secondaria né
sottovalutabile.
Io credo, noi crediamo, che non si possa rispondere ad
una violenza devastante espressione di un progetto imperiale, con un'altra
violenza che accomuna nella dimensione del nemico le forze che producono
l'oppressione e l'insieme della società in cui queste forze agiscono. Si tratta
di due progetti di violenza e di oppressione che, in concorso fra di loro,
portano alla guerra di civiltà , allo scacco della politica e persino alla
distruzione dell'umanità.
Ci si sottrae a questo meccanismo solo con la non
violenza, solo dicendo no a questo conflitto di civiltà. Solo se siamo convinti
che la non violenza è l'unico modo per costruire davvero l'alternativa di
società.
Una grande lezione in questo senso ci è venuta dal
movimento femminista, dal suo rifiuto della violenza del patriarcato, dalla
negazione della divisione fra mezzi e fini della politica. E oggi una grande
insegnamento ci viene dal movimento dei movimenti che segna una discontinuità
con le culture prevalenti nel movimento operaio e opera una rottura a mio
parere di grande importanza.
Credo che non ti sfugga, caro Marco, quanto sia
importante ai fini della costruzione di una cultura e di una pratica politica
non violenta l'assenza in questo movimento del problema della conquista del
potere. Questa assenza estirpa alla radice una modalità di comportamento di
tanta parte del 900. Così come credo ti sia chiara la connotazione tutta
autenticamente pacifista della risposta del movimento alla terribile violenza
di Genova. Tutto questo oggi ci consente di aprire una discussione importante,
che però parte già da una reale diversità con il passato.
In poche e semplici parole credo che non si debbano
confondere le posizioni di alcune realtà organizzate e di alcune leadership che
pure hanno indubbiamente contribuito con l'introduzione e valorizzazione delle
differenze alla crescita del movimento con il movimento stesso. Nelle prime -
hai ragione - ci sono delle resistenze a questo confronto e quindi è giusto
dire che va aperto un dibattito di fondo. Ma il movimento ha già fatto la sua
scelta, l'ha fatta nei comportamenti di massa, nella sua prassi.
C'è un ultimo punto che mi preme chiarire in questo
nostro dialogo. La scelta non violenta non è solo parte di una cultura
politica. Essa deriva da una analisi dell'attuale contesa che divide il mondo.
Sia nella guerra preventiva dell'amministrazione Bush sia nel terrorismo si può
scorgere un disegno politico regressivo, si può intravedere un modello di
società distruttivo delle persone e della libertà. Sia Bush, sia i terroristi
sono pericolosi non solo perché violenti, ma perché portatori di una idea di
società che confligge con le istanze di cambiamento, con la prospettiva di un
altro possibile mondo.
Per questo penso che la non violenza che opponiamo a
questa violenza debba avere una valenza ed una forma politica. Possiamo pensare
per il futuro ad un neutralismo attivo nei confronti di entrambi? Possiamo
continuare su questo punto un dialogo fra noi e con altri?
Fausto Bertinotti
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LA GUERRA E' ORRORE
Venezia, sabato 13 dicembre 2003
Aula Magna IUAV - Architettura
Conclusioni di Fausto Bertinotti
Non è certo difficile comprendere e sottolineare il
valore di
un'iniziativa di Rifondazione comunista sulle Foibe. E
non mi
meraviglierò se essa susciterà discussioni e
contrasti. Per
noi la ricerca storica è obbligatoria ed è, in qualche
modo,
indistinguibile dalla battaglia politica quotidiana e
dalle
nostre passioni politiche. E' inutile, infatti, nascondere
il fatto
che in una ricerca storica condotta da militanti e da
un
partito, entra in discussione tutto quello che ci
anima, il
nostro spirito migliore. E dobbiamo lealmente
riconoscerlo.
Questa ricerca è dunque collocata dentro un processo
politico e di costruzione di una cultura politica. Un
processo
che Rifondazione ha iniziato da tempo e che riguarda
il suo
modo d'essere, la sua identità e la sua collocazione
sulla
scena politica. In poche parole la ricerca storica che
noi
vogliamo fare, anche parlando delle Foibe, non è
neutrale o
innocente. E quindi, naturalmente e giustamente, essa
deborderà sull'attualità politica, sugli atti che
faremo, su chi
siamo e chi vogliamo essere.
Senza attutire i dissensi, dunque, è per me comunque
importante che venga declinato e condiviso il punto di
partenza della nostra ricerca. E' del tutto evidente
che c'è,
ed è forte, un contrasto con i nostri avversari, con
la cultura
politica che essi esprimono, e con le forze che li
organizzano. Sarò su questo punto molto chiaro. Noi ci
fondiamo sulla negazione di ogni legittimazione del
fascismo, sull'analisi critica della sua storia e
anche di ciò
che di esso continua, sotto traccia, a corrompere il
tessuto
sociale e culturale del paese.
IL NOSTRO ANTIFASCISMO
Questo è un asse fondamentale della nostra fondazione.
Noi
siamo e rimaniamo radicalmente antifascisti. Di quella
esperienza e di quella storia rifiutiamo la
connotazione di
fondo per come si è manifestata in tempi solo
relativamente
lontani e come si manifesta, magari in forme diverse,
più
ambigue, oggi. E' questo -lo ripeto- un elemento
necessario
alla nostra fondazione. Riteniamo che l'antifascismo
vada
vissuto, attivato e proclamato.
Chiarito e proclamato questo punto dobbiamo fare i
conti
con noi stessi e farci una domanda. Come si fa ad
estirpare
il fascismo e i fascismi dalla storia dell'umanità? E'
questo il
quesito a cui rispondere per fare davvero i conti con
noi
stessi.
Il nostro antifascismo non è un omaggio alla storia -
anch'esso importante sia chiaro - , non è il ricordo
annuale
del 25 aprile. E' molto di più. E' la convinzione
della attualità
dell'antifascismo. E' la convinzione che esso sia
l'unica
religione civile del paese, l'unica capace di
costruire una
convivenza civile. Esso è il quadro necessario in cui
esercitare il contrasto ed il conflitto fra chi
accetta lo stato di
cose esistenti e chi vuole cambiare la società.
L'antifascismo
è un elemento fondamentale della civiltà di un popolo.
"L'ora
e sempre resistenza" di Calamandrei non è un urlo
o una
testimonianza. Essa manifesta pienamente la cultura di
un
popolo. Una cultura avversa alla colonizzazione da
parte
delle maggioranze e ad una propensione alla
esportazione
delle civiltà che va sorvegliata e messa sotto
controllo
altrimenti rischia di dominare e di dominarti.
E' questo uno dei motivi per cui, nel percorrere la
storia del
nostro Paese, non possiamo che militare dalla parte
della
critica ad ogni forma di patriottismo e ad una ogni
forma di
violenza, ammantata di patriottismo, che conduce alla
guerra. Una critica, questa, che possiamo manifestare
in
maniera sommessa e composta anche rispetto a quegli
elementi estetizzanti di patriottismo che si vedono
dalle
nostre parti, quand'anche indotte dallo stesso
Presidente
della Repubblica.
Teniamoci lontani, insomma, teniamoci lontani
attraverso
una forma di rifiuto, da ogni elemento di nazionalismo
ovunque praticato.
L'INGANNO DEL REVISIONISMO STORICO
E' questo bagaglio culturale che ci consente di
rifiutare
attivamente quel fenomeno assai rilevante, che ha
preso il
nome di "revisionismo storico". Quel
fenomeno che riguarda
l'Italia, molti partiti e molti intellettuali, ma che
riguarda
anche l'Europa e che può essere riassunto in questo
modo.
C'è anche del bene nel fascismo e c'è un pò di male
nella
resistenza. I due fatti storici si equivalgono o
quasi. E una
sorta di buonsensismo ammantato di presunta neutralità
e di
molte citazioni mette insieme fascismo e resistenza
per
negarli entrambi in nome di una posizione terza non
meglio
specificata. In realtà quel revisionismo non è
innocente. E' il
tentativo di demolire appunto la possibilità di fare
dell'antifascismo la costante religione civile di
questo Paese.
E' il tentativo di tirare una riga nella storia del
Paese al di là
della quale c'è la cancellazione di ogni ideologia, di
ogni
pensiero forte e la riduzione della politica a
variante interna
del dominio del mercato dell'impresa. In poche parole
il
revisionismo priva la politica della possibilità di
progettare
una società diversa.
GLI AVVERSARI DI OGGI
Antifascismo, come religione civile e rifiuto
dell'inganno del
revisionismo storico. Qui siamo collocati e da qui
partiamo.
Ma questa collocazione, insisto, che è fondamentale
nella
lotta politica culturale nel Paese, non ci aiuta a
dire come ne
diventiamo protagonisti nel futuro. Non ci aiuta a
questo
neppure la denuncia pure necessaria dei crimini del
fascismo. Ci sono molti fra di noi che su una
questione così
scottante e così drammatica come quella delle Foibe si
azzuffano su una questione di numeri. Badate che ogni
elemento di comparazione che facciamo con il fascismo
e
con le sue violenze non ci rende più forti. Ci
immeschinisce
e riduce la forza dirompente e alternativa
dell'antifascismo.
Se la differenza tra noi e il fascismo è solo di
grado; se ci
limitiamo, a dire: loro ne hanno uccisi mille e noi
solo cento,
la differenza fra noi diventa irrilevante. Noi siamo
antifascisti
perché siamo fondamentalmente diversi. Lo siamo nella
visione del mondo, della società, delle donne e degli
uomini.
Non è una questione di grado o di numeri.
La denuncia dei crimini del fascismo può diventare un
elemento fuorviante, se non addirittura negativo, se
attraverso di essa si tende ad evitare di fare i conti
con la
nostra storia e ci mette sostanzialmente sullo stesso
piano.
Il lavoro sulla memoria e sulla storia è fondamentale.
Il
problema delle radici è vitale per immaginare il
futuro per
tutti. Per una comunità, per un popolo, per una
formazione
politica, per una cultura. Ma lo studio delle radici,
l'uso della
memoria, oltre che della storia, non può ridursi a
rassicurare
la tua identità e la tua esistenza. La storia non è
una cuccia
calda dentro cui sei al riparo dalle intemperie del
tuo tempo.
Anche perché gli avversari cambiano. Cambiano anche
quando resta il mondo dominato da una formazione
economico sociale capitalistica. Non è vero che ogni
stagione ti mette di fronte agli stessi avversari e
agli
stessi problemi. Anzi. Per questo non esistono
rassicurazioni nella storia.
Oggi, battere il fascismo -parlo del fascismo come lo
abbiamo conosciuto alcuni decenni fa, non parlo delle
politiche fascistizzanti, o degli elementi fascistoidi
che
persistono- battere quel fascismo è fin troppo facile.
E'
capace perfino Fini. E' chiaro il punto? Il nostro
avversario di
oggi non è il fascismo, cosa che appunto ci indurrebbe
a
gridare ancora una volta quelle colpe che i loro
stessi eredi
non sono in grado di contestare. I nostri avversari
oggi, in
questa fase della storia, sono la guerra e il
terrorismo. Il
mondo in cui viviamo, il mondo capitalistico in cui
viviamo,
che è il risultato di una rivoluzione capitalistica
restauratrice,
che chiamiamo globalizzazione, non è più in grado di
governare il consenso. Da qui prende corpo una vera e
propria crisi di civiltà che può risolversi in
catastrofe. E,
quando affermo questo, ci tengo anche a precisare che
non
è detto che la catastrofe possa risolversi
automaticamente in
comunismo.
Questa coppia guerra-terrorismo che sequestra
monopolisticamente la violenza, questa realtà, ci
mette di
fronte ad un problema assolutamente inedito. Noi non
possiamo pensare di battere questa violenza
monopolizzata
con la guerra. La violenza, in ogni sua variante,
quale che
sia il giudizio morale, risulta inefficace perché
viene
riassorbita dalla guerra o viene riassorbita dal
terrorismo
mettendo fuorigioco la politica. Questa coppia
costringe a
ripensare la nostra storia per trovare le forze e i
modi per
batterla. È una lotta di civiltà, è una lotta nella
quale lo
stesso importante problema della trasformazione prende
corpo in modo inedito. Oggi, di fronte alla
possibilità di una
catastrofe dell'umanità, siamo obbligati ad indagare
sulla
violenza, sul suo ruolo nella storia, sul suo ruolo
oggi o nel
futuro dell'umanità.
LA RESISTENZA ALLA VIOLENZA
E da dove partiamo? E' stato affermato che "con
Auschwitz
Dio è morto". Un modo di dire non solo per i
credenti, che
non è più immaginabile una violenza come quella. Poi
c'è
stata Hiroshima, la violenza di chi ha vinto contro il
nazismo.
Un passaggio drammatico, terribile. La violenza per
battere
la morte produce altra morte. Era legittima Hiroshima?
Potremmo rispondere di sì perché meno distruttiva di
Auschwitz e del nazismo. Perché il nazismo è
intrinsecamente distruzione, sistematica oppressione e
violenza generalizzata. Auschwitz è la sua cattedrale
e la
realtà. E' il genocidio.
Hiroshima no. Questa differenza c'è e conta. Hiroshima
non
aveva come fine l'annientamento. Era un modo terribile
e
violento di opporsi ad esso. Ma non basta fermarsi a
questo.
Andiamo avanti. Che cosa determina nei vincitori
Hiroshima? Come agisce nelle culture di fondo? Cosa
produce? E ancora, noi -nel senso di movimento
operaioche
non siamo né Auschwitz né Hiroshima, in quel contesto
siamo stati angeli ? Noi, intesi come soggetti della
storia,
siamo stati contaminati da quella violenza? E oggi
l'esigenza
del balzo per combattere un mondo organizzato sulla
guerra
e sul terrorismo, non ci chiede di estirpare anche la
violenza
che è entrata in noi e dalla quale siamo stati
contaminati da
parte di un avversario dominante nella storia del
mondo?
Credo abbia ragione un grande intellettuale come
Walter
Benjamin quando dice: rapportiamoci col passato con il
balzo di tigre, torniamo indietro per scattare di
nuovo in
avanti verso il futuro. E allora, nelle tracce di
resistenza alla
violenza in nome della liberazione noi dobbiamo
attingere
per compiere questo salto.
Su questo, è vero, dobbiamo pensare e ragionare di
più.
Dobbiamo ragionare e ricercare di più su quello che è
già
stato fatto nella nostra storia per liberarci dalla
violenza
perché, la mia impressione è che spesso questo tipo di
analisi è stata ignorata preferendo altri filoni di
ricerca.
C'è una faccia meno nota della resistenza, di quella
resistenza di cui sono cantate le gesta eroiche, vittoriose
e
combattenti. Un lato che è rimasto in ombra, che è
quello
delle relazioni quotidiane, del tentativo di sottrarsi
ad una
violenza che pareva insormontabile. Questa dimensione
c'era, anche se mi guarderei bene dal dire che era
prevaricante rispetto a quella del conflitto, di un
conflitto
drammatico e tragico. Ma pensiamo a Cesare Pavese, ai
passaggi nei suoi libri che riguardano il momento
della
resistenza, il suo orrore per la morte e per il
sangue. C'era
un ritrarsi, un senso di inadeguatezza, un timore.
Pure era
un partigiano. Pensiamo ad un uomo cui siamo stati
molto
legati, a Luigi Pintor e al suo libro Servabo. Quando
è sul
punto di prendere le armi contro i fascisti, lo fa, ma
nel
compiere quel gesto ne sente l'orrore. Ecco vorrei che
qui ci
fermassimo a riflettere. Non sto dicendo che in quel
momento, in quei momenti così terribili, non si doveva
premere il grilletto. Sto dicendo un'altra cosa. Sto
dicendo
che non dobbiamo mettere sullo stesso piano quello che
è e
che si sente come dovere di fronte alla storia e il
tuo essere
umano, la tua umanità, politica e culturale. Che una
distanza
critica va presa, con coraggio. Che la tua umanità va
salvaguardata. Quasi per anticipare, in quell'atto di
resistenza, una liberazione che nel momento di premere
il
grilletto è impossibile, ma domani può avverarsi.
Pensiamo ancora alla Repubblica d'Ossola. Sono di
quelle
parti quindi ho sentito tante volte i partigiani
raccontare le
loro storie quando sono entrato nella Camera del
Lavoro e
avevo 22 o 23 anni a Novara. Ricordo i capi della
Camera
del Lavoro, erano carichi di storia, mi sembravano
vecchi e
avevano quarant'anni, ma sembravano venire da un altro
mondo. C'era anche chi si chiamava ancora
"comandante" e
raccontava molte di quelle storie della resistenza.
Lui le
raccontava, ma c'era chi preferiva il silenzio, chi
preferiva
non parlarne più. Ricordo uno splendido comandante
partigiano Gino Vermicelli. Lui non raccontava quasi
non
volesse essere riattraversato dalla violenza a cui era
stato
costretto, quasi temesse che parlare di quella guerra
che
aveva fatto e per cui era diventato famoso lo
riportasse a
quel clima, a quella violenza.
Ma insieme a quelli che non raccontavano c'era chi
amava
parlarne, che raccontava magari con piglio guerriero
quanti
ne aveva sterminati fisicamente e come. Dico questo
per
arrivare ad una conclusione evidente. Anche i
partigiani,
come tutti, hanno sensibilità diverse, umanità
diverse. Esse
sono racchiuse in una storia collettiva naturalmente.
Ma in
questa storia collettiva possiamo trovare molti
momenti,
molte indicazioni di una distanza dalla violenza, di
un
pensiero che la respingeva, di un sentimento di pudore
rispetto a gesti considerati eroici, di un tentativo
di costruire
altro da quello che si era stati costretti a compiere.
Mi colpiva
il fatto che Vigorelli, diventato Ministro di
giustizia, poche
settimane dopo che i fascisti gli avevano ucciso il
figlio, si
era battuto sistematicamente perché non ci fosse
alcuna
condanna a morte. Noi, noi allora giovani, eravamo
affascinati da entrambi gli atteggiamenti, da quelli
guerreschi, eroici, di chi raccontava ancora con
orgoglio
quelle gesta e da quelli più silenziosi esplicitamente
o
implicitamente critici non nei confronti di quei
gesti, ma di
quella violenza che continuava a vivere in una cornice
guerresca. Ma in realtà sul lato non militare di
quella
resistenza non si è indagato abbastanza. Abbiamo
preferito
fare un'operazione di "angelizzazione" della
nostra parte.
Sfidati dalla brutalità del fascismo e dalla sua
violenza,
abbiamo preferito pensare che un'alternativa umana ad
esso fosse già compiuta dopo esserci liberati da quel
terribile evento. Questa retorica e questa
angelizzazione
non ci hanno aiutato ad indagare nella nostra storia
per
ricavarne risultati per il futuro. Hanno invece fatto
sì che da
un lato disperdessimo le lezioni più straordinarie che
dentro
quel percorso potevano annunciare il futuro, e,
dall'altro, che
negassimo le violenze della nostra storia e della
nostra
parte.
LE FOIBE
Parliamo delle Foibe, dell'oggetto di questo convegno.
Noi
oggi facciamo una cosa impegnativa. Mettiamo insieme
conoscenze diverse, storie diverse e naturalmente non
ci
possiamo sottrarre ad un'analisi del caso. Sapendo
bene
che dai conti con questa storia deriva un risultato
politico,
una conseguenza per noi, per quello che vogliamo
essere.
Partiamo dal fatto. Mi pare che su di esso non
esistano
grandi differenze. Le Foibe sono state un fenomeno
drammatico che ha investito la Venezia Giulia nella
transizione tra guerra e dopo guerra e che ha una
specificità
insieme politica e etnica. In esse si cumula un
groviglio, un
concentrato di violenza che parla un linguaggio più
generale. Mi pare che non ci siano dubbi sul carattere
paradigmatico di quella tragedia e di quella violenza.
Quando parliamo delle Foibe i numeri non servono a
nulla. I
numeri sono muti, non servono a capire fino in fondo
la
natura del fenomeno. Perché da tanti anni proprio sui
numeri
c'è una violenta diatriba? E' evidente. Se si fa una
manipolazione verso l'alto e si parla di 350.000
vittime delle
Foibe si accredita la tesi che si è di fronte ad un
genocidio,
un genocidio nazionale. Al contrario la manipolazione
verso
il basso tende a configurare l'idea che in quelle
fosse
c'erano solo fascisti colpevoli che con metodi, sia
pure
discutibili, hanno avuto la loro punizione storica.
Io penso che in una ricostruzione storica avvertita,
si
configuri un fenomeno che non è riportabile né al
genocidio
né alla giusta punizione di qualche rigurgito
fascista. Noi
siamo stati di fronte ad un fenomeno di violenza
concentrata
che colpisce soprattutto le aree di Trieste e di
Gorizia nel 43
e nel 45, e che in entrambi i casi si manifesta nel
crollo di
una struttura di potere, di oppressione nel tentativo
di
sostituire a questo sistema oppressivo che crolla un
nuovo
ordine. Il trapasso cruento di potere tra regimi
contrapposti
dà luogo ad una violenza che va indagata per quello
che è
e che, secondo me, è il frutto di alcune componenti.
La prima su cui insistono molto le tesi giustificazioniste
parla
di una sorta di furore popolare, una specie di
riscatto da una
lunga storia di violenze, un'imitazione delle violenze
subite.
Non è la prima volta che questo accade nella storia.
Vorrei
ricordare che nella prefazione ad uno dei più
straordinari libri
scritti contro il colonialismo, il libro di Franz
Fanon "I dannati
della terra", uno dei più grandi intellettuali
europei, secondo
me del dopo guerra, Jean Paul Sartre avanza una tesi
da cui
io, all'epoca, ho sentito tutto il grande fascino e
che oggi vivo
come aberrante. La tesi in altre parole secondo cui il
colono
non può esistere, non può ricostruire la sua identità
se non
con la uccisione del colonizzatore. E si parla proprio
dell'uccisione, dell'omicidio per costruire su quello
l'esistenza dell'oppresso. Nel caso delle Foibe siamo
vicini a
questa tesi. Chi ha subito l'onta, l'onta di quella
distruzione,
la rovescia contro l'avversario storico. Ma,
francamente,
accanto a questo furore popolare io non riesco a non
vedere
anche una volontà politica organizzata, legata ad una
storica
idea di conquista del potere, di costruzione dello
Stato
attraverso l'annientamento dei nemici.
Non si tratta di un'idea perseguita in parti isolate
del mondo.
Faccio notare che gran parte della storia delle
costruzioni
statuali del movimento operaio nel 900 è passata
attraverso
l'idea della distruzione fisica del nemico.
Se questa interpretazione ha un qualche fondamento io
penso che noi dobbiamo avere il coraggio non solo,
come
stiamo facendo, di dire la verità, ma -e su questo
punto
insisto- di non trovare alcun elemento di
giustificazione
nell'orrore che gli oppressori avevano realizzato
precedentemente per giustificare l'orrore che vi fu
dopo.
Lo dico e lo chiedo non in nome di una tensione verso
la
verità, ma in nome di qualcosa di ugualmente se non
più
importante: una diversa idea della politica e della
lotta di
liberazione.
DUE ORRORI: GUERRA E TERRORISMO
Questo nostro incontro è titolato: "La guerra è
orrore". Vorrei
che ci pensassimo. L'orrore per la guerra contiene un
elemento importantissimo per la riforma della nostra
cultura
politica, perché ci aiuta a capire il passato e il
presente. Io
non credo, e sono in disaccordo con chi tra noi invece
lo
pensa, che si possa pensare che il terrorismo è
giustificato
dalla guerra.
Io non penso che in un mondo che si tenta di governare
attraverso la guerra preventiva, e cioè una guerra
infinita e
indefinita, il terrorismo acquisti una sua
legittimità. Sono
totalmente avverso a questa idea. Il terrorismo è
espressione di una strategia che si contrappone, in
questo
caso, alla guerra o a chi occupa un paese in nome
della
guerra, attraverso le manifestazioni di ciò che viene
definito
terrore. Organizza il conflitto e la distruzione su
obiettivi
sociali e civili del paese. Questo è il terrorismo.
Una
soggettività politica precisa, non una derivazione,
non la
conseguenza spontanea e pulita alla guerra. C'è chi fa
la
guerra e dall'altra parte si costituisce una potenza
simmetrica con un progetto politico proprio che
possiamo
leggere anche su internet. Questo progetto politico
recluta
delle forze, organizza delle resistenze, stabilisce
una
strategia di lotta e la attua.
Entrambi questi soggetti politici, il governo
imperiale e il
governo terrorista, non sono, secondo me, solo
repellenti
perché uccidono, producono morte e distruzione, sono
repellenti perché disegnano e prefigurano una società
nella
quale noi non vorremmo vivere. Questo è il punto.
Oggi i mezzi sono inscindibili dai fini, sono due
facce della
stessa medaglia. Chi ragiona così non è un patriota.
Ebbene
non me ne importa niente. Non è, non sono un patriota.
Voglio cambiare il mondo, che è altra cosa dalla
guerra, ma
anche dal terrorismo. E non ho nulla da spartire con
entrambi perché penso che non ne condivido né il
metodo
né il fine, anzi, addirittura penso che il terrorismo
e la guerra
comandano un processo con il quale si tende ad
escludere
le masse dalla politica. Essi chiedono la
cancellazione della
politica come progetto, come soggettività organizzata,
come
partecipazione delle classi, delle masse, dei popoli,
delle
persone. Non voglio avere nulla a che fare con
entrambi
perché gli uni, dentro la Casa Bianca, e gli altri,
dentro non
so quale luogo, pretendono di decidere le sorti
dell'umanità
e dei popoli dal loro luogo di comando. Non è vero che
il
terrorismo parla in nome di popoli oppressi. Mai è
esistito un
luogo della strategia così separato dai paesi, dai
popoli e
dalle masse come questo. Esso è un avversario storico
non
solo nostro, ma dell'umanità. La guerra e il terrorismo,
sono
due soggetti politici, non è vero che il secondo è un
derivato
della prima. Come si contrastano? Con la pace. Con un
popolo della pace.
Allora, se è così, e per me è così, non posso non
riesaminare anche la mia storia, la mia grande ma
anche
terribile storia. Bertold Brecht dice tante cose, ma
mi
soffermo su due. Dice: "Beati i popoli che non
hanno
bisogno di eroi". E poi: "Noi che abbiamo
voluto il mondo
della gentilezza non abbiamo potuto essere
gentili". Quindi
abbiamo preferito essere eroi. Capisco entrambi le
frasi di
Brecht ma quale noi dobbiamo privilegiare oggi, qui e
ora?
"Non abbiamo potuto essere gentili" o
"beati i popoli che non
hanno bisogno di eroi"? Io penso che per ragioni
che
riguardano la città futura, noi non possiamo che scegliere
la
seconda: "beati i popoli che non hanno bisogno di
eroi" e
comportarci di conseguenza.
QUEL CHE NON HA FUNZIONATO
Se è così allora bisogna vedere anche che cosa non ha
funzionato in noi, perché poi ci ritroviamo con questa
guerra
e con questo terrorismo. Io credo, che nel 900 noi
abbiamo
perso. Ha perso la nostra gente, la nostra storia, la
nostra
cultura politica. Nel 900, il secolo in cui si è
realizzata il più
grande tentativo di scalata al cielo e di ascesa delle
masse
nella politica, e il tentativo del proletariato di
superare la
società capitalistica, cioè la società dello
sfruttamento e
dell'alienazione, noi abbiamo perso. La partita nel
900 si è
conclusa con una sconfitta. E' solo colpa
dell'avversario?
Guardate che se diciamo così andiamo a casa, chiudiamo
la
porta e buttiamo la chiave. Se l'avversario è
indefinitamente
più forte di noi è inutile continuare a parlare. Se
invece la
storia si fa anche con i "se" allora si può
cercare di capire
dove abbiamo accumulato degli errori che hanno contribuito
alla sconfitta.
La proposta che facciamo non è una nostra invenzione.
Mentre la globalizzazione pareva vincere, il pensiero
unico
aveva il dominio totale del mondo e noi eravamo una
minoranza sparuta di resistenti, è nato un movimento
di
critica alla globalizzazione che ha attraversato il
mondo da
Seattle, a Genova, a Firenze e che è diventato il
movimento
della pace. La storia è ricominciata, ed è
ricominciata così.
Si è trovata una forma di contestazione di massa,
tendenzialmente non violenta al dominio della
globalizzazione capitalista e alla guerra.
Ma allora in quel 900 nella nostra storia c'era anche
qualcosa che non funzionava? Siamo così sicuri che era
proprio necessario massacrarli quelli di Kronstad?
Siamo
così sicuri che per salvare il nuovo stato post
rivoluzionario
andavano massacrati? E siamo così sicuri che per
difendere
la rivoluzione bisognava costruire degli stati
autoritari?
Siamo sicuri che lo stalinismo fosse proprio la
risposta
necessaria a quella fase? E che il mantenimento delle
tracce
dello stalinismo che si sono da lì irradiate non siano
state un
elemento, invece, di corrompimento drammatico
dell'alternativa possibile e necessaria del comunismo
al
capitalismo? E siamo così convinti che il gulag o non
esistevano oppure erano solo un modo per tenere a
freno gli
egoismi di popolazioni che non capivano il comunismo?
Oppure invece era una modalità attraverso la quale una
idea
nata per liberare si rovesciava nel suo contrario in
un regime
oppressivo?
Quando parliamo di gulag parliamo di 20 milioni di
persone
sterminate, di cui la metà comunisti. Vorrei che
qualche
brivido ci attraversasse.
Ma al di là dei numeri terribili quello che è
successo, quello
dolente, molto sofferto, in cui diceva: "Questo
mio popolo è
proprio spogliato di tutto. Non può muoversi, non può
lavorare, non può costruire. Dipende dallo Stato
israeliano,
se gli viene aperto il passaggio, se gli viene aperta
l'acqua,
se gli viene aperto il lavoro. Ma adesso c'è una cosa
ancora
più terribile. La barbarie dell'oppressione dei
coloni,
dell'esercito israeliano, ha imbarbarito anche una
parte della
mia reazione, della reazione della mia gente. Quella
tensione barbarica entra anche in qualche misura
dentro di
me".
Questo punto di osservazione non è un atto di nobiltà.
E'
una lucida analisi politica. Senza estirpare da noi
questo
elemento di penetrazione dell'avversario, del suo
linguaggio,
della sua logica, della sua cultura non vinciamo e
rischiamo
di assomigliargli troppo. Troppo. E in questo caso,
qualora
anche vincessimo saremmo in realtà in larga misura
figli di
quella storia che è il contrario di una storia di
liberazione e
di emancipazione.
E poi c'è un elemento che riguarda noi, che riguarda
la
nostra storia, l'idea cioè che le Foibe ci possono
capitare
addosso non solo per imbarbarimento indotto
dall'avversario, ma perché nessuna cultura forte è
immune
dalla propensione fondamentalista. Tanto più pensiamo
di
avere un'idea del mondo, tanto più è radicata l'idea
di
alternativa, di diversità, di un altro mondo possibile,
tanto più
è alto il rischio che si possa accedere alla
scorciatoia
fondamentalistica di imporre con ogni mezzo questo
esito.
E' in questo modo che chi pensa di dover esportare una
civiltà fa la guerra.
Vorrei poter dire anche ai compagni più avversi a questa
linea di ricerca, che come vedete non è vero che noi
vogliamo disfarci del passato, ma vogliamo scegliere
un lato
del nostro passato contro un altro ed esaltarlo al
punto da
farlo diventare una pratica sociale, politica e
culturale.
Nessuno di noi propone di ricominciare da capo. Noi
proponiamo, sulla base dell'analisi secondo cui il
capitalismo
sterminio significa che qualche cosa non ha funzionato
o
no? Oppure si è trattato di una perversione orientale,
cadendo la quale tutto può tornare al posto giusto? O
non
dobbiamo pensare invece che c'è un rapporto tra
Kronstadt,
il gulag e qualche cosa che ha a che fare anche con le
nostre storie e magari con le Foibe? Non parlo di un
rapporto
meccanico, ma di una cultura che consentiva l'idea di
un
esercizio del potere e una idea dell'avversario come
nemico
da fronteggiare, appunto, in termini prevalentemente
militari?
So che alcuni fanno una similitudine fra i campi di
sterminio
e i gulag, fra nazismo e comunismo. Non funziona. Il
nazismo è un sistema costruito per l'oppressione, che
nasce
e vive sull'oppressione e si esaurisce
nell'oppressione di
classe, di Stato, di etnia, sistematicamente e
organicamente. Auschwitz è il suo paradigma. Il gulag
non è
il paradigma del comunismo, il gulag è la
manifestazione
estrema di una contraddizione che il comunismo si è
portata
nella pancia e che è determinata da una idea del
potere e da
una idea della violenza. Su questa idea del potere e
su
questa idea della violenza noi dobbiamo fare una
revisione
coraggiosa.
E' questo, io credo, il passaggio che noi siamo
chiamati a
fare, non per essere meno comunisti, ma semplicemente
per cercare di essere comunisti.
RIFIUTIAMO LA BARBARIE DEL NEMICO
Ora se guardiamo a ciò di cui stiamo discutendo
possiamo
affermare due cose. La prima riguarda il
condizionamento
esterno del nostro avversario, quanto la natura del
nostro
avversario incide su di noi. Tema oggi attualissimo. A
me ha
fatto molta impressione l'articolo di un dirigente
palestinese
che stimo molto, Ali Rashid, che in un momento
particolarmente drammatico in cui Hamas aveva compiuto
uno dei molti attentati terroristici ha scritto un
articolo
oggi, porta la guerra come il temporale porta la
pioggia, di
sottrarci non solo alla guerra, ma alla cultura della
guerra,
alla cultura del potere che è connessa a quella della
guerra.
E' un potere gerarchizzato, onnipotente quello a cui
viene
delegata la sorte della partita. Noi pensiamo che la
partita la
debbano giocare le moltitudini, le masse e le classi,
non lo
stato maggiore. Questo è il punto chiave. Se c'è uno
stato
maggiore c'è un regime possibile di guerra.
Allora, quelle che appaiono culture deboli e soggetti
deboli,
noi dovremo saperlo per nostra storia, sono i
portatori del
futuro. Perché la classe operaia è il soggetto del
cambiamento se non perché esprime la realtà dello
sfruttamento e dell'alienazione? E non riposa su di
essa la
possibilità, attraverso la rivolta e la rivoluzione,
della
liberazione? Ma se è così non c'è già,
nell'antropologia
marxiana il rovesciamento del forte con il debole,
perciò noi
siamo forti se siamo deboli, noi siamo egemonici se
siamo in
grado di valorizzare le diversità? Ma perché la
periferia
diventi il centro bisogna che la radicalità sia
iscritta in una
pratica di non violenza. Il massimo di radicalità oggi
si può
esprimere solo con la non violenza, altrimenti
retrocede
immediatamente a braccio armato e si inserisce nella
dialettica guerra-terrorismo. Diventa la fine della
politica. Se
oggi facessimo quella scelta, se fosse in qualche modo
compresa nelle nostre possibilità, sarebbe la
devastazione
nostra, del campo e della politica.
Ieri era una tragedia e per questo possiamo ragionarci
al fine
di poterla estirpare dalla nostra storia valorizzando
invece gli
altri elementi che sono descritti nella storia
partigiana, della
resistenza, della costruzione delle comunità e poi,
via via,
della grande ascesa delle lotte di massa, della
nascita del
femminismo.
Se oggi dovessimo accettare la violenza essa
ammazzerebbe soprattutto noi. Per questo, io credo,
noi
dobbiamo liberarcene facendo i conti interamente con
la
nostra storia.
Fausto Bertinotti
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da La Repubblica del 27-12-'03
Condanna dei gulag, non violenza assoluta: la lunga
marcia del segretario di Rifondazione
Dal proletariato ai no global la Bad Godesberg di
Bertinotti
In articoli e convegni l´allontanamento dal solco
della tradizione comunista
Il segretario nega ogni volontà di abiura, ma recide i
legami con l´ideologia
La "scoperta" delle foibe: "Anche da
parte dei giusti, soppressione di umanità"
di GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA - Anche abbandonare una storia, rimanere
comunisti di nome ed esserlo sempre meno di fatto, è una lunga marcia. E lenta,
e problematica, a volte noiosa nello sforzo di essere una cosa seria, non una
"svolta" da annunciare in tv e basta. Fausto Bertinotti scrive,
risponde, puntualizza, corregge spostando sempre un po´ più in alto
l´asticella, magari solo di qualche centimetro alla volta ma a lui sembra
l´unico modo per saltarla davvero. Niente abiure, nel frattempo continuiamo a
dirci comunisti, avverte. Si può? Lui dice di sì, declinando in maniera nuova
il concetto, la storia, contagiandola con la realtà. È una Bad Godesberg allungata,
una corsa a tappe, non uno sprint, che si arricchisce ogni giorno di
ragionamenti, lettere, interviste, convegni, di tante "svolte". È il
"confronto delle idee" nel solco dell´unica parte della tradizione
comunista, quella intellettuale, che il segretario di Prc ha deciso di salvare.
Ovviamente il comunismo è stato qualcosa di più del confronto delle idee. È
stato culto, ideologia, "religione", si è fatto tragicamente Stato
per milioni di uomini. E qui il segretario di Rifondazione non ha dubbi: la statua
deve lentamente ma inesorabilmente venire giù.
In questi ultimi due anni, Rifondazione ha scattato
alcune nuove fotografie della storia comunista condannando il massacro di
Kronstadt e i gulag, "15-20 milioni di persone sterminate".
Cancellando dal suo Statuto i richiami allo stato leninista e agli insegnamenti
di Gramsci. Rileggendo la Resistenza "per lavorare sui nostri
errori". Scoprendo le foibe e ammettendo che sono state per tanto tempo
"minimizzate". Impegnandosi quindi a sciogliere il legame con il ?900
e scegliendo l´adesione a una logica totalmente non-violenta della politica.
Non caso Bertinotti ha "ripudiato" gli episodi più cruenti della
storia comunista. L´approdo è quello del pacifismo assoluto, è il suo indirizzo
offerto ai movimenti, alla piazza, ai no global.
Durante il cammino, la domanda è sempre stata la
stessa: bene, allora siete pronti a cambiare nome, ad abbandonare la
"ragione sociale" comunista? Anche la risposta di Bertinotti è
rimasta uguale: "Noi siamo comunisti". Ma con mille punti
interrogativi, critici, problematici. Non quelli del secolo scorso. Oggi il
comunismo di Bertinotti è un "processo aperto e indefinito", come ha
scritto in una lunga lettera di risposta a Adriano Sofri sull´Unità. Una
definizione di per sé rivoluzionaria visto che il comunismo non aveva niente di
indefinito, era regola, disciplina, autoritarismo. Basta rileggere, 64 anni
dopo, Buio a mezzogiorno di Koestler. Se è così, se il comunista di oggi
dev´essere tanto diverso da quello di ieri per stare nel mondo del terzo
millennio, Sofri chiede al segretario di Prc se sia giusto usare la falce e
martello solo come bandiera o nostalgia. Bertinotti parla di nuovi obbiettivi,
di un cambio di soggetto politico dal proletariato al "movimento dei
movimenti". Ma alla fine allarga le braccia: "Non saprei come
chiamare questo compito se non comunismo".
Eppure sempre di più di comunista Bertinotti lascia
che nella vicenda di Prc rimanga soltanto il nome. Viene reciso il cordone
ombelicale con l´ideologia, con il "grande cambiamento promesso" nel
nome del quale il comunismo ha perpetrato i suoi "orrori".
Nell´intervista a Repubblica sul dibattito aperto da Sergio Segio a proposito
delle possibili infiltrazioni Br nel movimento, Bertinotti ha usato le forbici
della memoria: "Non mi appartiene più il Brecht che diceva: Vogliamo un
mondo gentile ma per averlo non possiamo essere gentili". Oggi la scelta
non può essere altra che respingere ogni atto di violenza". Dopo quelle
parole ha aperto un confronto con Marco Revelli e Paolo Mieli sui rapporti tra
comunismo e violenza politica. E ha rialzato l´asticella organizzando a metà
dicembre a Venezia un convegno sulle foibe, "minimizzate", esempio di
come anche "dalla parte dei giusti c´è stata oppressione e soppressione di
umanità", l´occasione per "estirpare la violenza entrata in
noi". Quell´appuntamento ha celebrato anche rivisitazione di alcuni
passaggi che il comunismo italiano aveva trasformato in bandiere indelebili.
"C´è stata un´angelizzazione della Resistenza. Sarà pure un problema se
Pavese scrive del suo orrore per il sangue e Pintor ci racconta del ribrezzo
per le armi", ha detto a Venezia il leader di Prc. E lì ha unito gulag,
lotta di liberazione italiana, il massacro di migliaia di italiani per mano dei
partigiani fedeli a Tito, per condannarli, per "non giustificarli".
Lo ha fatto nel nome dell´anticomunismo? No, lo ha fatto perché è
"comunista davvero".
Il travaglio personale e collettivo è accompagnato da
una prudente ed elaborata "operazione politica", il lento avvicinarsi
ai movimenti, soggetto politico che "non ha niente a che vedere con la
storia del ?900", diffidente verso i partiti, verso il Palazzo, verso il
passato compreso quello comunista che fu più partito di tutti fino a
trasformarsi in partito-stato. Nel collegamento con la piazza l´iconografia
comunista appare dunque un peso e quello spazio lasciato libero dall´uscita di
scena di Sergio Cofferati candidato a Bologna va guidato con parole d´ordine
chiare (la non violenza) ma con il massimo di apertura e indefinitezza. La
prossima tappa è dietro l´angolo: il 10 e l´11 a Berlino Rifondazione, i
comunisti francesi, gli spagnoli di Izquierda unida e il Pds tedesco firmano un
protocollo d´intesa per le elezioni europee. Si presenteranno con i loro
simboli ma sotto l´insegna di "partiti della sinistra alternativa".
Dopo il crollo della statua, vacilla anche la targa, il richiamo al comunismo.
la Repubblica
27 dicembre 2003
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da Liberazione 28-12-'03
non-violenza
Ricordiamoci di Turati e Jaurés
Caro Curzi, noto che va per la maggiore nel nostro
partito una nuova ideologia, l'ideologia della nonviolenza, secondo cui d'ora
in poi in ogni circostanza storica che si presenterà ed in ogni luogo della
Terra si deve rifiutare l'uso della forza e della violenza, e addirittura si
devono bandire dal lessico politico termini come battaglia, guerra di
posizione, tattica, strategia schieramento, lotta etc. etc., un vero e proprio
pacifismo assoluto. Mi auguro che il nostro partito abbia ancora una coscienza
comunista sufficientemente salda da saper rigettare questa visione schematica
ed antistorica. Dobbiamo forse ricordare che il riformista Turati, nell'Inno
dei Lavoratori, scriveva "guerra al regno della guerra" e che J.
Jaurés (anche lui socialista) diceva che il capitalismo porta con sé la guerra
come le nuvole portano con sé la tempesta? Naturalmente, qui ed ora (oggi come
oggi, in Italia ed in Europa), il terreno di lotta è quello democratico e non
violento, ma ad es. in Iraq è diverso e dobbiamo sempre essere preparati al
peggio (se dovesse tornare il fascismo...).
Pablo Genova Pavia
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da Liberazione 30-12-'03
Quell'articolo di "Repubblica"
su comunismo e rifondazione
Caro direttore, sono rimasto sconcertato dall'articolo
apparso su "La Repubblica" di sabato 27 dicembre ("Dal
proletariato ai no global, la Bad Godesberg di Bertinotti") e ancor più
sconcertato dal fatto che "Liberazione", il giorno dopo (28
dicembre). abbia ripubblicato lo stesso articolo senza un filo di commento.
Goffredo De Marchis, l'autore dell'articolo, è abile nel far emergere la sua
verità: e cioè che il Prc avrebbe intrapreso una sua "lunga marcia"
per fuoriuscire dal comunismo ("Sempre di più di comunista Bertinotti
lascia che nella vicenda di Prc rimanga soltanto il nome"). Sono
affermazioni pesantissime, secondo le quali i militanti e gli elettori del Prc
non si troverebbero di fronte ad un cambiamento di linea politica, ma di fronte
ad un avanzato processo di cancellazione della natura politica e teorica del
loro partito, e cioè di fronte ad un nuovo tentativo di superamento, in Italia,
del Partito comunista. A questa "elaborazione" de "La
Repubblica" (che già svolse un ruolo centrale nella cancellazione del Pci)
occorreva rispondere, denunciando la strumentalizzazione che sale ancora una
volta dalle pagine di una testata anticomunista. Quando si ripropone un
articolo così pesante di un'altra testata, senza decodificarlo e criticarlo, si
rischia di inviare ai propri lettori un messaggio oggettivo, che è,
tradizionalmente, questo: "è un articolo importante, che vi proponiamo per
farvi riflettere". Poiché sono convinto che non è questo il messaggio che
"Liberazione" voleva inviare, sono anche convinto che sia stato fatto
solo un errore nel pubblicarlo così nudo e crudo. Un errore che però va
corretto, rispondendo chiaramente a De Marchis e, per la verità, anche a tutti
i compagni e le compagne sconcertati e inquietati.
Fosco Giannini
Caro Sandro, devo dirti che fa un certo effetto
rileggere il giorno dopo sulle colonne del giornale del partito l'articolo di
Repubblica su "la lunga marcia del segretario di Rifondazione", dove
viene attribuito a Fausto Bertinotti l'impegno defatigante e anche un po'
noioso di "rimanere comunista di nome e di esserlo sempre meno di
fatto". L'approdo di un comunismo del terzo millennio che sfuma in un
processo aperto e indefinito, segnato dal lento avvicinamento ai movimenti, e
verso il pacifismo assoluto... Immagino che i commenti e forse la replica
dell'interessato verranno i prossimi giorni. Non credo che si tratti di una
questione personale di Fausto, ma della descrizione deformata e tradotta nel
politichese imperante, di una questione che riguarda tutto il partito e le sue
scelte congressuali e post congressuali. Nella sostanza si tratta né più né
meno della rifondazione per cui è sorto il nostro partito, con l'apporto fin dall'inizio
di forze politiche e intellettuali che non avevano aspettato la caduta del muro
per esprimere una critica profonda e radicale del socialismo reale. E non mi
riferisco solo a chi si richiamava esplicitamente alle tradizioni eretiche del
comunismo novecentesco, ma anche alle esperienze di provenienza sessantottina,
alle culture maturate nel crogiuolo che è stata la sinistra sindacale negli
anni sessanta e settanta, all'elaborazione innovativa di settori della sinistra
comunista e socialista italiana, da Lelio Basso ad Aldo Natoli, da Pietro
Ingrao al "manifesto", al dissenso di matrice cristiana. Anzi c'è da
meravigliarsi, in un certo senso, che sotto l'urgenza delle esigenze di una
politica di resistenza, un progetto di ripensamento radicale dell'eredità
novecentesca e di progettazione innovativa di un nuovo pensiero comunista abbia
tardato a decollare e a uscire dall'ambito di elaborazioni puramente
intellettuali. Certamente è stato il movimento dei movimenti che ha creato le
condizioni e fatto emergere la necessità di un ripensamento complessivo non più
rinviabile. Ed è certamente merito di Rifondazione oggi, del suo ultimo
congresso, e del suo segretario, di aver posto questo ripensamento come un atto
politico concreto da perseguire non solo in Italia, ma a livello
internazionale, almeno nell'orizzonte di una sinistra alternativa europea di
cui si avverte drammaticamente la necessità e la mancanza...
Domenico Jervolino
A noi l'articolo di De Marchis è parso interessante:
non un testo "veritiero" o "condivisibile", ma appunto un
documento giornalistico sul Prc e le sue scelte attuali, che valeva la pena di
far conoscere anche ai nostri lettori. Com'era ovvio, "La Repubblica"
ha fornito la sua interpretazione di parte, nella quale non si distingue tra
"abiura" (magari con annesso cambiamento di nome) e
"rifondazione" di nuova cultura comunista - forse neppure si capisce
la differenza. Dovevamo corredare l'articolo di una presa di distanza?
Specificare che non si trattava, da parte nostra, di una "assunzione"
acritica? Ma il testo conteneva alcune affermazioni di Fausto Bertinotti che
non davano adito ad alcun dubbio sulla qualità, il senso e la portata del
percorso che il Prc ha intrapreso, del resto da molti anni. Anche per questo
abbiamo evitato un'operazione che sarebbe suonata pesantemente pedagogica, e ci
siamo fidati delle autonome capacità critiche dei nostri compagni e dei nostri
lettori. Cogliamo l'occasione per ribadire che "Liberazione" spesso
pubblica (o ripubblica) testi di un certo interesse politico, analitico o
giornalistico, che sono da noi condivisi solo parzialmente: non solo in omaggio
a principi liberali e pluralisti, ma al dato di fatto che il mondo (compreso
quello di sinistra) "è molto più grande di quanto non ne contenga la nostra
filosofia".
(a. c. e r. g.)
da Liberazione 31-12-'03
comunismo
Perché dovremmo ripudiarlo?
Caro direttore, l'articolo di De Marchis su
"Repubblica" risulta davvero interessante, alla luce del dibattito
suscitato nel partito. Chi scrive, anche per questioni anagrafiche, non ha mai
amato, né intende ravvedersi nel futuro, le forme estreme di "comunismo
realizzato", condivido quindi il tentativo di una riflessione critica su
una storia complessa e controversa, alla quale tuttavia ritengo indispensabile
richiamarsi per progettare un futuro possibile per il nostro partito. Ad onor
del vero, senza allargare molto gli orizzonti, già nella storia del Pci non
sono mancati, a vario titolo, le riflessioni autocritiche su quel lungo
evolversi storico, che inizia con la degenerazione della Rivoluzione del '17.
Dal memoriale di Yalta al Berlinguer del dopo golpe polacco, ci sono ampie
tracce in questo senso; il problema segue dunque altre logiche, che vanno
analizzate in altre forme. Le critiche di quanti ripugnano l'idea stessa del
comunismo come ipotesi da concretizzare in qualsiasi luogo o modo, poggiano su
un assoluto senso di omertà storico, in nome di un presunto divenire delle
libertà borghesi, che si astrae dai processi storici. Potremmo discutere
all'infinito sui comunismi ortodossi od eretici, ma pur riflettendoci a lungo
non sono ancora giunto a darmi una risposta: perché dovremmo ripudiare, a
priori, sic et simpliciter forme di impostazione e di organizzazione che hanno
mosso nel concreto milioni di persone, in nome di forme "eretiche"
che hanno il solo "merito" di essere inverificabili sul piano della
concretezza?
Angelo Broccolo Cosenza
Chi sono
i comunisti
Caro direttore, tante compagne e tanti compagni hanno
fermamente creduto in un partito comunista ed hanno fortemente voluto che un
soggetto politico comunista continuasse ad esistere in Italia. Non un soggetto
radical-movimentista, ma una forza politica che perseguisse l'obiettivo del
partito di massa. Questo è ciò che ha motivato quanti, con fatica, con tenacia,
con passione politica hanno in questi anni lavorato alla crescita del partito
della Rifondazione comunista; rifondazione, appunto, di un partito comunista
che si inserisse nella tradizione comunista, che ne criticasse gli errori, che
avesse la capacità di separare "il bambino dall'acqua sporca", di
riconoscere comunque in quel bambino la forza rivoluzionaria capace di
sovvertire lo stato di cose presente. Un partito fatto anche di memoria del
sacrificio dei compagni.
Raffaele Sforza Barletta (Ba)
Evitiamo rischi
di regressione
Caro compagno Curzi, è scontato che i nostri avversari
politici, compresa la "sinistra anticomunista", ed in particolare De
Marchis sulla "Repubblica", svisino le nostre posizioni. Ma la
questione è: si tratta di una vera mistificazione? La condanna del
"comunismo novecentesco" come cumulo di "errori ed orrori"
è una meschina contraffazione di De Marchis? A me pare che, nella migliore
delle ipotesi, i suddetti avversari sfruttino debolezze ed ambiguità, o
piuttosto concessioni deologiche, che purtroppo non sono affatto
"inventate". Domenico Jervolino scrive che "la rifondazione da
cui è sorto il nostro partito" sarebbe poggiata su di "una critica
profonda e radicale del socialismo reale". Ben venga una tale critica, se
basata su fondamenta scientifiche, e quindi sulla distinzione tra processi di
transizione postcapitalistica, pur contraddittori, e "democrazia"
borghese-imperialista. Ma se si tratta di contrapporre l'interclassismo
"personalista" della "dottrina sociale cristiana"
(condannato dagli stessi preti operai francesi), anche in versione "di
sinistra", al marxismo ed al leninismo, allora non siamo più sulla
lunghezza d'onda di un effettivo sviluppo del marxismo "sulle proprie
basi", ma piuttosto sulla china di una regressione premarxista, verso il
proudhonismo od il "vero socialismo" etico e cristianeggiante.
Fernando Visentin via e-mail
da Liberazione 3-1-'04
"Dal proletariato ai no global: la Bad Godesberg
di Bertinotti". Così era titolato un ampio servizio sulla "lunga
marcia del segretario di Rifondazione" pubblicato il 27 dicembre scorso da
"la Repubblica" a firma Goffredo de Marchis, e da noi offerto
all'attenzione dei nostri lettori, senza commento, il giorno dopo. E' bastato
questo per spingere militanti e simpatizzanti di "Rifondazione" a
riversare sul fax e nella email di "Liberazione" decine e decine di
lettere incentrate sul "comunismo" e sull'identità del Prc. Riteniamo
giusto e utile, a cominciare da oggi, pubblicarle, nella certezza di
contribuire alla necessaria trasparenza e all'auspicabile arricchimento di un
dibattito di importanza capitale. Non solo per Rifondazione, ma per il
movimento e per tutta la sinistra.
a. c e r. g.
Non attestarsi
in comode certezze
Caro Sandro, cara Rina, ho trovato molto interessante
il fatto che un giornale come "la Repubblica" ritenga di dare spazio
al dibattito politico del nostro partito sui temi del comunismo e della
rifondazione. L'articolo di De Marchis al di là dell'interpretazione circa la
lunga marcia del segretario, riconosce implicitamente il ruolo che il nostro
partito sta svolgendo in un contesto che molto al di là del partito stesso e
persino del territorio nazionale e riconosce altresì il bisogno che esiste a
sinistra di un tale riferimento. Parliamo cioè della capacità di essere
comunisti ridando attualità a questo termine, nell'obiettivo storico della
trasformazione della società capitalista e facendo i conti con la nostra
storia: un processo di rifondazione, appunto. Anche nel merito di quanto dice e
scrive il segretario vi possono essere opinioni diverse, osservazioni, modalità
diverse di affrontare le questioni, e io pure ne ho, ma ciò non toglie nulla
alle responsabilità che ci dobbiamo sentire addosso se non vogliamo attestarci
in comode quanto controproducenti certezze. In ogni caso, considero importante
la scelta di "Liberazione" di pubblicare interviste e articoli di
altri quotidiani che parlino di noi. Mi colpiscono molto, perciò, lettere come
quelle di Fosco Giannini e Domenico Jervolino che vi criticano per non aver
"dato i voti" all'articolo di De Marchis. Non sono d'accordo con
loro: da una parte perché in questo caso una eventuale "operazione
pedagogica" sarebbe stata piuttosto invadente, e dall'altra perché mi
chiedo se la critica non contenga altro. Se dietro questo bisogno di
rassicurazioni non vi sia anche un affidamento al nostro giornale di compiti
che stanno altrove. Fermo restando il ruolo determinante di Liberazione nella
vita del partito, penso però non possa essere anche sostitutivo di un grande
dibattito politico e culturale che invece si deve sviluppare nel partito, che
coinvolga gli iscritti e che abbia un seguito nelle politiche concrete delle
federazioni, dei circoli, ecc. e non solo oggetto di convegni del segretario.
Graziella Mascia
Bisogno di comunismo:
oggi più che mai
Caro direttore, penso che la ricerca di un giudizio
critico nei confronti del passato, non debba necessariamente indurci a
rinnegare il percorso del Comunismo, ma anzi deve diventare un terreno fertile
su cui far crescere la pianta della speranza della libertà e della solidarietà
che sono i veri fondamenti della teoria comunista e nello stesso tempo le
uniche aspirazioni di quell'ideologia marxista-leninista che si contrappone al
sistema capitalistico e disturba i manovratori del liberismo più sfrenato. Oggi
più che mai si avverte un bisogno di Comunismo che ci possa condurre, di fatto,
ad un mondo migliore.
Pasquale Placanica (Rc)
La "lunga marcia"
non è un mistero
Caro direttore, secondo me l'autore dell'articolo, pur
non essendo comunista, propone comunque ai lettori del suo quotidiano una
chiave di lettura dignitosa e tutto sommato veritiera del cammino intellettuale
e storico da lungo tempo intrapreso dal segretario di Rifondazione. Che questa
"lunga marcia" sia in corso non mi sembra un mistero inconfessabile,
ma piuttosto un segno forte di grande onestà intellettuale, tanto più
significativa, in quanto si continua a mantenere vivi gli ideali di giustizia,
pace e uguaglianza che perseguiamo da sempre. Sono però cambiate le situazioni
storiche e i contesti operativi per cui è necessaria oggi una gestione
programmatica moderna e coraggiosa che, in qualche circostanza, può essere
giudicata, dall'immancabile "Catone censore" in agguato, di stampo
revisionista.
Francesco Sarli Roma
Illusorio tagliare
le radici
Caro Curzi, il compagno Broccolo, su
"Liberazione" di oggi, dichiara di condividere un tentativo di
riflessione critica sulla Nostra storia e ricorda che già il Pci, dal memoriale
di Yalta al Berlinguer dell'ombrello Nato e alla "fine della spinta
propulsiva dell'Ottobre" ci furono tentativi in tal senso. Io vorrei
ricordare, soprattutto ai compagni che vissero quell'esperienza in prima
persona, che Rifondazione è nata proprio in contrapposizione a tali politiche
che trovarono nella svolta della Bolognina il loro momento culminante. Quanto
fosse illusorio pensare di uscire dalle difficoltà politiche abbandonando
progressivamente radici e storia per andare incontro alla democrazia liberale e
al mercato, l'esperienza successiva del Pds-Ds l'ha ampiamente dimostrato.
Aldo Cannas,
circolo "A. Gramsci", Cagliari
Si cerca forse
un nome più "light"?
Gentile direttore, i movimenti profondi della storia
vanno letti secondo la prospettiva dei tempi lunghi e non secondo il ritmo di
certe svolte che si susseguono, ormai, ogni quarto d'ora. Dopo 150 anni
visssuti tra tante ascese e declini "epocali", il movimento comunista
ha subito una sconfitta netta e la fase di resistenza durerà ancora parecchio.
Tutto ciò che segue l'89-91, Rifondazione compresa, ha a che fare con
l'elaborazione del lutto e il difficile bilancio di un ambizioso progetto
politico che aveva saputo farsi storia. Siamo un piccolo contenitore di persone
diverse, ognuna delle quali si interroga sul proprio essere comunista in modo
moderno: per alcuni il comunismo è un'esperienza storica precisa e da
rinnovare; per altri è l'eterna aspirazione etica ad un mondo più giusto; per
altri è altro ancora. In questo senso, l'articolo di De Marchis da voi
ripubblicato senza commento descrive una realtà verosimile ma parziale. Alcuni
considerano esaurita la nostra tradizione e, con un'operazione linguistica
postmoderna, intendono transitoriamente vivere sulla rendita di un nome vecchio
e famoso, ma troppo impegnativo, in attesa di trovarne uno più accattivante e
light. Ciò non vale, però, per la generalità del partito, che reagirebbe
immediatamente ad ogni tentativo di "mutazione".
Stefano G. Azzarà via e-mail
In continuità
con Berlunguer
Caro direttore, sono tra quelli che giudica
l'esperienza del movimento operaio e la storia dei comunisti e soprattutto
italiani del novecento, non un cumulo di macerie, di errori e orrori, ma una
straordinaria esperienza che dalla spinta propulsiva della rivoluzione
d'ottobre fino al Pci del compagno Enrico Berlinguer, pur tra luci ed ombre, ha
dato dignità e riscatto ad intere masse di lavoratrici e lavoratori e a quanti
si sono battuti al fianco degli oppressi contro gli oppressori. Oggi più che
mai è necessario la ricostituzione di un forte Partito di massa e comunista. Il
Prc a questo deve tendere. A quanti non propriamente comunisti, pur militando
nel Prc, non credono a questa prospettiva la facoltà di fare altre esperienze,
a noi il compito di difendere, ancora una volta, una scelta coraggiosa ed
impegnativa.
Antonio Assogna Pineto (Te)
da Liberazione 4-1-'04
Le nostre
responsabilità
Caro direttore, nell'articolo di Repubblica si
indicano i riferimenti di queste tappe della Bad Godesberg: Lenin, la violenza,
le Foibe, la "Sinistra alternativa". Sicuramente abbiamo avuto delle
responsabilità nel favorire questa rappresentazione di Rifondazione comunista.
Il fatto di avere cancellato alcune figure che hanno segnato la storia del
movimento operaio e comunista del '900 (Lenin e Gramsci) eliminandone i
riferimenti nello Statuto del Partito. Sulla questione della non violenza
intesa come valore assoluto, rischiamo di favorire quel processo di
revisionismo storico, tuttora in corso, che per anni abbiamo condannato.
Proprio perché il nostro obiettivo fondamentale resta, oggi più che mai, quello
di rifondare un partito comunista, non possiamo commettere gli stessi errori di
chi ha tentato con lo scioglimento del Pci di cancellare la storia dei
comunisti italiani e del '900.
Giuliano Della Foglia
Pio Rampini
Ambrogio Della Foglia
Vanzago (Mi)
E' necessario
un chiarimento
Caro direttore, apprendo dalla stampa borghese,
attraverso un articolo ripubblicato dal nostro quotidiano, che di comunista, il
Prc, si appresterebbe a conservare solo il nome, e anche questo vacillante. Da
militante sono sicuro che mai si sia discusso, né tantomeno deciso, di firmare
un protocollo d'intesa - a Berlino per l'appunto - per le elezioni europee con
alcune delle forze politiche del Gue: anche qui, sarebbe interessante, oltre
che necessario, sapere perché solo con alcune e non con tutte; perché non si
prendano neanche in considerazione le forze politiche dei Paesi di nuova
adesione e, soprattutto, su che basi e con quale progetto.
Stefano Verzegnassi via e-mail
Cosa diversa dal "distacco"
Caro direttore, se diamo in pasto alla stampa
"liberal" riflessioni non compiute, ancora deboli ma chiaramente
dirette a tagliare il rapporto del Prc con l'intero movimento comunista del
'900; se affermiamo, come dei nuovi francescani, che la violenza è tutta da
condannare, dimenticando la violenza totale in termini di sfruttamento e
dominio esercitata dal capitale sulla classe operaia e sui lavoratori,
dimenticando di dire come può liberarsi il popolo palestinese, iracheno,
colombiano, come si doveva combattere contro il nazifascismo; se scegliamo di
rompere, per fare una lista europea di "sinistra", con i partiti
comunisti d'Europa (a proposito: dove abbiamo discusso tale linea?): se
intendiamo a delinearci così, e non con un pensiero forte che sorregga un vero
processo di rifondazione comunista, il rischio è che poi i giornali come
"La Repubblica" ci facciano una caricatura da post-comunisti.
Dobbiamo stare attenti: il processo di rifondazione - assolutamente necessario
- è cosa completamente diversa dal processo di distacco dalla cultura e dalla
storia del movimento comunista.
Rita Ghiglione La Spezia
Un albero senza radici
non dà frutti
Caro direttore, la propensione revisionista di parte
significativa del partito è nota, ma questo modo di procedere "facendo
dire ad altri" ciò che non si ha il coraggio di affermare nelle sedi
preposte ricorda una "svolta" non proprio di sinistra partita 14 anni
fa guarda caso usando lo stesso quotidiano. Le foibe minimizzate, l'angelizzazzione
delle lotta partigiana, Gramsci e Lenin spazzati dallo statuto come metafora
delle statue che dovrebbero lentamente cadere, considerare in buona fede le
opinioni di Sofri e Mieli, o peggio usare l'interlocuzione con essi per
picconare le nostre fondamenta storiche non idilliache come nulla è stato nella
storia, ma fondamentali per l'emancipazione di milioni di disperati. Un albero
senza radici non può produrre frutti.
Alberto Larghi Rho (Mi)
"Anormale" è l'assenza
di un dibattito
Cara "Liberazione", l'articolo di De
Marchis, proprio per perché "interessante", non andava lasciato senza
commento o prese di posizione, e non solo dal nostro giornale ma anche e
soprattutto dal Partito e dal nostro Segretario; a me sembra normale che si
discutano gli argomenti interessanti, ed anormale il silenzio! Se è nel giusto
il lettore Giannini, se fosse vera questa storia del comunista di nome e non
comunista di fatto, sarà opportuno discutere su questo progetto di abbandono
del Partito Comunista? Il superamento del marxismo-leninismo non comporta il
superamento della democrazia interna; il nostro Segretario su questo non ha mai
indicato cose differenti.
Mauro Gibellini Carrara
Un'immagine grottesca
della rifondazione
Caro direttore, l'articolo apparso su "La
Repubblica" non è, a mio avviso, solo un assai discutibile documento
giornalistico su di noi; l'autorevolezza della testata che lo ha ospitato e la
natura stessa di quel giornale mi fanno pensare invece che siamo di fronte ad
una vera e propria operazione politica tendente a veicolare un'immagine
grottesca e deformata del nostro stesso dibattito. Il pezzo de "La
Repubblica" dà, peraltro, una visione caricaturale dello stesso processo
della rifondazione comunista che intendiamo percorrere. Esso appare infatti una
sorta di catarsi autolesionista e non, invece, un percorso difficile ma
necessario di ricerca teorica e di sperimentazione pratica per costruire una
proposta comunista adeguata a rispondere ai problemi ed alle contraddizioni che
l'umanità si trova di fronte nel nuovo millennio, affinché l'assalto al cielo,
sconfitto nel Novecento, possa vincere nel Duemila.
Sergio Olivieri La Spezia
Socialismo marxiano
da rivalutare
Caro Curzi, posso intervenire nel vostro dibattito sul
comunismo? Non sono stato mai iscritto al Pci, sono stato e resto un
liberal-socialista. Ma alcune vostre amare e severe critiche al comunismo mi
lasciano perplesso. Sul fallimento del comunismo russo tutto è stato detto da
tempo e proprio con grande fermezza da un comunista doc: Enrico Berlinguer. Lo
stalinismo fu demolito (in epoca non sospetta) dal policentrismo di Togliatti.
E allora perché oggi tanto calore nel voler riseppellire un cadavere che è già
polvere? Io sono convinto da socialista liberale e libertario che è tempo
questo per rivalutare gli ideali del socialismo marxiano contro un capitalismo
globale che sta producendo guerre, nuove gravi disuguaglianze e la morte della
democrazia.
Giuseppe Maffei via e-mail
Questioni vitali trattate
superficialmente
Caro Curzi, l'articolo di De Marchis va davvero letto
semplicemente come una "interpretazione di parte"? O non rappresenta
piuttosto uno dei più tipici e anche più inquietanti modi in cui l'ideologia
mette in caricatura ciò che ha, o dovrebbe avere, ben altro grado di ricchezza
e di problematicità? Non credete, in questo senso, che le affermazioni di
Bertinotti trascritte nell'articolo, proprio perché riportate nell'ambito di un
discorso costruito in modo "ideologico", lasciassero in realtà molti
dubbi sulla qualità, il senso e la portata del percorso intrapreso dal nostro
partito? Anzi, non credete che fosse precisamente questo l'obiettivo
dell'articolo, cioè, ancora una volta, rendere superficiale quanto altrimenti
non lo sarebbe o non meriterebbe di esserlo? E ancora: non credete che
l'articolo di De Marchis tratti questioni per noi vitali (come il rapporto con
il Novecento e con la storia del movimento operaio) con un approccio fortemente
astratto e superficiale, e cioè nel modo esattamente opposto a quello che
dovrebbe appartenerci, dialettico e complesso?
Armando Petrini via e-mail
da Liberazione 6-1-'04
Siamo in fase
di ricerca
Cara Rina, caro Alessandro, la tesi di Goffredo De
Marchis consiste nel dimostrare che l'intento di Bertinotti sia quello di
uscire dalla storia del movimento comunista, "l'allontanamento dal solco
della tradizione comunista", una "lunga marcia lontano dai legami col
comunismo" recidendo "i legami con l'ideologia", conservando
solo il nome e alzando ogni volta di pochi centimetri l'asticella quale unico
modo per poterla saltare e giungere alla Bad Godesberg del Prc. Questo intento
non mi pare d'averlo colto in Bertinotti (che, nello stesso numero di
"Liberazione", nella sua rubrica domenicale, assume tutta la storia
del comunismo, doverosamente in modo critico), di cui ho sempre apprezzato lo
sforzo di ricerca teorica al fine di individuare la strada per giungere al
superamento del capitalismo, tenuto conto del suo attuale assetto e delle
stesse nostre sconfitte storiche. Che si dicano cose, in fase di ricerca, anche
non corrispondenti al vero o non convincenti (molte delle cose da lui dette non
mi convincono) - suscettibili, quindi, di modifiche da parte dello stesso
autore - è un fatto che non può sminuire il valore di chi si impegna in essa.
Ma, se l'intento di questa ricerca - a cui tutti dovremmo essere chiamati a
contribuire - fosse quello attribuitogli dal De Marchis (conservare il solo
nome espellendo tutta l'esperienza del comunismo), non potrebbe trovarmi in
alcun modo d'accordo.
Gilberto Volta
via e-mail
Insinuazioni
malefiche
Caro Curzi, l'articolo di De Marchis, per la gravità
di alcune affermazioni in esso presenti, sino ad arrivare a delle insinuazioni
malefiche nei confronti del nostro Segretario, forse meritava un intervento di
puntualizzazione. Non mi basta pertanto che un articolo sia interessante.
Jone Bagnoli Milano
"la Repubblica"
ha visto giusto
Caro Sandro, noi riteniamo che Goffredo De Marchis su
"Repubblica" abbia colto correttamente la natura, la portata e quindi
la sostanza del pensiero di Bertinotti. Volerlo negare può servire solamente a
chi si adopera affinché l'operazione "trasformazione" del Partito
proceda nel modo più soft e meno traumatico possibile. Non da oggi riteniamo
che il fine ultimo della nostra attuale dirigenza sia quello di mutare
radicalmente il nostro Partito comunista in un altro soggetto politico, affatto
diverso nella teoria, nella prassi politica e negli obiettivi finali. E nessuno
si illuda: questo processo sarà velocissimo, molto più di quanto si possa
ragionevolmente temere.
Ezio Lovato, Ezio Simini Vicenza
Ma il partito
che dice?
Caro direttore, "curioso" il fatto che i
compagni e le compagne militanti e iscritti al PRC, con ritualità ormai prive
di imbarazzi, vengano informati dei repentini mutamenti di rotta dalle
"Repubblica" di turno. Una domanda semplice: il nostro Partito,
condivide quelle affermazioni, quel percorso scelto gentilmente per noi dal
signor De Marchis? Stirare come un elastico il documento congressuale per
fornire giustificazioni sempre e comunque evidenzia come purtroppo stiamo
navigando a vista, come la bussola sia orientata male, sarà forse colpa delle
calamite come la "Repubblica"? Sembra rispondermi De Marchis,
"il segretario di Rifondazione non ha dubbi: la statua deve lentamente ma
inesorabilmente venire giù". Mah...
Massimo Marcelli Flori Ancona
Un linguaggio
da Cominform
Caro Curzi, la lettrice Rita Ghiglione di La Spezia
(credo una militante di Rifondazione) critica aspramente Bertinotti per aver
concesso, anzi cito testualmente "dato in pasto alla stampa liberal
riflessioni non compiute, ancora deboli ma dirette a tagliare il rapporto del
Prc con l'intero movimento comunista del Novecento". Questa prosa mi
ricorda (e forse ricorderà anche a te) il peggiore linguaggio del Cominform, la
sciagurata organizzazione internazionale inventata dai sovietici dopo lo
scioglimento della Terza Internazionale, per dominare i vari partiti comunisti
nazionali. Mi domando: è possibile dopo tante tragedie, che hanno messo in
gioco l'idea stessa di socialismo e comunismo, criticare chi prova con coraggio
intellettuale a dare ancora un senso positivo ai nostri ideali di socialismo?
Io sono rimasto fuori dalle vicende politiche dopo la fine del Pci. Cinquanta
tessere del Partito comunista italiano sono rimaste sole non accettando le
strane appendici Pds, Ds ecc.. Ma oggi, nonostante l'età, vorrei fare qualcosa
per salvare l'Italia dal disastro. La sinistra, quella vera, deve essere capace
di estirpare il berlusconesimo e per riuscire a far questo deve trovare la strada
dell'unità. Permettimi, ancora, un'osservazione. Certi lettori di
"Liberazione" se fossero vissuti politicamente quando Enrico
Berlinguer proclamò in televisione che era finita la spinta propulsiva della
Rivoluzione di Ottobre, sarebbero inorriditi e avrebbero accusato il nostro
Enrico di revisionismo. Quindi ritengo che Bertinotti nella sua ricerca sia in
buona compagnia.
Mirko Manzi Roma
Le stesse parole
di Berlinguer
Caro direttore, è significativo nella recente
intervista il passaggio in cui il segretario del Prc afferma che "questo
capitalismo ha smarrito la sua spinta propulsiva": le stesse parole anni
fa furono pronunciate da Enrico Berlinguer sul declino del Socialismo reale. Se
ai comunisti e sul comunismo sono state sempre chieste autocritiche, spesso
pubblicate forzandone i significati, al contrario ad ogni tentativo di far luce
sugli scheletri del capitalismo, dagli interessati e dai loro cortigiani, viene
opposta una cortina fumogena se non la blindatura degli armadi. Voci autorevoli
(per la verità poche) che auspicano indagini al più alto livello istituzionale
sul fallimento del nuovo (si fa per dire) capitalismo vengono subito liquidate
come espressione di un marxismo ortodosso, nostalgico dei processi bolscevichi.
Poco importa se, nel frattempo, in questo mondo di ladri larga parte della
popolazione viene precipitata nella miseria ed i lavoratori, privati del posto
di lavoro, vengono considerati esuberi o definiti residuali.
Agostino Piludu Quartu S. E. (Ca)
Ben venga
questa provocazione
Caro direttore, sono stato assiduo lettore di "la
Repubblica" per molti anni. Adesso la leggo saltuariamente: mi è capitato
di farlo anche il giorno dell'uscita dell'ormai famoso (ma solo nel nostro
partito) articolo di Goffredo de Marchis. Ho subito colto il suo carattere di
"provocazione". Metto questa parola tra virgolette perché, secondo
me, bisogna distinguere tra la provocazione che vuole essere subito distruttiva
e quella che ha l'evidente scopo di suscitare una discussione: si vedrà poi se
il soggetto provocato farà diventare questa discussione motivo di crescita
oppure di stallo. Penso, perciò, che "Liberazione" abbia fatto molto
bene a rilanciare questa "provocazione", mostrando fiducia nella
capacità di giudizio autonomo e di discussione costruttiva dei suoi lettori,
come poi si è verificato. Mi rammarico solamente che queste discussioni non
avvengano anche nei circoli e nelle federazioni, almeno dalle mie parti. Ho una
grande nostalgia degli anni '70, quando le discussioni erano animate e accese in
tutta la sinistra: se non ci si trovava d'accordo si votava. Credo che i
compagni che non sono d'accordo sulla linea, che "la Repubblica" ha
provocatoriamente definito "la Bad Godesberg di Bertinotti",
dovrebbero cercare di suscitare questo dibattito democratico, se sono convinti
di poterla cambiare, invece di prendersela con "Liberazione".
Siro Valmassoni via e-mail
Siamo
frastornati!
Caro direttore, il servizio de "la
Repubblica" è sconcertante. Le affermazioni poste vanno ben oltre le tesi
del nostro ultimo Congresso. la questione è grave. Liquidare con tanta
leggerezza Lenin, Gramsci e il movimento comunista del '900, pongono in essere
l'esigenza di un congresso straordinario! Noi militanti comunisti siamo
frastornati!
Ernesto Montalbano e Vincenzo de Stefano
via e-mail
Fra errori
e conquiste
Caro Direttore, è importante e naturale
"ripercorrere criticamente" la storia del movimento comunista, ma
questo non può significare semplicemente separare il pensiero originario di
Marx dai Marxismi. Le semplificazioni servono alcune volte a rendere
comprensibile la complessità di un percorso e possibile la sua concretizzazione
politica. Le semplificazioni riguardano l'immaginario collettivo, e la
possibilità di trasformare in consapevolezza di massa un' Progetto. Le
semplificazioni hanno anche purtroppo portato a errori, abiure e perfino a
decadenze. Sono per queste ragioni estremamente importanti. Da usare con
estrema cautela. Per me rifondare il comunismo, significa tentare di
individuare gli errori commessi, per evitare di farli nuovamente, ma anche
tenere sempre conto delle conquiste sociali, culturali, politiche,
democratiche, degli avanzamenti di civiltà che i "marxismi" e fra
questi i comunismi hanno fortemente contribuito a realizzare. E che la stessa
esistenza dell'Unione Sovietica ha reso possibile, nonostante le sconfitte e le
degenerazioni. Io milito e lavoro per la costruzione di un Partito comunista di
massa nuovo, necessario e capace di contribuire al reale mutamento dello stato
di cose esistenti. Penso che questa sia per così dire la nostra ragione sociale
e che avere questa consapevolezza significhi riconoscere anche la parzialità
della funzione del partito rispetto al processo per la costruzione di un altro
mondo possibile, evoluzione complessa e che coinvolge una pluralità di soggetti
e culture.
Franco Izzo via e-mail
Ma dove
ci state portando?
Caro Direttore, a proposito dell'articolo pubblicato
da "la Repubblica" e ripreso da "Liberazione", temo che il
segretario del Prc ci abbia annunciato l'ennesima svolta. Com'è possibile
prendere decisioni come quella annunciata per il 10/11 gennaio senza consultare
o informarne neanche la Segreteria Nazionale? Com'è possibile pubblicare
quell'articolo senza neanche una postilla od un distinguo?
Dove ci state portando?
Pierfrancesco Bruno Torrevecchia Teatina (Ch)
Attenti
al settarismo
Signor Curzi, lei e la signora Gagliardi avete
motivato (o giustificato?) ai vostri lettori la ripresa di un articolo del
quotidiano "La Repubblica" sulle ultime svolte politiche di
Bertinotti. Io, che presto molta attenzione alle vicende di Rifondazione e di
tutti i gruppi politici che in qualche modo possono essere ricondotti all'ex
Pci, apprezzo molto questa vostra discussione. Sto, infatti, lavorando alla mia
tesi di laurea proprio sul post-comunismo in Italia. Se mi permette vorrei
esprimerle la mia perplessità per l'emergere di un settarismo, che Lenin
avrebbe definito infantile, tra molti suoi lettori. L'onorevole Bertinotti
tenta di trovare, dopo il fallimento del comunismo soviettistico, una strada
nuova alle idee di Marx sull'uguaglianza. L'appassionata e colta ricerca
bertinottiana dovrebbe far piacere a quanti ancora non vogliono arrendersi ad
un capitalismo che nella fase liberista globale rivela tutto il suo potenziale
antidemocratico.
Lucrezio Masetti
via e-mail
La storia
va guardata in faccia
Cari e care, scusate ma non se ne può più, c'è stato
un congresso che ha scelto veramente di rifondare! Ho 28 anni e sono un
precario non posso non dire che probabilmente sotto Stalin avrei avuto un
lavoro ma sarei stato sfruttato almeno quanto lo sono nell-Italia capitalista,
con ritmi e alienazioni di stampo fordista: altro che liberazione dal e del
lavoro! E mi pare di vederli questi compagni ogni volta tirano in ballo Lenin,
Gramsci, e tutti i santini della loro religione: gli stessi che nel mio circolo
quando i Gc fanno azioni che vanno al di là del volantinaggio insorgono
chiamandoci con mille epiteti della tradizione stalinista, se si occupa un
posto ritengono che sia sbagliato perché poi la gente chissà cosa pensa, di
conflitto neanche a parlarne etc. La storia con i suoi errori ed orrori va
guardata in faccia per quella che è stata e se nella nostra storia ci son stati
orrori e io penso di si, cercarne le cause significa dare un contributo ad una
possibile liberazione per l'oggi e non un altro punto all'avversario. Questi
compagni hanno solo paura di perdere i loro miti. Saluti rebeldi, la storia e
il conflitto vanno comunque avanti.
Christian Spotti
Garbagnate Milanese (Mi)
Un processo aperto
non un vagabondaggio
Cara "Liberazione" non ho letto "la
Repubblica" ma a questo punto alcune risposte vanno date ai lettori. Le
Tesi dell'ultimo Congresso sono impegnative per Rifondazione comunista almeno
fino al prossimo Congresso, oppure no? Il comunismo è "un processo
aperto" (come ogni ricerca vera) e "indefinito" fino a che
punto? (Se è troppo indefinito non è una ricerca ma un vagabondaggio). A
proposito stiamo lavorando alacremente per definire un programma di governo che
il Partito deve discutere, approvare, assimilare e che nel confronto con
l'Ulivo dovrà essere mediato entro limiti definiti. Se a questo programma
stiamo lavorando dovremo anche necessariamente definire i suoi rapporti con la
prospettiva comunista.
Alessandro Volponi Marche
Diversità interne
da non caricaturare
Caro Sandro, cara Rina la compagna Mascia poteva
risparmiarsi la caricatura fatta a me a Domenico ("Giannini e Jervolino vi
criticano per non aver dato i voti all'articolo di De Marchis"). Così si
discute? E' lecito ridurre una critica, in un partito che si vuole libero, ad
una sorta di pedagogia poliziesca? Scrive la Mascia: "mi chiedo se la
critica non contenga altro...". E' un'allusione pesante, che ho già
sentito sulla mia pelle quasi ogni giorno, per tutti i lunghi anni in cui mi
sono battuto contro il processo di liquidazione del Pci. E' del tutto evidente
che vi sono in giro troppi retropensieri ed è ormai tempo di fare chiarezza. La
fase, per il movimento operaio e per i comunisti, è terribilmente difficile, il
rilancio e l'unità si potranno trovare solo attraverso una sintesi politica e
teorica all'altezza dei tempi e dello scontro di classe, e nulla sarebbe più
sciocco e contrario a questo obiettivo che ridurre le diversità interne al
partito in caricature. E' il progetto di "rifondazione comunista", da
costruire senza nostalgie o liquidazionismi, la risposta al problema. Il punto
è: è stato mai avviato tale processo? La risposta è no! Non si può credere che
un processo di così grandi ambizioni possa poggiare su strappi improvvisi e
solitari o di pochi dirigenti. Occorre un grande lavoro collettivo, scevro da
ogni provincialismo e dal respiro internazionale, che aggredisca i nostri
grandi temi (il movimento comunista del '900, il socialismo realizzato, la
forma partito, il movimento comunista in Italia), li svisceri a lungo,
coinvolgendo l'intero corpo del partito e soggetti esterni, intellettuali e del
movimento operaio, nell'obiettivo di darci una cultura alta e condivisa. Perché
i mali peggiori sono l'improvvisazione e il solipsismo, mali che possono
portarci a "ratifiche" ben presto sconfessate dalla realtà delle
cose, come sull'imperialismo, o a condanne precipitose, come quella sulla
"violenza". Ma anche qui: perché questa precipitosa scelta semantica
(la "violenza" non distinta dalla "forza"), perché questa
confusione intellettuale? Dovremmo essere più chiari, per non mistificare. La
violenza è una pulsione sorda e bestiale, volta alla sopraffazione, che
"viola" ogni diritto, ogni legge morale. La forza è l'esatto
contrario, poiché è con essa che si risponde alla violenza, si supera la
"legge animale", si costruisce una più alta Legge dalla quale
discende una nuova Morale (per rassicurare: non è Lenin, ma è l'essenza stessa
della Teologia, è il senso ultimo dei Dieci Comandamenti). Se non si distingue
tra violenza e forza, si estende la condanna anche alla forza, tornando
indietro di millenni, rinunciando - intanto - alla lotta di classe,
scambiandola per un pranzo di gaia.
Fosco Giannini
Un concreto
approdo
Cara Liberazione, i dubbi che hanno pervaso molti di
noi sulle motivazioni per la neutra ripubblicazione di quell'articolo che
potrebbe rimanere nella breve storia di questo partito, a me sembra, siano
stati del tutto sciolti. Le argomentazioni addotte sono state assunte e
riproposte alla discussione, a mio avviso legittimamente, come documento
politico-identitario, vista la mancanza di qualsiasi commento, in non casuale
coincidenza con le ultime accelerazioni su temi quali la non violenza e il
ruolo della religione sulla formazione delle coscienze. Il possibile approdo ad
una formazione dell'antagonismo, comunista per sintesi terminologica, come
riconoscibilità di un comune sentire o sinonimo di una universale aspirazione
ad un mondo migliore possibile, ma espressione di culture, identità e pratiche
politiche maturate perlopiù al di fuori della storia del movimento comunista
nella sua interezza e dal quale si pigliano le dovute quanto antistoriche
distanze, è abbastanza concreto. La questione è seria, ed è quindi ormai
ineludibile che, aldilà delle tribune epistolari, e in modo più compiuto
rispetto all'ultimo passaggio congressuale, venga proposta, affrontata e, nel
caso, acquisita in tutti gli organismi preposti.
Nuccio Marotta Certaldo (Fi)
Perché non possiamo non dirci comunisti
Rina Galgliardi
Perchè mai l'articolo di De Marchis ha suscitato una
reazione così intensa tra i nostri compagni e i nostri lettori? Perchè si teme
- per dirla in breve - che Repubblica abbia detto il vero. Perchè dietro
l'apparenza della polemica contingente quel che preme è un bisogno forte di
identità - di tornare a ragionare a voce alta, e collettivamente, su che cosa
vuol dire chiamarsi comunisti nel 2004. Perchè viviamo un'epoca buia, nella
quale l'avversario cerca in ogni momento di cancellarti, negarti, dichiararti
"obsoleto", "residuale" o dannoso. Perchè, certo, nel
nostro Partito, per mille ragioni che qui non è possibile analizzare, si
discute troppo di questioni particolari (per usare un eufemismo), e troppo poco
di questioni di fondo.
E allora ben vengano le lettere a Liberazione, anche
quando la polemica si fa aspra e perfino "ingiusta". Ben venga il
contributo di idee, e anche di emotività, che questa comunicazione corale
contiene. Purchè, naturalmente, riusciamo - tutti insieme - a parare due
pericoli che incombono quasi "oggettivamente": il passaggio dalla
durezza dialettica all'aggressività che impedisce l'interazione, il passaggio
dal confronto politico a quello puramente, indefinitamente ideologicistico. Ma
la gran parte di coloro che scrivono, in realtà, pone problemi ideali,
strategici, generali, sempre riconducibili alla politica.
Ed è proprio dalla politica - intesa come noi la
intendiamo, vale a dire la dimensione alta dell'agire umano che "muta lo
stato delle cose presenti" - che deve cominciare, ri-cominciare, il
dibattito sull'identità comunista del XXI secolo.
Per una ragione su tutte: noi non coltiviamo il
comunismo come un sogno o come una "nostalgia" e, soprattutto, non lo
circoscriviamo a una sorta di "imperativo morale", che vale, magari,
per il nostro orizzonte individuale o intimo. Noi pensiamo che il comunismo sia
non "una legge della storia,", ma una possibilità politica -
strategica - del nostro tempo: l'unica risposta razionale alla crisi di
civiltà, al disordine caotico, alla violenza devastante, alla regressione
sociale che il capitalismo attuale, nella sua versione tardoliberista, porta
con sé. Noi, perciò, a differenza di altri comunisti diffusi nella sinistra o
nella società, ci affidiamo, per "testimoniare" e praticare la nostra
identità comunista, anche ad un soggetto politico organizzato che
quell'identità porta, appunto, nel suo nome: come una sfida per il futuro, come
una chance per noi e per "coloro che verranno".
Quando ci domandano il "senso profondo"
dell'essere comunisti nel 2004 - e dell'essere militanti di una forza comunista
-, credo che così dovremmo rispondere.
Chi si propone il superamento (l'abbattimento) del
modo di produzione capitalistico, dello sfruttamento e dell'alienazione del
lavoro; chi pensa ad un "altro mondo possibile", cioè ad una società
fondata sulla libera volontà delle donne e degli uomini associati nello
"spazio pubblico" invece che sulla logica dell'impresa e del mercato;
chi crede possibile e necessaria la liberazione del lavoro salariato come
condizione ineludibile per cominciare, finalmente, la storia umana e un vero
cammino di libertà; chi vuole, insomma, mutare radicalmente l'esistente e non
si rassegna all'illusione riformista, trova nella prospettiva del comunismo
l'unica risposta convincente.
Essa non è stata dichiarata, come tale, dai movimenti,
dai critici radicali della globalizzazione, dai milioni di pacifisti che sono
scesi per le strade a dire no alla guerra di Bush: ma è latente nella loro
ricerca, nelle loro domande, nei loro bisogni - quasi sempre, certo, senza
consapevolezza esplicita.
Eppure, non c'è altro modo, nella storia del presente
e del passato, di indicare questa volontà di "rivoluzionare" la
società, l'economia, la politica, i rapporti interpersonali. Non esistono
sinonimi di comunismo o di socialismo, concettualmente o simbolicamente ad esso
equivalenti. Qui sta l'impossibilità - va detto agli amici come ai nemici - di
pensare ad un cambiamento del nome che non sia anche un cambiamento di pelle e
di prospettiva.
Vi obietteranno che il peso delle sconfitte e dei
fallimenti del passato pesa drammaticamente proprio sull'attualità di questa
sfida. Qui, certo, il tema della "resa dei conti" con la nostra
storia s'intreccia con le radici, anche quelle emotive, dell'identità, la
interroga, la "inquieta", la mette a duro cimento. Qui entrano le
differenze, spesso molto grandi, tra generazioni, culture, storie personali,
vissuti. Molte compagne e molti compagni, che hanno alle spalle decenni di
identificazione tra la "meta finale" del comunismo e le esperienze
del "socialismo realizzato", o comunque dei Partiti comunisti del XX
secolo, faticano a persuadersi che questa vicenda si sia conclusa con un
fallimento drammatico, anzi totale: perché, da un tale drastico giudizio,
sentono messa in causa tutta la loro vita, le loro passioni e le loro lotte,
come le loro speranze. O perché, se più giovani o giovani, non accettano, anche
e soprattutto dal punto di vista intellettuale, l'idea di uno scarto così
grande tra la realtà concreta - la storia - e le possibilità del futuro. E' una
discussione difficile, sì, perché mette in campo le passioni, di cui per
fortuna tutti siamo nutriti, prima che gli argomenti riflessivi e razionali, di
cui pur tutti siamo capaci.
Dobbiamo comunque sapere che la
"rifondazione" è anzitutto questo processo vivo, la capacità
collettiva non di liquidare il passato, ma di condannarne senza esitazioni le
tragedie e gli errori (come abbiamo fatto in alcuni passaggi cruciali da
Livorno a Venezia), non di buttare via tutto, ma di farne tesoro critico,
alimento prezioso di rinascita e trasformazione permanente, filtro
"spietato" di de-costruzione e ri-costruzione.
Credo di capire perché tanti compagni sono così
diffidenti verso l'innovazione: hanno ragione se dicono che, il più delle
volte, l'innovazione è stata sinonimo di nuovismo ed eclettismo, ha mascherato
tout court spostamenti secchi a destra, revisionismi più o meno storici e così
via. Ma tutto questo non ha a che fare con la necessità politica e culturale
dell'innovazione.
Di essa, del resto, è ricca proprio la nostra storia,
la storia comunista. Penso a Lenin, un grande dirigente rivoluzionario del XX
secolo e un grande simbolo: non ha innovato, quasi ad ogni attimo della sua
vita politica, ben al di là della tattica? Non è passato dal giacobinismo
elitario del Che fare? alle straordinarie utopie di Stato e Rivoluzione? Non ha
segnalato, poco prima di morire così prematuramente, proprio le tendenze
involutive di quella grandiosa scalata al cielo che fu l'Ottobre? L'eredità più
preziosa di quella lezione, credo, sta a tutt'oggi nella centralità del momento
soggettivo, nel processo rivoluzionario, non certo nel culto dottrinario di
testi pensati per un "qui e ora" ormai lontanissimo.
Penso al Pci, un grande partito ormai estinto, forse
non soltanto per improvvisa volontà di "tradimento" del suo gruppo
dirigente, certo anche perché l'esito della Bolognina era in qualche modo
contenuto nel pallido "riformismo" e nel moderatismo culturale degli
anni precedenti. Ma quella gigantesca costruzione alternativa che fu il partito
di massa non ci consegna proprio il compito - improbo - di una rivoluzione
"comunitaria" capace, nelle lotte, di prefigurare la diversità possibile,
in quanto praticata da centinaia di migliaia di persone fin dal presente? Mi è
consentito qui solo uno schematico accenno al tema della nonviolenza che,
secondo me, da oggi - senza proiezioni indebite sul passato o su situazioni
troppo diverse dalla nostra - dovrebbe costituire un tratto cruciale della
nostra identità. La rivoluzione nonviolenta come trasformazione radicale
dell'esistente, e come contestazione concreta del terrore oggi al potere nel
mondo. Non c'entra nulla, si dice, con la storia dei comunisti.
Eppure, proprio nella vicenda del Pci, c'era come
tratto peculiare e distintivo, un'idea diversa della politica, una forte e
diffusa autonomia, un'appartenenza che dava senso anche ai momenti
"minori" e alle scelte della vita quotidiana: non è soprattutto questo
che oggi dovremmo riuscire a ricostruire, con i soggetti, i bisogni e le
soggettività di oggi, nel tempo della crisi - e del bisogno disperato - della
politica? Non è uno dei nostri compiti prioritari proprio la rifondazione della
politica? A me pare si collochi qui il tema cruciale della
"rifondazione". Ereditiamo un passato che, per nostra fortuna, non si
fonda solo su grandi, complesse e tragiche esperienze statuali, ma su grandi
movimenti, organizzazioni ed esperienze che hanno inciso in profondità nella
storia e nella costituzione materiale del mondo.
Il comunismo non è stato, nient'affatto, la proiezione
meccanica di Stati o di grandi potenze politiche: è stato, giust'appunto,
"il movimento reale" che molto ha abbattuto, molto ha costruito,
molto ha seminato, molto ha sbagliato. Un lungo ciclo storico - segnato dalla
III Internazionale - si è compiuto. Se crediamo di avere tra i nostri compiti
prioritari quello di contribuire a iniziarne uno nuovo - io ne sono del tutto
persuasa - possiamo trarre da esso molte lezioni: a condizione di avere il
coraggio di uscire da ogni rimozione, o da ogni consolatoria certezza.
RINA GAGLIARDI
da Liberazione 7-1-'04
Ingrao: "Bertinotti rompe uno schema"
Intervista al "grande vecchio" della
sinistra comunista: "Il pacifismo è la strada giusta"
A Pietro Ingrao il ragionamento con cui Fausto
Bertinotti ha concluso il convegno veneziano sulle Foibe, svoltosi in dicembre,
è piaciuto davvero molto. Domenica scorsa, quando Liberazione ha pubblicato
l'ampio testo del segretario di Rifondazione comunista, se l'è letto con cura,
ha preso appunti su un taccuino, come sua abitudine, infine si è fatto vivo con
noi, manifestando la voglia di svolgere sul nostro giornale una
"riflessione a voce alta". Una telefonata a Sandro Curzi, ieri
mattina, ovviamente comprensiva degli auguri per il 2004, ed ecco l'intervista
che abbiamo realizzato - nella giornata particolare dell'Epifania romana, molto
soleggiata e assai gelida, affollata di famiglie e ragazzini non ancora paghi
di questo lungo clima festivo. Come sempre, Pietro ci accoglie nella sua casa
al quartiere Nomentano con il suo fare affettuoso, caloroso e inflessibilmente
"lavorista": appare in ottima forma e più che mai dedito al vizio che
lo ha sempre caratterizzato, quello di pensare in grande. "Questo testo di
Fausto" mi dice subito "mi pare proprio di grande interesse.
Soprattutto, mi appare fecondo per gli sviluppi, il tipo di lotta e il lavoro a
cui chiama. Per la densità e la novità delle sue posizioni, insomma, apre molte
domande, sollecita un impegno serio di riflessione ed elaborazione, anche in
rapporto alla lettura dei processi reali". Molti di questi interrogativi,
o forse tutti - anticipiamo uno dei temi principali che compariranno alla fine
di questa conversazione - ruotano attorno al tema dell'efficacia del pacifismo
e della politica. La domanda del "come" si incide sui poteri reali -
e sempre più terribili - del nostro tempo. Ma, prima, ci sono molte
considerazioni da fare.
Che cosa ti ha più interessato e stimolato, nel testo
di Bertinotti?
In generale, mi ha colpito il ragionamento che propone
sul pacifismo e sulla lotta armata. In questo testo, non c'è solo la netta
condanna dello stalinismo, ma qualcosa che va oltre: la capacità di rompere uno
schema - anche un immaginario - che era profondamente radicato in tutti noi,
nella stessa tradizione leninista. Questo schema è quello della rivoluzione
come assalto armato al Palazzo d'inverno, come il momento nel quale scatta la
necessità dell'ora X, dell'attacco finale al potere. Uno schema politico che è
stato celebrato tante volte nell'arte e nella poesia, fino al punto da saldarsi
con la storia - la nostra storia del mondo. Penso ai film di Ejzenstein e a
tanta parte della cinematografia sovietica. Ma penso anche alla letteratura
marxiana precedente: la Comune di Parigi, una vicenda gloriosa che poi è
diventata oggetto di immagini, di simboli, di culto. C'era in noi - voglio dire
- la persuasione profonda della dura necessità della lotta armata, che era
tornata con forza nella tragedia degli anni '30. E non eravamo affascinati da
una frase marxiana (la violenza come "levatrice della storia") di cui
eravamo intrisi anche nei momenti più intensi della lotta per il disarmo?
Vuoi dire che per i comunisti di molte generazioni,
compresa certo la tua, la dimensione violenta della politica e della
rivoluzione è stata un valore, sia dal punto di vista razionale che da quello
emotivo?
Voglio dire che per molte e diverse ragioni - prima di
tutto qui entrano le biografie, i vissuti, le storie personali, come quella di
chi, come me, è interamente cresciuto nel XX secolo - per molti anni non
abbiamo avuto una vera distanza critica né dalla violenza né, certo, dalla
guerra. Ricordo molto bene lo sgomento che io ho provato al momento del patto
di Monaco, ricordo bene l'ira, l'odio vero e proprio verso i
"monacensi" e verso Chamberlein, insomma verso quell'imbelle
cedimento all'aggressione hitleriana. Un sentimento che poi fu ribadito nel
periodo terribile del crollo della Francia, con l'Europa intera che cadeva
nelle mani del nazismo. Poi, negli anni successivi, ci furono le cataste di
morti, i lager, le torture, fino al 1945. E ci fu, da parte nostra, l'epica
della controffensiva e della partigianeria. Un canto come "Bella ciao"
non è forse la celebrazione poetica di quest'epica?
...anche un canto come quello dei "maquis"
francesi, che chiama alla lotta, esalta il "fardeau" della dinamite e
anche il sacrificio supremo ("ami, si tu tombe, un ami sort de l'ombre à
ta place" "amico, se tu cadi, un amico sorge dall'ombra al tuo
posto") ...
Appunto, ciò che io chiamo "lettura poetica"
è questa esaltazione della chiamata alle armi, e anche del cadere per la
libertà con le armi in pugno. Questa idea è rimasta stampata nelle mie viscere,
se posso dirla così, anche negli anni successivi, quando avevamo scelto fino in
fondo in Italia la strada della lotta democratica. Nel fondo di noi stessi, non
avevamo rinunciato all'idea di un "momento finale" che prima o poi
poteva o doveva arrivare. L'ora X, abbiamo detto. Ma anche la sensazione di
vivere su un crinale di frontiera - quante volte abbiamo paventato un golpe,
dormito fuori casa, temuto il complotto dei generali? Mi torna in mente
un'espressione di Foster Dulles (segretario di Stato degli Usa tra il '53 e il
'59, durante la presidenza Eisenhower, sostenitore della guerra fredda e di un
rigido antisovietismo, Ndr) che certo oggi è dimenticata: parlava dello stato
del mondo come di una "danza sull'orlo dell'abisso".
Poi ci fu la gloriosa vicenda del Vietnam, in comune a
più di una generazione di comunisti e di rivoluzionari...
Anche il Vietnam, sicuramente, è parte di questa
storia di liberazione consegnata alle armi. Scusa se tendo a esibire i miei
ricordi. Ma mi torna nella mente l'emozione che provai nel corso di un viaggio
proprio in Vietnam, nei primi anni '70: fui portato a un passo dal fronte di
guerra, dormii sotto una tenda, vicino a un soldato che sembrava un bambino, e
tante cose, in quella terra, evocavano la sensazione fortissima che c'era una
soglia armata ineludibile, per conquistare la libertà...
E oggi?
Non so: forse dobbiamo avere il coraggio di fare un
salto? Fausto, questo salto, lo fa: segna uno stacco dall'idea dello scontro
armato come liberazione, prospetta linee di un nuovo e radicale pacifismo. Lo
fa con una nettezza e una limpidezza - ma oserei dire anche con una semplicità
- che raramente ho avvertito. E mi pare molto significativo il modo con il
quale intreccia questi temi con la condanna della guerra preventiva di Bush (quella
che, segnalo cocciutamente, è per me la grande novità del III millennio)
insieme con una ripulsa altrettanto netta del terrorismo. Da parte mia, vorrei
solo porgli alcune domande che proprio questo ragionamento mi ha sollecitato.
Falle, queste domande
C'è una questione che Fausto non esplicita. In
un'epoca in cui la guerra è a tutto campo e non è più, come nel crudo secolo
che ci sta alle spalle, una scelta "obbligata" ma, come appena
stavamo dicendo, si fa "preventiva", come si risponde all'aggressione
armata? Che cosa si fa contro la violenza armata dell'aggressore? Qui torna una
parola - il "resistere" - che mi è costata un incidente per me
piuttosto sgradevole: un'intervista alla Repubblica in cui, poiché parlavo
della necessità per il popolo iracheno di "resistere", ero indicato
nel titolo come un amico di Saddam Hussein. Ma quali sono, se ci sono, le
alternative alla "resistenza"? Come si affronta l'ingresso concreto
della violenza delle armi nella nostra vita?
In questa tua più che logica domanda, mi pare
sottovalutata la questione della forza tremenda, gigantesca, che hanno
acquistato gli apparati della guerra - parlo di quelli nordamericani,
ovviamente, che sono più potenti, distruttivi e terrorizzanti dell'insieme del
resto del mondo. Mentre fino a un certo punto - nel secolo scorso - si poteva
non solo "resistere" ma anche e soprattutto vincere (il Vietnam che
tu stesso ricordavi è stata una lotta vincente, sia dal punto di vista politico
che militare), oggi questa possibilità non è data - per lo meno, la
sproporzione appare, allo stato, incolmabile. Una delle ragioni più importanti
per cui torna il terrorismo, e si affacciano pratiche come quelle degli
attentati suicidi, non è proprio questa impossibilità di vincere sul terreno
dello scontro militare?
Io sono ben persuaso che il terrorismo non è la
risposta da opporre alla guerra - e apprezzo molto, nel testo di Bertinotti,
anche questa condanna, che può sembrare ovvia, ma non lo è per nulla. E' vero
però che noi non abbiamo ancora elaborato una strategia di risposta al
terrorismo: anche al terrorismo che si pone di fronte a un avversario, come gli
Stati Uniti che, certo, hanno messo in piedi uno strapotere così soffocante. La
mia non è una polemica, è un assillo: quale strada possono percorrere questi
milioni di persone, questi popoli, per respingere la violenza americana? C'è, o
no, un obbligo di resistere, anche con le armi? C'è un diritto di difesa che
non deve o non può rinunciare al loro uso? Quello che sto cercando di dire, è
che non abbiamo lavorato abbastanza su questo tema - anche se e quando la
nostra ricerca pacifista è cominciata da anni. Ho partecipato alla prima marcia
Perugia-Assisi, quella di Capitini e Lombardo Radice: continuo a pensare oggi
come allora che il pacifismo sia la stella di un nuovo mondo, e mi colpisce che
il segretario di un partito, il quale affonda alcune delle sue radici nel
leninismo, indichi oggi nitidamente e imperiosamente quella strada pacifica. Il
fatto è che a noi, alla nostra generazione, è apparso ineluttabile quel
percorso di liberazione dallo sfruttamento capitalistico, di uscita dalla
soggezione, che una parte del mondo non poteva non compiere attraverso la lotta
armata. Mia moglie Laura, che era una persona mite, nella mia casa aveva posto
su un cassettone della nostra stanza, bene in vista su tutto, il ritratto di
"Che" Guevara...
...un simbolo glorioso non solo della rivolta armata,
però, ma anche di una sconfitta. Non credi che, tra le risposte ineludibili, ci
debba essere la riaffermazione della politica? Della politica come
"arma" che sconfigge la logica della guerra?
Ci credo o almeno ci spero. E con altri - Oscar Luigi
Scalfaro, per esempio - ho chiamato in campo un testo tutto
"politico" come la Costituzione Repubblicana. Ho chiesto
pubblicamente se l'articolo 11 della Costituzione - che, per l'Italia, ripudia
ogni guerra che non sia di difesa - sia valido ancora o invece no. Non ho avuto
risposta. Mandiamo i nostri soldati a morire a Nassiriya, li esaltiamo e li
celebriamo come martiri, li salutiamo commossi quando tornano nelle loro bare.
E poi? Io continuo a chiedere: l'articolo 11 è valido o no, nei confronti della
nuova guerra americana? Chiedo a me stesso e anche ai miei amici, ai giovani
dei grandi cortei, a cui ho partecipato, e quali sono i luoghi, gli enti, le
istituzioni che possono agire, in concreto, per respingere e inibire questa
nuova pratica della guerra?
I tuoi dubbi e i tuoi interrogativi, mi pare, ruotano
tutti attorno ad un unico tema, l'efficacia della politica. O mi sbaglio?
Non ti sbagli. Voi di Liberazione - faccio un altro
esempio - avete fatto e continuate a fare, giustamente l'esaltazione dei
movimenti. Ci sto, come sapete. Ma, testardamente, continuo a proporre il tema:
come si incide sui poteri? Come si incide sulla politica data? Io sono
"vecchio", non solo anagraficamente. Non ci credo che la politica sia
morta...
...o perduta, come dice Marco Revelli
No, la politica c'è. Anche gli americani fanno
politica, la loro politica: non usano solo l'esercito, le armi. E non sono
nemmeno un blocco compatto; sono un paese complesso, articolato. E noi dobbiamo
apprendere meglio a pesare anche su questo colosso chiaro-oscurato, su questo
globo complicato in cui viviamo. Non è questo forse un punto-chiave anche per
il domani della nuova Europa che è in cantiere, e di cui pensiamo e speriamo di
essere un attore forte, importante? E quando, domani, andremo a votare su
questa Unione, non saranno le questioni di cui abbiamo ora discusso insieme
veri e propri punti-chiave su cui dobbiamo discutere e chiamare a pronunciarsi
la gente di questa Penisola, di questo estremo lembo europeo che da millenni si
sporge verso quella soglia dell'Asia oggi in fiamme?
Rina Gagliardi
Essere comunisti
essere in cammino
Cari direttore Curzi, scusa se chiedo di intervenire
in ritardo ma, al di là dell'ormai famoso articolo di "Repubblica",
la cosa che mi sconforta di più è leggere la diffidenza di molti compagni
proprio sul tema della rifondazione. Sembra davvero che il percorso che tutti
assieme abbiamo condiviso da Livorno in poi, passando per il V Congresso, sia
andato sprecato. Tutto questo ostentare "identità", questa voglia di
"definirsi", è come avere del piombo fra le ali (e basterebbe
ricordare Marx che ripeteva di "non essere marxista"). Mi domando, ma
di quale identità stiamo parlando? Che cos'è l'identità? Secondo me o
l'identità è una cosa viva, che si nutre della realtà, che fa i conti con la
realtà, che la si può usare per cambiare la realtà, oppure è solo una cosa
vuota. Credo che Franco Fortini, abbia dato una delle più belle definizioni
all'essere comunisti, una definizione che penso possa andare d'accordo con la
stragrande maggioranza di noi tutti: "essere comunisti significa essere in
cammino". Camminare, attraverso la storia, attraverso le lotte, attraverso
le vittorie, attraverso le sconfitte, ma mai fermarsi, mai guardare indietro.
Dobbiamo continuare a camminare, anche perché c'è già chi lo fa,
indipendentemente da noi. Noi dobbiamo continuare questo cammino da comunisti,
e dobbiamo farlo sperimentando nuovi percorsi di liberazione delle uomini e
delle donne, una nostra nuova idea della rivoluzione, in piena sintonia con
quel "movimento reale" che abolisce lo stato di cose presente.
"Siamo gli stessi di prima, sì ma siamo nuovi", come scrive il
Subcomandante Marcos. E' questo la rifondazione che un giovane come me, appena
nato durante il crollo del Muro, si aspetta dal mio partito.
Daniele Lombardi via e-mail
Coinvolgere
tutto il partito
Caro Sandro, cara Rina, come è difficile comunicare in
questo partito! Quello che continua a colpirmi è il vespaio che può suscitare
un articolo di "Repubblica": le numerosissime lettere che hanno
seguito quelle dei due compagni con cui ho interloquito confermano, a mio
avviso, che dietro la critica/richiesta mossa al giornale (che non c'entra
nulla con la dietrologia!) ci sono questioni che hanno bisogno di un
approfondimento che coinvolga l'intero partito. Di questo
"Liberazione" è parte fondamentale, ma senza chiedere che essa svolga
ruoli di supplenza. Non mi sento, in due righe, di dire la mia sui temi del
comunismo e della rifondazione e perciò spero si determini una sede propria
alla discussione. Intanto vi ringrazio per il contributo che già avete dato in
tal senso.
Graziella Mascia
da Liberazione 8-1-'04
Sulle proposte di Bertinotti e l'intervista di Ingrao,
una lettera del direttore di "Carta"
Comunisti nonviolenti? Si può
Caro Sandro,
siccome leggo tutti i giorni Liberazione (insieme al
manifesto e al messicano La Jornada è il solo quotidiano che la mattina guardo
sicuramente), sto seguendo con grande interesse la discussione, le lettere e le
interviste, come quella di Rina Gagliardi a Pietro Ingrao, seguite alla
ri-pubblicazione di un certo articolo della Repubblica. Dato che, come sai,
quel tema - la nonviolenza - Fausto Bertinotti l'ha trattato in principio
rispondendo su Carta, il mio giornale, a una lettera aperta di Marco Revelli,
ho deciso di auto-invitarmi in questo dibattito. Anche se non ho la tessera di
Rifondazione, sono certo che mi permetterai questa piccola violazione del
galateo: d'altra parte, la lettera di Revelli e la risposta di Bertinotti
furono simultaneamente pubblicate anche da Liberazione, per essere poi riprese
da Paolo Mieli sul Corriere della Sera, e infine - ma solo infine - dalla
Repubblica. Quindi siamo sulla stessa barca, per così dire.
Ricostruire il percorso di questa discussione sulla
nonviolenza non serve a rivendicare un primato (sebbene anche: dibattere tra
noi è sempre meglio che lasciare ad altri, che hanno altri interessi,
l'opportunità di interpretarci), ma a dire che, leggendo leggendo, mi sono
fatto questa idea: che il punto su cui i tuoi lettori e gli iscritti a
Rifondazione stanno discutendo non è precisamente quel che appare. Molte
lettere sembrano porre così il problema: è giusto, in questo momento,
rinunciare a simboli, parole, schemi interpretativi e modi di azione
consolidati, o tradizionali, della sinistra comunista? Posta questa domanda, si
capisce angosciosa per molte persone che attorno a quella parola,
"comunista", hanno costruito una vita intera, ci si divide, spesso
duramente, tra chi pensa che sì, è opportuno, e chi no, è sbagliato, è un
tradimento, un cedimento, e così via.
A me pare invece, lo dico con qualche timidezza, che
la domanda di fondo, quella che secondo la mia impressione muove Bertinotti,
sia la stessa che, in fondo, sta nella ragione sociale del partito, nel suo
stesso nome: rifondazione. La questione è: in che modo, adesso, archiviato il
secolo, nel mondo della guerra permanente ("la grande novità del terzo
millennio", dice Ingrao nell'intervista a Rina), si può essere altrettanto
radicali (intransigenti, alternativi, attivi nel cambiare il mondo...) quanto
lo furono i comunisti, attorno, diciamo, alla fine della prima guerra mondiale
e l'inizio degli anni venti del Novecento, quando ruppero a loro volta con una
tradizione, quella della Seconda Internazionale?
Vedi, sto scrivendo questa lettera come se fossi in
una piccola vacanza, perché in questi giorni sono sommerso dalla traduzione del
libro sui dieci anni di insurrezione zapatista, El fuego y la palabra, che
Carta pubblicherà tra qualche settimana. Il libro contiene, oltre a una
lunghissima auto-intervista del subcomandante Marcos, decine di testimonianze
di indigeni, molti dei quali insurgentes, come dicono loro, ossia soldati
dell'Esercito zapatista. E quel che mi colpisce, leggendole, è quanto quegli
uomini e quelle donne - che senza ombra di dubbio si stanno ribellando, sono
antagonisti del neoliberismo - si interroghino su come hanno iniziato, con le
armi in pugno, e su dove sono arrivati, a considerare come loro principale
proposta ("civile e pacifica", dice Marcos) quella dei Caracoles, i
municipi autonomi, insomma l'auto-organizzazione democratica dei popoli zapatisti.
E il prima, le armi, e il dopo, i municipi, convivono spesso
contraddittoriamente in una stessa persona, un militare, si badi bene, per
quanto rivoluzionario, che magari dice "le armi sono ancora qui", e
poi aggiunge "però non dobbiamo diventare militaristi", e conclude
"la cosa più importante è l'autonomia delle comunità".
Ora, mi pare, Bertinotti dice: una scelta nonviolenta
è la condizione necessaria per una radicalità reale, che cioè non si limiti
all'atto di proclamare la propria opposizione. E questo proprio perché è il
linguaggio della violenza quello con cui il dominio parla: la guerra
permanente, appunto. Revelli fa un passo oltre, per me convincente: in fondo,
dice, il linguaggio della violenza, per quanto rivoluzionaria, entra nello
stesso ordine del discorso imperiale, quindi è per sua natura il mezzo di una
trattativa. Mentre la nonviolenza scarta di lato, o altrove, è una lingua
talmente differente da quella dominante da non poter che essere intransigente.
Qui è il nocciolo della questione. Cui si arriva,
anche, mettendo in conto non solo la diversità dell'epoca in cui si è costruito
quel corpus di pensiero e azione che è stato il comunismo del Novecento, ma i
suoi - a fare un bilancio - evidenti e tragici fallimenti. Su cui c'è poco da
discutere: l'idea della conquista violenta del potere, per poi da lì trasfomare
la società, è, come dice molto autorevolmente Ingrao, uno schema del passato.
Il movimento "altermondialista", tutto intero e in tutte le sue
diversità, sta cercando di trasformare la società in modo che il potere sia il
più disperso possibile.
Infine, i nomi e i simboli. Quando mi chiedono se sono
"comunista", rispondo citando Lenin, il quale decise che il Partito
socialdemocratico russo (bolscevico) dovesse assumere il nome di comunista discutendone
con i suoi compagni sul treno blindato, fornito dal Kaiser tedesco, che dalla
Svizzera lo riportava in Russia, nel 1917. Gli pareva, probabilmente, che
l'aspirazione alla democrazia sociale (da cui "socialdemocratico")
aveva bisogno di un altro "logo", per potersi rinnovare, segnando una
frattura con il movimento operaio fin lì organizzato. Io sì, sono comunista,
per forza, dopo più di trent'anni di giornalismo di questo tipo. Ma se mi
chiamano "altermondialista", di "quelli di Genova",
"filozapatista", o anche "pacifista", o quel che serve in
quel momento per significare che esiste un'altra possibilità, non sto a
reclamare. C'è posto per tutti, nel mondo che, come dice quel tale mascherato,
contiene molti mondi.
Grazie per l'ospitalità.
Pierluigi Sullo
Direttore di Carta settimanale
C'è proprio bisogno
di idee nuove
Caro Curzi, bellissimo il dialogo a distanza, su
"Liberazione" tra Bertinotti e Ingrao sulle grandi questioni di
questo mondo del terzo millennio (pace, non violenza, terrorismo). Finalmente
la politica vola alto, come avrebbe detto anni fa Alfredo Reichlin. E Dio sa
quanto c'è oggi bisogno di idee nuove. Spesso, infatti, è difficile trovare sui
quotidiani (ricchi di pagine, ma scarsi di cervello) qualcosa, almeno uno
spunto, che ti stimoli a riflettere al di là delle tristissime cronache del
giorno. Ad esempio nel mio giornale preferito, "Il Corriere della
Sera", io salto tante cose inutili e corro a leggere tutti i giorni
l'angolo delle lettere curato da Paolo Mieli, perché lì quasi sempre trovo
qualcosa che mi interessa. La mia scoperta di "Liberazione" con
l'intervento di Bertinotti, "L'orrore della guerra", che prendeva
spunto dalle polemiche sulle foibe e ieri la risposta, sempre su
"Liberazione" di Pietro Ingrao, nell'ottima intervista di Rina
Gagliardi, sono dovute, caro Sandro, alla segnalazione di un anziano amico
comune, Camillo Martino, ormai tuo lettore abbastanza abituale. Forse dovresti
pubblicizzare meglio il tuo giornale per smuovere anche pigri come me.
Comunque, ti ringrazio per quello che fai, forse sei uno dei pochi, della
nostra generazione, ad avere ancora entusiasmo e voglia di fare. Permettimi,
infine, una conclusione: Pietro Ingrao, le sue argomentazioni, la sua lucidità
di analisi rappresentano per tutti noi ex Pci ancora una bussola valida.
Lorenzo Galli via e-mail
Televisione
Disintonizziamoci
da Rete4
Cari compagni ho pensato ad una semplice misura per
ovviare all'arroganza berlusconiana: dal 1 gennaio 2004 ho provveduto a
desintonizzare Rete 4 dalla mia tv di modo che ad essa si possa accedere solo
via satellite come previsto dalla famosa sentenza della corte costituzionale.
Facciamolo tutti, non ci possono certo imporre quali canali poter vedere e a
quel punto i loro decreti e le loro leggi non serviranno a nulla.
Renato Marangon via e-mail
movimenti
Prima c'era
una saracinesca...
Cara "Liberazione", prima c'era una delle
tante saracinesche abbassate che si vedono nei nostri quartieri, dove da anni
hanno chiuso piccoli negozi, botteghe artigiane, circoli ricreativi e mancano
spazi di aggregazione sociale e culturale. Ora, un gruppo di abitanti della
zona ha deciso di tirarla su quella saracinesca, e invitiamo tutti ad entrarci
per costruire un luogo accogliente, pieno di iniziative e di socialità. Siamo
convinti che le proposte non mancheranno, perché sappiamo che il nostro
territorio ha molte e vitali energie da esprimere, che purtroppo non trovano
luoghi e risorse per poterlo fare (pensiamo alle tante associazioni che si
trovano sul territorio, animate dalla passione e dalla voglia di fare
qualcosa). Nello Scup (Spazio Culturale Peperino) in via del Peperino 19-21 nel
quartiere di Pietralata a Roma, d'ora in poi sarà possibile fare cinema,
teatro, musica, mostre, incontri e dibattiti, consulenze, informazioni e assistenza
sui temi del lavoro, della casa, dell'immigrazione, momenti ricreativi,
feste...
Comitato d'occupazione Peperino Roma
non-violenza
Coerenti
con la nostra storia
Caro direttore, l'insistente richiamo di Bertinotti
alla non violenza non introduce nessuno elemento di novità nella linea di
Rifondazione. Noi che abbiamo raccolto l'eredità del Pci, abbiamo sempre
ispirato la nostra azione politica ai principi della non violenza in coerenza
con gli insegnamenti di dirigenti della statura di Togliatti, di Longo, di
Berlinguer, i quali hanno sempre parlato di via democratica al socialismo, di
laicità dello Stato, di pluralismo e di pace e che non hanno mai giustificato
episodi di violenza consumata nelle vendette personali. Bertinotti dovrebbe,
comunque, evitare di assumere la non violenza come valore assoluto altrimenti
rischia di portare acqua al mulino di chi vuole criminalizzare la Resistenza
che, come è noto, non è stato un pranzo di gala.
Lucio Piccoli via e-mail
Un dibattito
fuorviante
Cara "Liberazione", negli ultimi tempi su
giornali/riviste della sinistra sono apparsi degli articoli, i cui autori
principali sono stati Rossana Rossanda, Fausto Bertinotti e Marco Revelli che
hanno riaperto una discussione attorno alla fondamentale scelta della non violenza
come elemento dirimente per il raggiungimento di una società nova...
Aggressioni militari dell'impero statunitense e terrorismo islamico, la
politica omicida dello Stato di Israele ed i kamikaze palestinesi, la polizia
dei fatti di Genova del luglio del 2000 e le Brigate rosse... Per sfuggire a
questo dualismo, a vostro dire l'unica scelta è quella della non violenza.
Francamente a noi ci sembra che su questi argomenti si ragioni molto
sull'impatto degli eventi e molto poco sui contesti. Secondo noi il nodo così
come è stato posto è fuorviante e forse nasconde un altro problema, forse non è
più credibile un superamento del capitalismo viste le sconfitte che ci sono
state in questi anni? Forse le uniche battaglie credibili sono quelle di un
riformismo che miri ad una sorta di società capitalista dal volto umano molto
"partecipata"?
Comitato di Quartiere Alberone Roma
foibe
Un segnale
importante
Cara "Liberazione", personalmente concordo
con l'analisi e le conclusioni da espresse da Bertinotti a Venezia a proposito
delle "foibe". Si tratta di dichiarazioni necessarie anche al fine di
separare le responsabilità di elementi locali delle formazioni partigiane da
quelle del comando dell'armata di Liberazione jugoslava e soprattutto dal Cln
italiano. Ma soprattutto è un segnale importante, nell'attuale momento
politico, per dimostrare che la sinistra italiana - le cui origini sono
nell'antifascismo e nella Resistenza - persegue la verità storica contro il
revisionismo strumentale. Purtroppo è un segnale isolato, che se qualifica la
l'onestà intellettuale e politica di Bertinotti non può essere considerato a se
stante. In questo contesto stiamo preparando una pubblica manifestazione con i
partiti che riconoscono le loro origini nell'antifascismo e nella Resistenza,
con i sindacati, con i movimenti della società civile, manifestazione che a
fronte di elucubrazione sul fascismo buono (cattivo solo per via della Shoah) e
sulla distinzione tra partigiani generosi e patrioti e partigiani assassini
asserviti all'ideologia comunista, ci trovi uniti per respingere falsità e
interpretazioni arbitrarie (anche ad opera di intellettuali che si dichiarano
di sinistra). Il decadimento delle istituzioni democratiche si accompagna con
il revisionismo storico strumentale, elemento non secondario per attuare un
disegno politico teso a sovvertire gli stessi dettami costituzionali che
richiedono l'attuazione dello Stato sociale.
Massimo Rendina Associazione nazionale Partigiani
d'Italia, Roma
Un cambiamento
troppo repentino
Caro Curzi, sono una compagna di Venezia che ha
partecipato all'ormai famoso dibattito avente come fulcro la discussione sulle
Foibe. Devo dire che sono rimasta sconcertata. Non sono per nulla soddisfatta
da questo repentino cambiamento di linea del Partito e da questa nuova visione
storica degli avvenimenti che hanno tragicamente segnato lo scorso secolo.
Laura Biasutti Venezia
da Liberazione 9-1-'04
Contro guerra e terrorismo la dissociazione non basta.
Non si può leggere senza emozione il testo di Fausto
Bertinotti. Il solo fatto che queste cose siano state pensate, e proposte come
asse di un ripensamento radicale della storia vissuta, e di una altrettanto
radicale novità della storia da costruire, e che siano dette non in una
comunità di illuminati o in un laboratorio di pensiero, ma in un partito che
agisce nella lotta politica reale e che partecipa, già in sede locale, a
responsabilità di governo, costituisce un evento: qui sono rifiutate le
antropologie pessimistiche, il sindacalismo della disperazione e il fatalismo
dell'esistente; qui si ricomincia a pensare la politica, i suoi mezzi e
soprattutto i suoi fini. Altra questione è naturalmente che queste cose possano
diventare patrimonio condiviso e linee di azione per grandi aggregazioni umane;
ciò richiede che esse siano vagliate e integrate; e poiché comportano un
cambiamento di mentalità, non possono che passare attraverso il fuoco del
dibattito e delle esperienze vitali.
La conversione consiste nel passaggio dal pensiero
della guerra (quale è stato presente anche nella tradizione comunista) al
pensiero della pace, e dalla accettazione dei metodi della violenza alla
adozione di mezzi alternativi di resistenza e di costruzione politica, mezzi
"deboli" e nonviolenti. Tuttavia ciò non equivale a scegliere la politica
contro la guerra e la ragione contro il terrorismo: perché anche la guerra fa
politica e anche il terrorismo ha le sue ragioni; se il mondo tutto rappreso
nell'antitesi tra guerra e terrorismo non avesse né politica né ragioni, non
sarebbe un mondo umano; come infatti ciascuna delle due parti nega l'umanità
dell'altra. Ma così non è; è con uomini che abbiamo a che fare, sia quelli
della guerra perpetua sia quelli del terrorismo infinito, ed è perciò che
possiamo non vedere in loro solo il nemico.
Dunque la dissociazione non basta; si tratta di fare
una politica che intenda e superi la politica della guerra e di avanzare
ragioni che identifichino e rovescino le ragioni del terrorismo. Ciò vuol dire
che l'opposizione alla guerra e al terrorismo va storicizzata; noi non siamo
del mondo della guerra e del terrore, ma siamo nel mondo della guerra e del
terrore, né vogliamo toglierci da esso; uscirne, sì, ma tutti insieme,
attraverso la lunga fatica della storia. A metà del 900 sembrò che questo lungo
cammino di secoli fosse compiuto, per quanto riguardava la guerra, e la
mettemmo al bando del diritto, papa Giovanni addirittura la mise fuori della
ragione. Ma evidentemente quel tempo ancora non era finito, e ora dobbiamo fare
un altro duro pezzo del cammino; ma non metteremo fine alla guerra
all'improvviso, né ci impadroniremo della pace con un gesto di rapina. Il tempo
che resta, lo spazio intermedio è quello della politica. Anche il movimento
no-global è atteso alla prova della politica.
Storicizzare la questione della guerra e del
terrorismo vuol dire fare analisi separate dell'una e dell'altro. Avendo ben
presente che l'uno è figlio dell'altra: diceva padre Turoldo che lo scontro tra
loro è uno scontro edipico, perché "il terrorismo di cui parla l'informazione
ufficiale non è che il figlio naturale - neppure bastardo - dell'altro
terrorismo che è sprigionato dall'Occidente" e che oggi - proprio per la
volontà di un dominio universale senza egemonia - prende le forme della guerra
preventiva e perpetua. Capire questo non vuol dire giustificare, ma nemmeno
permette l'indistinzione tra il governo imperiale e il governo del terrorismo,
pur entrambi, come dice Bertinotti, "repellenti". Ma la distinzione
permette di far politica, e proprio lì dove noi possiamo di più, perché la
guerra oggi sgorga dal nostro campo.
La guerra è sempre stata un orrore. Ma perché oggi
apre una crisi di civiltà e può risolversi in catastrofe? Perché la guerra oggi
è rimasta prerogativa di una parte sola, anzi di una sola potenza. Gli Stati
Uniti, per stabilire la loro sovranità universale, si sono riappropriati della
guerra, ma nello stesso tempo l'hanno resa a tutti gli altri impossibile.
Creando e gloriandosi di avere una potenza militare senza pari e quale mai si è
avuta nella storia, inventandosi una guerra dove si dovrebbe morire da una
parte sola, affidandosi ad armi intelligenti e maneggiate da lontano, e
sprigionando una superiorità schiacciante su qualsiasi avversario, hanno reso
la guerra, fatto di per sé essenzialmente dialettico, per chiunque altro
impossibile. Chi osa resistere loro in guerra fa la fine della Yugoslavia,
dell'Afghanistan, dell'Iraq. Le sole guerre che sono ancora possibili sono
quelle tra poveracci, le cosiddette guerre dimenticate. Ma con l'America non
c'è partita, se la partita è la guerra.
E allora se la guerra è stata resa impossibile, il suo
surrogato è il terrorismo. Non potendo ricorrere al terrorismo principale, che
è la guerra, che si combatte con armi pubbliche (publicorum armorum contentio),
si ricorre al terrorismo secondario, che si combatte con "armi
private". Il terrorismo è la guerra degli sconfitti, che non vogliono
continuare ad essere sconfitti, e che sperano di non essere più oltre
sconfitti. E' terribile ma è ancora umano; e perciò è politico, ed è
suscettibile di una soluzione politica. Ricomprendere tutte le possibili
resistenze nell'unica categoria del terrorismo, che si tratti di ceceni,
palestinesi, latino americani o iracheni, vuol dire non riconoscere più alcuna
causa. Forse quelle di ieri, in modo che si possano ancora guardare i film
western stando dalla parte degli indiani, ma non quelle di oggi. E' questa
l'operazione dell'Occidente, ma è appunto questo che impedisce ogni uscita
politica. La denuncia dell'orrore della violenza, e la scelta nonviolenta che,
come giustamente ricorda Bertinotti, si può fare anche stando nel cuore della
Resistenza (non violento era Dossetti, che comandava il Comitato di Liberazione
Nazionale a Reggio Emilia) non possono che accompagnarsi alla intrapresa di un'altra
strada che permetta agli umiliati di intravedere un'alba di giustizia.
Quest'altra strada, per noi, è di togliere
politicamente all'ultima guerra rimasta, quella asimmetrica della Grande
Potenza per la quale tutti gli altri sono "combattenti illegali", le
radici di cui si nutre nel mitico sogno di un unico dominio, di un unico
modello di reggimento politico, di un unico ordinamento economico, di un nuovo
grande Leviatano che con mano invisibile gli uni destina alla salvezza, gli
altri alla perdizione. Tornare al diritto, tornare all'ONU, tornare alla
costruzione di una comunità mondiale nella quale pace e sicurezza siano
indivisibili per tutti e l'eguaglianza torni ad essere il valore, così
faticosamente conquistato, che riconosce pari in dignità e diritti tutti gli
esseri umani e le "nazioni grandi e piccole": questa è la politica
oggi negata, e che occorre riaprire. L'Europa certo può fare la sua parte; e
per questo è attaccata, non solo da Israele o dagli anonimi di Bologna, ma
dalla destra al potere in America, che solo qualche settimana fa lanciava,
sulla copertina della sua rivista, la parola d'ordine: "Against United
Europe", contro l'Unione Europea.
Coraggiosamente Bertinotti riapre il dossier della
storia comunista. Su questo non tocca a me interloquire. Ma credo che la
sconfitta non dipenda solo dalla violenza da cui essa è stata contaminata. C'è
stato un limite, che Claudio Napoleoni ha indagato, nella capacità stessa di
concepire il superamento del capitalismo. Su questo occorre tornare a pensare.
Ma intanto nella rivisitazione a me piace ricordare che proprio nell'imminenza
della sconfitta, dal cuore del potere sovietico, fu avanzato un grande
progetto, politico, "per un mondo libero dalle armi nucleari e non
violento". Fu quella, credo, la grande occasione perduta del Novecento.
C'è dunque molto filo da tessere. È un grande merito
del segretario di Rifondazione avere aperto, con la sua iniziativa, una nuova
prospettiva di riflessione e di azione per tutti, ma soprattutto per i giovani.
Poco prima di morire, Giuseppe Dossetti, a Massimo D'Alema che era andato a
trovarlo a Monteveglio, chiese: "Ma voi, che cosa fate per i giovani?
". Questa di Bertinotti mi sembra una prima risposta.
Raniero La Valle
La nostra storia,
il presente, il futuro
Caro Curzi, confesso che faccio fatica a capire questa
disputa che dura da tempo sulla "violenza" e "non violenza"
e che coinvolge non solo il presente ma anche la storia ed il futuro. La mia
generazione ha imparato (in una vita di duri scontri) quel che diceva Bertold
Brecht: "Anche l'ira per l'ingiustizia rende la voce roca". Stravolge
la nostra stessa faccia. C'è il rischio incombente di diventare altri; contrari
dei valori che si vogliono affermare. Mutare la nostra stessa natura. La nostra
scelta è "non violenta". Vogliamo l'azione di massa non di sola
protesta. Ma di proposta. Intelligente; forte sui contenuti, capace di
allargare i consensi al di là della piazza. Capace quindi di incidere guardando
agli altri non come ad un blocco omogeneo da scomunicare ma nella loro
complessità e contraddizioni, esercitando quindi una egemonia gramsciana. Ma
non è ineluttabile che una lotta armata sbocchi nel dispotismo. La Resistenza
italiana ha portato libertà per tutti. Certo vi furono fatti ed atti
decisamente condannabili. Come abbiamo fatto a Torino per le foibe ancora prima
della conferenza di Venezia. La nostra "violenza" fu assai diversa da
quella del fascismo; fu per così dire accidentale e non industrializzata come
quella nazista. Ha ragione Bertinotti nel dire che non tutta la nostra
"storia va assolta" ma "tantomeno va buttata via estirpandone le
radici". Oggi si tende da destra a stabilire faciloni parallelismi; va
detto chiaro che la "piazza" non è "violenza". E la lotta
armata non è terrorismo. Che Guevara che ha fatto guerriglia ha scritto contro
il terrorismo. E prima di lui Lenin ha svolto una dura polemica col Nichilismo.
Ma detto ciò, oggi e qui, questo orientamento non potrà essere generalizzato in
ogni luogo ed in ogni tempo, quasi teoria universale sempre valida.
Quando svolsi queste argomentazioni al Comitato
politico Rina Gagliardi opportunamente scrisse che i giudizi vanno
storicizzati. Siamo testimoni d'un tempo. E più di altri abbiamo il dovere di
capire. Di indagare anche su di noi. Se nel 1944 ci avessero detto di non
adoperare le armi ci saremmo messi a ridere. E quando un autorevole generale,
comandante supremo delle forze Alleate nel Mediterraneo ci invitò a farlo, sia
pure temporaneamente, nessuno gli diede retta per il semplice fatto che non era
possibile... Ingrao nelle considerazioni, sempre profonde, che condivido parla
di quella che fu una nostra "persuasione profonda della necessità della
lotta armata". E' vero. Ma riferita al '43-'45 era forse una persuasione
sbagliata? Ingrao è sempre molto stimolante. Ma mi pare che nella sua
intervista più che dare risposte pone domande. Domande importanti certo. Ma
domande. Forse la "soglia armata" di cui parla per conquistare la
libertà non è "ineludibile". Ma non dipende solo da noi. Ingrao parla
di un suo "assillo". E' anche il mio.
E qui gli interrogativi restano. Dice Ingrao:
"C'è o non c'è un obbligo di resistere anche con le armi?". "C'è
un diritto di difesa che non può rinunciare al loro uso?". C'è sempre o no
"l'efficacia della politica?". Anche il primo grande pacifista della
storia prese la frusta per cacciare i ladroni dal tempio. Non faccio
l'indovino. Le strade della storia sono infinite. Non so cosa sarà il futuro
del mondo con le sue tante diverse facce. Per ora so solo dire che mi pare
azzardato generalizzare un orientamento per tutti i luoghi e per tutti i tempi.
Gianni Alasia Torino
La "ragione sociale" di Rifondazione
Cara Rina, l'intervento di Sullo, apparso ieri, evoca
- pur nella sua brevità - una serie di grandi questioni e solo con alcune, per
ragioni di spazio, ci si può qui confrontare: sul tema della "ragione
sociale" del Prc (chiaramente sollevato da Sullo); sul tema della
necessità di una "nuova radicalità" dei comunisti; su quello del
"potere diffuso" come alternativa al "potere
rivoluzionario" e sul tema della violenza.
Sulla ragione sociale del Prc: Sullo sembra
chiaramente dire che il problema non è più quello dei "simboli" o
della parola "comunista", ma che "la domanda di fondo, quella
che secondo me muove Bertinotti, sia la stessa che sta nella ragione sociale
del partito, nel suo stesso nome: rifondazione". E' già un primo momento
forte di discussione: in verità se la ragione sociale del nostro partito stesse
solo nel termine "rifondazione" saremmo di fronte ad una ragione
sociale amputata e, anzi, geneticamente mutata rispetto ai nostri obiettivi
originali e attuali e rispetto al volere dei nostri iscritti, dei nostri
militanti e dei nostri elettori. In verità sono le due parole, rifondazione
comunista, che esprimono, insieme e non separate, la nostra ragione sociale, la
nostra storia, le nostre lotte, i nostri obiettivi. Le compagne e i compagni
che, in coraggiosa controtendenza rispetto ai tempi, alle sconfitte e alle
abiure, scelsero di dar vita ad un nuovo partito comunista in Italia dopo la
sciagurata liquidazione di Occhetto, non saprebbero certo che cosa rifondare se
non un partito comunista che, senza disinvolti liquidazionismi o sorde
nostalgie e tenendo conto della grande storia comunista, delle sue vittorie
planetarie e delle sue degenerazioni, provi ad attrezzarsi ed essere
all'altezza dei tempi e dell'odierno scontro di classe. E' il comunismo, caro
compagno Sullo, che non vogliamo cancellare e dunque anche la parola per dirlo.
Seconda questione: l'esigenza, dice Sullo, di una
nuova radicalità dei comunisti. Giusto, forse per diverse ragioni ma
concordiamo. Poiché quando Sullo prosegue affermando che i comunisti di oggi
dovrebbero essere radicali quanto lo furono quelli "attorno alla fine
della prima guerra mondiale e l'inizio degli anni 20 del '900, che ruppero con
una tradizione, quella della Seconda Internazionale", ricordiamo che i
leninisti ruppero perché i socialisti della Seconda Internazionale stavano
abbandonando ogni progetto rivoluzionario, stavano imboccando la strada del
gradualismo positivista, che non ha mai ritenuto centrale la rottura
rivoluzionaria: "tanto il socialismo viene da solo, senza strappi".
E', dunque, il potere, la terza questione posta da
Sullo. Citando gli zapatisti (che comunque entrarono a San Cristobal con le
armi e con esse si difesero dai padroni delle terre), Sullo assume come
questione centrale per la rifondazione (non necessariamente comunista) la
categoria del "potere diffuso", che escluda a priori il problema del
potere rivoluzionario (per una rifondazione, appunto, non comunista?). Qui
vorremmo solo citare Gramsci, ricordando che il contropotere diffuso era parte
centrale del suo pensiero (i consigli di fabbrica, la conquista delle
casematte) ma era, appunto, contropotere diffuso poiché non rinunciava al
potere rivoluzionario. Ultima questione, la violenza. Ho già avuto modo di dire
che, dal mio punto di vista, quello sulla violenza è un terreno di discussione
inaccettabile, poiché solo i padroni, i fascisti e gli spiriti animali possono
difendere la violenza. Altra cosa è la forza. Il compagno Ingrao,
nell'intervista che tu stessa gli hai fatto, Rina, si chiedeva come i popoli
possono resistere, senza forza, senza armi, al tallone di ferro
dell'imperialismo. Stiamo attenti a non guardare il mondo dal lato del nostro
salotto buono: se condanniamo la forza per sempre e in ogni dove, come
potranno, oggi, liberarsi i palestinesi, gli iracheni, i colombiani? La Cia,
Pinochet, non soppressero con la violenza Allende? Se si poteva, come si doveva
rispondere? Bush non vuol farlo oggi con Cuba, con Chavez, con Lula, con lo
stesso presidente argentino Kirchner ("Liberazione" di ieri, pagina
13)? Se questi popoli condannassero a priori l'uso della forza, come
resisterebbero? Riassumiamo in pieno Gandhi e Aldo Capitini, si dice. Giusto: i
valori del pacifismo sono i valori dei comunisti. Senza dimenticare però, come
giustamente vuole Sullo, la svolta radicale dei leninisti dopo la prima guerra
mondiale, ma anche senza dimenticare che era lo stesso Capitini, negli anni
'30, a scrivere che l'unica risposta alla libertà d'impresa è quella del
"massimo di socialismo nelle istanze economiche" e "la
socializzazione dei mezzi di produzione".
Fosco Giannini
Le armi,
extrema ratio
Caro direttore, un errore è comune ad entrambe le
posizioni di Ingrao e Bertinotti: assumere pace e lotta armata, non per quello
che sono, cioè due possibilità storiche, la seconda ovviamente subordinata e
funzionale alla prima, bensì come due atteggiamenti antitetici, che impongano
una scelta di vita tra due strutturazioni opposte della propria anima. Eppure
il marxismo (direi qualsiasi tipo di marxismo, purché davvero tale) almeno su
questo punto era chiaro: vivere e lottare per la pace, pronti, se necessario,
ad impugnare le armi (sempre e soltanto come extrema ratio). Che poi su questo
si siano spesso strutturate singole personalità "combattentistiche",
era certo un pericolo oggettivo, che può però essere sempre superato con
l'approfondimento critico collettivo. Cosa che il movimento proletario del
Novecento, in linea di massima, seppe fare bene. Ma certo, per farlo, è
necessario il movimento proletario e il partito di massa: purtroppo, in questa
fase storica, il primo sembra piuttosto disorientato, il secondo non esiste.
Giovanni Cerri via e-mail
L'immaginazione
al potere
Caro Curzi, seguo la discussione sul comunismo non
violento, che si è aperta su "Liberazione" con gli interventi di
Bertinotti, Ingrao, Sullo e tanti altri compagni, con un interesse che da tempo
credevo di aver perso. Quando giovanissimo gridavo, con spavalderia,
"L'immaginazione al potere..." forse intendevo dire proprio quello
che scrive Ingrao. Forse il nuovo comunismo non violento è la speranza di
questo secolo.
Giulietto Lorenzi via e-mail
da Liberazione 10-1-'04
Ieri "non potemmo essere gentili". Oggi
dobbiamo essere nonviolenti.
Una bella discussione di questi tempi è un lusso,
faceva dire Brecht a un contadino nel Cerchio di Gesso del Caucaso, in una
terra devastata dalla guerra contro le armate naziste. Non siamo a questo, ma
il dibattito aperto da Bertinotti è un dono.
Non mi permetto di entrare in una dinamica che ha,
com'è giusto, un aspetto peculiare, di partito. Ma questo dibattito interessa
tutta la sinistra - e va anche al di là. Non a caso Ingrao menziona Scalfaro.
Non incidentalmente, è un dibattito che si intreccia
su Liberazione a quello sulla questione religiosa, partendo da una citazione di
Marx, sradicata però da una dialettica che porta in tutt'altra direzione. Non
dimentichiamo che Vittorini sul Politecnico, proprio da quella frase di Marx
sull'Oppio dei Popoli, perveniva - senza sofismi - a una conclusione vitale:
che religione e liberazione potessero virtuosamente camminare insieme. La
grande riflessione, a sinistra, sulla religione, ha segnato un attraversamento
cruciale. E ha avuto come protagonisti tantissimi credenti.
C'è un tratto che unisce Brecht (per esempio negli
scritti alti del dopoguerra, fino all'aspra critica contro la repressione degli
operai berlinesi in rivolta nel 1953) alla riflessione odierna di Bertinotti.
Nella stessa citazione che Bertinotti sceglie da
Brecht, sul "noi non potemmo essere gentili" non è difficile
avvertire un dolore profondo, un'amarezza avvolgente. Di più, forse: un acuto
tormento nella ricerca di un'altra strada. E' la temperie che vive un comunista
tedesco resistendo al nazismo, sentendosi ventre della Bestia.
Oggi più che mai sappiamo che la Grande Promessa della
Resistenza dobbiamo mantenerla, ed è consegnata innanzitutto agli europei, che
hanno prodotto sia il Nero che il Rosso, e non solo nel Vecchio Continente.
Dalla Resistenza (anche imparando dalle pagine buie) abbiamo individualmente
ricevuto il mandato di muoverci verso un mondo di giustizia, pace, libertà,
democrazia. E' l'opposto del mondo che abbiamo di fronte e intorno (in un certo
senso anche dentro). Questo sistema-mondo ha con logica follia incorporato la
guerra (di più: la guerra preventiva) come paradigma. Scusate lo schematismo:
se vogliamo l'alternativa, la nonviolenza deve appartenere al nostro cammino.
E non è vero che non ci siano impronte profonde di
questa impostazione dentro la vicenda storica del movimento a cui apparteniamo.
E' sbagliato attribuire alla nonviolenza un connotato dottrinario libresco, o
pensare che Gandhi e Martin Luther King non ci debbano toccare. Non è forse una
(lo so anch'io: non la sola) delle condizioni necessarie per intrecciarci al
Forum di Mumbay, e per manifestare insieme ai movimenti Usa il prossimo 20
marzo?
Ed è ancor più sbagliato non vedere quali connessioni
profonde ci siano tra tante storiche lotte pacifiche e democratiche del
movimento operaio, della sinistra, e le lotte nonviolente. La nonviolenza non è
una categoria anomala, separata dalla via maestra della storia. E' dentro di
essa. Talvolta resa clandestina se non violentata.
Tornare alla concretezza della storia; avere il
coraggio con Majakovski di "rimestare la merda dei secoli" può
aiutarci a trovare i fiori che tuttavia sono nati: nel coraggio di immaginare e
praticare un mondo differente. Non fermiamoci al Novecento. Ricordiamoci
dell'immenso carico di lavoro per sistemi di valori, per il sogno e
l'immaginazione di un mondo "altro", anche sperimentando magnifiche
alternative - un percorso di civilizzazione che ci incoraggia a camminare
avanti.
Molte delle cose che pratica il Movimento dei
Movimenti hanno radici lontane. Dando ragione - quasi come un'ovvietà - a Le
Goff quando descrive l'onda lunga della storia, ricordiamoci che si parla anche
della nostra "autonoma" storia.
Questo ci obbliga a fare i conti con onestà: chi è
comunista deve fronteggiare il fatto che la bandiera con la falce e il martello
che liberava Auschwitz, garriva sopra il Reichstag nel 1945, sventolava anche
sui Gulag - prima e dopo di allora. Spero che questa consapevolezza spezzi
anche i cardini della porta della percezione dell'orrore che è stato compiuto.
Chi è stato, o è diventato socialista (e dintorni)
sappia che quel movimento politico ha una storia impregnata anche dalla
corresponsabilità in pagine terribili: vogliamo parlare del colonialismo?
Vogliamo parlare dei crediti di guerra votati da quasi tutti, mentre si apriva
l'abisso della prima guerra mondiale? Vogliamo parlare del peso di ciò che è
avvenuto di recente nei Balcani?
Solo un profondo cambiamento porterà la sinistra fuori
da quei gorghi che ancora la lambiscono, con il rischio di un naufragio. Altro
che il 1989. La caduta del Muro non ha fatto cadere il nostro socialismo, ma un
sistema totalitario nella sua essenza, nonostante l'immane sforzo del comunista
Dubcek, e quello finale dell'abbandonato Gorbaciov. Domando: qualcuno di noi,
rossi, vorrebbe vivere sotto Ceausescu, o avere i diritti dei metalmeccanici
cinesi di oggi?
La Realpolitik (anche di sinistra) non ha saputo né
aprire la strada al superamento dei vecchi blocchi politico-militari, né
illuminare una prospettiva di cambiamento. Non poteva farlo innanzitutto per
una sua strisciante implosione culturale. Forse la vera Realpolitik è quella
del campo di forze che mette insieme pace e democrazia e diritti sociali e di
cittadinanza e di giustizia.
Se la strategia della pace è inscindibile da un
autentico processo di civilizzazione, come non vedere lo spazio di espansione
della nonviolenza? E' qualcosa già dentro i movimenti reali: la nonviolenza ha
spezzato il ghetto, non è affatto una subcultura marginale, bensì il marxiano
fantasma che si aggira - e non unicamente per l'Europa, come sempre più
esperienze dimostrano in giro per il mondo.
Questo implica una progressiva trasformazione della
qualità della politica, con un punto di congiunzione con i principi veri della
legalità internazionale - a partire dalla Carta dell'Onu e della Dichiarazione
universale dei diritti umani. Nemmeno qui si parte da zero.
La sfida quest'anno è aspra: il grande cratere che
include Medio Oriente, Golfo, Afghanistan è lì a catapultare pericoli
planetari. Il terrorismo spande la sua peste - e spinge a restringere gli spazi
di libertà. C'è una possibilità di uscire da questo doppio ricatto?
Non occorre essere ciechi di fronte ai pericoli, per
investire consapevolmente sul futuro. Le oche giulive cercatele tra chi crede
che la guerra risolva i problemi. I sanfedisti sono i volonterosi
collaborazionisti dello stato di cose esistenti. Dev'essere massimo lo slancio
e il coraggio per una società aperta, basata sull'idea di stato di diritto.
Il popolo della solidarietà e della pace, quello che
ha fede nella partecipazione, sa che il terrorismo, oltre che assassinare le
persone, dilania la cittadinanza della politica - e la politica della
cittadinanza. Più luce, più attaccamento alla vita, più amore per le
generazioni a venire. Quelle che stanno forzando la storia del Novecento,
peraltro, imponendo il diritto al futuro, per se stesse ma anche per le altre
generazioni. O vogliamo accettare la corresponsabilità della dissipazione
dell'eredità della Resistenza, quando essa ci ha indicato di muovere dal tempo
dell'impossibilità della gentilezza, verso qualcosa che non può non dirsi
nonviolento?
TOM BENETOLLO
Presidente nazionale dell'Arci
L'ideologia, la storia e le realtà concrete
Caro Sandro, nelle ultime settimane su
"Liberazione" si sono intrecciati due temi: quello relativo alla
definizione della religione come "oppio dei popoli", e quello
riguardante il rapporto tra il nostro partito e il "comunismo"
(spesso non solo quello cd. "reale").
Sul primo punto non mi dilungo, poiché la frase di
Marx (Feuerbach) va letta in rapporto al suo tempo, nel suo complesso, tenendo
presenti gli scritti di Feuerbach su "L'essenza della religione" e
"L'essenza del cristianesimo" (e, se credi, pensando anche agli
odierni kamikaze).
Sul secondo punto, essendo io contrario a ogni
"revisionismo", non voglio farne uno di segno eguale e contrario.
Ma una lettura storica (che per me resta quella in
chiave marxiana) si impone sempre. Perché finora nessuno ha provato a farla,
sia sul socialismo reale che sullo stalinismo? Andrebbero analizzati la realtà
concreta del paese zarista in cui si è avuta la prima rivoluzione socialista:
un paese senza sviluppo capitalistico e senza alcuna esperienza democratica, né
diretta, né parlamentare, ben presto accerchiato economicamente e militarmente,
che ha dovuto difendersi non da una delle "democrazie occidentali",
ma dalle Ss hitleriane (i comunisti sono morti nei campi di concentramento,
assieme ad ebrei, zingari e omosessuali). Non si poteva rispondere ad Hitler
porgendo l'altra guancia (a proposito di astratta non-violenza). Né è possibile
tagliare col coltello, senza analizzare le situazioni storiche concrete, il
bene (che spesso si riduce alla parodia di un voto "tarato" secondo
il sistema elettorale) dal male (la dittatura), senza entrare all'interno delle
realtà concrete.
E' il caso di porsi una domanda: quale comunismo?
Quello dei gulag, dei processi staliniani, delle degenerazioni anche
successive, o quello che aveva assicurato a tutti (sia pure a livelli modesti)
lavoro, casa, studio e cultura, assistenza medica, ferie pagate? E' quello che
rimpiangono tuttora molti strati della popolazione in Russia - ove mi reco
spesso -compresi i professori universitari e gli Accademici delle scienze, che
di fronte a forme di accumulazione scandalose, sono stati declassati da ceto
benestante o classe media a categoria sulla soglia della povertà
(letteralmente!).
E non dimentichiamo due circostanze: a) ogni tentativo
"democratico" di socialismo, in varie parti del mondo, è sempre stato
soffocato da colpi di stato militari. Inutile fare esempi. Ciò ha impedito di
avere altre esperienze socialiste da analizzare; b) i compagni che hanno dato
la vita o lunghi anni di libertà per quello ideale (parlo in particolare del
Pci). Né il memoriale di Yalta e Berlinguer erano fuori dal comunismo.
La stessa domanda può riguardare anche l'altro
problema: quale cristianesimo? A parte l'età più antica, su cui ho scritto
alcuni saggi, è cristianesimo quello del Concilio Vaticano II o quello che
consentì - dopo non averli osteggiati - la fuga dei criminali nazisti? La
teologia della liberazione (condannata dalla Chiesa ufficiale) e dei preti
operai (stesso trattamento) o quello che, anche di fronte alla piaga biblica
dell'Aids, vieta la contraccezione? L'accorato grido per la pace o le tesi su
divorzio, aborto, procreazione assistita?
E anche per il passato: il cristianesimo è quello di
frate Francesco o quello dell'Inquisizione, delle torture, dei roghi, degli
autos da fe'?
Si potrebbe parlare per ore e giorni, ma quello che va
posto in risalto è, in primo luogo, che la realizzazione di ogni ideologia,
come la storia insegna, deve fare i conti con la realtà concreta in cui si cala
e con le proprie contraddizioni interne; in secondo luogo, il politico vero non
può essere anche uno storico della politica, e compito della storia è quello di
esaminare ogni realtà in tutti i suoi aspetti, non limitandosi a condannare,
assolvere o "rivedere".
Gennaro Franciosi preside della facoltà di
Giurisprudenza della II Università di Napoli
Le leggi e la forza
Caro direttore, suggestivo e molto interessante il
dibattito tra Revelli, Bertinotti, Rossanda, Ingrao, in particolare nella
risposta data al compagno Bertinotti sulla questione pacifista. Posizione che,
lo dico con dubbi atroci, non mi convince. Intanto perché la violenza, quella
agita nelle comunità dai tempi dei tempi è sempre stata questione costitutiva
della condizione umana e il tentativo di espungerla o controllarla dal contesto
sociale ha trovato sempre mille difficoltà. Così per il rapporto tra nazioni,
tuttavia vi è un elemento che non riesco a comprendere nei ragionamenti sin qui
fatti. In un mondo disuguale, in realtà macro e micro umane dove prevalgono
rapporti di forza, anche nelle relazioni affettive, lo strumento principe per
controllarli e prevenirli è il diritto e le leggi. Leggi che vanno conquistate
anche con la forza, situazione che sfociano nella necessità di essere
regolamentate (diventare diritti) proprio a partire da lotte anche violente.
Insomma ho dei dubbi che l'ipotesi pacifista radicale possa tenere, altra cosa
è essere pacifisti per affermare razionalmente un altro modo di intendere la
società, esserlo contro le guerre ingiuste, ecc.. Veramente ho dei dubbi
atroci.
Diego Valeri via e-mail
Comunismo
punto e basta
Caro Curzi, comunismo: questa parola sembra come
all'epoca di Marx mettere paura a tutti i potenti del mondo. E, a volte,
perfino nei dibattiti nostri sembra che qualcuno debba ricorrere a cento
giustificazioni prima di dichiararsi comunista. Certo, abbiamo tanti buchi neri
nella nostra storia, ma il cristianesimo non ha buchi nerissimi nei due
millenni? Eppure il Papa chiede che il richiamo alle origini cristiane sia
scritto nella Costituzione europea. Comunisti erano i fratelli Cervi fucilati
dai fascisti, ma nessuno lo dice più. E non parlo di Berlusconi che non sa
neppure chi siano, ma del presidente Ciampi che, per ricordarli, ha detto solo
erano degli antifascisti. La faccio corta se no tu mi tagli: io sono perché in
Italia, e spero in Europa, si costruisca un forte partito che si chiami
comunista. E non c'è bisogno di altre parole come nuovo, per l'alternativa, eccetera.
E' chiaro che siamo nuovi perché viviamo in questa epoca storica e perché
conosciamo anche gli orrori del passato; è chiarissimo che siamo alternativi
perché vogliamo battere il capitalismo e costruire una nuova società.
Lorenzo Lorenzi via e-mail
"Angelizzazione"
della guerra partigiana?
Cara Liberazione, siamo due compagni e, dopo aver
letto la relazione di Bertinotti "La guerra è orrore" siamo rimasti
alquanto dubbiosi. Come si fa a parlare di "angelizzazione" della
guerra partigiana da parte della sinistra in un periodo di revisionismo come
questo?
Michele e Piergiorgio
via e-mail
Analizziamo
e critichiamo
Caro direttore, innanzitutto sono contento di veder
raddoppiate le pagine-lettera sul nosto giornale. Di questo ti ringrazio. Il
compagno Bertinotti, che spesso ha saputo analizzare le vicende future con
grande acutezza, pone ora il problema di un'ulteriore analisi sul modo di
essere comunisti, quindi analisi del passato, del presente e del futuro. Esatto
il suo giudizio sulla questione "tutta italiana" delle Foibe, pagina
nera dentro la brutta storia della II Guerra Mondiale. Oggi siamo nell'epoca
della guerra permanente, dell'imperialismo e del liberismo selvaggio.
Giustamente si auspica la pace, si guarda al pacifismo del movimento, alle esortazioni
del Papa ecc.. Ma come può essere fermato il capitalismo che agisce con le
armi, vista l'impotenza della politica? Condivido appieno l'analisi di
Bertinotti sul fatto che il nazismo aveva intrinseco identitariamente la
violenza del suo dna, quella del comunismo è stata una violenza causata dalle
contraddizioni e da come sono andate le cose in Russia dopo la Rivoluzione,
culminate nel dramma dello Stalinismo. Il comunismo non contiene la violenza a
priori nel suo dna, eccetto che per il momento rivoluzionario. Mi pare che nel
cercare disperatamente elementi di ricerca di pace, nelle analisi complessive
si tenda nel criticare ciò che è che era ingiusto un po' tutto il movimento
comunista novecentesco. Analizziamo e critichiamo. Guardarsi allo specchio
serve a criticarsi senza avvilirsi masochisticamente per migliorarsi. Gli
eccessi in questo senso, ci porterebbero a qualcosa di simile a cio' che diede
il via al movimento per la Rifondazione Comunista nel 1991.
Stefano Maggiolo Noli (Sv)
Compagni,
non miti
Caro Curzi, apprezzo parte della lettera di Cristian
Spotti, pubblicata martedì 6 gennaio, quando critica i compagni/e del suo
circolo e del partito per l'atteggiamento che assumono nei confronti di alcune
lotte che vanno oltre al volantinaggio, ma anche, per ricordare a Cristian che
Lenin, Marx, Luxemburg, ect., ect, non sono miti ma, compagni che hanno scritto
la storia del comunismo e che con "un altro mondo è possibile" si
identificherebbero.
Daniele Boniardi Bollate (Mi)
Non miriamo
al potere personale
Salve direttore, sono un compagno di 51 anni, che ha
attraversato come tanti questi tumulti del cuore comunista. Prendo spunto dalla
lettera del compagno Christian Spotti di martedì per dire la mia. Caro
Christian e cari compagni, il problema, non solo di Rifondazione, ma di tutto
il processo del movimento comunista è se un partito comunista è ancora per il
raggiungimento della dittatura del popolo sulla borghesia capitalista, se il
potere deve essere - politico ed economico - delle assemblee popolari, se
l'economia deve essere socialista, se la proprietà privata deve scomparire, se
la classe operaia, per quanto frastagliata e diversa deve ancora dirigere il
movimento popolare. Questi sono i principi del marxismo e della visione
scientifica e materialistica della società. Ben vengano anche i credenti, ma in
una società laica che attraversi le forme del governo popolare, del governo
socialista, del socialismo e del comunismo, forme certo future e che sono da
immaginare, come spesso ci stanno insegnando le esperienze sudamericane, ma che
certo non potrebbero verificarsi senza una lotta dura, chiara, senza quartiere
e spesso traumaticamente violenta. O si può pensare che i padroni capitalisti
ci facciano passare con i tappeti rossi? O la lotta di classe l'ho inventata
io? O Giovanni Pesce era un terrorista?
Massimo Mollo Napoli
Rifondazione
non è revisionismo
Caro Sandro, Cara Rina, la meta è lontana, ma il
movimento non è tutto. La necessaria rifondazione non è un ritorno al vecchio
"revisionismo". Il "socialismo reale" ha causato danni
irreparabili, ma il Partito comunista italiano, per il suo radicamento (pur con
i suoi limiti), ha rappresentato la migliore Italia di quel tempo. Gramsci è
stato il più lungimirante pensatore del '900. La nonviolenza è per noi,
soltanto oggi, ossia dopo gli stermini del '900 e di fronte all'unipolarismo
sfrenato odierno, un dovere assoluto. Ma non è un valore retrodatabile a
piacere per equiparare, nel passato storico, rivoluzioni e controrivoluzioni.
Giuseppe Prestipino via e-mail
Nessun culto
del capo
Caro direttore, in una lettera un compagno ha tenuto a
definirsi bertinottiano. Non mi piace, io sono comunista da trentanni, ma mai
ho dichiarato di essere berlingueriano, eppure Berlinguer era l'uomo che ho più
stimato nella mia vita. Il culto del capo, lo sappiamo, è stato fonte di tante
degenerazioni. Ho apprezzato Bertinotti per le affermazioni contro lo
stalinismo. Vogliamo, allora, cambiare stile?
Persindo Magnaghi via e-mail
Dal manifesto 10-1-'04
Risospingiamo nell'agone le forze di sinistra
riluttanti
E' sempre un felice evento incontrare Pietro Ingrao:
sia per la presentazione di un suo libro, come l'ultimo La guerra sospesa, resa
famosa ormai dal fatto che è arrivato a piazza Montecitorio a cavallo di un
motorino; sia per la conversazione di un'intervista, come quella a Liberazione,
di mercoledì. Da lì apprendiamo che è "in ottima forma" e del resto
il suo lucido ragionare ben lo dimostra. Perché di altri uomini politici si può
avere stima, su alcuni si può avere riserva. A Pietro si vuole bene, e basta.
Il resto, nel dialogo con lui, viene da sé.
Non sempre tutto fila liscio. Perché ha le sue
impennate, è cocciuto, batte sullo stesso tasto a ripetizione finché non vede
che qualcuno ha sentito. E' da anni ad esempio che ci ripete come l'errore del
movimento operaio sia stata la militarizzazione, del suo linguaggio, e forse
più del suo pensiero, oltre alla pratica dei suoi comportamenti. Io su questo
non lo seguo. Credo che il cuore degli errori pulsi altrove e che le
autocritiche debbano avere altri indirizzi. L'età delle guerre civili mondiali,
con dentro il fascismo e il nazismo, non l'ha voluta il movimento operaio: è
storia moderna, capitalistica, del Novecento, con cui, in qualche modo, i conti
bisognava farli. La violenza, politica, di cui parlava Marx era la risposta
alla violenza, sociale, implicita da sempre nel rapporto di capitale, dalle
terrificanti fasi dell'accumulazione originaria ai terribili passaggi delle
rivoluzioni industriali, alle spietate avventure coloniali, fino alla
mondializzazione presente, che condanna tre quarti del pianeta alla miseria
assoluta, e là dove non può arrivare con le leggi di mercato arriva con la
pratica della guerra.
E comunque non credo che sia questo il discorso più
urgente da fare. Anche perché si espone su una frontiera carica di ambiguità.
Quella del pentimento risulta oggi la categoria politica più diffusa. La
ritrattazione pare essere diventata uno sport nazionale. Squallida è questa
gara a chi dice prima e più forte di non essere più quello che un tempo era
stato. Io assumo, per quanto mi riguarda, l'atteggiamento opposto: mi faccio
carico di tutta intera una storia. Come movimento operaio, stanno a questo
punto dietro le mie spalle tutte e due le grandi tradizioni, quella della
socialdemocrazia e quella del comunismo, ambedue per la gran parte
irripetibili, ma con un deposito di differente eredità tutta da investire. E
anche della tradizione comunista prendo tutto, dalle utopie alle cosiddette
realizzazioni. E' storia fatta, non ancora da fare. Non è che posso scegliere.
Troppo comodo, troppo facile prendere la storia bella e lasciare quella brutta
ai cattivi. Per certe cose posso dire: mai più così. Poi guardo avanti: a ciò
che può esserci d'altro rispetto a ciò che adesso c'è. Il problema non è
l'altermondializzazione. Il problema è l'oltre di questo mondo, che non sia più
costretto a mascherare l'eterno ritorno del sempre uguale. Per questo, tutto
ciò che abbiamo fatto in due secoli di storia, tutto, ci serve.
Più interessante mi sembra tutta la seconda parte
dell'intervista, dove Ingrao fa le sue domande sull'attuale congiuntura. La
politica e le armi, qui e ora. Le forme presenti, specifiche, della guerra. La
ricerca dei modi più efficaci del contrasto. Mi lascio anch'io interrogare da
queste domande. "Che cosa si fa contro la violenza armata dell'aggressore?
Come si affronta l'ingresso concreto della violenza delle armi nella nostra
vita? Che vuol dire, oggi, l'obbligo di "resistere"? Qual è l'efficacia
politica del pacifismo?" Ecco, lo stesso modo di porre gli interrogativi,
rivela il politico che viene da una storia, che ha messo a frutto alcuni
passaggi di quella storia e se ne serve per trovare risposte nuove.
Nuova non è la risposta del terrorismo, che, essa sì,
è subalterna alla logica della guerra. Non è un caso che mai il terrorismo,
mai, ha attecchito sul terreno di lotte del movimento operaio. Oggi la guerra è
terrore, come il terrorismo è guerra. E lo specifico del momento è qui. Non c'è
più la "messa in forma" della guerra, su cui pure si era cimentato il
pensiero di grandi giuristi e di grandi politici, dallo jus publicum europaeum
alle organizzazioni sovranazionali di pace. Il diritto in guerra non conta più
niente. E' più importante una telecamera che una legge. Le istituzioni
internazionali nessuno le sta a sentire. E' più da considerare un'elezione di
mezzo termine che una risoluzione Onu.
Ingrao insiste molto sul carattere inedito della forma
"preventiva" della guerra. E fa bene. Questo è il luogo dell'assoluto
arbitrio, in mano a chi possiede l'assoluta potenza. Non il monarca investito
da Dio, ma il potere democraticamente legittimato è, nelle relazioni
internazionali, legibus solutus. La sola condizione è che abbia, e che mostri,
incontrastata forza. E qui c'è un risvolto del problema che viene taciuto. Nel
passato della storia moderna abbiamo visto gli Stati e le Nazioni, i Re e gli
Imperi, e poi i totalitarismi, scatenare la guerra. Che succede quando va in
guerra la democrazia? Si mette in moto un circuito perverso di mobilitazione
totale dell'opinione pubblica, dall'alto dei mezzi di comunicazione di massa,
dove tutto serve, la paura ancestrale del nemico, l'orgoglio
dell'eccezionalismo di nazione, la fede dell'etica puritana. Questo fa maggioranza,
non silenziosa, ma bellicosa.
La guerra americana, possiamo discutere se sia
legittima, ma, dal punto di vista sia pure declinante della statualità
democratica, è legale. Non è imposta, è liberamente accettata. Ecco perché è
così difficile contrastarla. Non è solo la tecnica che si dispiega senza
avversari, è la politica - dice bene qui Ingrao - che spazia dall'Atlantico nel
mondo senza antagonisti. In fondo, come si è espressa la distinzione tra Kultur
europea e Zivilisation americana nei nostri miseri tempi? Come distinzione tra
"guerra umanitaria" e "guerra preventiva". Era bello,
quando eravamo in piazza, con milioni di persone, sentirci definire la seconda
potenza mondiale. Solo che non era vero - almeno non secondo i miei parametri,
mi correggerebbero le mie amiche femministe. C'è una potenza unica che fa il
bello e il cattivo tempo, come gli pare e piace. Quando si è in marcia per la
pace, bisogna avere in testa, chiara, questa consapevolezza: che non stai
fermando, come si diceva una volta, la mano dell'aggressore, stai esprimendo,
al meglio, un'altra idea di mondo e di essere umano. Sono due cose diverse, che
solo la grande politica sa, ha saputo, tenere insieme. Si parla nell'intervista
di Vietnam. Ma lì è la prova che Golia può essere battuto e David può vincere.
Non il terrorismo ma la guerra di popolo fece sì che le classi dirigenti del
paese più potente rimanessero intontite per un decennio e che una generazione
di giovani dell'occidente respirasse l'aria della vera libertà. Diverse erano
le condizioni geopolitiche, né è consigliabile il ripetersi di una tale immane
tragedia.
Come si incide sui poteri?, è un'altra domanda di
Ingrao. E c'è una bella mestizia nella frase che segue: "Io sono
"vecchio", non solo anagraficamente. Non ci credo che la politica sia
morta". Io dico che non lo è solo se sa rinascere da un'altra parte. I
neoconservatori americani hanno capito che nella mondializzazione ritorna un
bismarckiano primato della politica estera, e a loro modo lo stanno praticando.
Quando lo capirà l'Europa, e al suo interno la sinistra europea, rischia di
essere troppo tardi. Compito delle forze di movimento è spingere in questa
direzione. Il pacifismo deve fare politica. Deve contrapporre la legittimità
della pace alla legalità della guerra, mettendo i piedi nel piatto dei problemi
di sistema politico, di funzionamento istituzionale, di conflitto sociale.
Altrimenti diventa un'istanza etica, rispettabile ma inutile. Il vecchio Ingrao
e il nuovo Bertinotti dovrebbero spendere la loro autorità per rimettere in
circolo le forze cosiddette antisistema dentro le contraddizioni di sistema,
per contribuire a spostare i rapporti di potere reali, risospingendo nell'agone
- una indimenticabile parola ingraiana - le riluttanti forze politiche della
sinistra ufficiale, anch'esse su un altro terreno in movimento.
MARIO TRONTI
da Liberazione 11-1-'04
Rifondare
il comunismo
Caro Curzi, nessuno sta cercando di ristrutturare il
partito comunista ma tutti siamo impegnati a rifondarlo. Cosa c'è di male se la
rifondazione approfondisce determinate situazioni che prima erano considerate
dei tabù? Cosa c'è di male se cerchiamo di separare dalla violenza il comunismo
che oggi vogliamo ricostituire, anche se siamo convinti delle necessità che
prima l'hanno chiamato, auspicato, tenacemente voluto perchè esistevano
condizioni disumane che per superarle c'è voluta la rivoluzione comunista?
Enzo Rossi Castelnuovo Magra (Sp)
Movimento
e partito
Cari Sandro e Rina, mi permetto di smentire il
semplice fatto che vi sia stata nel tempo una quasi necessaria
"evoluzione" dall'essere limitrofi ai bisogni proletari al confinarsi
nella galassia no-global, come appare da alcuni scritti sia apparsi su
"Liberazione" che su altre testate. Una cosa non esclude l'altra: da
quando è nato il Movimento, ho sempre pensato che non ci si doveva porre le
problematiche dello stare "nel" movimento, ma semmai del "come
stare" con il movimento. Esserci è naturale e spontaneo per un partito
comunista: come esserci è invece un enigma che ancora va risolto... Un dato di
fatto, come la rifondazione comunista, non può tramutarsi in variabile
dipendente dal Movimento e dalle sue parole d'ordine. "Un altro mondo è
possibile", certo. Fissare una trasformazione sociale con un credo
ideologico è stupido, dogmatico e anche molto poco marxista. Tuttavia i nostri
valori ci conducono ad una società comunistica: tutto il contrario del
socialismo reale. Su questo fondiamo la nostra differenza di genere politico e
sociale: su questo si deve continuare a lavorare, senza la paura di non essere
compresi, o accettati. Sia dal movimento che dal centrosinistra.
Marco Sferini Savona
da Liberazione 13-1-'04
Collegare la nonviolenza alla nostra idea di
rivoluzione
Caro direttore, negli stessi numeri di
"Liberazione" che ospitavano il dibattito sulla scelta nonviolenta
del nostro Partito, si potevano leggere, in altre pagine, altri interventi
sulla questione religiosa, in cui risuonava dopo molti decenni la secca
definizione di religione come "oppio dei popoli" (una definizione già
liquidata a suo tempo dal Pci di Togliatti, e tanto più imperdonabile oggi,
quando ormai dovrebbe venire in mente a tutti di domandarsi come mai proprio
l'uso di quell'"oppio" abbia spinto e spinga tanti non a sonnecchiare
soddisfatti e passivi bensì a diventare rivoluzionari e comunisti).
Io credo che sarebbe opportuno unificare i due
dibattiti, e porre a loro fondamento il tema della nostra laicità. Mi pare
infatti che un'insufficienza di laicità sia la base comune di tanti
fraintendimenti e, forse, di veri e propri errori. Per "laicità" non
intendo affatto ateismo (un partito programmaticamente ateo ci riporterebbe
davvero molto, troppo, indietro nella nostra storia), ma intendo la rigorosa
separazione dei piani, la distinzione del politico (e del programmatico) dal
religioso; quest'ultimo piano è, e deve restare, altra cosa, appartenendo ad
una sfera intima e personale di tutte/i, anche di chi compie un'opzione
comunista, ma non riguarda e non deve riguardare in alcun modo il partito in
quanto tale; e quest'affermazione è motivata esattamente dalle stesse ragioni
che ci spingono ad opporci (e dovremmo farlo con più forza) al sostegno statale
per le scuole private, o all'incorporazione in leggi dello Stato di valori o
comportamenti dettati da una religione (dalla procreazione, alla sessualità,
alla esposizione dei crocifissi nelle scuole di tutti).
Un partito laico è dunque un partito capace di trovare
nella sua politica, e solo in essa, il fondamento dei propri valori e delle
proprie scelte, e capace di chiedere ai suoi iscritti e militanti l'adesione ad
un siffatto patrimonio politico come condizione necessaria e sufficiente per
partecipare al suo stare insieme collettivo. Sul resto il partito deve
semplicemente tacere, e come non spetta al partito intervenire in merito ai
comportamenti alimentari, o sessuali, così non può spettare al partito
incoraggiare, o combattere, le scelte religiose di chicchessia.
Questo io credo che si debba intendere per laicità; e
mi sembra dunque una grave insufficienza di laicità (non un suo eccesso) la
polemica antireligiosa condotta in nome dell'illustre quanto logoro ritornello
dell'"oppio dei popoli": parla in quella polemica non la laicità ma
solo un'ideologia religiosa di tipo ateistico, che si giustificava solo in
altre fasi della nostra storia, quando la debole identità del primo movimento
operaio aveva bisogno di tali puntelli religiosi o contro-religiosi (importati
in effetti dalla sinistra borghese) per potersi affermare.
Si deve impostare in questi termini del tutto laici
anche il problema della nonviolenza. E' una grande lezione quella che ci viene
da un nonviolento "storico" come Raniero La Valle che invece di
limitarsi a battere le mani e dire (potrebbe farlo) "Finalmente! L'avete
capita anche voi comunisti! ", ci invita piuttosto (su
"Liberazione" del 9/1) a riscoprire ed approfondire ancora e sempre
la politica, e le motivazioni tutte politiche di una scelta certamente giusta.
Io penso che anche la nonviolenza (viene da dire: perfino la nonviolenza) non
rappresenti per noi un assoluto a-storico, e che essa non poteva valere sempre
e comunque, proprio perché la sue motivazioni sono legate per noi alla
politica, ma dunque alla fase storica che viviamo, e non a qualche imperativo
di tipo religioso (questo sì, per sua natura, assoluto).
Io sono personalmente molto convinto della fondatezza
della scelta nonviolenta (e non da oggi), e tuttavia non mi consento affatto la
sciocca superbia di proiettare all'indietro nel tempo tale scelta (magari per
criticare su questa base i nostri partigiani), così come non mi permetterei di
proporla in ogni parte del mondo e in qualsiasi situazione (magari per dare
lezioni moralistiche ai compagni cubani o a chi pratica l'autodifesa di massa
dei nostri cortei). L'assoluto appartiene infatti solo alla religione, non alla
politica rivoluzionaria; alla politica dei comunisti spetta invece una scelta
razionale, e condivisa dalle masse, in merito ai fini che il movimento si dà e
ai mezzi più adeguati per conseguire quei fini; e tali scelte evolvono nel
tempo con il mutare della situazione, come dimostra anche l'esperienza (per
tanti aspetti esemplare) della rivoluzione zapatista.
Così non vorrei che si confondessero la resistenza, le
resistenze, con il terrorismo. Bertinotti dice cose fondamentali e profonde e
tutte da me condivise sui motivi della nostra opposizione radicalissima al
terrorismo, ma ci sono forme di resistenza anche armata dei popoli che nulla
hanno a che fare col terrorismo, e anzi gli si oppongono non meno duramente di
noi. Il diritto/dovere alla resistenza è peraltro uno dei principi fondamentali
della nonviolenza.
Resta allora per tutto il corpo del partito la
necessità di motivare politicamente la scelta della nonviolenza che Bertinotti
ci propone, e questa motivazione non risiede tanto in considerazioni di
realismo (diciamo così) "militare" quanto nella nostra stessa idea
della rivoluzione comunista come autogestione e democrazia integrale, e dunque
nella necessità che il processo rivoluzionario non contraddica nel suo
svolgersi questi fini fondamentali.
Ma questo è un discorso davvero troppo complesso per
poterlo anche solo accennare in questo spazio (ho cercato di cominciare a farlo
in un altro luogo). Qui posso solo proporre che il partito nel suo complesso
voglia e sappia discutere della nonviolenza mettendola in rapporto con la
nostra idea di rivoluzione, e non isolandola come se fosse solo un'opzione di
tipo morale o religioso.
Raul Mordenti
da Liberazione 14-1-'04
Nel cercare dove sbagliammo mi sento più vivo e più
forte
Mario Tronti è persona simpatica anche per il garbo
con cui lui - uomo di convinzioni tenaci e forti - replica ad un interlocutore,
anche quando egli respinge una posizione che considera. Ed è stato così anche
giorni or sono, quando, in un articolo sul "Manifesto", ha espresso
un netto dissenso rispetto ad una mia intervista su "Liberazione", in
cui io valutavo positivamente l'opzione pacifista espressa nettamente da Fausto
Bertinotti, sviluppando una autocritica forte sul posto che la violenza armata
ha avuto nella storia e nella ideologia del movimento comunista.
E però stavolta il mio amico Tronti non mi ha
convinto. Non mi ha persuaso il suo giudizio per cui la violenza del Novecento
era tutta da addossare alla ferocia costitutiva del capitalismo di quel secolo,
di cui - certo - ognuno di noi ha fisso nella mente le guerre spietate, lo
spirito di rapina, la predicazione e la scienza dell'uccidere pubblico.
Ma la "violenza rivoluzionaria" che fu
predicata e scritta sulle nostre bandiere non era solo una risposta al sangue
del capitalismo. Essa era esplicitamente iscritta sulla nostra lettura
dell'atto rivoluzionario; e divenne a un certo punto (e abbastanza presto), una
pratica di sopraffazione e di schiacciamento anche su una parte stessa del
movimento operaio.
Lo vedemmo in Russia già col dispiegarsi della
Rivoluzione d'Ottobre: con i massacri (io oggi li chiamo così) che si rivolsero
persino contro i propri militanti (i propri figli, potremmo dire); e quella
violenza sciagurata tornò poi infaustamente nella seconda metà del secolo: a
Postdam, a Budapest, a Praga, e in altri luoghi di cui non sapemmo riconoscere
nemmeno il nome.
I "gulag" non sono stati una favola. Perché
dovrei assumerli oggi nel patrimonio mio, nel mio sentirmi comunista, ora che
non ho più nemmeno l'alibi del "non sapere"? E perché dovrei
cancellare tutto questo oggi da una aperta, dichiarata riflessione autocritica?
Non mi convince nemmeno il fastidio che Mario mostra
verso la categoria (e la pratica) del "pentimento".
Lo so: è una parola - il pentimento - che sembra
appartenere a linguaggi lontani dai nostri, e pare un fastidioso bigottismo. Ma
se pentirsi è riconoscere l'errore, io non ho paura nemmeno di questa parola,
che - certo - ha sapore di sacrestia. Anzi ritengo vitale (cioè necessario alla
vita, segno di vita, bisogno di vita) cercare (sì, cercare) di fissare
pubblicamente se ho sbagliato e perché ho sbagliato. E ritengo che di questo
lavoro per la parte comunista ci sia materia: e che sia utile imparare da
quegli errori.
Tronti scrive: "mi faccio carico di tutta intera
una storia". È un'affermazione che per me non è tanto chiara. E difatti se
essa significa dichiarare che io da quella storia (di comunisti!) vengo, certo
che è così, e seppure volessi non potrei cancellarlo, e io poi non lo voglio
per nulla: tanto che continuo a chiamarmi così, anche se - nel caso - oggi non
ho tessera in tasca.
Ma io non sento per nulla "squallore" (è la
parola usata da Tronti) nel cercare dove sbagliai o sbagliammo. Anzi: sento in
ciò forza e vitalità. Soprattutto sto meglio, e mi sento più forte, più vivo se
so mettere sotto il microscopio la storia mia e della mia parte: e leggere dove
vidi giusto e dove no.
Tronti dice: "è storia fatta, non già 'ancora da
fare'". Rispondo: e perché mai non dovrei riesaminarla e ripercorrerla e
cercare di vedere dove è bianco e dove è rosso o dove è nero? Cedo, forse, mi
indebolisco così? Io penso esattamente il contrario. In questo modo io capisco:
sviluppo dentro di me una nozione più larga e più ricca dell'accaduto.
E poi andiamo al sodo: sono secoli e secoli che l'uomo
si interroga - giorno per giorno! - su ciò che fa e su ciò che gli capita. E
anche Tronti l'ha fatto, e con rigore, quando io forse sbagliavo, anche se
adesso egli si "diverte" a mostrare una qualche ripugnanza verso
l'autocritica. E se Dio vuole, io ho imparato - spesso e parecchio - dalla sua
ricerca.
A dire il vero, a me l'interrogarmi e il dubitare su
quel che facevo (e anche sulla tessera che avevo in saccoccia) ha dato sempre
giovamento. Il guaio invece era quando stavo fermo, e accettavo il dogma.
Per ultimo: quando giungo alla fine dell'articolo di
Tronti la scena cambia: e il mio amico discorre sul pacifismo (e questo mi
piace e mi preme) e invita il movimento pacifista a "fare politica":
annota - nel suo stile - che siamo a un "bismarkiano ritorno della
politica estera", e invita le "forze del movimento" e il
pacifismo a stare in campo: a non fermarsi all'istanza etica: ad agire e a fare
politica "dentro le contraddizioni del sistema", sino a
"trascinare le riluttanti forze politiche della sinistra ufficiale ...
anch'esse su un altro terreno in movimento".
Qui torna il discorso che mi interessa. E forse mi
sarebbe piaciuto, mi piacerebbe, che il dibattito sorto da quella presa di
posizione di Bertinotti divenisse più vasto, e "Liberazione"
allargasse - ancora di più di quanto fa ora - questa ricerca sul che fare:
visto che in tutti noi è chiara - amarissimamente - la novità recataci dal
nuovo secolo: la nuova "guerra preventiva" già in campo, e la
mutazione di fondo recata dall'impero americano nell'agire politico. Lo dico
perché non sono sicuro che nelle forze giovani e fresche che con emozione
profonda abbiamo visto scendere in piazza di fronte alla nuova guerra
"preventiva", siano chiari i punti su cui contrattaccare: per
spostare i "poteri", per incidere realmente sui luoghi dove si
decidono e costruiscono le armi e le azioni militari - e però anche le
ideologie, i consensi di massa, e i compromessi di cui si nutre la politica
(mai dimenticare questa parola, questo livello) dei nuovi guerrieri, con alla
testa quel puritano arrogante e spocchioso che si chiama Gorge Bush.
PIETRO INGRAO
Una risposta
flessibile
Gentile direttore, seguendo il dibattito sulla
nonviolenza che si sviluppa questi giorni su "Liberazione", ho
pensato di scrivere al giornale per dare anche il mio piccolo contributo. Gli
interventi che si sono succeduti da quello di Bertinotti in poi tendono ad
esaltare la strada nella pratica di una radicale nonviolenza in contrapposizione
guerra-terrorismo. Non sono d'accordo ad eliminare completamente l'utilizzo
della forza per la liberazione in quanto innanzitutto ci porrebbe in maniera
contraddittoria nei confronti di molte situazioni dove il popolo armato
combatte per disfarsi dall'occupazione straniera o dalla tirannia a cui è
soggiogato. Una delle maggiori argomentazioni a favore del pacifismo radicale è
l'enorme disparità di mezzi che al giorno d'oggi si è venuta a creare,
argomentazione del tutto vera, alla quale però ad una più attenta analisi mi
viene da rifletttere che se da un lato c'è un enorme disparità di mezzi fisici,
a questa non sempre corrisponde una disparità di risorse umane, le quali in una
lotta di liberazione sono fondamentali. Non credo che la radicale nonviolenza
sia una risposta universale da poter sempre praticare, tuttavia tendo a pensare
che questa strada debba essere sempre tentata di percorrere e solo nel caso di
fallimento, in mancanza di qualunque altra forma di alternativa, si debba
arrivare all'utilizzo della forza rivoluzionaria.
David Camboni via e-mail
Partire
dal contesto storico
Caro direttore, esprimo il mio scetticismo nei
confronti delle posizioni a favore della non-violenza. Intanto il tema è troppo
importante per essere affrontato così, quasi tra pochi intimi, quando invece
investe una delle ragioni di fondo del movimento comunista, da Marx ad oggi,
dal 1848 alle attuali "guerre costituenti" passando per il '17, la
Resistenza, il Vietnam, il '68, il Chiapas eccetera. Per cui spero che lo spazio
che - ancora una volta meritoriamente - "Liberazione" dona ai
comunisti si allarghi poi alle altre sedi idonee: il partito, i movimenti. Il
movimento comunista non solo ha sempre rifiutato il terrorismo, ma quando -
sempre a cominciare da Marx - ha parlato di violenza lo ha fatto specificando
che si trattava di "giusta violenza rivoluzionaria o difensiva", cioè
di una dolorosa necessità imposta dalla violenza del capitalismo e
dell'imperialismo, per rimuovere ostacoli che non era possibile rimuovere altrimenti.
I due eventi storici-base della costruzione dello stato democratico in Italia -
e cioè il Risorgimento e la Resistenza - sono eventi di lotta armata: tutti
scemi, dunque, i patrioti e i partigiani, che avevano a disposizione e
non-violenza e non l'hanno praticata? Evidentemente, come legittimamente hanno
ragionato i comunisti in passato, vi sono contesti storici nei quali vi può
essere una giusta violenza, e vi sono contesti storici - come questo attuale -
nei quali la non-violenza è un fattore positivo, ma non si può generalizzare.
Pasquale Vilardo Roma
comunismo
Hesse e la nostra
"lunga marcia"
Caro direttore, Hermann Hesse, il grande scrittore
tedesco premio Nobel 1946, nel febbraio 1950, quindi ancora vivo Stalin e in
piena guerra fredda, così scriveva, in una lettera, al sig. R. H. di Monaco:
"... non possiamo mettere nello stesso calderone Hitler e Stalin, ovvero
il fascismo e il comunismo. L'esperimento fascista è un esperimento retrogrado,
inutile, stolto e volgare, ma l'esperimento comunista è un esperimento che
l'umanità doveva fare, e che, nonostante che si sia così tristemente fermato e
impantanato nel disumano, dovrà essere sempre e continuamente ripetuto, e
questo non tanto per realizzare la sciocca "dittatura del proletariato",
bensì qualcosa di simile alla giustizia e alla fratellanza tra borghesia e
proletariato...". Mi sembra che queste parole, più di qualsiasi sterile
richiamo ad antiquate ideologie e a dottrine obsolete, contengano il nocciolo
filosofico-programmatico del nostro "essere comunisti", della nostra
"lunga marcia" verso la realizzazione pratica di un mondo diverso da
quello attuale.
Francesco Sarli Roma
Una brutta
piega
Caro direttore, bene ha fatto il nostro segretario ad
accollarsi le responsabilità del nostro passato ma anche a denunciare gli
errori fatti. Se non si riconoscono gli errori siamo destinati a perdere. Ogni
occasione è buona per dividerci invece di cercare di risolvere i problemi che
hanno i lavoratori, i disoccupati. A livello nazionale il nostro partito fa una
politica interessante e con tante belle proposte, poi invece dove governiamo a
livello locale si fa ben altro. Vedi ad esempio nella nostra Regione Marche
dove è stato rinnovato per altri venti anni il contratto alla raffineria Api di
Falconara senza batter ciglio. I consiglieri della Regione Marche si sono
aumentati lo stipendio dicendo che è un meccanismo automatico, ma per i
lavoratori il meccanismo automatico non c'è? Voglio dire, qual è la nostra
diversità?
Giuseppe Polinori Ancona
Manca
un'autocritica interna
Cara "Liberazione", siamo due giovani
comunisti della periferia di Milano, se abbiamo, come tanti, aderito al Prc è
perché ci sembrava che nel nostro Paese fosse assolutamente necessaria la
presenza di una forza politica comunista organizzata che difendesse giovani,
lavoratori, pensionati e cittadini dai crimini e dalla violenza del capitalismo
dominante e dei suoi boss. Oggi la necessità ineludibile della presenza del
partito comunista ci sembra confermata: chi dovrebbe lavorare concretamente per
dare una speranza alle nostre sconfinate e disastrate periferie? Alle migliaia
di persone che ogni giorno che passa perdono la possibilità di vivere
dignitosamente perché private persino delle cose più essenziali? C'è forse
un'altra sinistra all'altezza in Italia? Forse in qualche salotto borghese,
sicuramente non nel Paese reale, che è quello che conta! E come faremo a
raccogliere il consenso popolare se alla fine, pur tra tanti distinguo, ci
sputiamo addosso da soli? Cosa dire poi ai militanti dei circoli, che questo
partito lo tengono quotidianamente in piedi, proprio perché comunisti in un
partito comunista? Ma forse questo a una parte di noi interessa meno... ed
ormai la moda impone operazioni, queste si di vertice, come quella che si
accenna a Berlino. Forse un po' della durezza utilizzata nell'affrontare il
'900 andrebbe applicata anche ad un'autocritica interna, finora assente.
Spartaco Puttini, Mattia Gatti
terroirismo
Militarizzazione
senza incolumità
Caro Curzi, circa il terrorismo, tutto il pianeta
viene militarizzato senza mai, in realtà, assicurare la incolumità di nessuno.
Ma quanto dovremo aspettare una vera lotta per sbarrare la strada ai focolai di
guerra e di forte ingiustizia nel mondo? Riguardo all'intervista a Pietro
Ingrao, su cui sostanzialmente d'accordo, c'è un breve passaggio, che riporto
testualmente: "Ma anche la sensazione di vivere un crinale di frontiera -
quante volte abbiamo paventato un golpe, dormito fuori casa, temuto il
complotto dei generali?". Deve essere compito dei compagni che
"dormirono fuori casa" evitare il rischio che le giovani generazioni,
compresi i trenta-trentacinquenni, non comprendano appieno questa affermazione.
In Italia la situazione non è precipitata anche perché la lotta contro le tentazioni
golpiste è sempre stata all'ordine del giorno dal dopo guerra in poi: non solo
per le notti che molti compagni dormivano fuori casa, ma anche per la ferma
volontà e la dura lotta per inverare la nostra democrazia senza aspettare l'ora
X.
Ilario Rosati Firenze
da Liberazione 15-1-'04
La rifondazione non riguarda solo il comunismo
Caro Sandro, cara Rina, vorrei dare anch'io il mio
contributo al dibattito sui contenuti della rifondazione comunista. Il filosofo
francese Paul Ricoeur afferma che la nostra è un'epoca di ri-fondazioni più che
di fondazioni e che rifondare un'idea, un movimento, una corrente storica
significa "mantenere le promesse non mantenute del passato".
L'esigenza di rifondare non riguarda solo il movimento comunista, ma molte
altre cose essenziali: per esempio il senso dell'agire politico, la pratica
della democrazia, la cultura della trasformazione, l'essere di sinistra ecc.:
tutte cose che oggi sembrano perse e che sono da riconquistare.
"Rifondare", inoltre, comporta un rapporto col tempo, con le
generazioni passate e con quelle future, un rapporto di grande rispetto verso
chi in passato ha lottato, ha creduto, ha sperato, ma anche di grande
sollecitudine verso chi si appresta a vivere nuove esperienze e deve poter
riuscire ad evitare errori e fallimenti del passato.
Senza queste premesse anche il dibattito su comunismo,
nonviolenza, cultura della pace rischia di essere falsato: non stiamo parlando
di ideologie astratte, ma di esperienze storiche. Sappiamo bene che la storia
finora è stata impastata di violenza, che la guerra ha segnato le vicende
dell'umanità, che in certe situazioni si è imposta la necessità di resistere
all'oppressione con guerre di resistenza e di liberazione. Proprio perché
sappiamo tutto questo, ci possiamo oggi interrogare se l'umanità nel suo
complesso non sia giunta oggi a un tornante della sua storia in cui si pone da
una parte la minaccia di una guerra infinita, distruttiva delle stesse
possibilità di vita nel pianeta, dall'altra la prospettiva di relegare la
guerra, attraverso la pratica della nonviolenza attiva e la lotta per la
costruzione di un nuovo ordine mondiale, fra gli arnesi del passato, passando,
per parafrasare Marx, dalla preistoria alla storia, o, in altri termini,
conquistando un più alto livello di civiltà.
Battersi per questa prospettiva, perché di lotta pur
sempre si tratta, significa per noi scegliere di fondare la possibilità di un
comunismo a venire sull'orizzonte della pace, riprendendo tra l'altro
un'aspirazione profonda di cui si possono cogliere le tracce nel movimento
socialista e comunista del passato (la parola d'ordine "guerra alla
guerra", il grande leader della sinistra socialista francese Jaurès che
cade vittima di un fanatico militarista, prima dell'immane macello della prima
guerra mondiale, Rosa Luxenburg e Karl Liebknecht in carcere per la loro
opposizione al conflitto, ecc.).
Nell'esperienza concreta del socialismo e del
comunismo novecentesco si è trattato di tracce, di aperture che per ragioni
diverse non si sono concretizzate e la cui realizzazione è stata rinviata ad
una umanità futura, sempre più remota, mentre nei regimi del socialismo
cosiddetto reale (e anche, in forme diversa, nelle socialdemocrazie) si
affermava una realtà tutta opposta. Quello che oggi invece s'impone è proprio
la coerenza fra mezzi e fini, l'impossibilità di rinviare a un futuro radioso
quello che non si riesce in nessun modo a prefigurare nella pratica del
presente: questa impossibilità è stata espressa dal filosofo marxista André
Tosel con la formula "comunismo della finitudine", che significa
appunto un'idea di comunismo che sia pensata sulla misura dell'esistenza
concreta degli essere umani, dei soggetti in carne e ossa.
Per questo vedo un nesso strategico fra comunismo
futuro e lotta pacifista e nonviolenta oggi: anzi propongo (con un lavoro che
richiede certamente grande spessore e molteplici contributi) di rileggere la
parola "comunismo", accentuando il motivo della "comune
umanità" che ci lega a tutti gli altri esseri umani (umanità che viene
alienata nella logica capitalistica), in un mondo e in una società dove i beni
essenziali siano "comuni" e sottratti alla logica della
mercificazione. Questa prospettiva umanistica ed etica non solo non sminuisce
ma anzi potenzia la critica al modo di produzione capitalistico e la lotta per
un suo superamento, passando per il conflitto sociale e le lotte e per una
capacità di gestire in modo pacifico e nonviolento il conflitto e le lotte.
Un altro punto su cui si è concentrato il dibattito su
"Liberazione" è la questione della religione e della sua critica da
parte di Marx. Anche qui l'esperienza storica del movimento operaio è
tutt'altro che univoca. Come saltare quasi due secoli di esperienza storica che
hanno visto, soprattutto nell'ultimo cinquantennio, un'imponente partecipazione
di compagni credenti alle lotte di liberazione in tutto il mondo? Per chi
proviene da questa esperienza, peraltro, la critica marxiana della religione è
stata assunta come una sfida in positivo, come la necessità di dimostrare in
concreto che la fede è non una fuga in un altro mondo ma un modo di atteggiarsi
e una proposta di vita in questo mondo. Non credo che una forza politica possa
chiedere di più ai propri aderenti. Il resto appartiene alle discussioni
filosofiche e alle convinzioni personali.
Domenico Jervolino
Ma la non-violenza non contraddice il nostro comunismo
Caro Curzi, mi pare che nel dibattito che si sta
sviluppando sulla nonviolenza vi siano molti fraintendimenti. La nonviolenza
(scritta tutta-di-seguito) non è il contrario della violenza. Allo stesso modo
per cui affermiamo che la pace (quella positiva, fondata sulla giustizia) non è
semplicemente l'assenza di guerra guerreggiata. La nonviolenza non è (solo) una
prassi, una tattica, una modalità che possono scegliere i movimenti politici di
trasformazione della società a seconda delle opportunità con cui la storia si
presenta a noi.
La nonviolenza, almeno dentro alcune teorie generali
(gandhiane, ma non solo: pensiamo ai neri d'America o alla teologia della
liberazione), allude ad un'idea politica complessiva del potere che chiama in
causa strutture, istituzioni, rapporti sociali, sistemi di valori, culture,
coscienza di sé, comportamenti. Ed è un'idea di società alla radice
inconciliabile con l'attuale, affatto diversa da quella capitalista perché ne
mette in discussione la costruzione ideologico-giuridica principale: la
separazione tra individuo e società, tra etica e politica, tra etica della
coscienza ed etica della responsabilità (per citare Bobbio), tra libertà e
potere (Capitini). Quando si dice che "i mezzi stanno ai fini come il seme
all'albero", si demolisce il pensiero occidentale che regge le istituzioni
capitalistiche (dall'impresa allo stato) da qualche secolo. Almeno che non si
pensi che la guerra, la divisione della società in classi, la depredazione
delle risorse naturali... siano accidenti indesiderati, effetti collaterali
emendabili, così che sia possibile "mettere al servizio" di altri
scopi le modalità di produzione, la scienza, la tecnica, lo sviluppo della
potenza sociale delle forze produttive.
La violenza dell'uomo sull'uomo, sulla donna, sulla
natura rimane l'elemento inevitabilmente costitutivo e ordinatore dei rapporti
di produzione e di potere, quindi sociali, capitalistici. In questo senso la
nonviolenza va certamente oltre il pacifismo. Allude ad una società di liberi
ed eguali, una democrazia sostanziale di comunità capaci di auto-organizzarsi
al proprio interno e di rapportarsi secondo schemi di cooperazione e di
reciprocità all'esterno. L'azione nonviolenta (la disubbidienza, la non
collaborazione, il boicottaggio, l'obiezione, l'interposizione, la mutualità e
le mille e mille forme individuali e collettive con cui ci si può opporre
all'avversario, sciogliere i fili del comando, sottrarsi alle sue leggi,
destrutturate poteri e colpire i suoi interessi economici...) quando è davvero
efficace, costruisce rapporti umani e solidarietà sociale la cui bontà e
convenienza sono immediatamente dimostrabili. Istanza etica e azione politica
si identificano. Rottura e innovazione dei rapporti sociali procedono di pari
passo. Organizzazione (mandato) e rappresentanza (delega) non si separano.
Non mi pare che tutto ciò possa contraddire in alcun
modo l'idea che abbiamo noi di comunismo. Al contrario, penso, possa consentire
di rimetterla in marcia, qui e ora, sulle gambe e con il fiato di molte più
persone, di tanti giovani e, soprattutto, di donne. Mi sono chiesto, allora,
cos'è che (da sempre) fa scattare tanta diffidenza, se non persino avversione
all'idea di lotta nonviolenta in molti teorici e attivisti della sinistra
rivoluzionaria? Penso sia la convinzione che la nonviolenza sia un inganno. Per
due motivi: uno dettato dal pessimismo verso l'ipotesi che sia possibile
dispiegare a livello di massa una tale consapevolezza individuale capace di
reggere conflitti nonviolenti di grande intensità (nonostante e più di Genova,
Cancun, il 15 febbraio...ma non dimentichiamoci ciò che c'è stato anche prima,
anche da noi; Comiso e il nucleare, ad esempio). Il secondo, dettato da una
incrollabile certezza sul fatto che prima o poi - comunque - il sistema è
destinato ad implodere e potrebbe essere necessario il ricorso alla lotta
armata, nelle varie forme che abbiamo visto guerriglie di resistenza e di
liberazione conosciuto e che la storia ha reso necessarie (guerre di popolo
anticolonialiste, guerriglie di resistenza e di liberazione, insurrezioni). La
scelta della nonviolenza ci precluderebbe una possibile via di salvezza/uscita.
Insomma torna la questione della inefficacia del
pacifismo nonviolento. Problema che giudico di difficile, se non di impossibile
soluzione a tavolino. Si possono solo fare delle valutazioni molto soggettive
sul piano storico e tentare di trarre qualche insegnamento. (Se mi fosse
consentito di togliermi dall'impiccio con una battuta, direi che sono finiti
crocifissi sia Cristo che Spartaco, o che sia l'India che la Russia sono state
costrette a strisciare nella periferia dell'impero). Ciò che ritengo
sicuramente obbligatorio per una forza politica è compiere delle valutazioni
pragmatiche, ora e per il futuro, facendosi guidare dall'unico criterio di
valutazione possibile in politica: scegliere ciò che permette di attivare il
più gran numero di energie sociali lungo un percorso di trasformazione, scegliendo
le modalità più coerenti e convincenti, più innovative e più partecipate,
capaci di mostrare già ora qual è la società che vogliamo domani (almeno sotto
il profilo delle regole politiche che devono intercorrere tra di noi).
Paolo Cacciari
Un grazie
a Pietro Ingrao
Caro direttore, non conosco l'indirizzo privato del
compagno Ingrao, ma voglio fargli arrivare i miei ringraziamenti per il
coraggio col quale ha aggiunto nuova legna al fuoco acceso dal compagno
Bertinotti, correggendone a mio avviso anche certe sfumature critiche, cosa che
ben si addice a un uomo che ha militato nel Pci e che ne ribadisce l'orgoglio.
Otello Fabbrocini Perugia
La libertà di pensare
criticamente
Cara "Liberazione", ritengo sia più che
necessario un dibattito per "ripensare" il comunismo ripartendo dalle
radici marxiane e considero positivi i passi avanti fatti in questo senso, sia
sul piano teorico che di proposta politica, da Bertinotti. Perché non tentare
un'uscita dal comunismo (o almeno dal fallimento del socialismo reale) a
sinistra e non a destra come è accaduto finora per le formazioni ex-comuniste?
Penso che la "contaminazione", usando un termine improprio, con altre
esperienze, pensieri e idee, sia più che salutare e quindi non posso che esser
contento della nascita di una nuova Sinistra europea, che non sia unita da
anacronistici dogmatismi o stiracchiati ideologismi, ma dalla condanna unanime
della guerra e del neoliberismo. Sono iscritto a Rifondazione (Giovani
comunisti), ma con diversi punti interrogativi, la mia non è un'adesione
ideologica ma una vicinanza culturale. Rivendico la libertà di "sentirsi
altro", di dubitare e di pensare criticamente. Non mi piace un mondo in
bianco e nero: le sfumature esistono e bisogna riconoscerle, lontano dalle
ortodossie. Perché un mondo diverso sia fatto di tanti colori!
Mauro Ravarino via e-mail
Pensare, ripensare,
fondere...
Cara Rina, caro Sandro, la storia si fa anche con i se
e con i ma, come afferma giustamente Bertinotti, e ripensare correttamente il
'900 e la storia grande del movimento comunista, significa pensare possibile un
percorso diverso rispetto a quello provvisoriamente vittorioso quasi cent'anni
fa. Significa ripensare a Kronstadt, e non solo a Kronstadt e significa rendere
attuale sul piano culturale, sociale e politico quell'altra storia, non ancora
interrotta, fatta di autorganizzazione e di autocoscienza di tanti soggetti che
lungo il secolo hanno cercato di superare le colonne d'Ercole del capitale.
Significa riscoprire nel movimento anti-liberista ragioni antiche che hanno
teso a fondere la lotta per la trasformazione del mondo con una radicale,
profonda trasformazione di sé, non definibile da alcuna coscienza esterna e
separata (il Partito), ma risultato difficile di una pratica costante,
quotidiana, di democrazia senza aggettivi (i Consigli); una pratica che è
superamento della separazione tra mezzi e fini in cui annega l'idea aberrante
della soppressione dell'altro da sé e che nella scoperta della non-violenza si
ricongiunge con una politica, quella delle donne, che sta in mezzo, né sopra né
tantomeno, come dice Revelli, "altrove, in una sfera separata". E
allora potremmo pensare che le esperienze che nel XX secolo hanno
"perso" possono oggi illuminare di più e meglio la ricerca della rifondazione
rispetto alle logore certezze di qualche catechista di troppo. E in sostanza
capire che non solo un altro mondo ma che anche un altro comunismo è oggi
possibile.
Marzia Mencarelli, Marco Savelli Pesaro
Una pluralità
di teorie e di pensieri
Cara "Liberazione", penso che farei un torto
all'intelligenza e alla sensibilità politica di Fausto Bertinotti se credessi
che nelle varie "esternazioni" del suo pensiero egli abbia
"messo all'indice" il pensiero e l'opera di Lenin. Nessun comunista
che abbia "letto" criticamente la storia del Novecento ritiene
politicamente sensato perpetuare il culto di Lenin, ogni comunista che voglia
"immergersi" nella storia del XXI secolo efficacemente per costruire
una società di "liberi ed uguali" deve conoscere e valutare pensiero
e azione dei propri "antenati" (considerando ovviamente il contesto
storico) al fine di ricavarne eventuali indicazioni preziose o di non
ripercorrere gli stessi fatali errori. Ora, se è deprecabile che il segretario
(o la direzione) di un partito comunista detti la "linea"
interpretativa della Storia e del Pensiero e la imponga ai membri dello stesso
non è neanche auspicabile che ognuno pratichi i culti che vuole. Quindi un
"atteggiamento" condiviso nei confronti del passato (teoria, prassi,
eventi) s'impone. Si trova forse in una felice ed appropriata espressione di
Bertinotti, "ci sono diversi marxismi", il senso di una pluralità di
teorie e di pensieri.
Angelo Nigrelli Lecco
Non deleghiamo
la linea politica
Cari compagni/e, sono un anziano partigiano comunista,
sin dal '43, seguo la politica con passione da sempre... Ho sempre avuto
fiducia nel socialismo/comunismo, quindi ho sempre lottato, tanto da essere
licenziato nel '54 alla Weber di Bologna perché davo fastidio ai padroni Fiat.
Seguo, il dibattito su "Liberazione", non sono intellettuale ma la
vita in fabbrica e la lotta partigiana mi hanno forgiato al marxismo e
leninismo... Si è veramente comunisti, per quello che si fa, come si agisce,
non per quello che si dice di essere, o per il colore della cravatta che si
porta, o la bandiera abbracciata. Da vecchio comunista trovo strano che a
questo dibattito non intervenagano i componenti della segreteria, direzione,
Comitato politico nazionale... Perché la linea del partito la si delega a
Repubblica o a "Liberazione" e non ad un congresso straordinario? Se
si vuole un partito solo di nome, io non ci sto! Io penso che se tutte le
energie spese da tanti contro l'Urss e i paesi socialisti (pur con i loro
difetti) fossero state usate per smascherare le malefatte del capitalismo,
dell'imperialismo, cominciando dagli Usa... forse oggi non ci troveremmo in
questa barbarie.
Armando Vignoli (Pezzi) Anzola Emilia (Bo)
Quale rapporto
col centrosinistra?
Cara "Liberazione", abbiamo il merito di
avere anticipato e capito molti processi che investivano la classe operaia, ma
quando questi hanno cominciato a concretizzarsi in lotte effettive abbiamo in
parte mollato. Io non so quanto ci sia di "nuovo" in questa lotta né
quali siano i loro limiti. (A me sembra, ad esempio, che ci sia una
insufficienza di politica), per intanto verifichiamo il ruolo che dobbiamo
svolgere noi. Chiediamoci anche cosa fanno di nuovo le nostre federazioni. Come
cambia (e se deve cambiare) il nostro rapporto con il centrosinistra? E come
rinnoviamo e riclassifichiamo l'impegno del partito nella lotta dei lavoratori?
Nuccio Tirelli Piacenza
da Liberazione 16-1-'04
Di fronte al potere violento non ci basta dirci non
violenti
di Piero Bernocchi,Marco Bersani,Salvatore
Cannavò,Luca Casarini
Caro Sandro, cara Rina, la strategia della guerra
globale permanente e preventiva non offre scampo ai popoli, agli uomini e donne
della terra intera inglobati in uno stato di "terrore permanente" fin
dentro gli avamposti occidentali più ricchi e non più sicuri, gli aeroporti. Ma
tale terrore non è solo espressione della guerra globale: è sempre più fatto
immanente delle società in cui viviamo, espressione di un rapporto di dominio
prodotto dal dispiegarsi delle leggi del capitale a cui tutto deve soggiacere
pena una repressione sempre più indiscriminata - cosa sono, da ultimi, gli
arresti di Roma se non questo? - anzi, pena l'iscrizione d'ufficio nell'albo
dei violenti di turno, sempre troppo contigui al terrorismo e quindi da
castigare anche con la galera. E' in questa torsione semantica e politica che
risiede il rischio maggiore per le lotte di cui siamo protagonisti e che il
dibattito, così come avviato dall'intervento di Fausto Bertinotti,
contribuisce, purtroppo, ad alimentare.
La violenza come fatto intrinseco al sistema
dominante, espressione di un rapporto di dominio e di potere - anche quando
viene monopolizzata dall'attentato terroristico - finisce per costituire la
cifra identificativa delle lotte stesse e dei soggetti che si oppongono allo
stato di guerra permanente.
Questa torsione è resa possibile da un'idealizzazione
dei concetti che, in luogo di definire ed esprimere fenomeni reali dotati di
variabili e sfumature concrete, finiscono per diventare pure astrazioni,
private del loro contesto e della loro materialità. Il punto è che il
cosiddetto terrorismo, inteso nel senso classico, è un fenomeno storico non una
categoria assoluta. E in quanto fenomeno esprime a sua volta forme ed
espressioni differenti. Oggi, ad esempio, la sua forma più evidente e visibile è
quella di coloro (Al Qaeda in primo luogo) che, mediante il massacro feroce di
civili, sembrano rispondere alla guerra permanente con una forma di
"guerra a bassa intensità" altrettanto sporca e spietata, cercando di
colpire il "cuore" dell'occidente ma avendo in realtà come obiettivo
cruciale sopratutto il rivolgimento di alcuni stati arabi, l'Arabia saudita
innanzitutto. Ma questo uso del terrore indiscriminato, che non colpisce
avversari "militarizzati" e in armi ma per lo più civili
inermi, è cosa ben diversa dall'uso del terrore che ad
esempio i kamikaze palestinesi fanno nei confronti di Israele: uso che,
oltretutto, avviene sotto l'ala oppressiva della sconfitta della lotta pacifica
e di massa. E, a sua volta, quell'uso del terrore si differenzia ancora
rivolgendosi, a volte, in maniera indiscriminata, contro i civili, ma altre
attaccando i coloni, assai militarizzati e violenti nei confronti del popolo
palestinese, o, in molti casi, scegliendo obiettivi militari o comunque più
classicamente bellici: in questi ultimi casi usare il termine terrorismo
piuttosto che quello di resistenza armata diviene una scelta ideologica e di
schieramento con effetti assai negativi. E altrettanto ideologico e "di
schieramento" è la scelta di un termine o dell'altro nel caso iracheno
dove agli attentati di ignota matrice si susseguono vere e proprie azioni
militari contro l'occupazione statunitense, o inglese o italiana, che nulla
hanno a che fare con il terrorismo, ma che
divengono espressioni di una resistenza armata. Tanto
più in un contesto che ormai vede veri e propri moti di ribellione di piazza
che avvengono ogni giorno e che segnalano quanto sia esteso il rifiuto
dell'occupazione militare.
Queste analisi concrete non puntano affatto a
sostenere l'uso del terrore, ma servono o aiutano a comprendere la realtà in
cui operare per averne una rappresentazione il più possibile esatta. Servono a
capire, ad esempio, perché Noam Chomsky può dire che il "terrorista n°
1" sia George Bush e servono a comprendere il ruolo che, in particolare in
Italia, ha avuto il terrorismo di Stato scagliato contro i movimenti. Ma tale
concretezza di analisi scompare del tutto quando si sceglie la contrapposizione
idealistica tra "la Guerra" e "il Terrorismo", quando cioè
due categorie analitiche acquisiscono soggettività politica, quasi una vera e
propria personalità e un intero apparato organizzato: e vengono utilizzate per
descrivere non solo l'esistente ma anche il passato e addirittura l'intero
futuro. Così anche il Vietnam diventa un fatto violento esecrabile, schiacciato
sulla deriva autoritaria dello stato vietnamita svalutando quell'effetto di
"intontimento delle classi dirigente
americane", di cui brillantemente parla Mario
Tronti, che allora ebbe: e, perchè no, magari anche l'intera attività dei
rivoluzionari cubani e dello stesso Che Guevara. La coppia guerra-terrorismo
(addirittura come "spirale"), che ad alcuni sembra così efficace
nella descrizione del presente, invece lo comprime e lo cancella in una
dicotomia astratta. La strategia imperialistica degli Usa punta a questa
dicotomia per costringerci a scegliere tra l'una e l'altra: e quindi se sei
contro la guerra globale sei per il terrorismo. E' stato così nel caso di
Nassirya, anche se abbiamo finito per non accorgercene. Quell'attacco militare
contro il contingente italiano - di questo si è trattato come ha sottolineato
anche un osservatore non certo a noi vicino, come Sergio Romano - è stato
descritto come un fenomeno terroristico, naturale conseguenza dell'opposizione
alla guerra. Accettare la dicotomia assoluta, la "spirale" crescente
tra i due concetti significa dunque rischiare di
assoggettarsi a questa strategia che in ultima analisi
punta a delegittimare qualsiasi obiezione, qualsiasi anomalia nella lineare
strategia di guerra permanente, qualsiasi "diserzione" che,
automaticamente, diverrebbe un passaggio da un campo all'altro dello scontro e
non un'alternativa (accusa che infatti Sharon muove ai Refusnik o che, peggio,
sostanzia la direttiva europea sul terrorismo finalizzata a redigere una lista
"nera" di movimenti di opposizione da considerare fuori legge).
Continuare a discernere, a selezionare gli argomenti, a descrivere i fenomeni
per quello che sono e rappresentano, rifiutare la falsa dicotomia guerra-terrorismo,
ci sembra invece il lavoro più difficile ma anche il più indispensabile per
seguire una strada di opposizione all'ordine mondiale che gli Stati Uniti ci
vogliono imporre.
Si dice, però, che il mezzo per rigettare quella
dicotomia - che nel discorso di Bertinotti non viene smentita, anzi appare
condivisa e persino enfatizzata - e sottrarsi alla morsa micidiale della
presunta "spirale" guerra-terrorismo sarebbe il rifiuto assoluto
della violenza e quindi l'accettazione completa della pratica nonviolenta. Che
l'opposizione alla guerra globale permanente sia oggi il movimento di massa su
scala mondiale è un fatto ormai acquisito già dalla risposta che questo è stato
in grado di offrire dopo l'11 settembre. Non crediamo però che questo possa
essere riassunto solo nella pratica non violenta. Intanto anche qui la scelta
della terminologia è già una scelta ideologica, politica e persino di
schieramento. Spesso i movimenti, le opposizioni sociali sono costrette a un
uso della forza che è cosa ben diversa dall'esaltazione della violenza, per
praticare forme di autodifesa e di resistenza alla repressione, alla barbarie,
allo sfruttamento, al sopruso. Se è vero
che non esiste una dicotomia guerra-terrorismo, ma
decine di sfumature, variabili, situazioni concrete diverse di caso in caso (a
quale categoria iscriviamo lo zapatismo o la resistenza colombiana?), anche per
quanto riguarda la scelta di pratiche di lotta esistono modalità molteplici.
Tra violenza e non violenza, lo abbiamo dimostrato anche qui in Italia nel
movimento e imparato l'uno dall'altro, esiste la disobbedienza, la resistenza,
il boicottaggio, il sabotaggio, ecc. E queste a loro volta si esprimono in
forme differenziate a seconda dei contesti. Cos'erano, se non questo, via
Tolemaide, piazza Da Novi, piazza Dante, piazza Alimonda il 20 luglio 2001 a
Genova? Le manifestazioni, le lotte e quindi le pratiche scelte si definiscono
in funzione assoluta o invece vanno commisurate agli obiettivi che si scelgono
e ai risultati ottenibili?. Violare le "zone rosse" - che ormai
costituiscono la frontiera interna della guerra globale - si misura sul tasso
di nonviolenza o sul
significato che ciò esprime per le lotte stesse, sulla
fiducia che si accresce, sulla forza che acquista un movimento? Non si può
calare sulle lotte, dall'alto di una definizione astratta, una categoria, la
nonviolenza, che ne cristallizza il divenire e rischia di paralizzarne
l'azione. Insomma, non si può commettere il rischio opposto a quello degli anni
Settanta quando sembrava che una determinata lotta o processo rivoluzionario
fossero tanto più degni di nota, quanto più facessero uso della forza (o della
violenza). Queste astrazioni vanno lasciate da parte. Le lotte si commisurano
sulla base della capacità di mobilitazione, sul tasso di partecipazione e di
scelta democratica che sanno garantire; le forme di lotta si definiscono sulla
base degli obiettivi che si sono scelti e, in ultima istanza, si giudicano su
quanto rafforzano la fiducia in sé stessi, nelle proprie ragioni, su quanto
allargano consenso e protagonismo sociale, su quanto evitano forme di
"avanguardismo" e di
pratica separata ed escludente. Ma naturalmente
dipendono anche dall'atteggiamento, e dal grado di violenza dispiegata da chi
il potere gestisce. Perchè se così non fosse, dovremmo dire che avevano ragione
i nazisti a chiamare "banditen" i partigiani. Mezzi e fini non sono
disgiunti nel senso che si scelgono i mezzi migliori per raggiungere i propri
fini. I nostri fini sono un mondo senza sfruttamento, senza padroni, senza
guerre, democraticamente "governato", in questo senso pacifico e in
cui l'eliminazione della violenza è giocoforza un processo da acquisire. Per
questo il movimento "no global" non si è mai fatto affascinare dalla
violenza gratuita ed è infinitamente "altro" dal terrorismo.
Certamente aspiriamo a un mondo senza violenza e a un percorso di lotte il più
possibili immuni dalla violenza. Ma l'altro mondo possibile che vogliamo è
costruito giorno per giorno, in scelte quotidiane, in lotte quotidiane, spesso
difficili, in scontri non voluti ma imposti da leggi ingiuste
e dalla repressione. Lotte che non sempre possono
scegliere, pena l'immobilismo, tra violenza e nonviolenza, avviluppate come
sono dalla violenza del potere: e che in certi casi devono anche
autodifendersi. Possono scegliere, invece, di essere partecipate, co-decise,
mezzi consapevoli e autodeterminati aventi come fine un mondo migliore.
Piero Bernocchi, Marco Bersani, Salvatore Cannavò,
Luca Casarini
Una discussione vera su un nodo cruciale
Dopo l'intervista di Bertinotti al
"Corriere"
Violenza e nonviolenza: riesplode un dibattito antico
e attualissimo, sia nella sua valenza generale (quasi "teorica") sia
nei suoi brucianti risvolti politici, ora che sul movimento (specie a Roma)
cala la stretta repressiva del ministro dell'Interno. Una frase di Fausto
Bertinotti - estrapolata dal contesto di un'intervista del segretario di
Rifondazione comunista pubblicata giovedì dal Corriere della sera - sta
producendo un dibattito vero, e anche una polemica: "Io di bastone non
porto neppure quello della bandiera. E invito gli altri a fare altrettanto.
Alle manifestazioni si va a mani nude e a volto scoperto", ha detto il
segretario di Rifondazione comunista. Ieri, sullo stesso giornale, la replica
di alcuni esponenti del movimento, da Paolo Cento a Luca Casarini. Come è
sempre avvenuto, s'intende, molti useranno questa discussione in modo
strumentale, magari per dimostrare che l'intero movimento insorge contro
Rifondazione o che Rifondazione intende "mollare" il movimento. Nè
l'una nè l'altra cosa hanno fondamento alcuno. E' vero, invece, che i dissensi
non sono nè piccoli nè banali.
L'intervista del Corriere a Bertinotti muove
dall'arresto di Nunzio D'Erme e di altri militanti del movimento romano, per la
manifestazione del 4 ottobre dell'anno scorso. Su questa vicenda specifica,
critica quell'"eccesso di zelo", a senso unico, cioè quegli
"interventi reiterati" contro il movimento che hanno spinto gli
inquirenti a considerare "socialmente pericolose" persone come Nunzio
D'Erme. Ma il ragionamento si allarga a temi più generali e di cultura
politica. E' giusto, chiede l'intrervistatrice, partecipare alle manifestazioni
con "casco, bandana e scudo", come ha detto lo stesso D'Erme? Sono
leciti comportamenti violenti, come teorizzano alcuni esponenti del movimento?
Bertinotti risponde riproponendo la scelta non violenta, ovvero quella
"battaglia culturale per la non violenza" "che oggi è l'unica
possibile in una società che ha la vocazione della repressione". Una
battaglia, come è noto, che il segretario di Rifondazione ha riaperto a partire
dal convegno (sulle foibe) svoltosi a Venezia nel dicembre e che sta suscitando
- proprio sulle colonne di questo giornale - un confronto appassionato.
"Mi batto perchè si arrivi a forme condivise di nonviolenza", dice
Bertinotti, sempre nell'intervista al quotidiano diretto da Stefano Folli.
"Non faccio di questa mia teoria politica un elemento discriminante nei
rapporti con il movimento. La nonviolenza è il traguardo, ma non metto sotto la
stessa definizione di violenza qualsiasi forma di resistenza e di lotta".
Ci sono, insomma, molte forme di lotta - i picchetti durante gli scioperi, il
boicottaggio, l'occupazione di case - che si possono definire, al tempo stesso,
nonviolente e non legali: sottinteso, in una questione così complessa non si
può fare d'ogni erba un fascio. "Un consigliere comunale che occupa una
casa per darla a chi non ce l'ha fa bene il suo mestiere. Un militante che fa
gesti violenti fa male".
Sul Corriere di ieri, le risposte e la critica di
alcuni esponenti del movimento. Luca Casarini è lapidario: "Non siamo non
violenti. E' vero che la violenza nella storia dei movimenti rivoluzionari del
'900 ha portato tragedie. Ma vorrei sapere che cosa ha fatto Gandhi". Ancora
più polemico Guido Lutrario, uno dei leader dei disobbedienti romani: "E
se Bertinotti il casco non se lo vuole mettere, non se lo metta. Noi alle
nostre teste ci teniamo". A favore del casco, anche Daniele Farina, del
Leoncavallo di Milano, mentre don Vitaliano della sala appare un po' più
perplesso e Mario Capanna, glorioso leader del '68 si schiera decisamente con
Bertinotti. "La nonviolenza diventa irresistibile, toglie alibi alla
controparte. Le masse con forti ragioni non sono mai violente" dichiara -
ed è di sicuro uno che di cortei, violenti e nonviolenti, se ne intende.
Fin qui, un dibattito destinato, in tutta evidenza, a
continuare e forse ad intensificarsi. E' chiaro che siamo a uno snodo molto
complesso non solo di posizioni, ma di piani: un conto è il tema - generale -
della violenza nella pratica del movimento operaio, del ricorso alla lotta
armata, del valore della resistenza da parte dei popoli aggrediti e invasi; un
altro conto è il dibattito ravvicinato sul e nel movimento, le sue scadenze, i
suoi comportamenti, le sue pratiche. E un altro conto ancora è l'intreccio di
questi temi strategici con il dibattito interno di Rifondazione comunista. Una
cosa è certa: il segretario di Rifondazione comunista ha avuto il coraggio
politico di mettere sul tappeto una questione cruciale come la nonviolenza in
termini netti e limpidi: una assunzione forte di responsabilità, una scelta che
non chiama a banali "schieramenti" ma a una discussione di verità.
Rina Gagliardi
da Liberazione 17-1-'04
LIDIA MENAPACE
Ma il terrorismo isola chi lo fa e rende le masse
spettatrici
Sulle pratiche terroristiche non esprimo un giudizio
etico: delle sue
azioni ciascuno/a risponde alla sua coscienza e - se
non se ne sottrae -
alla legge positiva. Non esprimo nemmeno un giudizio
assoluto. Si tratta di
un fenomeno storico e per tale lo valuto. Se fu
praticato dai Tartari mi
interessa poco, dato che non fluisce più nella storia
di oggi, praticato
dai Narodnikj, i populisti russi, tra i quali vi era
Leo Jogiches e la
stessa Rosa, che se ne distaccarono (ma vi passarono,
sia detto per
scandalo delle anime belle). Mi interessa invece,
perchè riguarda una
persona della quale voglio rinnovare la memoria, non
museale, ma attiva e
viva.
Politicamente sul fenomeno terrorrismo nelle sue varianti
storiche e
geopolitiche dò un giudizio negativo: non tanto per la
ferocia persino
autodistruttiva o perchè ci vanno di mezzo innocenti
(anche: ma questo è un
giudizio generico che riguarda troppe cose per essere
un fondamento saldo)
ma perchè il suo scopo dichiarato o comunque il suo
effetto non eludibile è
che allontana le masse, le passivizza, le colloca in
un limbo di inattività
a fare da spettatrici. E per questo a me oggi pare
sempre un fenomeno di
destra per quanto rivoluzionaria possa essere la
soggettività di chi lo
pratica.
Chiamo dunque terrorismo una azione molto violenta
contro persone agita
individualmente o in un piccolo gruppo con una
esposizione personale
"eroica", che a me non piace mai: resto con
Bert Brecht: "Beato il popolo
che non ha bisogno di eroi".
Non è invece terrorismo la resistenza anche armata o
la guerriglia, che ha
una organizzazione e ha bisogno dell'appoggio popolare
come del pane.
Ricordiamo il motto di Ho Chi Minh che il partigiano è
come un pesce
nell'acqua e l'acqua è appunto il favore popolare che
deve assolutamente
conquistare e mantenere. La resistenza anche armata è
legittima dal punto
di vista del diritto internazionale per qualsiasi
popolo occupato e da lì
non mi muovo: il popolo iraqeno invaso e occupato ha
il diritto di lottare
contro gli occupanti e delle morti che ne seguono
rispondono quelli che
hanno mandato soldati ad occupare, vergognosamente:
oggi i carabinieri
uccisi a Nassiriya servono per consentire a imprese
italiane di lucrare
sulla "ricostruzione" dell'Iraq. Davvero
assassini, come dissi a Parigi
dando la notizia durante il Forum delle Donne. Non
sollevo dunque nessun
rilievo critico sulla legittimità della guerriglia o
della resistenza
armata iraqena: se interpellata tuttavia non
giudicherei allo stesso modo
qualsiasi gruppo resistenziale: a me che vincano i
sunniti o gli sciiti,
come in Egitto magari i fondamentalisti islamici, come
in Iran vinsero gli
Imam, davvero non piace: so bene che qualsiasi
dittatura è esecrabile, ma
comunque le dittature religiose sono -almeno per le
donne - peggio ancora
di quelle laiche: per dirlo con esempi chiari, le
donne Afgane stavano
meglio con Najibullah che con i Talebani o con il
governo di destra di
oggi; le donne pakistane poco giovamento hanno dal
fatto che il loro
governo appoggi e sia appoggiato dalla
"democrazia occidentale". In Iraq
certo le donne avevano più agibilità con Saddam di
quanta ne avrebbero in
una democrazia teocratica. Sarebbe come aver accettato
durante la
Resistenza che il fascismo cadesse per far posto allo
stato pontificio o
alla monarchia rafforzata e per restaurare lo Statuto
albertino invece di
fare la Costituzione.
Interpellata, in più direi come scelta e indicazione
personale che
preferisco boicottaggi e sabotaggi, pozzi incendiati e
binari fatti saltare
che attentati a persone, mine sulle strade ecc.. E qui
voglio ricordare che
l'azione nonviolenta non è affatto necessariamente
legale o remissiva e
comprende appunto sabotaggi boicottaggi attentati a
cose.
A me sembra che sia un atteggiamento conservatore
quello di chi si appella
al passato prossimo non per dare uno spessore storico
al suo cammino in
avanti, ma per avere un esempio rassicurante e agire
una sorta di coazione
a ripetere. Conviene anche ricordare che le pur
gloriose e legittime
guerriglie e lotte armate di resistenza alle invasioni
(Vietnam) o alla
tirannia interna (Nigaragua, Cuba) hanno prodotto o
regimi autoritari e
inamovibili o addirittura l'andata al potere di
governi di destra. Conviene
fare uno sforzo di creatività e trovare nuove strade:
una scelta di azione
collettiva nonviolenta del tutto interna alla storia
del movimento operaio
e sindacale e a quello delle donne a me pare
interessante.
Un atteggiamento di questo tipo starebbe bene immesso
nelle lotte degli
autoferrotranvieri: piuttosto che una ripetizione un
po' fuori tempo
massimo dei CUB e delle lotte operaie dell'autunno
caldo. Si può altrimenti
diventare persino subalterni: se i ferrotranvieri non
vedono la differenza
tra mercato e servizi e non si danno da fare per un
pieno coinvolgimento
dell'utenza non solo a sostegno passivo della loro
lotta, ma con propria
presenza (come ad esempio invece fanno i Cobas contro
la riforma Moratti,
insieme a genitori e associazioni) rischiano
l'isolamento e la
ripetitività, e sembrano lasciar credere che anche per
loro i servizi sono
un pezzo del mercato.
LIDIA MENAPACE
----------------
Insurrezione, resistenza, insubordinazione,
disobbedienza...
Daniele Farina
Diversamente da quanto espresso ieri da Cannavò e
altri compagni non credo
affatto che l'intervento di Bertinotti abbia
alimentato alcunché di ambiguo
o peggio di negativo. Prosegue semmai un dibattito di
lungo periodo
rialimentatosi nel movimento dopo i fatti di Genova
2001.
Sono tra quelli che, in quel frangente, respinse
l'idea che di fronte ad un
ordine pubblico palesemente uscito dai cardini, fino
all'omicidio,
servissero servizi d'ordine, e non, piuttosto, forme
estese e condivise di
autotutela personale e collettiva. Tra quelli che
all'indomani della
manifestazione del 4 ottobre scorso ha espresso
contrarietà evidente sulla
conduzione di quella manifestazione e gli effetti sul
movimento. Non oggi
discutiamo dunque sull'onda di una palese operazione
politico-giudiziaria
ma riprendiamo il filo di un ragionamento mai
realmente interrotto.
La disobbedienza come processo sociale dimostra una
straordinaria
estensione: è entrata nel vocabolario materiale di
larghi settori sociali,
nelle lotte di Basilicata contro le scorie nucleari,
in quelle degli
autoferrotranviari, nelle mobilitazioni per il diritto
all'abitare o allo
studio. Un grande, immaginario, luogo comune nel quale
la tradizione non
violenta, quella di Capitini, si confronta con altre
pratiche, tra le quali
quelle comuniste ed eterodosse di molti di noi. Ne sta
emergendo un
linguaggio che declina la non violenza in una forma
nuova e diversa da
ciascuna di esse, fortemente attualizzata. Del che
sembra non rendersi
conto anche quella parte del movimento che attribuisce
a pratiche nuove
significati antichi, prigioniero di gabbie semantiche
e politiche. Errore,
questo sì, che cristallizza e paralizza l'azione.
D'altro canto se il reciproco riflettersi di guerra e
terrorismo va rotto
in qualche punto è all'interno di questa novità che il
cuneo va cercato e
non certo in una disputa geometrica sulle forme di
questa relazione. Questo
è anche il luogo nel quale si concretizza l'obiezione
e la diserzione alla
guerra, in cui disobbedienza e boicottaggio
acquisiscono legittimità sociale.
Non ho dubbi che l'ondata di movimenti globali
sviluppatasi dal 1999 in
avanti ha portato con se l'eredità del passato e che
riaffiorino i felici
detriti di un conflitto irrisolto. Che proprio la
guerra, nelle sue varie
declinazioni, terrorismo compreso, ci ponga di fronte
in modo più
stringente ad una necessaria e radicale trasformazione
dell'esistente,
quasi ad uno stato di necessità, entro un modello di
sviluppo, che per
convenzione chiamiamo neoliberista, percepito come
socialmente e
ambientalmente intollerabile. Che riemerga un problema
di legittimità delle
forme di lotta che si intreccia ad uno "ius
resitentiae" che permea la
nostra cittadinanza.
Dalla dichiarazione giacobina del 1793 "di fronte
all'ingiustizia e
all'oppressione l'insurrezione è il più sacro dei
diritti dei cittadini",
attraverso l'irredentismo italiano, l'articolo di
Dossetti in sede
costituente, "la resistenza individuale e
collettiva. è diritto e dovere di
ogni cittadino", lungo la guerra d'Algeria e
l'insubordinazione dei 120
intellettuali francesi, attraverso la disobbedienza
civile del movimento
Usa per i diritti civili, e via di questo passo, fino
allo zapatismo, c'è
un filo piuttosto visibile che arriva fino a noi.
Ma è un sentiero che si modifica nel tempo,
dall'insurrezione al diritto di
resistenza, all'insubordinazione, alla disobbedienza
in un percorso forzoso
che mi piace pensare corrisponda ad un estendersi, un
socializzarsi.
Che ci consente di parlare di non violenza con piena
libertà, fuori da
categorie immutabili e da una ricerca spasmodica di coerenza
tra mezzi e
fini dell'agire politico. Che non ci impedisce di
leggere la violenza dei
rapporti di dominio imperanti ma senza rimandare ad un
lontano futuro la
radicale rottura con essi, il posizionarsi da subito
alle soglie del mondo
migliore possibile.
E' dibattito insomma che fuoriusciti dal travisamento
del giornalismo
interessato ( "Il Corriere della Sera" di
"Casco sì, no, forse") può
portare lontano.
Daniele Farina
dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com
17-1-04
Lucia Mielli
Rispetto al documento elaborato da Bernocchi, Bersani,
Cannavò, e
Casarini
voglio esprimere il mio sentire e le mie perplessità. Mi
lascia di prima battuta perplessa l'eterogeneità dei
quattro firmatari
nel sentire, nelle pratiche, negli obiettivi, nella
capacità di fare e
lavorare collettivamente.
Ricordo Riva del Garda perché l'ho vissuto da dentro,
ricordo le
critiche mosse ai disobbedienti, sulla loro incapacità
di un lavoro
collettivo, di condivisione di percorsi con tutti gli
altri, sulla loro
autoreferenzialità e atteggiamento da "essere
superiori", gli unici a
capire e a muoversi nel giusto modo, sulle loro scelte
a volte senza
senso come quelle del taglio delle pompe di benzina,
che non ledono
minimamente la multinazionale e non fanno ragionare le
persone su tutto
il discorso che esiste dietro a tali mega-aziende,
anzi, a volte
producono proprio l'effetto contrario sul sentire
comune. Queste
valutazioni sono condivise da moltissime persone che
compongono il
movimento italiano, dette nei corridoi, e deriva
dall'esperienza
diretta, dal lavoro sul territorio, dalle
mobilitazioni che si tenta di
mettere in campo perché loro, e lo sappiamo in molti,
si comportano
proprio così. Possiamo fare decine di esempi in tutta
Italia senza paura
di smentite. E lo dico condividendo in grandissima
parte le tesi e le
letture che fanno, muovo quindi ai disobbedienti una
critica di metodo e
non di merito (anche se poi c'è una stretta
correlazione tra forme e
contenuti). Altre pratiche autoreferenziali ed
escludenti le abbiamo
vissute in altri ambiti, con altri gruppi e
associazioni, basti pensare
alla recente lotta contro il WTO. Con questo per dire
che non è solo una
peculiarità dei disobbedienti.
Penso anche ad incontri e seminari come quelli di
Milano organizzati
inevitabilmente per pochi a causa della scelta della
città (il sud è
lontano) e del luogo (una sala per cento persone non
capace di contenere
tutti i partecipanti e quindi non tutti coinvolti nel
dibattito) ed
economici (ci si è posti come i ragazzi e non solo si
possano pagare
senza rimborsi viaggio, vitto e alloggio?). Per queste ragioni, il
vostro pezzo che recita " Le lotte si commisurano
sulla base della
capacità di mobilitazione, sul tasso di partecipazione
e di scelta
democratica che sanno garantire; le forme di lotta si
definiscono sulla
base degli obiettivi che si sono scelti e, in ultima
istanza, si
giudicano su quanto rafforzano la fiducia in sé
stessi, nelle proprie
ragioni, su quanto allargano consenso e protagonismo
sociale, su quanto
evitano forme di "avanguardismo" e di
pratica separata ed escludente."
mi pare veramente avulso dalla realtà. In netta
contraddizione tra
vissuto ed enunciato.
E' interessante che parliate di scelte
democratiche. Sarebbe bene aprire un dibattito reale
sui meccanismi di
funzionamento del movimento italiano. E'
un'autocritica che non ho
saputo cogliere? Possibile. Auspicabile.
Mi sembra veramente poca cosa l' utilizzo che fate
della Resistenza
(dei banditen dei nazisti), del Vietnam, dello
zapatismo come se chi
parla di non violenza dovesse improvvisamente non
sentire più questi
eventi come parte della propia storia collettiva e
personale ed anzi,
trattare tutti o come guerrafondai o terroristi. Se
qualcuno che parla
di non violenza
pensa questo, per cortesia, lo dica chiaramente. Credo
che non sia affatto così e temo che qualcuno di voi,
mentre lo dice, non
sia in totale buona fede. Un conto è essere critici su
alcuni aspetti
della Storia che ci appartiene un'altra è ragionare su
che basi fondiamo
il nostro agire ora. Mi era parso che parlare di non
violenza non era
costruirsi una lente con la quale rileggere e
ristoricizzare con essa
ogni fatto avvenuto, ma proprio, in questo preciso
contesto storico,
nella dicotomia Guerra-Terrorismo, porsi in un cammino
altro,
alternativo. ORA. Per questi motivi non mi convince
affatto quello che
affermate "Accettare la dicotomia assoluta, la
"spirale" crescente tra i
due concetti significa dunque rischiare di
assoggettarsi a questa
strategia che in ultima analisi punta a delegittimare
qualsiasi
obiezione,qualsiasi anomalia nella lineare strategia
di guerra
permanente,qualsiasi "diserzione" che,
automaticamente, diverrebbe un
passaggio da un campo all'altro dello scontro e non
un'alternativa". Mi
pare che ragionare su non violenza sia l'esatto
opposto.
Nel convegno a Riva del Garda Luca Casarini e
Lussurgiu (con Gian Franco
Benzi, una rappresentante della Retelilliput, Giovanni
Russo Spena,
Marco Bersani) mi hanno proprio convinta quando
parlavano che era
necessario ricostruire una nuova legalità anche con
azioni non legali
(la legalità non
c'entra nulla con il discorso violenza e non violenza,
tant'è che Ghandi praticava azioni non violente e del
tutto illegali -
certo non è riuscito a costruire una società diversa
ma ha liberato
l'India dal colonialismo britannico) rifiutando e
combattendo la non
legalità della legge Bossi-Fini, la non legalità dei
CPT, la non
legalità delle leggi che precarizzano ogni ambito
della nostra vita,
attraverso la disobbedienza, la contrapposizione dei corpi ma
soprattutto con la non violenza per non utilizzare lo
stesso terreno dei
nostri avversari, non solo per la sproporzione dei
mezzi utilizzati ma
soprattutto perché un altro mondo migliore deve
nascere necessariamente
ed esclusivamente su altre dinamiche sociali. Ma di quale non violenza
parlavate allora?
Sull'odierno dibattito sulla non violenza si vuole
discutere della
Storia o del movimento italiano ora, dopo il 4
ottobre? Voi aprite il
documento parlando della repressione del movimento
oggi, con gli arresti
di Roma (e tra poco si apre il processo a Genova
contro i compagni del
movimento con imputazioni pesantissime). Perché questa
repressione?
Forse perché i singoli colpiti fanno paura al Sistema?
Su via, non
scherziamo, ognuno di noi, come singolo può realmente
far paura ed
essere percepito dall'Impero come un pericolo da
reprimere?
Gli scudi in plessiglax terrorizzano il Sistema? Il
taglio delle pompe
forse o l'abbattimento delle zone rosse? E' il Movimento, vasto,
Mondiale, radicale nei contenuti, capace di cambiare
le coscienze, il
senso comune, capace di mettere in discussione il
Pensiero Unico e di
vincere su questo versante (vedi Cancun) che fa paura
a Lor Signori. La
repressione su pochi, e lo abbiamo detto da sempre, da
Genova 2001 in
poi, ha lo scopo di delegittimare TUTTO il Movimento,
e questo sì fa
paura al Sistema, che vuole far passare TUTTO il
Movimento come
violento, e quindi neutralizzarlo, renderlo incapace
di mobilitare, di
coinvolgere ed in sostanza impedire che si
rivoluzionino i rapporti di
forza reali nella società. Per disarticolare ed
annullare questo Loro
progetto noi, ora, che facciamo? Ne sono convinta, la
non violenza,
senza se e senza ma. Oppure pensate che ci troviamo di
fronte ad una
situazione come nel '21 con una repressione di massa e
sul ciglio di una
guerra civile?
Lucia Mielli
da Liberazione 18-1-'04
Alessandro Curzi
Rina Gagliardi
Nonviolenza, l'arma più forte
di cui oggi disponiamo
L'intensa discussione, che si va sviluppando da molti
giorni sulle colonne
del nostro giornale, suscita interesse e attenzione
anche al di là delle
nostre fila, nella sinistra, nel movimento, nel
sistema dell'informazione.
Ne prendiamo atto con soddisfazione: è una prova in
più che questo
dibattito "molteplice" - anzi, questi
dibattiti che si susseguono e,
talora, si intrecciano su questioni politiche e ideali
di prima grandezza -
non è mosso da spirito autoreferenziale. E' un
confronto vivo che ha a che
fare, non a caso, con la politica viva del presente,
dove si misurano non
solo posizioni diverse, ma culture politiche,
esperienze e spesso "vissuti"
tra di loro lontani. Noi, per parte nostra, abbiamo
cercato di garantire
sia la pari dignità di tutte le voci, interne ed
esterne a Rifondazione,
che hanno voglia di farsi sentire, sia di contribuire,
per come possiamo,
ad una "buona dialettica": ovvero ad una
discussione che, senza pensare a
sintesi oggi impossibili, ci arricchisca, ci aiuti a
fare un passo avanti,
nella comprensione e nella chiarezza reciproca.
Con questo articolo, vogliamo anche noi dire la
nostra, misurandoci con
quel nodo teorico-politico, violenza e nonviolenza,
che appassiona non da
oggi il movimento operaio e la sinistra.
E diciamo subito - da militanti comunisti, diversi per
sesso e generazione,
per pratica di vita e riferimenti culturali - che
l'opzione strategica
pacifista e nonviolenta, che Fausto Bertinotti ha
avanzato e Pietro Ingrao
ha rilanciato proprio su "Liberazione", ci
persuade profondamente. Ovvero:
è la stessa scelta che abbiamo maturato in questi anni,
nel fuoco dei
conflitti drammatici che hanno devastato il mondo, nel
dipanarsi concreto
dell'impegno.
Non è in questione, s'intende, un "assoluto"
che, chissà perché, molti
compagni vedono o paventano tutte le volte che viene
dichiarata la
necessità di una pratica nonviolenta: per noi laici e
comunisti non
esistono mai "assoluti" o fedi astratte, al
di là del tempo e dello spazio.
E' in questione, ci pare, un'idea della politica e -
se la parola non è
troppo grossa - della rivoluzione del futuro: nell'era
della guerra
globale, infinita e preventiva, la violenza non è più
una via di autentica
liberazione dei popoli, delle classi e delle persone
e, al tempo stesso,
non è più uno strumento capace di garantire la
"vittoria finale". Nell'era,
insomma, della spirale guerra-terrorismo, che concerne
il "qui" e l'"ora"
del capitalismo globalizzato, il terrore è tutto
dell'avversario e dei suoi
apparati colossali di sterminio e di morte: gli
appartiene fino in fondo,
perfino come vocazione e come nuova idealità. Ce lo
spiega bene Kagan,
teorico dei neocons nordamericani, nel suo lucido
pamphlet "Il Paradiso e
il Potere", quando contrappone la civiltà
dell'America fondata sulla forza
militare e sullo spirito di aggressione alla civiltà
dell'Europa,
continente "imbelle" e vocato ai diritti
sociali piuttosto che alle armi.
Questa nostra persuasione è il risultato, anche e
soprattutto, dei nostri
rispettivi percorsi di vita. Noi non siamo nati
pacifisti: abbiamo creduto
nella "guerra giusta" e nel valore
liberatorio della guerra e della
guerriglia di popolo. Uno di noi ha partecipato,
giovanissimo, alla
Resistenza: ha impugnato le armi, da partigiano, ha
praticato
l'antifascismo. E non solo non se ne pente, ma
continua ad andare
orgoglioso del proprio passato. Una di noi ha
condiviso, finché è stata
giovane, le lotte, anche quelle "dure" dei
movimenti occidentali e quelle
armate dei movimenti di liberazione del Terzo Mondo. E
non ha nulla di cui
pentirsi. C'è stata un'epoca della nostra storia nella
quale la violenza
delle armi ci è apparsa non solo una risposta
necessaria alla violenza del
potere, ma anche la risposta più radicale, più in sé
rivoluzionaria, più
efficace: la Resistenza ha vinto, la lotta del popolo
vietnamita ha vinto,
il movimento di liberazione dei popoli colonizzati ha
vinto. Non si tratta
certo oggi di proiettare su questo passato le idee che
abbiamo maturato nel
presente: questo sì sarebbe puro
"pentitismo", opportunismo oltre tutto
antistorico. Si tratta di ben altro: far tesoro di
quelle esperienze, anche
alla luce di alcuni, forse non casuali, esiti
negativi, mettendone in causa
il valore assoluto e l'attualità schematica.
Oggi, insomma, sentiamo la necessità di una strada
nuova, di nuovi
percorsi: un ciclo della storia si è chiuso, con il
'900, un nuovo ciclo
può avviarsi. L'immagine che abbiamo ancora negli
occhi è quella dei 110
milioni di persone che nello stesso giorno di febbraio
sono scese in
piazza, in tutto il mondo, contro la guerra di Bush.
Quelle masse, che il
"New York Times" ha definito la
"seconda potenza mondiale", hanno fatto
paura, davvero, ai nostri avversari imperiali. Non
sono riusciti, no, a
impedire la guerra: ma hanno pur segnato un gigantesco
salto di qualità, di
coscienza critica, di consapevolezza, di soggettività.
Un patrimonio
immenso, anche dal punto di vista della forza, che a
tutt'oggi domanda alla
politica una risposta adeguata.
La nonviolenza, dunque, come pratica alta del
conflitto - come opposto
della passività o della rassegnazione - è oggi l'arma
più forte di cui
disponiamo. La nonviolenza, anche, come
"smilitarizzazione" delle nostre
coscienze e della politica (che continua, proprio nel
suo linguaggio tutto
nutrito di "tattica", "strategia",
"schieramento", "obiettivo",
"battaglia", a mostrare il suo profondo spirito
bellico), nella sua
connessione profonda con la società altra che vogliamo
costruire.
Non siamo "anime belle", siamo ahimè fin
troppo contaminati con le brutture
che ci circondano, e conosciamo tutte le sottigliezze
della politica e
della Realpolitik: ma non è l'ora di cominciare a
colmare l'abisso che
separa i nostri valori generali dalle nostre pratiche?
Ma davvero possiamo
continuare in eterno a propugnare una distanza - così
"assoluta" - tra i
fini che ci proponiamo e i mezzi che mettiamo in atto
per realizzarli?
Torna a proposito, qui, la questione del terrorismo,
dal quale siamo sempre
stati lontani e che mai ci è appartenuto, anche per le
ragioni che
osservava ieri Lidia Menapace.
E' vero, sì, che i nostri avversari battezzano sotto
la dizione di
"terrorismo" anche ciò che è pura resistenza
all'invasore. E forse hanno
ragione quei compagni che dicono che ci sono luoghi
del mondo in cui la
nonviolenza è una pratica difficile, quasi
impossibile, se non un lusso:
infatti noi non ci permettiamo di criticare coloro
che, di fronte ad
aggressioni od invasioni armate, reagiscono anche
impugnando le armi.
La nonviolenza, lo dicevamo, non è un imperativo
categorico. E tuttavia,
anche nel passato recente, ci sono esempi
significativi sui quali
riflettere. La prima Intifada palestinese, quella
nonviolenta, con i
ragazzi che si opponevano alla potenza dei carri
armati israeliani con le
fionde e con i sassi, conquistò nel mondo un consenso
enorme alla causa
dell'indipendenza nazionale palestinese: avrebbe potuto
vincere, se
l'Europa, invece di limitarsi ad applaudire, fosse
intervenuta ed avesse
messo in campo la sua potenza politica.
Oggi, quali sono le prospettive concrete di vittoria
della lotta e della
guerriglia armata nel Medio Oriente? A parere quasi unanime,
nessuna. E
quegli attentati suicidi - come l'ultimo della giovane
madre che voleva
essere martire - possiamo sì distinguerli dal
terrorismo e battezzarli
"azione di guerriglia militare", se hanno
soldati nemici come bersaglio. Ma
possiamo tacere del loro carattere feroce, disperato,
perdente? Quando una
lotta di liberazione entra in contrasto così totale
con i valori della
vita, della speranza, della costruzione, quando il
sacrificio di sé è
ricercato come valore e perfino simbolo positivo, vuol
dire che in essa la
dimensione della tragedia è diventata dominante. Vuol
dire, anche, che
forse non si è abbastanza riflettuto sul fatto che,
anche e soprattutto là
dove l'oppressione e la prevaricazione sono massime,
la violenza del
potere, introiettata e metabolizzata senza anticorpi,
produce una violenza
distruttiva uguale e contraria.
L'aveva scritto Marx, un secolo e mezzo fa: la nostra
rivoluzione dovrà
essere un processo di lunga durata, di
"rivoluzionamento" dei rapporti
economici e sociali esistenti, anche perché soltanto
in un processo di
lunga durata potremo liberarci dal
"sudiciume" che la società del capitale
ha disseminato in ciascuno in noi. Era già questa
un'idea di rivoluzione
nonviolenta, di comunismo. Che oggi, soltanto oggi,
possiamo cominciare a
praticare. Almeno, a provarci.
Alessandro Curzi
Rina Gagliardi
----------------
La dialettica non è un qualcosa che ci deve dare
fastidio
Libero Vallicelli
Vorrei intervenire sul dibattito aperto da
"Liberazione" sul tema
non-violenza. Colgo subito un aspetto positivo: la
decisione di allontanare
dal movimento quelle forze grigie di confine che ne
potrebbero minare il
carattere aperto e fecondo. E d'altra parte il rigetto
definitivo dello
stalinismo come pratica politica (non dell'Urss), cosa
palese ma
scarsamente praticata.
Premetto, di essere d'accordo con Ingrao sulle
valutazioni che egli ha più
volte sottolineato negli interventi sul nostro
giornale. E qui vorrei
approfondire (pur nella ovvia sintesi) gli spunti che
lui ha lanciato, ma
sui quali vedo una riluttanza diffusa a intervenire, e
che invece sono i
temi politici/ideologici che già ci troviamo davanti.
Partiamo dalla non-violenza. Essa evidentemente
esprime un afflato etico
condivisibile che deve informare le vite di ciascuno
di noi. Il problema è
un altro, ovvero l'assolutizzazione concettuale che se
ne fa. Essa è
inattendibile per diversi fattori. Il primo, è che
nessuno storico
indagherebbe la storia con quel paradigma, a meno di
non scivolare sul
terreno crociano, ovvero liberale (per sintesi, perché
il pensiero è ben
più raffinato, egli pensò alla storia come storia
della libertà). Ed
infatti mettere sullo stesso piano la vendetta con la
repressione non solo
non ha nessun appiglio scientifico, ma appare
evidentemente banale. La
questione andrebbe invece rimessa sulla negazione del
concetto schmitiano
della politica come continuazione della guerra, che
traduce il tutto nella
volgarizzazione amico/nemico, e che riporta questa
estremizzazione anche
all'interno del proprio schieramento, producendo
distorsioni vergognose
come quelle dei gulag. La questione diventa quindi non
una semplice scelta
etica (peraltro la violenza scaturisce proprio da
quella sostanza), ma una
dura battaglia storica sul tema del potere, della sua
effettività storica,
dei rapporti tra le classi, della intima fallacia
della democrazia.
Quest'ultima affermazione ci interroga sulle nostre
vite: come fare per
salvaguardare la democrazia e al contempo produrre una
critica che ne veda
le incongruenze, tale per cui pensiamo ad un altro
mondo possibile, che
appunto non è la democrazia. Anche qui sarebbe bene
ricordare che la
democrazia non è un valore, ma una forma determinatasi
dallo sviluppo
storico e "obbediente" alla fase del
capitalismo maturo. Mi pare di dire
cose lapalissiane. Banalmente potrei dire: il voto di
Agnelli equivale a
quello dell'operaio di Melfi? Le strutture
sovranazionali, come l'Fmi, sono
aliene alla democrazia o ne costituiscono una parte
della stessa? Come fare
per rendere veramente egualitario il voto di ciascuno
(per forza bisognerà
limitare l'efficacia di qualcun altro) e al contempo
sostenere
l'eliminazione di quelle strutture senza prevedere una
reazione violenta e
repressiva delle forze dominanti?
In Iraq, sta succedendo qualcosa di complesso. Mancano
in quel paese le
strutture della democrazia (almeno come passaggio
storico). Al contempo
l'occupazione, perché di questo si tratta (anche da
parte degli italiani),
continua. Possiamo rimanere equidistanti dagli
invasori e dai "poveracci"
locali che si battono contro "l'impero del
male"? Dobbiamo porci le stesse
domande di Ingrao?
In India si sta per aprire il Forum sociale mondiale.
Diversi intellettuali
hanno aperto una serie di interrogativi, tra i quali
spuntano decisi la
questione della lotta politica e del potere come
obiettivi e tematiche di
praxis del movimento, pena il riflusso. Vogliamo
parlarne? O preferiamo le
grandi e particolari opzioni etiche, peraltro
condivisibili, che però non
propongono la trasformazione del mondo come necessaria
ed ineludibile, e
che quindi spesso finiscono per affluire nel ventre
grasso dei nostri
vicini di Partito?
Essendo la mia pratica politica impregnata di
movimento, di gramscismo e di
disponibilità al confronto con le diversità, non sono
imputabile di volere
un Partito settario. Penso che l'estremizzazione
ideologica porti alla
sconfitta e alla rovina delle idee di libertà che i
comunisti promuovono, e
anzi ne sia la negazione. Ma l'assolutizzazione
concettuale della pratica
politica è la cosa più dannosa che un Partito
comunista, o un'aggregazione
che si richiami a quel mondo, possa avere. Rientra
per-altro in campo quel
regime della verità che è intrinseco alla religione.
Siamo uomini e donne
del nostro tempo, viviamo pienamente questa società
per poterla cambiare,
senza farci irretire nelle sue forme dominanti. E
anche la nascita, non la
giustezza del progetto in sé, del partito della
sinistra europea, ha in sé
i germi della pratica politica che si dice di voler
eliminare. La
dialettica, soprattutto quando si colgono le ragioni
di una iniziativa
politica, non è un qualcosa che ci deve dar fastidio.
Libero Vallicelli
dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com
18-1-'04
Rossana
Mah il richiamo al ruolo dello spettatore mi ricorda
le riflessioni operate sul pensiero kantiano inerenti la storia e politica.Il
punto di vista dello spettatore permette di "staccarsi" e riflettere
su ciò che è accaduto (vedere rivoluzione francese). Dunque lo spettore almeno
a livello temporale non è presente.
Mi pare però che tutta la diatriba faccia parte del
linguaggio della politica, e personalmente non mi interessa caderci dentro.
Già Chateaubriand scriveva: avendo (gli operai) dalla
loro la forza, solo dei cattivi profeti possono spingerli a prendere come
modello il risentimento".
Il pensiero giusnaturalista è pieno della necessità di
resistenza al tiranno, e allora si dovrebbe discutere in maniera più leale
sulla questione del contratto, della sovranità e del popolo.
Che contratto hanno sottoscritto gli iracheni? Che potevano
fare i partigiani (tutti, giusto per eliminare la questione della resistenza a
più colori)?
Il terrorismo fa parte del linguaggio dello Stato per
imporre l'immobilismo. Io son d'accordo su alcuni aspetti con entrambi le parti
che ripeto, mi pare pecchino di un linguaggio tutto politico.
La stessa Manapace ne è intrisa, lei non è
spettratrice oggi di ciò che accade durante le lotte degli autoferrotranvieri,
lei prende una posizione chiara e legittima, e, negando però alla verità di
venir fuori, si pone sullo stesso piano di chi critica.
In queste lotte ho visto e sentito l'appoggio di una
cittadinanza certamente alle prese con disagi, ma solidale con la lotta messa
in campo. La solidarietà che nasce dalla consapevolezza che a volte solo
l'illegalità permette ai soggetti reali di far valere le proprie richieste e i
propri diritti.
E poi, come si può parlare di sottostare alle leggi
del mercato da parte di chi chiede a gran voce, evidenziando la possibilità di
incontro fra lavoratori e cittadini, che il privato debba uscire dal settore
pubblico?
Perchè allora non stiamo neanche a parlare di mettere
in discussione le spese militari, e badate che i lavoratori spesso non guardano
a chi li paga e il cosa della loro produzione.
Oggi chiedere di smettere di produrre per il militare,
significa mettersi contro la proprietà privata di chi dà salario in cambio di
forza lavoro.
Su questo discorso e sulla legittima difesa dello
Stato con le armi, cascano tanti cantori del pacifismo astratto.
"Un atteggiamento di questo tipo starebbe bene
immesso nelle lotte degli
autoferrotranvieri: piuttosto che una ripetizione un
po' fuori tempo
massimo dei CUB e delle lotte operaie dell'autunno
caldo. Si può altrimenti
diventare persino subalterni: se i ferrotranvieri non
vedono la differenza
tra mercato e servizi e non si danno da fare per un
pieno coinvolgimento
dell'utenza non solo a sostegno passivo della loro
lotta, ma con propria
presenza (come ad esempio invece fanno i Cobas contro
la riforma Moratti,
insieme a genitori e associazioni) rischiano
l'isolamento e la
ripetitività, e sembrano lasciar credere che anche per
loro i servizi sono
un pezzo del mercato"
Rossana
dal manifesto del 18-1-'04
MARCO REVELLI
Il nostro dopoguerra
"Contro ogni logica bellica". Con il `900 si
è tragicamente consumata la
stagione dello scontro "militare" e nell'era
della guerra preventiva serve
coerenza tra mezzi e fini. Per questo "l'ipotesi
nonviolenta è l'unica
scelta veramente radicale". Riflessioni sul
dibattito aperto da Pietro Ingrao
"Al potere si risponde col potere.
All'organizzazione con l'organizzazione.
Al lavoro con il lavoro. Alla guerra con la
guerra". Così un paio di anni
fa, in occasione della presentazione del mio Oltre il
Novecento, Alberto
Asor Rosa aveva sintetizzato il "paradigma
politico" dei comunisti
novecenteschi, a cui dichiarava la sua adesione. Rina
Gagliardi, nel
riferirne su Liberazione, aveva riprodotto la formula
con esplicito
compiacimento, scegliendo però di cancellare l'ultima
frase. E fu un
peccato. Perché quell'ultimo segmento del paradigma -
la guerra - non ne
era un'appendice esterna (un optional, si direbbe
oggi), ma ne costituiva,
al contrario, un elemento in qualche misura necessario
a dar senso al
tutto, significando appunto che quella contrapposizione,
quel rapporto
antagonistico simmetrico, per essere sostenuto,
presupponeva un conflitto
duro, "totale", spinto fino al dispiegarsi
della forza nella forma estrema
e "selvaggia" della guerra E perché quella
formulazione brutalmente sincera
ci avrebbe aiutato a discutere meglio di quanto non
sia in realtà accaduto.
Ora Pietro Ingrao (nei due successivi interventi su
Liberazione sulla
questione posta da Fausto Bertinotti del pacifismo e
della nonviolenza), ci
permette di riprendere il filo di quel ragionamento, e
di farlo - grazie
all'onestà intellettuale che lo contraddistingue -
nelle condizioni
migliori. Senza reticenze, o rimozioni Due cose ci
dice Ingrao. La prima è
che la prospettiva dell'uso della forza (della
violenza, della guerra) era
parte integrante
dell'immaginario e della cultura politica suoi e di
quelli come lui.
Che, appunto, anche per chi si batteva per la pace e
aveva scelto la strada
della democrazia, la guerra appariva, in ultima
istanza, come un'opzione
possibile e per certi versi inevitabile. Non
costituiva, insomma, un tabù.
La seconda verità che Ingrao ci consegna è il
carattere "generazionale" di
quella visione politica. Il suo essere radicata in un
preciso luogo
storico. Il suo essere "figlia del proprio
tempo".
Identità pericolose
Si tende a dimenticarlo, in una discussione spesso un
po' dottrinale e
orientata a questioni di principio, ma la militanza
politica novecentesca
si è costituita e s'inscrive pienamente in un contesto
storico segnato a
fondo dalla guerra, da quella terribile, immane
tragedia bellica che fu la
prima guerra mondiale e dal suo prolungamento feroce
nei decenni che la
seguirono. L'immaginario collettivo, la dimensione
esistenziale, l'identità
politica delle generazioni che hanno prodotto la
tradizione alta e dura con
cui oggi ci misuriamo, si erano formati interamente
nel clima della
"mobilitazione totale" scatenata da quella
guerra, e con la guerra erano in
buona misura impastati: era bellico il linguaggio;
erano belliche le divise
(non c'era formazione che non avesse le proprie
"milizie" con le proprie
bandiere e le proprie uniformi); era bellica la
poetica che li ispirava
(quell'epica di cui parla Ingrao). Non stupisce che la
guerra comparisse,
sia pur come extrema.' ratio, nel repertorio dei mezzi
cui affidare
l'efficacia della propria azione. Si erano trovati a
fronteggiare nemici
feroci ("assoluti", potremmo dire), nazismo,
fascismo. Avevano subìto la
caccia all'uomo implacabile contro ogni brandello di
opposizione, la
minaccia della tortura e la cancellazione della
libertà in ogni interstizio
della vita sociale. E in qualche misura inevitabile
che affidassero la
possibilità di salvezza a una forza eguale (in
potenza) e contraria (nelle
finalità), capace di combattere il male (assoluto) di
quel tipo di
oppressione con il male (relativo) del ricorso alle
armi (di ogni arma,
purché efficace). Dunque che convivessero con la
guerra senza eccessivo
disagio. Che giungessero anche ad auspicarla, come via
alla libertà e
all'emancipazione. Non solo i comunisti, si badi.
Intere generazioni di
democratici, di liberalsocialisti, persino di liberali
e di cattolici, - di
antifascisti in genere - vissero la guerra (e la
desiderarono) come
inevitabile strumento di liberazione. E reagirono al
Patto di Monaco con lo
stesso disgusto di Ingrao, odiarono Chamberlain e gli
attendisti come
traditori della causa dell'umanità, soffrirono la caduta della Spagna
prima e poi della Francia come il prodotto di una
diserzione. Ricordo che
fu proprio l'argomento "generazionale"' di
Monaco - la memoria dei propri
sentimenti di quel tempo - quello con cui Norberto
Bobbio spiegò, a noi che
insorgevamo, e non lo comprendevamo, in lui che era
stato razionale teorico
della pace, il suo possibilismo nei confronti della
prima guerra del Golfo.
Difendere le ragioni della nonviolenza, di un
pacifismo che non si
limitasse a contrastare le guerre degli altri ma che
giungesse a estinguere
le' radici stesse dell'opzione bellica "senza se
e senza ma" all'interno
del proprio stesso campo politico, quale che ne
potesse essere la
motivazione e l'obiettivo, in quell'epoca era impresa
terribilmente ardua.
E quasi inevitabilmente "impolitica". Chi la
tentò e realizzò in Occidente
- e non mancano i casi, da Simone Weil a Aldo Capitini
-, lo fece sorretto
da una risorsa "extrapolitica": da una
spiritualità e una religiosità
difficili da riprodurre fuori dalla ristretta cerchia
dei "persuasi". Quasi
tutti gli altri, assorbiti totalmente nel corpo a
corpo con un nemico
mortale e totale, non ebbero 'né tempo né modo, allora,
di riflettere sulla
retroazione che la violenza opera su chi la pratica.
Sulla metamorfosi
antropologica che la violenza impone al soggetto che
si trova a
"impiegarla" (un tema tipico, invece, della
riflessione non-violenta).
Derive globali
Allora. Ma oggi? Oggi che gli effetti di quella deriva
sono sotto gli occhí
di tutti? Oggi, quando è ormai ben visibile, nella
caduta del comunismo
orientale, la devastazione che il mezzo impiegato ha
operato sui fini
stessi che avrebbe dovuto servire; e la rivoluzione,
come dice Ingrao, ha
divorato i suoi figli. Ma quando è anche ben visibile
la devastazione
prodotta a "occidente" da quel contagio
bellico (dell'introiezione della
pratica della guerra fin nel cuore dei modello
"democratico"), quale la si
può leggere nello spettacolo desolante delle potenze
che quella guerra
vinsero trasformate a loro volta in macchine belliche
(e bellicose),
determinate a imporre il proprio modello politico con
la forza,
dall'Indocina in poi, lungo la catena che dal Vietnam
arriva su su, fino
alla "intrusione umanitaria" e
all'aberrazione della guerra preventiva e
infinita, dove la retorica 'della liberazione serve da
viatico
all'occupazione manu militari. Per le generazioni che
in questa scenario si
sono formate, non è forse giunto il momento di aprire
un contenzioso
esplicito con quella "tradizione"? Col
paradigma politico che ha dominato
il Novecento (e nel Novecento è "esploso")?
E di provare "un'uscita in
avanti"? Credo che intenda qualcosa di simile
Ingrao quando dice che "forse
dobbiamo avere il coraggio di fare un salto". E
riconosce a Bertinotti il
merito di "rompere uno schema" (che rischia
di diventare davvero una
"camicia di Nesso"). L'ha detto bene,
d'altra parte, Gigi Sullo -
intervenendo ancore su Liberazione in qual dibattito
che proprio da Carta
era stato aperto quando ha paragonato l'esigenza
attuale, di rottura in
avanti del vecchia paradigma, a quella che spunte,
l'altra transizione di
secolo, alle origini del Novecento, quelle generazioni
di comunisti a
tagliare con l'esperienza della Seconda
Internazionale, e tornare a portare
la propria voglia di radicalità e di antagonismo in
mare aperto. Né mi
sembra, sinceramente, praticabile la linea di
"buon senso" proposta da
Tronti sul manifesto di una sorta di "rivoluzione
recuperante" capace di
avanzare senza tagliare nessuna radice. Come può una
generazione formatasi
nell'epoca in cui la guerra è dilatala forma stessa
della vita sociale così
come è concepita dai nuovi poteri
"imperiali", e cresciuta da ribelle
all'insegna dell'improponibilità assoluta della guerra
come strumento per
qualsivoglia causa, immaginare di acquisire una
propria capacità autonoma
di azione nel nuovo mondo prodotto dalla
globalizzazione, se non sulla base
di un qualche "nuovo inizio"? Dell'elaborazione
di un'idea di politica
segnata a sua volta da una qualche discontinuità,
capace di incorporare nel
proprio paradigma non l'assolutizzazione della forza -
in forma di
"potenza" - come era avvenuto per quello
precedente, a destra come a
sinistra, ma una qualche entità più congruente con il
"mondo altra" che si
vuole "possibile"? La produzione di
relazionalità, per esempio, in luogo
della tradizionale "conquista del potere". E
la nonviolenza come mezzo
adeguato, in luogo della guerra come ultima istanza.
Come può, d'altra
parte, risalendo più indietro nella riflessione sul
novum radicale
introdotto da Hiroshima, dalla distruttività totale di
un'umanità divenuta
per la prima volta nella storia tecnicamente capace di
annientare se
stessa, accontentarsi dello strumentario conflittuale
di prima? E non
invece arrischiarsi nell'esercizio creativo di trovare
nuove forme, non
distruttive, per il proprio antagonismo? Forme che,
liberandolo
dall'involucro di ferro in cui il Novecento e la sua
tecnica mortale
l'avevano imprigionato, gli permettano di dispiegarsi
nell'estensione che
le sfide planetarie di oggi richiedono? Nell'epoca
della guerra preventiva,
non è il caso di pensare a una politica
"altra" fondata, all'opposto, sulla
logica della "pace preventiva" (la pace,
cioè, praticata giorno per giorno
nell'azione quotidiana anziché posta come obiettivo
finale da ottenere con
mezzi anche violenti)? Lo so che tutto ciò è ancora
assai generico, e non
risponde alla domanda decisiva che Ingrao ci rilancia:
"come si incide sui
poteri reali del nostro tempo"? Come si tiene
aperta la speranza (la
possibilità) che l'ingiustizia assoluta sia rovesciata
se si rinuncia al
"rapporto di forza"?
Formiche politiche
Ma forse è proprio qui il nodo della questione: il
rapporto di forza. Se
tuia nuova natura (oltre che formi) della politica va
trovata, essa !loia
passa forse proprio dalla rottura di quella dimensione
"simmetrica"
dell'antagonismo di cui si parlava all''inizio? Dalla
cecità dì rompere con
l'idea che l'antagonismo si esprima solo in un gioco
frontale a somma zero,
giocato da entrambi i contendenti sullo stesso terreno
e con le stesse
unita' di misura, in cui alla fine conta chi ha
acucmulato piu' potenza. E
di elaborare una strategia "asimmetrica"
(come appunto, asimmetrica e'
ormai la guerra) in cui l'alterita' si costituisca
amnche a partire dal
terreno e dalle risorse che impiega nell'esrpimere il proprio antagonismo:
non quello (proprio di "poteri terribili"
che minacciano pianeta) del
confronto muscolare ma quello (davvero "solo
nostro" dell'uso della parola
e del racconta Non l'uso della potenza per conquistare
strumenti di
coercizione, m l'apertura di spazi in cui elaborare la
propria socialità
altra. In questo quel popolo di formiche che apparve
silenziosamente dieci
anni or son nelle strade di San Cristobal de la Casas,
qualcosa da
insegnarci forse ce l'ha. Ha lanciato la sua sfida a u
potere infinitamente
sproporzionato sul piano della forza, ed è ancora 1
Qualcosa vorrà pur
dire. E d'altra parte, tutto ciò che si è mosso, in
questo decennio, dentro
é contro Ia globalizzazione, da Seattle ai 500.00
materializzatisi
inaspettati in Indi in questi giorni, passando per
quell "seconda potenza
mondiale" che è opposta alla guerra di Bush,
muove ormai in una logica
lenticolare, disseminata e nonviolenta che rompe con i
centralismi ,
muscolari non solo dei nuovi poteri ma anche degli
antichi ribelli Una
riflessione più attenta la meriteranno pure.
MARCO REVELLI
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dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com
19-1-'04
Marco Bersani
Care\i, quando si vuole attraverso un articolo
comunicare qualcosa e tutti
quelli che lo leggono ne capiscono totalmente altro,
c'e' un' unica possibilita':
si e' commesso un grosso errore.
Mi riferisco ovviamente all'articolo co-firmato da me
e apparso su Liberazione
sul tema guerra\terrorismo.
Un tema sul quale quel giornale aveva da tempo aperto
il dibattito e rispetto
al quale da tempo mi sarebbe piaciuto intervenire per
contribuire alla discussione.
Complice il poco tempo a ridosso della partenza per
Mumbay, ho seguito la
proposta di un articolo a piu' mani senza dedicarvi il
tempo che un tema
cosi' delicato avrebbe richiesto.
Il risultato, riletto con calma qui a Mumbay, e'
quello di aver francamente
sbagliato.
Vorrei provare a spiegare il perche', sgombrando il
campo da alcune interpretazioni
dietrologiche che anche sulla stampa sono state date.
Non sono i compagni di firma il problema, persone
anche molto diverse da
me, ma con le quali e' possibile che su un tema
specifico si possa costruire
una riflessione comune. Nessuna alleanza strategica
dunque, ma solo la necessita'
di contribuire ad un dibattito con un contributo
collettivo ( risultato
non raggiunto, ma di questo argomento in seguito).
Ne' tantomeno era mia intenzione partecipare ad un'
operazione politica
che, mettendo insieme persone di culture differenti,
andasse ad impattare
nella dialettica interna del PRC, schematicamente in
funzione anti-bertinottiana,
in particolare rispetto al percorso
politico-elettorale intrapreso.
Casomai l' errore -grossolano lo riconosco- e' non
aver riflettuto abbastanza
di come questa lettura potesse essere data
indipendentemente dalle mie intenzioni.
Ma e' soprattutto nel merito, che mi sento di dover
riconoscere l'errore
compiuto.
Da tempo avrei voluto intervenire sulla questione
guerra\terrorismo, perche'
continuo ad essere convinto che il dibattito cosi'
com'e' stato impostato
sia largamente insufficiente.
In particolare, quello che avrei voluto comunicare e'
che l' assunzione
della categoria "il terrorismo" come
categoria unica e compiuta in se',
non aiuta l'analisi politica e di conseguenza non
orienta l'azione del movimento.
Occorre articolare la categoria, perche' altrimenti il
rischio e' quello
di pensare al mondo come diviso tra due nemici uguali
e contrari, che si
alimentano reciprocamente. Assumere acriticamente
questa analisi, rischia,
aldila' delle intenzioni, di mettere dentro un'unica
categoria fatti estremamente
diversi fra loro, fino a provocare un certo balbettio
e una difficolta'
d'iniziativa del movimento. Provo a fare un esempio :
la strrage di Nassirya
contro il contingente italiano ha visto una enorme
difficolta' di intervento
da parte del movimento, che si e' rivelato tanto
timido nell'esprimere la
pietas per i morti di quel fatto quanto balbettante
nello scendere in piazza
per il ritiro delle truppe italiane. Io credo che
questa difficolta' fosse
dovuta proprio all'assunzione della categoria
terrorismo come onnicomprensiva.
Se avessimo articolato la categoria, avremmo letto
Nassirya come un atto
di guerra, doloroso quanto si voglia, ma che ci
avrebbe consentito una capacita'
d' iniziativa piu' incisiva, perche' avremmo ascritto
quell'attentato come
l'ennesima violenza provocata dalla guerra permanente.
Insomma, quello di cui avremmo bisogno, credo sia una
maggior capacita'
di analisi politica dei fenomeni in corso. In Iraq ci
sono sicuramente gruppi
terroristi in azione, con l'appoggio dei servizi di
paesi stranieri limitrofi;
ci sono sicuramente azioni di resistenza armata, piu'
assimilabili a quella
che noi storicamente definiamo "resistenza";
e ci sono importanti fenomeni
di resistenza popolare non violenta.
Non separare queste vicende, analizzandole
criticamente, rischia di mettere
tutto in un unico calderone,"il terrorismo",
che non aiuta la nostra capacita'
d'iniziativa e di aggregazione.
Vale per l'Iraq come per moltissime altre situazioni.
Ma quello che avrei
voluto (non riuscendovi, mi rendo conto) comunicare e'
la necessita' di
piu' analisi politica.
Il risultato e' invece un documento che non
contribuisce a questo obiettivo,
ma anzi rischia di far incistare il dibattito sullo
schieramento etico violenza\non
violenza come puro schema di appartenenza.
Un ultimo punto su questo. Riletto attentamente, il
documento ha un passaggio
sui mezzi\fini che rischia di far pensare ad un
arretramento macchiavelliano.
Non e' cosi', per quello che mi riguarda. Penso che i
mezzi debbano corrispondere
ai fini e che i fini debbano essere la capacita' di
comunicazione e di allargamento
del consenso di ogni iniziativa intrapresa. Questo
significa, per la dinamica
italiana ed europea, quello che l'insieme del
movimento ha da sempre ( pur
con qualche sbavatura) praticato, ovvero il patto
genovese fondato su azioni
non violente, pacifiche e di disobbedienza civile.
Personalmente, tutto questo non mi impedisce di
accettare in altre situazioni
altre forme purche' corrispondenti ai fini - capacita'
di comunicazione
e allargamento del consenso-i quali valgono per
qualsiasi situazione si
analizzi.
Questo in estrema sintesi quello che avrei voluto
comunicare partecipando
alla stesura di quell'articolo. Mi rendo conto di non
aver centrato l'obiettivo.
Ma spero che troveremo tempi e modi per affrontare
questo tema con l'attenzione
e l'intelligenza collettiva che la delicatezza
dell'argomento richiede.
Marco Bersani
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dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com
19-1-'04
Antonio Rossin e Walter Seresini
Caro Walter Seresini,
Trovo il tuo messaggio intrigante, poiche' provengo
anch'io da una
famiglia resistente (di quelle non armate) e cosi' mi
e' venuto voglia
di inserire qualche commento nel tuo testo, chissa'
che non si riesca
a costruire un discorso.
At
15:12 +0100 18-01-2004, Walter, Federica wrote:
Condivido l'intervento di Lidia Manapace, anche perchè
non
si ferma ad un ragionamento solo teorico seppur
basilare ma
entra nella realtà ed accenna alle conseguenze di
alcune scelte.
Mi dispiace invece che "Il Manifesto " legga
tutto il dibattito in
corso come una rottura tra un partito ed il Movimento,
anzichè
un arricchimento per entrambi( ma questa è un'altra
cosa!)
Infatti io sono convinto che quando si parla di
violenza e di
nonviolenza dobbiamo tutti fare lo sforzo di capire
cosa poi
deriva da queste due modalità di comportamento.
Allora,
io mi pongo delle domande a volte retoriche e faccio
delle
considerazioni, che, da "ragazzo di paese"
vi giro ed alle
quali spero si cerchi di dare risposta.
Si cita spesso la resistenza italiana, ed io
provenendo da
una famiglia resistente, ho riflettuto molto su questa
cosa,
la resistenza italiana si costruì su un progetto
politico
trasversale ( diremmo oggi), fondato su quella che
oggi
è la nostra costituzione, sperimentata sul campo con
"prototipi" di repubbliche, cito l'Ossola
per tutte, ed
attraverso scontri ideologici anche aspri.
I Resistenti addivennero alla republica, attraverso
una guerra
partigiana dura e furente ma anche ad una resistenza
non
armata altrettanto pericolosa, per chi la fece, ed
importante.
Una resistenza fatta di persone disarmate che
nascondevano,
alimentavano, boicottavano, sabotavano, insomma si
opponevano come potevano perchè lo volevano.
La resistenza fu fatta con gli strumenti culturali,
ideologici,
storici, politici,
a disposizione del periodo; da quegli strumenti
si produssero i mezzi per raggiungere un fine.
Ora io credo che i nostri padri e le nostre madri
fecere del
loro meglio per costruire attraverso quei mezzi il
fine, ma
allo stesso tempo il fine raggiunto non è stato il
"giusto fine "
perchè i mezzi non erano giusti anche se ripeto erano
a mio
avviso i migliori di quel tempo.
"Il fine"... intendi l'attuale ordinamento
della Repubblica Italiana?
Io non lo vedrei come un fine, che mi suona statico,
ma come
un divenire, una specie di corsa a staffetta senza
fine dove
ciascuna generazione consegna il testimone a quella
successiva.
Per cui, se ad un certo punto della corsa, diciamo
oggi, il "giusto
fine" non e' poi abbastanza "giusto",
non sarebbe da guardare ai
padri che hanno ormai fatto la loro parte il meglio
che hanno
potuto, ma a noi stessi che siamo in corsa oggi, per
vedere cosa
si puo' fare per migliorare il sistema che non ci
piace.
Ricordo a questo proposito che un sistema, in quanto
problema,
non si puo' risolvere usando gli strumenti logici che
l'ha costruito,
(ha detto Einstein, che di problemi se ne intendeva.)
Dico questo perchè se la nostra democrazia è
imperfetta ed
addirittura in molti casi autoritaria credo che ciò
derivi anche
se non sopratutto dai fini usati per raggiungerla.
E non credi invece, che cio' derivi dagli uomini che
vi fanno parte?
Se pensiamo che autorita' e sottomissione, variamente
distribuiti,
sono elementi importanti del carattere di una persona,
io non andrei
a cercare tanto indietro nel tempo per trovare le
cause che rendono
imperfetta una democrazia.
Voglio dire, che noi oggi abbiamo maggiori strumenti
di ieri,
maggiori possibilità di fare percorsi evolutivi e pur
proseguendo
su una traccia dataci possiamo elaborare percorsi
nuovi che
partano anche dalle esperienze passate.
Non è vero che la scelta del meno peggio porta al
giusto.
Cosa c'entrano i "Banditen" con tutto il
ragionamento su violenza
e nonviolenza?
E' evidente che ogni potere identifica gli oppositori
come banditi,
soprattutto se i mezzi usati sono simili, perchè il
linguaggio
codificato diventa inevitabilmente simile, quello che
noi dobbiamo
obbligarci a fare è codificare un linguaggio nuovo che
mandi in
tilt " il Grande decodificatore".
Buon punto.
Hai qualche proposta ? (io ne ho).
Anche il ragionare sulla spirale "guerra-
terrorismo" secondo me
deve partire da questo concetto, la guerra è oggi (ma
anche ieri)
la forma istituzionalizzata di terrorismo, dalla fine
della seconda
guerra mondiale, il 90% delle vittime durante le
guerre sono civili,
la guerra serve
a terrorizzare, ad eliminare le coscienze critiche,
a schiacciare le società al volere dei
"liberatori" che divengono i
"ricostruttori di un nuovo ordine". Il
terrorismo non istituzionale
fa ugualmente e si alimenta del concetto del nemico
istituzionale
armato, producendo la stessa condizione politica e
storica.
(Questo pero' mi sembra il linguaggio tradizionale,
non "nuovo")
Quando "cataloghiamo" l'attacco di Nassyria,
piuttosto che altri
come atti resistenziali ( e può anche essere!)
dobbiamo pensare
che sono morti anche 8 civili irakeni ( la nazionalità
non è
importante); come definiamo queste vittime?
Effetti collaterali, errore umano, contingente
necessità ?
Se questo è "il nome" o qualifica che diamo
a quelle vittime
ci assumiamo lo stesso linguaggio e responsabilità di
chi fa
della guerra il proprio progetto politico e pur
pensando di
avere ragione diventiamo simili al nostro avversario.
Se invece diamo "accezzioni" diverse (
quali?) alle stesse vittime
civili, credo che allora dobbiamo tenere aperto il
ragionamento su
violenza e nonviolenza perchè da una "semplice
qualifica" ne
risulterà una progettualità diversa e molto
articolata,che forse
non sempre ci soddisferà.
Un abbraccio Walter Saresini
Qui un po' mi perdo. Per me la faccenda di Nassyria e'
un errore
da non prendere in considerazione come modello di
codificazione,
perche' non fa testo. L'errore, mi spiego, e' l'essere
andati in guerra.
Dopo, una volta andati, cosa resta da codificare ?
E' tardi.
Ed e' tardi anche per me, e' mezzanotte e me ne vado a
letto,
perche' domani ho da lavorare: ho da fare resistenza...
Antonio Rossin
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da Liberazione 20-1-'04
Franco Russo (coordinatore tavolo forum per la
democrazia europea dei fori sociali)
Il potere è violento
ma opporsi con la spada
perpetua il potere...
Diversi, legittimi e di indubbio interesse sono stati
finora i modi di
affrontare il dibattito sulla non violenza, evocando
infatti il solo
termine 'non violenza' si destano emozioni, riflessioni,
propositi: è una
discussione che ci coinvolge in quanto persone,
finalmente.
Al cuore della stagione apertasi con il '68, che
rompeva gli schemi
istituzionali tradizionali con un tumultuoso processo
di sconvolgimenti
dello stesso modo di fare "politica" - il
personale dello studente,
dell'operaio, della donna è politica (si sosteneva) -,
c'era critica del
potere e dei suoi linguaggi. A questa innovazione si
sovrapposero una
pratica e un'ideologismo dei partitini che ripetevano
i rituali del
terzointernazionalismo. Questo si presentò purtroppo
anche nella sua
incarnazione più tragica, e farsesca al tempo stesso -
in quella del
partito armato per compiere la giustizia proletaria.
Contro questa
riapparizione di un'avanguardia che in nome del
destino storico del
proletariato e del comunismo si arrogò il massimo dei
poteri - di dare la
morte - ci ergemmo in molti e acquisimmo la
consapevolezza - con
l'assassinio di Moro - che l'avanguardismo, con la sua
autoreferenzialità,
è la coltura del fanatismo ideologico che scambia la
propria azione con il
"fare" della storia e le proprie
elucubrazioni con la verità assoluta - che
gli discenderebbe dal possedere la bibbia delle leggi
del divenire sociale.
Ci si presentò con forza drammatica il problema di chi
e di come si decide
nella società: chi è il popolo, come e quando parla.
Il '68 cominciò
un'opera di decostruzione del potere e delle sue
manifestazioni quotidiane
- a scuola, in famiglia, nelle istituzioni 'totali',
oltre che nei luoghi
classici della fabbrica e dello stato -, ma
quell'opera si è interrotta.
Il potere. Questo è l'oggetto della questione. A mio
avviso Bertinotti non
ha tanto evocato un problema di analisi storica se non
per delineare una
questione squisitamente teorica, e specificamente di
teoria normativa. Gli
è stato anche risposto che le generalizzazioni
oscurano le differenze, che
c'è bisogno di discernere caso per caso: così si
rischia però di ricadere
nello storicismo giustificazionista. Il problema non è
giudicare il
passato, è di vedere quello che dobbiamo fare oggi
riflettendo anche sul
passato; non è una questione di contingenze e
circostanze: è il tema
classico del potere, dunque un nodo di analisi teorica
e di invenzione
politica.
Sulla futura, che speriamo di realizzare, società si è
tutti apparentemente
d'accordo: senza sfruttamento, senza patriarcato, con
relazioni solidali,
partecipazione alle decisioni collettive e autonomia
della persona nel
perseguire il proprio progetto di vita (superando così
un rozzo
collettivismo da caserma). Ma il punto dolente è come
giungere a questa
società. C'è chi, come Tronti con i consueti accenti
nicciani, invita i
movimenti a dotarsi di una volontà di potenza pari a
quella di Bismarck:
questa mi pare una proposta isolata, anche se a
sostenerla è Tronti che si
assume addirittura l'intero peso della storia del
movimento operaio sulle
spalle (come Atlante). Bernocchi, Bersani, Cannavò e
Casarini mettono
invece al centro delle proprie riflessioni il potere,
e la sua violenza.
Ripropongono un'analisi classica: nella società
capitalistica il potere è
concentrato nello stato, che esercita il monopolio,
peraltro legittimo e
legale della violenza. Esso agisce - legalmente quando
è sufficiente, e
violentemente quando è necessario - per impedire i
processi di
trasformazione: anche se ci fosse uno slittamento
della sovranità, verso il
basso o verso l'alto, esso si ferma a una soglia,
quella oltre la quale i
movimenti minerebbero le fondamenta della società
capitalistica.
Insomma, sostengono, dietro Locke c'è sempre il
Leviatano di Hobbes, dietro
il purismo dell'ordinamento normativo di Kelsen c'è lo
'stato d'eccezione'
di Schmitt: la violenza è una manifestazione
necessaria dell'organizzazione
statale - la guerra la sua pratica quotidiana, tanto
più oggi che è
divenuta permanente.
E' questo che ci divide? Certo, in termini di analisi,
si dovrebbe andare
più a fondo: per esempio esaminare il ruolo della
sovranità
nazional-statale, e il suo lascito autoritario alla
stessa versione
popolare della sovranità, che si è dovuto incanalare
nell'alveo del
costituzionalismo per evitarne derive assolutistiche.
Non è la violenza del
potere l'elemento di discussione: questa riguarda il
come superare quella
violenza nella prassi trasformatrice delle classi e
delle persone oppresse.
Qui lo storicismo, la comprensione del caso per caso
si tramuta in
positivismo proceduralistico: essendo avviluppate
dalla violenza del potere
le lotte sono costrette anche a forme non-non
violente, che "possono
scegliere di essere partecipate, co-decise. mezzi
autodeterminati avendo
come fine un mondo migliore". La citazione mette
in luce un paradosso,
quello proceduralista: una violenza si legittima
perché è decisa da una
maggioranza? E chi garantisce che la maggioranza abbia
ragione? L'efficacia
storica dell'azione, cioè l'utilitarismo dell'atto?
Siamo a Bentham. Anche
i capitalisti fanno il computo dei costi e benefici e
sostengono che il
prezzo dello sfruttamento è compensato dallo sviluppo
delle forze
produttive e dal benessere, sia pure diseguale Si
scrive ancora: si
scelgono i mezzi migliori per raggiungere i propri
fini. E' il calcolo
razionale della scuola della 'scelta pubblica', che
definisce razionali i
mezzi più economici per raggiungere un fine.
Siamo alla scissione di morale e politica, che il
movimento no global ha
giustamente messo in crisi, revocandone la validità,
sostenendo invece che
le scelte morali sono politiche: la pace è un valore
assoluto che
sovradetermina le opzioni politiche. Dopo la seconda
guerra mondiale venne
superato il positivismo, perché fonte di
legittimazione di qualunque stato,
e venne riarticolato il nesso tra morale, politica e
diritto. Oggi il
movimento prosegue quel lavorio teorico e pratico.
Solo superando la scissione dei mezzi dai fini, si
raggiunge una idea
regolativa capace di orientare i processi di
trasformazione. Il potere è
violento, la spada è sempre pronta a colpire chi si
oppone; ma opporsi con
la spada dà vita a nuove pratiche sociali di relazioni
solidali e libere o
perpetua la violenza e il potere? Abbiamo mai visto
qualcuno deporre la
spada, preso il potere? Questi sono i problemi, questa
è la ricerca da
condurre con spirito aperto, senza anatemi e
politicismi: altrimenti la
storia continuerà a vendicarsi di noi.
Franco Russo
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da Liberazione 20-1-'04
Nella Ginatempo (coordinatrice tavolo bastaguerra dei
fori sociali)
Dobbiamo disarmare la violenza con la nonviolenza
L'intervento di Bernocchi, Bersani, Cannavò e Casarini
su Liberazione non
riesce a darmi speranza. Aldilà dei tanti ragionamenti
mi trasmette il
messaggio di una condanna: come se noi tutti che
lottiamo, disobbediamo,
resistiamo, fossimo condannati a non poter uscire dal
paradigma della
violenza, di fronte ad un potere che si fa sempre più
violento, e specie là
dove la guerra asimmetrica dei potenti schiaccia ogni
libertà e resistenza.
Ma credo che sia proprio questa condanna che dobbiamo
smentire, questo
paradigma che dobbiamo rompere nel nostro pensiero,
nelle nostre pratiche,
nel sostegno che diamo ai movimenti di liberazione
degli altri popoli.
Se vogliamo aprire le porte di un altro mondo
possibile, dobbiamo saper
immaginare un modo diverso di lottare contro la
ferocia e la violenza
dell'Impero. Definirsi nonviolenti non è una
insufficienza, non è un minus,
ma al contrario è il primo passo di una utopìa
concreta. E la questione
cruciale non è neanche stabilire se la resistenza
armata in Iraq o in altri
contesti sia legittima oppure no, ferma restando una
giusta distinzione tra
terrorismo e resistenza. Il problema cruciale è chi
siamo noi, che cosa
vogliamo essere. Infatti, una volta stabilito che è
legittimo difendersi
anche con le armi, non abbiamo però fatto i nuovi
passi che possano farci
aprire la porta del futuro; non abbiamo prodotto
alcuna innovazione per
essere diversi dalle pratiche dell'avversario che ci
sovrasta. Oggi
l'Impero ha dichiarato guerra al resto del mondo, a
cominciare dagli Stati
canaglia. Io credo che l'Impero sia invincibile sul
piano militare, che il
movimento può batterlo solo sul piano politico
distruggendo definitivamente
e a livello planetario la sua egemonia. Ma per far
questo dobbiamo essere
consapevoli di un nuovo ruolo. Non possiamo continuare
a guardare al
passato, non ci basta giustificare i metodi di lotta
del Novecento,
dobbiamo annunciare il futuro, essere ambasciatori di
una nuova civiltà,
cominciare concretamente un nuovo processo di
civilizzazione che dimostri
l'impossibilità di governare il mondo con le armi. Ma
se noi stessi
continuiamo a giustificarne l'uso, continuando a
credere nella loro
efficacia, vincerà sempre chi ha le armi più potenti.
Noi dobbiamo invece
dimostrare che le armi non servono perché tutto il
mondo si ribella al loro
uso e disarma i signori della guerra. Non so come
faremo a fare questo e
non so come si potrà fare a liberare l'Afghanistan, la
Palestina, l'Iraq e
tutti gli altri, affermando la strada della resistenza
nonviolenta, civile,
di massa.
Non so quali altri mezzi troveremo per affermare che
tra Uccidere e Morire
c'è una terza via: Vivere. Ma so che la strada della
nonviolenza è
obbligata perché dobbiamo lasciare la violenza tutta
nelle mani
dell'avversario, come depositario di quel mondo che
vogliamo cambiare
radicalmente.
E le contraddizioni economiche e politiche del
capitalismo globalizzato mi
fanno ben sperare che questo ordine del mondo non è
eterno e che noi
contribuiremo a costruire l'alternativa.
La posizione così chiaramente espressa da Fausto
Bertinotti non solo non è
minoritaria nel movimento di cui anch'io faccio parte,
ma è maggioritaria
nella società civile che si muove e confligge insieme
a noi e attorno a noi.
Il movimento delle lotte sociali e delle lotte per la
pace e la giustizia
si fonda su pratiche nonviolente e di massa ed esprime
creatività,
vitalità, fiducia nella partecipazione collettiva.
Sappiamo che il nostro compito in Occidente è quello
di disarmare l'Impero,
opporre la pace alla guerra, la nonviolenza alla
violenza. Tutte le grandi
idee rivoluzionarie del passato all'inizio sembravano
astratte e
irrealizzabili. Oggi i nonviolenti vengono tacciati di
astrattezza, ma la
storia ci darà ragione.
Nella Ginatempo
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dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com
20-1-'04
CINZIA ARRUZZA- DEL CONSIGLIO NAZIONALE DI ATTAC
Care, cari,
inizio, precisando che il mio intervento e' di natura
strettamente personale, sebbene io faccia parte del
Consiglio Nazionale di Attac, cosi' come lo era quello
di Marco Bersani: Attac, infatti, deve ancora fare un
percorso di discussione, che credo fara' nel corso
della prossima assemblea nazionale, il 13, 14 e 15
febbraio, per arrivare, in maniera orizzontale e
condivisa a una posizione e a una elaborazione il piu'
possibile collettiva. Spero, comunque, che questo mio
intervento possa essere utile per la discussione di
Attac e in generale del movimento.
Vorrei prendere le mosse dall'articolo di Cannavo',
Bernocchi e Casarini (temo di non poter piu'
annoverare tra gli autori Marco Bersani, considerata
la sua per me incomprensibile e politicamente
immotivata tardiva "dissociazione": dico
immotivata,
perche' mi sembra che nella sua email Bersani abbia
ribadito quello che nei fatti rappresenta il nucleo
dell'articolo, vale a dire la questione del diritto
alla resistenza armata di un popolo invaso- nel caso
specifico l'Iraq- e l'impossibilità di fare della non
violenza una categoria metafisica).
Non mi dilungo troppo e vengo al punto.
1) non credo che l'articolo volesse porre la questione
dell'efficacia o inefficacia in termini assoluti della
non violenza o equiparare la non violenza a passività
(al contrario, molti degli strumenti che oggi il
movimento adopera, che creano consenso e ottengono
risultati, sono patrimonio dell'elaborazione sulle
pratiche non violente). Da questo punto di vista,
bisogna in primo luogo sgombrare il campo dalla
dicotomia violenza/non-violenza, che farebbe sembrare
che in questo dibattito ci siano fautori appassionati
della violenza (la scelta di Liberazione di pubblicare
la foto della kamikaze palestinese come
"ornamento"
grafico dell'articolo rientra in questa forzatura del
dibattito e delle posizioni). L'uso della violenza,
credo, porta sempre, in ogni caso, un contenuto di
dolore, irrimediabilità degli atti, rischio di
instaurazione di rapporti di potere gerarchici e
oppressivi, con cui è sempre, in ogni caso,
costantemente necessario fare i conti. Direi dunque
che la domanda non è affatto "violenza o
non-violenza?", ma piuttosto: "è possibile
fare della
non-violenza un valore assoluto, un principio
irrinunciabile, quali che siano le circostanze?".
2)Oggi, in Italia, l'intero movimento contro la
globalizzazione si muove all'interno di un patto,
quello genovese, che "è fondato su azioni non
violente, pacifiche e di disobbedienza civile".
Dunque, non credo che sia qui in discussione se il
movimento debba o meno far ricorso a pratiche violente
né a qualcuno credo che stia passando per la mente di
proporre forme di militarizzazione del movimento che
si sono sperimentate in altri periodi, a danno della
mobilitazione sociale. Tuttavia, quando si riflette di
violenza, e' necessario sempre aver presente la
violenza che quotidianamente il capitale, il governo,
i capetti grandi e piccoli (in particolar modo sui
luoghi di lavoro) esercitano su ognuno di noi,
psicologicamente, emotivamente e anche fisicamente.
Per non ricadere in quello che rischia di diventare
uno sterile moralismo da pruderie piccolo-borghese.
3) E' stato gia' detto, e lo condivido: le pratiche di
lotta devono essere scelte e valutate in relazione
allo specifico contesto storico, politico e sociale;
non c'e' una situazione uguale a un'altra ne'
categorie valide sempre e per tutto. Inoltre devono
essere pratiche condivise ed essere radicate in un
consenso di massa, non riproporre fenomeni di
avanguardismo che rischiano di favorire la
passivizzazione sociale. Se si guarda alla situazione
in Iraq, e' innegabile che vi siano gruppi che fanno
del terrorismo la propria pratica di lotta; e a questa
pratica si accompagna spesso anche una proposta di
società reazionaria, teocratica e ademocratica che e'
quanto di piu' opposto sia immaginabile rispetto
all'"altro mondo possibile". Ma e'
altrettanto
innegabile che c'e' un fenomeno di resistenza armata
all'invasione, che prende di mira obiettivi militari e
non civili, e che gode di un consenso collettivo e di
massa e, dunque, si intreccia con la mobilitazione
sociale e politica. La domanda che voglio fare non è
semplicemente se gli iraqeni abbiano o meno il diritto
a resistere, anche con le armi, all'invasione, lo do'
per scontato, essendo peraltro un diritto riconosciuto
persino dall'Onu. La domanda e': il movimento contro
la globalizzazione capitalista e la guerra permanente,
come si deve porre e relazionare di fronte a chi oggi
in Iraq tenta di resistere all'occupazione, avanzando
ideali di democrazia ed emancipazione, e utilizzando
"anche" la lotta armata? Pensiamo che senza
questa
opposizione all'occupazione, anche con l'uso della
forza, si potrà mai costituire un nuovo Iraq piu'
democratico, in cui regneranno equità e giustizia
sociale? Sono tutti terroristi?
4)Infine, è vero che la burocratizzazione verificatasi
nelle esperienze di socialismo reale ha impiegato
sistematicamente la violenza e il terrore per
consolidare il proprio dominio. Ma mi sembra piuttosto
naif sostenere che l'impiego della violenza (peraltro
certo non nelle forme di una fantomatica "presa
del
palazzo di Inverno") nella rivoluzione russa o in
altre rivoluzioni sia la radice dei processi di
degenerazione burocratica che poi sono seguiti.
Casomai le ragioni sono da individuare in un complesso
di circostanze storiche, economiche e sociali.
Bisognerebbe a volte ricordarsi che la stessa
Costituzione italiana, a cui molti fanno spesso
riferimento, affonda le sue radici nella resistenza
armata e di popolo al nazifascismo.
Per tutte queste ragioni, penso che il dibattito, per
come e' stato impostato rischi di essere fuorviante;
piuttosto che discutere oggi di Violenza e Non
violenza nel modo in cui se ne sta discutendo, sarebbe
forse piu' utile riflettere su come si sta modificando
il movimento in Italia, sul significato delle lotte
sociali, dagli autoferrotranvieri, a Scanzano, alle
lotte per la casa che si stanno moltiplicando e su
quali sono le forme sociali e di lotta utili per
ricomporre e rendere cosi' piu' efficaci queste
mobilitazioni, intrecciandole nel movimento contro la
globalizzazione.
CINZIA ARRUZZA- DEL CONSIGLIO NAZIONALE DI ATTAC
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Michela Vitturi 21-1-'04
Mi sono sentita sollecitata ad alcune riflessioni
dall'intervento di
Cinzia Arruzza in questa ml che desidero condividere
sperando anch'io
in una qualche loro utilità in Attac e nel movimento.
Inizio dicendo che ho ben compreso le ragioni della
`dissociazione'
di Marco: quel documento era tutto fuorchè chiaro,
prova ne è che
oltre alla sua spiegazione ne è giunta anche un'altra,
quella di
Cinzia Arruzza appunto; e una spiegazione è sempre
un'interpretazione
(Wittgenstein). Ringrazio Marco Bersani, quindi, per
la sua onestà
intellettuale al quale va tutta la mia stima.
Lungi da me il voler fare della nonviolenza una categoria
metafisica
assoluta, ma non voglio che il campo venga sgombrato
così 'tout-
court' dalla dicotomia violenza/nonviolenza,
liquidandola quasi come
una perdita di tempo o di vista dei veri obiettivi,
quali ad esempio
le lotte degli autoferrotranvieri . Voglio che se ne
parli, proprio
per comprendere il modo in cui si sta modificando il
movimento in
Italia e le ragioni per cui un movimento che sembrava
avere tante
potenzialità il febbraio dell'anno scorso, dopo le
manifestazioni del
12 aprile e del 4 ottobre non ha saputo balbettare una
parola sui
morti di Nassyria e non sa intrecciare efficacemente
le lotte sociali
di questi giorni. Voglio che se ne parli proprio
perché da vetero-
marxista potrei dire io per prima che il dibattito
sulla nonviolenza
che attraversa il movimento starebbe a dimostrare le
sue radici
piccolo-borghesi a fronte delle vere lotte proletarie
che si stanno
facendo altrove, e che quindi il tanto vagheggiato
altro mondo
possibile rimarrà un ideale kantiano per il movimento
mentre diverrà
realtà necessitata in quanto è inscritta nel futuro
stesso di quelle
lotte. Per inciso,'mutatis mutandis', potrei sostenere
la stessa
posizione per la resistenza del popolo iracheno e
quello palestinese.
E invece non lo faccio proprio perché da marxista
penso che allora sì
saremmo completamente fuori dal mondo e dalla nostra
storia, dal
nostro qui e ora, che ci impone, senza via di scampo,
senza
scorciatoie, di fare i conti fino in fondo non solo
con delle
categorie di pensiero che pure hanno quantomeno
inquadrato una certa
prassi, ma con il Potere che si dispiega ogni giorno
in tutta la sua
violenza. E noi, come vogliamo rispondere a questo
Potere? Rimanendo
dentro la sua logica di violenza e contemporaneamente
agire per
costruire un altro mondo possibile? Come? Vogliamo
riflettere e
ragionare allora su questa categoria dell'alterità?
Come possiamo
dirci ed essere`altro' rispetto a questo Potere?
Mi pare che sulla impossibilità della separazione
mezzi/fini siamo un
po' tutti d'accordo, e del resto dopo l'analisi
puntale di Hannah
Arendt nel suo "Sulla Violenza" datato 1968,
ritornare a posizioni
machiavelliane sembra davvero una strada non più
percorribile. Ma
poi? Basta il rimuovere la dicotomia che il Potere ci
propone
(violenza/nonviolenza), basta il simulare nelle piazze
la sua
violenza? Non credo sia efficace per nulla, perché se
il medium è il
messaggio, e la piazza non è un teatro, quello che
passa non è quello
che diciamo di essere, ma quello che facciamo. E in
questa società in
cui la Verità la dice la televisione noi ci troviamo
ad essere, ci
piaccia o no, quella `rappresentazione simbolica' che
viene trasmessa
in tv. Al di là di questa torsione mediatica che i
nostri contenuti
subiscono, e che a mio modesto parere altro non fanno
se non quello
di allontanare le persone e il loro consenso da noi
(non credo sia un
caso se dopo il 4 ottobre tante persone siano tornate
a casa e non
abbiano nemmeno avuto la voglia di rimettere fuori la
bandiera della
pace in novembre), sono davvero stanca anche solo di
sentir usare un
certo linguaggio e di veder vestire in un certo modo,
forse perché ho
vissuto il movimento del 77 già allora in contrasto
con le teorie e
le prassi della Autonomia Operaia. Quando sento che si
deve `dare
l'assalto alla zona rossa', `assediare l'ambasciata
inglese perchè
punto strategico ecc.', indossare caschi e scudi per
`difendersi', mi
rendo conto di quanto noi per primi siamo permeati
dalla violenza del
potere, tanto da usare lo stesso linguaggio bellico,
qui sì mi vien
da dire `cristallizzati' e immobilizzati dentro una
gabbia non solo
linguistica ma proprio categoriale, che ci impedisce
anche solo di
pensarlo, se non di dirlo e praticarlo, un altro mondo
possibile. Per
queste ragioni ritengo non più rinviabile un dibattito
sulla
nonviolenza che mi auguro il più ampio possibile.
Michela Vitturi
da Liberazione 21-1-'04
La nonviolenza,
opzione matura ed efficace
Pasquale Martino
Caro Sandro, cara Rina, da laico e materialista, non
credo che esistano valori assoluti, al di sopra di quelli che gli uomini e le
donne costruiscono nella storia. Lo stesso campo dei valori è un campo di
lotta, di conflitti, di rapporti di forza. Il ripudio della guerra, impostosi
alla metà del Novecento, e così spesso ipocritamente aggirato, è stato dichiaratamente
rimesso in discussione all'inizio del nuovo secolo. Le acquisizioni etiche che
delineano un modello di civiltà non sono irreversibili. Pure, il complesso e
contraddittorio cammino dell'umanità ha prodotto principi di convivenza e di
civiltà, scaturiti da lotte, rivoluzioni e anche da ripetute sconfitte che
hanno preparato vittorie.
Il "non uccidere" non era inscritto nella
natura umana ab aeterno, eppure ha finito con l'affermarsi come principio
basilare dell'etica e della convivenza civile, sebbene limitato da deroghe più
o meno numerose che ne giustificano la violazione. In questo senso credo che la
nonviolenza debba essere assunta come un carattere fondativo del progetto di
società a cui alludiamo.
L'essere comunista nella nostra epoca significa anche
essere, in quanto anticapitalista, radicalmente ecologista, femminista,
pacifista e nonviolento. Non si tratta dunque di una giudizio retrospettivo e
tanto meno retroattivo. La Resistenza armata è stata una scelta
indiscutibilmente giusta; ma va anche colto dialetticamente, nella nostra
prospettiva, il dibattito che è esistito fra i resistenti (a partire dal Pci)
sulla necessaria alterità di concezione dell'uso della forza rispetto ai
nazifascisti, e sui limiti da porre conseguentemente all'esercizio stesso della
violenza. Non si tratta neanche di una pretesa di giudicare le forme di lotta
che concretamente si dispiegano oggi nelle diverse realtà del mondo,
soppesandole sulla base di criteri precostituiti. Si tratta di far prevalere
una spinta alla coerenza fra i caratteri del processo rivoluzionario e l'ideale
di civiltà che prefiguriamo, di superare nella pratica e nella cultura politica
la separazioni dei due tempi, que
llo dei mezzi e quello dei fini. Una coerenza che non
esigiamo assoluta, ma visibile e credibile, ricercata mediante l'accumulo di
esperienza, la discussione e la condivisione.
Non stiamo parlando di un annuncio profetico, del
sogno di un'utopia. La nonviolenza è un'opzione che diventa matura ed efficace
nell'epoca in cui i signori della guerra hanno un monopolio della violenza
inoppugnabile sul piano militare. La risposta terrorista non solo è moralmente
riprovevole, non solo è incapace di sconfiggere la guerra, ma la rafforza e la
propaga con effetti devastanti. Noi dobbiamo certamente distinguere fra il
terrorismo e le forme legittime di resistenza armata a una forza occupante,
sancite dal diritto internazionale (o da ciò che ne resta). Ma non è questo il
punto. Il punto è che la prospettiva avanzata dell'alternativa mondiale oggi è
rappresentata da un soggetto internazionale - il movimento per la pace e per
"un altro mondo possibile" - che per cultura, modalità e apparato
simbolico rende credibile e praticabile l'esercizio di massa della nonviolenza.
A questo movimento ci rapportiamo indicando nella
nonviolenza l'opzione politica fondamentale. Che è anche disobbedienza,
boicottaggio, occupazione, picchetto, miriade di forme di lotta, di resistenza
e di opposizione. Forme che esaltano e moltiplicano esperienze che pure sono appartenute,
eccome, al movimento operaio.
E poi discutiamo in concreto, volta per volta. Io per
esempio c'ero a Roma il 4 ottobre, e non penso che privilegiare il
fronteggiamento della polizia davanti alla "zona rossa" anche a costo
dell'autoscioglimento di un grande corteo sia stato un successo politico. Come
non credo che sia stato tale lo schieramento dei - e delle - disobbedienti con
caschi, fazzoletti e scudi. Non scopro niente di nuovo se dico che le forme di
lotta, sul piano concreto e simbolico, devono interloquire fecondamente con i
caratteri di massa del movimento. La partecipazione popolare ai blocchi
stradali in Basilicata ha scoraggiato qualsiasi velleità di intervento da parte
delle forze dell'ordine. Le pur durissime azioni di lotta dei ferrotramvieri
hanno dimostrato, finora, una impensabile tenuta nei rapporti di consenso con i
cittadini e gli utenti. E ciò dovrebbe essere di lezione.
Pasquale Martino
//////////
Contro l'Impero il primato della politica
Roberto Del Bello
Caro direttore, prendo l'intervento apparso il 16
gennaio, che porta le firma di Bernocchi, Cannavò, Bersani e Casarini, ad
esempio dell'insieme di "luoghi comuni" o di "fuori luogo"
che andrebbero evitati nella discussione che si sta faticosamente, ma inesorabilmente,
avviando nel Partito ed anche nel movimento.
In primo luogo non credo che la questione, come è
stata posta da Bertinotti (e non solo), sin dal convegno veneziano sulle foibe,
sia tacciabile di astrattezza. Siamo perfettamente convinti che la scelta delle
forme di lotta e l'impostazione organizzativa, progettuale, culturale,
programmatica di una forza politica vada collocata nel contesto storico
attuale. Proprio per questo un primo "fuori luogo" è quello di
analizzare il dualismo guerra e terrorismo sciorinando una macabra casistica,
accompagnata da un'arbitraria gradazione sulle forme si lotta armata da
considerarsi legittime o meno...
Nel corso del novecento la distinzione tra guerra
civile, guerra guerreggiata e terrorismo era palese, evidente non solo nelle forme
assunte, nei soggetti coinvolti, ma anche e soprattutto nelle finalità e nei
contenuti.
La guerra preventiva, permanente e costituente è
invece una categoria totalizzante. E' combinazione di guerra tecnologica,
sociale ed economica e si rappresenta come momento costitutivo di nuovi
mercati, di nuovi campi di relazione sociale, di nuovi poteri.
Al tempo stesso esprime un potenziale di distruzione
di massa, indifferenziato e dispiegato che non ha precedenti. Con una
terminologia tradizionale si potrebbe dire che essa ingloba in sé, nello stesso
momento, gli elementi della guerra civile e gli elementi della guerra fra
stati. Un fenomeno la cui novità avevamo in tanti interpretato, già da molto
tempo, nella cosiddetta "libanizzazione dei conflitti", con la
variante che oggi siamo precipitati in una fase di unipolarismo dominato dagli
stati uniti d'America. Lo zapatismo in tutto questo assume esattamente la
posizione di un'alternativa: la liberazione del territorio e l'organizzazione
di relazioni sociali liberate intorno alle zone rosse (che sono occupate per lo
più dalle icone del potere globale), piuttosto che l'assalto alle zone rosse;
l'accerchiamento e lo svuotamento della funzione "governativa"
attraverso l'organizzazione del consenso sociale (in forme strutturate e
definite di autogoverno) e del dissenso politico
piuttosto che la conquista del potere...
Non è in discussione la denuncia della
criminalizzazione delle lotte sociali attraverso i meccanismi repressivi e a
nessuno passerebbe per la mente dire che gli scioperi selvaggi degli
autoferrotramvieri sono violenti o che lo sono le lotte dei metalmeccanici, od
egli occupanti di case etc.
Nè ci stiamo occupando di "tafferugli". Ciò
di cui ci stiamo occupando è esattamente il senso che vogliamo dare al nostro
agire politico, a quegli " scontri non voluti" che gli estensori
della lettera su Liberazione attribuiscono ai soggetti in lotta.
Qui sta il punto: nella storia del movimento comunista
non ci sono mai stati "scontri non voluti". L'idea che la trasformazione
del mondo si rappresenta come un processo in due tempi in cui si tratta di
stappare il potere all'avversario prima, per usarlo come leva della nuova
costruzione sociale, poi, è intrinseca alla tradizione comunista novecentesca.
In questo semplice dualismo, che richiama tutti i dualismi propri
dell'idealismo, compreso quello cristiano, sono contenute( e si sono
giustificate) tutte le tragedie e gli errori legati all'esperienza sovietica, e
non solo. In esso si è consumata la fatale scissione tra fini e mezzi.
Io credo che oggi cadano proprio le ragioni storiche
di questo dualismo e con esse le ragioni politiche di ogni pratica che a quel
meccanismo alludano...
La questione della presa del potere non può essere
all'ordine del giorno perché il potere globalizzato, in quanto tale, non si
rappresenta più come un luogo o un nome, ma come meccanismo sociale oggettivo.
D'altra parte la dialettica crisi-guerra-rivoluzione, dimostra oggi la sua
inattualità, in quanto la guerra si presenta come semplice gestione (e
riproduzione) della crisi
Interrogarsi sul metodo di lotta della nonviolenza
diventa, a questo punto, un interrogativo fondamentale sul tema della natura
del potere e di una rivoluzione possibile, sulla condizione stessa perché il
movimento globale contro il liberismo diventi il soggetto in grado di praticare
la liberazione sociale...
L'apertura di una ricerca e di un dibattito sulla
nonviolenza assume oggi per noi caratteristiche di una fortissima radicalità e
di una incommensurabile forza innovativa che ci porterà, lo spero davvero, alla
chiusura dei conti con il novecento e ad aprire, veramente, il sipario sul
terzo millennio, nella convinzione, soggettiva, della permanente attualità del
Comunismo.
Roberto Del Bello
//////////
Atti simbolici e messaggi veicolati
Lidia Cirillo
Caro Curzi, sono d'accordo con lo spirito e la lettera
dell'intervento di Bernocchi-Bersani-Cannavò-Casarini con l'eccezione di un
paio di passaggi. Mi soffermo su uno soltanto. Ho sempre considerato la pratica
della violazione della "zona rossa" più dannosa che utile, anche se
poi mi sono ben guardata dal firmare testi femministi di condanna al presunto
militarismo maschile in nome dell'altrettanto presunto pacifismo femminile. Mi
sembra che l'utilità di un atto simbolico dovrebbe essere misurata dalla sua
capacità di veicolare messaggi. In questo caso quel che giunge all'opinione con
cui si interloquisce è ben diverso dalla programmatica violazione di un ordine
costituito nella prospettiva di un altro mondo possibile. Passa invece il
messaggio che la repressione è autorizzata dalla violenza dei manifestanti e
l'autorizzazione a procedere è concessa soprattutto da una sorta di continuum
immaginario, che di fatto per opera dei media si crea. Il continuum è tra gli
atti in lar
ga misura simbolici e gli episodi di violenza
autentica del tutto fuori dal controllo della parte organizzata del movimento.
Ora, che una pratica provochi risposte repressive e autorizzazioni a procedere
può non essere argomento sufficiente di dissuasione, purché si spieghi che cosa
c'è sull'altro piatto della bilancia. Ricordo che alla vigilia di Genova era
diffusa l'illusione che le pratiche della violazione avrebbero potuto garantire
l'unità del movimento e il controllo della piazza. La violenza simbolica, cioè,
avrebbe dovuto esorcizzare quella reale. Le cose - si sa - sono andate
diversamente. Come è ovvio e per il tipo di rapporto esistente tra simbolico e
reale.
Lidia Cirillo
/////////////
Un nuovo spazio pubblico per la ribellione e l'alterità
Giovanni Russo Spena (senatore del PRC)
Bertinotti sta dando impulso, a partire dall'ultimo
congresso, ad un percorso rifondativo vero, radicale, sofferto a cui partecipo
con condivisione, ma anche con forte emozione. Avverto, infatti, vicini al mio
percorso culturale e politico i paradigmi interpretativi. Non ci si chiede di
"schierarsi", ma di essere attori della necessaria "reinvenzione
infinita" (direbbe Balibar). Per questo è meschino immiserire la
discussione con torsioni politiciste: non c'entra niente il confronto con
l'Ulivo, né si sostituisce il ritratto di Marx con quello di Gandhi. Ci si
confronti con la vera tesi: non so dirmi comunista oggi se non sconfiggo il
paradigma della necessità della "violenza rivoluzionaria", che è
imploso anche all'interno del movimento operaio (errori, orrori, sopraffazioni,
assassinio, gulag); e la nonviolenza non è abbandono del conflitto di classe,
consociativismo aclassista (come se la radicalità fosse equazione di possibile
violenza), ma forma contemporanea della disob
bedienza, che è punta più alta di radicalità.
Essa, infatti, è principio ordinatore delle forme
attuali della democrazia conflittuale, che si oppone al crescente
emergenzialismo e ad un autoritarismo che identifica, ormai, conflitto e
crimine. Lo sanno gli autoferrotranvieri, gli occupanti di case, i movimenti,
che lottano contro la "società disciplinare". La disobbedienza (dal
"trainstopping" a Scanzano, Terlizzi, Acerra) è diventata percorso
sociale: da carsici comportamenti di ribellione individuali o di gruppo a
"comunità disobbedienti".
Sul piano culturale, la trama che scorre dalla
nonviolenza classica alla disobbedienza, vive un confronto, un intreccio, a
volte una sinergia (certo difficile) tra cultura libertaria, cristiana,
comunista. Non penso affatto (come collaboratore assiduo di
"Liberazione" ho tentato di indagare anche in brevi note i processi
autoritari, violenti del capitalismo contemporaneo) che la nostra ricerca
rimuova o sottostimi le coordinate del "potere violento", lo stato di
"terrore permanente". È una critica inconsistente, perché è
esattamente il contrario. Risollevo l'attualità della nonviolenza proprio
perché io credo, come Agamben, che lo "stato di eccezione" sia il
frutto primo della guerra preventiva e che "il paradigma politico
dell'occidente non sia più la città ma il campo di concentramento, non Atene ma
Auschwitz".
Non parte da qui la riflessione di Bertinotti? Il tema
è posto dall'essere dentro il processo rivoluzionario. Non è eludibile. La
forma più radicale di lotta non può introiettare, in maniera speculare, la
violenza infinita del comando imperiale; né alla sua violenza, per contrapporsi
ad esso, deve corrispondere un tasso più alto di nostra violenza. La lotta più
radicale, penso, è quella che tenta di riscrivere la grammatica della liceità
sociale, oltrepassando il legalitarismo formale; la nonviolenza non è assenza
di lotta; è, anzi, messa in discussione, messa in gioco del proprio corpo per
mettere in crisi il potere militare: Rachel e Tom Hurndall, uccisi durante
azioni di protesta diretta nei territori occupati palestinesi non sono icone di
una lotta radicale? E i refusnik, i militari israeliani che rifiutano di
obbedire allo stato di occupazione militare del governo israeliano, non sono
l'esempio più radicale ed efficace di disarticolazione del comando imperiale?
Proporrei, piuttosto, di uscire da un dibattito
semplificato ed ideologistico e di entrare nel merito di alcuni temi: come si
inseriscono, all'interno della pratica nonviolenta, le azioni di boicottaggio,
di sabotaggio, che colpiscono direttamente i processi di accumulazione e di
valorizzazione del capitale? La nonviolenza non è una parola d'ordine; va
organizzata seriamente (anche attraverso scuole di formazione e di
comportamenti, come ci insegnano le esperienze più consolidate e avanzate).
È bene dissolvere un secondo equivoco: nessuno pensa
di riscrivere retroattivamente la storia, le forme, i percorsi della
liberazione dei popoli oppressi. Sto pensando alla lotta armata contro il
nazifascismo; e ritengo che i popoli oppressi non debbano essere ingabbiati né
dal mito della forza, né dalla ideologia della nonviolenza intesa come dogma.
Sono i popoli stessi che decidono in base alla condizione storica ed alla
contingenza concreta. Noi poniamo un problema politico, qui ed ora;
""alla forza smisurata sul piano militare delle forze dominanti della
globalizzazione"" - scrive Bertinotti - ""si può solo
contrapporre la forza delle coscienze, dei movimenti, delle convinzioni"".
È banale ridurre la nostra ricerca ad una polemica sulle forme di lotta.
L'interrogativo vero è come si raccorda l'iniziativa di massa di oggi con
l'idea di società "altra" che vogliamo costruire, come essa viene
prefigurata dall'anticipazione che vive nel conflitto oggi. Noi alludiamo ad un
nuo
vo spazio pubblico in cui esercitare la ribellione e
l'alterità.
Lo annotava Mordenti: la nostra idea della rivoluzione
comunista è autogestione, democrazia integrale, e, dunque, vi è la necessità
che il processo rivoluzionario non contraddica, nel suo svolgersi, questi fini.
Personalmente credo che andrebbero indagati a fondo i limiti anche teorici
sulla concezione dello stato e del diritto degli stessi gruppi dirigenti
comunisti storici. In questo senso va rimessa in discussione la concezione
stessa del potere novecentesco. Quale rapporto con lo stato di diritto? Perché
il "potere socialista" ha ritenuto, con la "dittatura del
proletariato", di annullare, in nome e per conto del popolo, con la forma
massima di sostitutismo, il garantismo, il sistema delle regole e dei diritti,
la lotta sindacale stessa? Non nasce da questo errore teorico, prima che
politico, il "gulag"? la critica da sinistra dello stalinismo, lungi
dal ricadere nelle secche fallimentari della democrazia rappresentativa borghese,
riparte dallo stato di diritto per giunge
re all'autogestione. Già Bloch, nel 1953, nello stesso
anno dei moti operai a Berlino e in altre città della Repubblica Democratica
Tedesca, annotava che, alla base della degenerazione del "socialismo reale",
vi era l'insufficiente elaborazione della categoria di "dittatura del
proletariato", la quale aveva del tutto omesso il giusnaturalismo e la
possibilità di una sua interpretazione di sinistra.
Marx, del resto, nella "Guerra civile in
Francia" scriveva che la Comune di Parigi fu una "forma politica
fondamentalmente espansiva, mentre tutte le precedenti forme di governo erano
state unilateralmente repressive". Il dibattito violenza/nonviolenza, è
bene saperlo, allude, insomma, alle forme della politica e alla democrazia.
Giovanni Russo Spena
///////////
La nonviolenza
non è un flirt e via...
Daniele Lugli (segretario del Movimento Nonviolento)
Caro Curzi, il dibattito, in cui Rifondazione appare
chiaramente impegnata, su violenza e nonviolenza è molto importante e non solo
per quel partito e per le persone che alla sua azione ed elaborazione guardano
con interesse. E' un nodo decisivo, sul quale sono state dette molte cose del
tutto condivisibili, anche da chi ha fatto della nonviolenza il criterio fondamentale
e imprescindibile dell'agire politico. Rilevante è la scelta di un convegno di
studi a fine febbraio a Venezia, per l'articolazione dei temi e per la qualità
dei relatori, persone tutte che sanno collegare la ricerca teorica con
l'impegno sociale e politico. La nonviolenza non è un frutto esotico
trapiantato in nquesta parte di mondo. Ha radici autoctone, come Lidia
Menapace, ama ricordarci, nel movimento operaio e nel movimento delle donne:
"Questi hanno modificato il mondo più di qualsiasi guerra e più in
profondità di qualsiasi rivoluzione, che della guerra abbia ripetuto i foschi
modelli; hanno stabilito
forme di autonomia, dignità e coscienza". Ha
avuto nel nostro Paese insigni maestri ed interpreti: un nome per tutti, quello
di Capitini, ma altri potrebbero aggiungersi. Nel suo ultimo articolo su
"Azione Nonviolenta", intitolato "Nonviolenza concreta",
dell'ottobre del 1968 (muore nello stesso mese) Capitini ammonisce a non
"giocare con la nonviolenza, farci un flirt e via". Il modo, con cui
a partire dal Segretario Fausto Bertinotti, sono condotti discussione e
confronto e l'appuntamento del Convegno sembrano lontani da questo
atteggiamento. Il nostro Movimento e la rivista Azione Nonviolenta, fondati da
Aldo Capitini all'indomani della prima marcia Perugia-Assisi, seguono con
attenzione e partecipazione dibattito e approfondimenti, pronti a dare, nelle
forme che si riterranno utili e possibili, il loro contributo.
Daniele Lugli segretario del Movimento Nonviolento
///////////////
Ma come si può
escludere a priori
l'uso della forza?
Marcello Graziosi
Cara Rina, vorrei entrare subito nel vivo del nostro
attuale dibattito interno, che non considero affatto la coda del V Congresso ma
un'anticipazione di quello che sarà il VI, non senza aver espresso un profondo
malessere per quella che vivo come una progressiva e secca involuzione della
democrazia interna al partito, che stride con le altisonanti dichiarazioni di
principio. Se altri fanno come o peggio di noi (vedi Berlino), la cosa non mi
rallegra affatto. I bolscevichi votarono nei Soviet prima della conquista del
Palazzo d'Inverno, il nostro Segretario si reca a Berlino per dare vita ad un
nuovo partito (non comunista) europeo senza alcun mandato da parte degli
organismi dirigenti.
La sinistra di alternativa in Italia. Più volte
abbiamo discusso, negli organismi dirigenti, della possibilità di costituire un
nuovo soggetto politico della sinistra di alternativa in Italia, negando però
con decisione che si ragionasse di un nuovo partito, non comunista, considerato
giustamente una fuga in avanti organizzativistica, non in grado dunque di
risolvere problemi che erano e rimangono squisitamente politici. Abbiamo così
ragionato di Forum, di Costituente, fino all'attuale Forum per un'alternativa
programmatica di governo.
Il Partito della Sinistra Europea. Perché, allora, in
Europa abbiamo agito del tutto diversamente, dando vita senza alcuna
discussione diffusa ad un nuovo partito, di orientamento non comunista,
destinato ad indebolire e non già a rafforzare il Gue? Senza nemmeno aver
prodotto una discussione compiuta sui grandi temi della costruzione
dell'Europa, elemento che si riflette in un appello assai generico, per non
dire moderato?
Il '900 ed i comunisti: contestualmente a Berlino è
ripreso il processo alla storia dei comunisti del '900, con l'imposizione del
dogma della non-violenza, assurto a strumento valido al di fuori del tempo e
dello spazio, "al di là del bene e del male". Con un furore
ideologico che non trova alcuna ragion d'essere oggettiva. Alcune osservazioni:
a) faccio miei i quesiti posti da Ingrao sulla
possibilità o meno di resistere anche con le armi contro lo strapotere Usa e le
aggressioni armate, la risposta ai quali rompe quella visione che individua la
non-violenza come unica soluzione per non trovarsi immersi nella
"dialettica guerra-terrorismo" (diciamolo ad iracheni, palestinesi,
colombiani...);
b) guerra e terrorismo sono due aspetti dello stesso
processo (non una spirale e due centri equivalenti del terrore), entrambi funzionali
ai progetti di egemonia mondiale degli Usa dopo la disgregazione dell'Urss. La
Rivoluzione d'Ottobre ruppe l'egemonia mondiale del capitalismo, il 1991 l'ha
reintrodotta, con conseguente arretramento dei rapporti di forza su scala
mondiale. Hiroshima è stato il cinico segnale dell'egemonia imperialista Usa,
un salto di qualità drammatico per l'intera umanità, come oggi lo è la guerra
preventiva di Bush;
c) come si può rimettere in corsa una prospettiva
rivoluzionaria escludendo a priori l'uso della forza e la conquista del potere?
Come è stato per la borghesia rispetto al feudalesimo? Nessun comunista ha mai
considerato obbligatorio l'uso della forza, ma ha sempre avuto la
consapevolezza della difficoltà di modificare radicalmente i rapporti di produzione
se le leve del potere rimangono nelle mani dell'avversario di classe. Nel qual
caso, l'alternativa rimarrebbe interna al sistema ed il binomio
socialismo-comunismo semplicemente un'utopia, com'era prima non di Lenin ma del
Manifesto di Marx del 1848;
d) I comunisti del '900 hanno sempre fatto i conti con
la propria storia e le proprie esperienze, strada facendo, pagando anche dei
prezzi altissimi (tra gli altri, la rottura Cina-Urss). Sarebbe importante
aprire una grande ed alta discussione, sull'evoluzione del movimento comunista
internazionale, sull'Urss e le ragioni della sconfitta, sulle attuali
transizioni in corso, imparando dagli errori ma senza recedere dalla
prospettiva. Perché? Perché nessuno è più a sinistra e radicale dei comunisti,
senza i quali non può esistere alcuna alternativa di massa non solo al
neoliberismo, ma al capitalismo stesso.
Marcello Graziosi
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da Liberazione 22-1-'04
Patrizia Sentinelli (responsabile dipartimento
movimenti PRC)
Mistificanti i riferimenti al Vietnam e alla
Resistenza
In questo dibattito di grande livello, non per caso
"nobilitato" dagli
interventi di Pietro Ingrao, si discute anche della
sorte politica del
movimento. La sua divisione, abbiamo più volte detto,
è obiettivo che molti
si sono dati in questi anni e che tutti abbiamo
contribuito a respingere, a
partire dalla denuncia dell'uso manipolativo della
categoria "buoni" e
"cattivi". Proprio per questo ho avvertito
un sovrappiù nell'intervento a
quattro firme uscito qualche giorno fa come se la sua
priorità fosse, prima
che la discussione di merito, una "delimitazione
di campo". Una scelta
singolare e non proficua. Tanto più in un dibattito
come questo, dove non a
caso, io credo, lo stesso segretario di un partito
interviene in prima
persona, non per solitudine o per sovrapposizione, ma
per rispondere ad una
esigenza di interrogarsi anche in proprio e fuori dai
contesti ravvicinati
della battaglia politica più immediata. Anche per
evitare qualsiasi rischio
di sovrapporre dinamiche di partito, e interne ai
partiti, al movimento. E
per accompagnare la riflessione stessa del movimento
che è in corso
collettivamente e in modo impegnato.
Il merito dell'articolo di Casarini, Cannavò,
Bernocchi e Bersani mi pare
un po' "antico", "conservatore",
non all'altezza della rottura operata dal
movimento stesso. Certo c'è sempre il rischio di
banalizzare le posizioni
altrui ma ciò che non mi convince non è l'articolazione
prospettata tra
forme varie assunte in contesti diversi dalle pratiche
violente, ma la
contestazione della spirale guerra-terrorismo come
fenomeno tipico di
questa fase che opera concretamente per annichilire la
politica e in
particolare contro il soggetto che sta in campo, per
reinverare la politica
stessa, e cioè il movimento. Qui non sono proprio
d'accordo. Se non vediamo
che la guerra e il terrorismo nell'era della
globalizzazione sono altro da
ciò che sono stati nel '900, non vediamo il nuovo e
cioè il carattere
sovrastante delle nuove forme di dominio imperiali e
fondamentaliste,
capitalistiche e religiose, portatrici di un conflitto
devastante tra
"modernità barbarica" e "barbarica
modernità". E inseguono una vecchia
lettura statualistica dei conflitti che crede ancora
centrare la politica
nel suo avvalersi della forza e non coglie
l'assolutizzarsi della forza
come distruzione della politica.
E' questo elemento del tutto nuovo che rende
mistificanti i riferimenti a
epoche passate, dal Vietnam alla Resistenza. Non è la
comprensione di
questa novità, come si afferma nel testo di Cannavò e
degli altri compagni,
a far "interiorizzare" il punto di vista
della strategia della guerra
preventiva e permanente al punto da non saper più
articolare i giudizi e
percepire le diversità che permangono nelle pratiche
della forza, ma al
contrario è la sottovalutazione della sua portata ad
impedire la rottura
necessaria a non essere manipolati o sussunti
nell'agire.
Nel mondo ci sono tanti conflitti aperti, come è sempre
stato, ma il punto
è che ce ne è uno, la spirale guerra-terrorismo che
esprime la crisi della
globalizzazione nel suo portato storico potenziale,
cioè il suo essere
crisi della modernità tout court nelle sue forme
storicamente costituite,
assolutizzando la forza contro la politica in quanto
considera questa
ultima non praticabile e in nome non più di idee
condivise di progresso ma
di una visione assolutizzante di un "bene"
assunto come categoria del
dominio.
E' questo prevalente reale, e non la sua interiorizzazione
psicologistica,
che bisogna evitare che sussuma tutto il resto. Che
non vi sia alcuna
interiorrizzazione psicologistica è evidente nei
comportamenti politici del
Movimento e di tutti noi che, appunto, lungi da farsi
dividere tra buoni e
cattivi e incorporare l'equivalenza totalizzante, dal
terrorismo alla
disobbedienza, troviamo l'unità nel massimo di
radicalità del contrasto
disobbediente alla guerra e nel massimo di garantismo
rispetto alle
pratiche, sapendo leggere le dinamiche concrete dei
conflitti e delle
piazze e le asimmetrie tra potere e di chi vi si
oppone. Sapendo però che
quella spirale c'è e che non ne saremo garantiti
agendo, come nel '900,
nella pura contraddizione dei poteri in lotta, ma
dispiegando l'altro mondo
possibile.
Intendiamoci, anche nel '900, questo altro mondo si
era dichiarato con il
movimento operaio ma si era poi consegnato a una
dinamica statuale, quella
sovietica, che aveva garantito equilibri ma anche
imprigionato l'istanza di
cambiamento. Qui la discussione si fa più su di noi
stessi. Perché, io
penso, che non solo "l'oggettivo" ci porta a
pratiche del tutto nuove, come
quelle nel rapporto con la forza e ciò che essa
significa, ma anche il
"soggettivo". E anzi, che la rivoluzione
come forma storicamente nuova di
modernità sia proprio un reincontro tra oggettività e
soggettività come mai
c'è stato, così come tra umanità e natura. Ce ne
parlano il femminismo e
l'ambientalismo. Nessuno mette in discussione la
Resistenza e il Vietnam,
di cui siamo tutti figli e figlie, ma oggi posso dire,
che ciò che andava
fatto allora, l'uso della forza, vorrei non fosse
necessario vogliamo
comunque interrogarci su come la categoria della forza
abbia potuto
deformare soprattutto nelle sue pratiche statuali,
quella istanza di
liberazione di cui ero e voglio essere portatrice? C'è
in questo, tanto del
nuovo movimento, dal valore di tutte le persone, al
suo carattere
orizzontale che rifiuta quella verticalizzazione che è
già violenza. E c'è
una dimensione collettiva e insieme individuale. Io
sono per le pratiche
radicali ma, ancora più come donna, vorrei poter
contemperare pratiche per
me gestibili e rivendicabili, non per aver
interiorizzato la repressione o
per sfuggirla, ma perché mi consentono di esprimermi
in modi inequivocabili
senza lasciarmi attraversare da categorie altrui di
cui voglio liberarmi.
Non è una discussione facile, anzi molto difficile,
come è a volte
liberarsi dal passato, in un presente difficile, ma
guardando al futuro.
Patrizia Sentinelli
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Da Liberazione 23-1-'04 (dove era stato tagliato, ma
questo è integrale)
INTERVENTO NEL DIBATTITO SULLA NONVIOLENZA
di Francesco Ricci (vicepresidente Collegio Nazionale
di Garanzia del PRC)
Associazione marxista rivoluzionaria PROGETTO
COMUNISTA
Il dibattito sulla nonviolenza va affrontato, credo,
sia dal punto di vista teorico, sia indagando il legame con le scelte politiche
che si compiono. Un lavoro che meriterebbe la convocazione di quel congresso
straordinario che migliaia di militanti del partito chiedono con la
sottoscrizione della petizione promossa dal compagno Marco Ferrando.
1) Dal punto di vista teorico la questione investe
problemi immediati, perché le classi dominanti oppongono la violenza dei loro
apparati alla crescita dei movimenti mentre il dogma "nonviolento"
prescrive la rinuncia persino a ogni forma di autotutela dalle aggressioni
poliziesche nelle manifestazioni; e investe problemi strategici, perché nessuno
ha finora indicato un modo diverso dalla violenza rivoluzionaria delle masse
per affrontare la resistenza che storicamente la borghesia contrappone a ogni
processo rivoluzionario, resistenza che si concretizza nel ricorso alle
"bande armate a difesa del Capitale" (l'espressione è di Engels ma
pare coniata per i carabinieri in azione tanto a Genova come a Nassyria).
Leggiamo della presunta necessità di "superare il
Novecento" e certe "sue" categorie. In realtà è da tre secoli
che nel movimento operaio si confrontano due tesi il cui nucleo non è la
legittimità o meno dell'uso della violenza, bensì la volontà o meno di
perseguire il progetto comunista: il tema della violenza è secondario (nel
senso di conseguente) a ciò.
Il vecchio Marx (in una lettera a Bolte del novembre
1871) definiva il progetto comunista come il movimento politico della classe
operaia "che ha, naturalmente, come fine ultimo la conquista del potere
politico per la classe operaia stessa". Ed è a partire da questo obiettivo
che tanto l'"ottocentesco" Marx quanto il "novecentesco"
Lenin si ponevano il problema della forza. Marx sosteneva che l'"altro
mondo" che i comunisti vogliono costruire non potrà basarsi sui rapporti
di produzione capitalistici e quindi sulle forme istituzionali sorte per
tutelare un sistema economico basato sulla divisione in classi della società.
Di qui la necessità di "spezzare" (e non "riformare") la
macchina statale borghese per sostituirla con altre istituzioni corrispondenti
al nuovo dominio di classe (la Comune). E di qui la necessità -già indicata nel
Manifesto del '48- di affrontare l'inevitabile resistenza delle classi
dominanti, preparando le masse a questa prospettiva confessando
"apertamente che gli intenti [dei comunisti] non possono essere raggiunti
se non per via della violenta sovversione del tradizionale ordinamento
sociale". Un obiettivo che può essere perseguito solo costruendo
l'opposizione di classe a qualsiasi governo borghese (fosse pure "di
sinistra"): non per un moralistico rifiuto del potere, ma perché la
sconfitta di ogni eventuale illusione dei lavoratori in governi
"progressisti" è il presupposto della realizzazione di un governo
"della classe operaia per la classe operaia".
Chi pretende di "superare" questa
"concezione classica" deve quindi dirci non tanto dove butterebbe
Marx (cosa che ad altri può importare poco) ma piuttosto spiegarci se ritiene
che il comunismo corrisponda ancora all'"esproprio degli
espropriatori" e come pensa di convincere gli Agnelli, i Berlusconi e i
Tronchetti Provera a concedere pacificamente che le loro aziende passino nelle
mani dei lavoratori.
Riconosco al compagno Bertinotti di aver colto la
centralità di questo problema quando (Liberazione, 30/11/03) dice di vedere una
"assenza in questo movimento del problema della conquista del
potere", una "modalità di comportamento di tanta parte del 900"
che sarebbe stata -a suo avviso positivamente- "estirpata alla
radice". Resta però da capire che senso abbia una "rifondazione
comunista" che non si ponga più l'obiettivo del potere dei lavoratori.
Cosa resterebbe se non la conquista di qualche ministero in un esecutivo
liberale?
Rosa Luxemburg (celebrata in modo imbarazzante a
Berlino anche da ex ministri e aspiranti ministri in governi liberali) ammoniva
chi rifiutava "il colpo di maglio della rivoluzione":
"(...) è a priori indispensabile l'aperto
riconoscimento della necessità dell'uso della forza, sia in singoli episodi
della lotta di classe, come per la conquista finale del potere statale; è la
forza che può prestare, anche alla nostra attività pacifista, legale, la sua
particolare energia ed efficacia. Se aprioristicamente e una volta per tutte la
socialdemocrazia volesse effettivamente rinunziare, come le suggeriscono gli
opportunisti, all'uso della forza, e le masse lavoratrici giurassero sulla
legalità borghese, prima o poi tutta la loro lotta parlamentare e, in genere,
politica, crollerebbe miseramente, per dar via libera allo strapotere della
violenza reazionaria.
("E per la terza volta l'esperimento belga",
1902).
2) Solo un ingenuo potrebbe pensare che sia casuale
l'enfasi con cui si sono aperte queste discussioni "teoriche" in
questo preciso momento. Perché si sente l'urgenza improvvisa di dibattere della
religione (per concludere che "non è più l'oppio dei popoli")?;
perché si sottoscrive con i dirigenti dell'Ulivo -e in rottura con la
maggioranza degli attivisti filopalestinesi- un manifesto a sostegno degli
accordi di Ginevra?; perché a fronte della vicenda Parmalat -che richiederebbe
il rilancio del tema della nazionalizzazione e del controllo dei lavoratori- si
invoca una innocua "commissione d'inchiesta sul capitalismo italiano"
(prontamente elogiata dalla Margherita) da costituire in un parlamento
ovviamente composto quasi per intero da impiegati e amici fidati del
capitalismo italiano? E soprattutto: perché la stampa borghese presta tanta
attenzione al nostro dibattito teorico? Non è forse evidente che gli
opinionisti della borghesia esaminano il partito per verificarne il grado di
"affidabilità" in vista di un ingresso di ministri del Prc in un
futuro Prodi bis? E certe prese di posizione della segreteria (apprezzate da
Repubblica come "la Bad Godesberg del Prc") non corrispondono, nei
fatti, al superamento di una prova d'esame?
Per questo, pur ritenendo fondamentale la riflessione
sulla teoria, mi pare che non sia possibile (a differenza di quanto fanno, pur
con osservazioni in sé condivisibili, Cannavò e Bernocchi) affrontarla
separatamente dalla prospettiva che il gruppo dirigente di maggioranza nel suo
insieme ha intrapreso. La prospettiva è quella della rinuncia all'opposizione
di classe per dare vita a un governo con i liberali dell'Ulivo, nei fatti -al
di là delle migliori intenzioni- un'alternanza sulla base del Manifesto di
Prodi (flessibilità, privatizzazioni, smantellamento della previdenza pubblica,
riarmo) e delle dichiarazioni programmatiche anti-operaie che Rutelli ha
rilasciato anche ieri. Una prospettiva che con tanti altri compagni contrasterò
perché metterebbe a rischio la sopravvivenza del Prc come partito di classe.
Francesco Ricci
da www.indymedia.it
23-1-'04
disobbedienti romani
Lo vogliamo dire subito: per noi la disobbedienza è,
in questo frangente
storico, l´invenzione politica più matura prodotta da
una umanità spiazzata. Per
sottrarsi al regime pervasivo dell´impero e alle sue
regole, sono milioni gli
uomini e le donne che trovano in essa, nell'essere
"fuori posto", nell´essere
altrove, motivo d´esistenza e di sopravvivenza prima
ancora che un´opzione
politica cosciente. Lo spiazzamento è probabilmente
l'esperienza fondamentale
della contemporaneità tanto da poterci azzardare a
sostenere che assume i
caratteri di un orizzonte costitutivo.
In questa discussione tra violenza e non violenza
ancora una volta
avremmo voluto agire "fuori posto" ma siamo
stati "messi dentro a forza", nostro
malgrado. E´ il Ministro Pisanu che ci invita a
partecipare a un dibattito che
altrimenti non sarebbe né centrale né attuale, con la
sua specifica posizione di
chi pretende di restringere l´agibilità politica a
tutti quelli che nel
movimento non assumono la non violenza come loro credo
politico. E tra questi
ahimè ci siamo anche noi.
Perché non è attuale né centrale questa discussione?
Perché non viviamo
un´epoca nella quale i movimenti hanno scelto di
praticare l´uso della forza
come forma prevalente del loro agire politico, anzi.
Le stesse argomentazioni
per esempio di Bertinotti, che riconosce il carattere
prevalentemente non
aggressivo dei nuovi movimenti, ci servono proprio per
capire che la discussione
non ha molto senso. Se vogliamo veramente uscire dai
canoni del Novecento è su
altro che dobbiamo interrogarci, per esempio sulle
forme della politica che
vengono rimesse potentemente in discussione sia dalla
scelta strategica di non
lottare per il potere bensì dentro una nuova dinamica
di "agire comunitario",
sia dalle trasformazioni del modo di produzione che
impongono una
riorganizzazione reticolare delle resistenze, più
legate al territorio e assai
meno verticalizzate come era tipico dei vecchi partiti
comunisti. Né, peraltro,
viviamo in una di quelle zone del mondo dove i
conflitti sono più acuti e le
scelte che assumono i movimenti molto più drammatiche.
Lo diciamo come
provocazione: interrogarsi sull´uso della violenza in
Palestina certo avrebbe
molto più senso vista la strategia di sterminio messa
in atto da Israele e le
difficoltà del movimento di resistenza e non a caso
diversi movimenti sono già
stati in quelle terre a praticare azioni
coraggiosissime di disobbedienza
davanti ai tank di Israele. Ma qui da noi qual è il
senso di questa
discussione?
Per una sorta di riflesso condizionato anche tra i
disobbedienti potrebbe
scattare però un atteggiamento difensivo che finirebbe
per cucirci addosso
esattamente il vestito che altri vorrebbero che noi
indossassimo. A chi osanna
la non violenza come paradigma teorico del nuovo
millennio noi ci affanniamo a
contrapporre tutti quei conflitti che in giro per il
pianeta sconfessano questa
tesi, diventando i paladini di tutti i movimenti
armati pur di poter dimostrare
che la non violenza resta una concezione astratta
tipica di chi pretende di
mettere le braghe al mondo. Ma così facendo noi ci
limitiamo a respingere la
pretesa di concepire una sorta di decalogo
prescrittivi per le lotte, in nome del diritto dei
popoli e dei movimenti a ricercare e sperimentare il
cammino della loro e nostra
liberazione.
Tutto ciò non basta né è in grado di rimandare con
precisione, e di
valorizzare, l´immagine della tanta strada che abbiamo
fatto in questi anni.
Certo dà fastidio questa nuova filosofia da
"movimento delle buone maniere", che
prescrive, limita e detta le condizioni, magari per
rispondere ad esigenze di
relazione politica che sanno molto di secolo scorso,
soprattutto quando questo
avviene nel pieno di un´operazione giudiziaria che
prepara il terreno per il
processo di Genova dei primi di marzo. Ma questo non
deve impedirci di
affrontare con serenità i nodi della discussione,
sfuggendo alla caricatura di
noi stessi con cui i media ci vanno dipingendo.
E il primo nodo è la costatazione di
come la disobbedienza, non come logo politico ma come
pratica diffusa,
abbia acquistato in questi anni una inaspettata
cittadinanza globale. Se
c´è una forma nuova e includente di agire il conflitto
senza riprodurre lo
stereotipo della "guerra alla guerra" e
senza ricadere nel vecchio errore di
separare il rapporto tra mezzi e fini è proprio la
disobbedienza sociale. E per
trovare le conferme a questa
considerazione non abbiamo certo bisogno di rifugiarci
all´estero, basterà dare
un´occhiata a quello che è successo in Basilicata, o
alla vertenza degli
autoferrotranviari, o a quella degli aeroportuali, o
più in generale al crescere
di un´effervescenza sociale che trova nella
disobbedienza alle leggi ingiuste la
sua più immediata e quasi naturale forma di
espressione. Disobbedienza quindi
come rottura delle regole, scelta consapevole di chi
vuole affermare un diritto
e per farlo è portato a infrangere una legalità
opprimente. Disobbedienza non
come nuovo modello o codice di condotta ma piuttosto
come orizzonte comune che
tiene insieme contesti diversi e che si adatta alle
diverse circostanze
storiche, politiche e culturali. E che prevede
l´adozione di una quantità
infinita di modalità d´azione come è infinita la
fantasia dei movimenti. E´
all´interno di questo universo di forme e di pratiche
che trova pieno diritto di
cittadinanza anche l´agire non violento, che è infatti
una delle tante forme
dell´azione praticata dai movimenti in tutto il
pianeta e che noi viviamo come
un terreno di sperimentazione di nuove pratiche di
lotta. Come non rilevare che qui in Italia uno
dei pochi soggetti che ha praticato azioni non
violente siamo stati noi
disobbedienti? Viviamo il paradosso che altri
vorrebbero imporci una modalità
che noi per primi abbiamo saputo utilizzare, evitando
di farla diventare una
camicia di forza buona per tutte le stagioni, mentre i
"non violenti doc" ancora
stentano a tradurre in azione le loro prescrizioni. In
questo Bertinotti ha
veramente ragione quando sul manifesto del 21 gennaio
riconosce alla pratica una
precedenza sulla teoria.
La forma moderna e matura di un
movimento è quella di chi non possiede icone né
mitologie e che sceglie le forme
più adatte di lotta in base al contesto nel quale si
trova ad operare ma anche e
soprattutto in base al tipo di società che vuole
costruire, elaborando un´idea
di politica segnata da una qualche discontinuità con
il "paradigma
dell´assolutizzazione della forza in forma di
potenza" così come avveniva un
tempo. Ed è proprio questo secondo punto, il rapporto
tra i mezzi attuali e i
fini strategici, l´argomentazione più efficace dei
"non violenti" ed il terreno
su cui va raccolta la sfida per riconoscere che la
disobbedienza da sola non
basta. Non basta contravvenire alle regole per costruire
un altro
mondo. Occorre affiancare alla disobbedienza l´agire
comunitario, il costruire
società su scala locale, il municipalismo solidale
come ambito d´espressione e
maturazione della sovranità collettiva senza la quale
il conflitto assume un
carattere puramente resistenziale. Dobbiamo
individuare nella comunità locale il
posto in cui sperimentare se la pratica dell´esercizio
dei diritti in forma
collettiva diventa processo costituente di nuova
democrazia, restituendo ai
cittadini la legittimità di decidere delle forme di
governo e delle relazioni
sociali.
Da qui dobbiamo ripartire anche passando
per una critica radicale delle nostre esperienze
ultime e delle modalità che le
hanno prodotte e determinate nello svolgersi degli
eventi. In più di un
occasione ci siamo preoccupati unicamente di salvare
la simbologia della
ribellione, di difendere cioè l´idea che fosse giusto
e possibile ribellarsi ad
un vertice ingiusto, piuttosto che sforzarci di
alimentare una dinamica reale. E
in questo errore siamo stati indotti da un ritorno
alla dinamica stanca e
rituale dei cortei di pura testimonianza che nulla
aggiungevano alle domande che
il movimento si va facendo da mesi. Se c´è una cosa
che ci ha aiutato in questi
anni è stata proprio l´inquietudine con la quale li
abbiamo attraversati,
un´inquietudine preesistente a quel "camminare
domandando" che ha restituito
dignità allo stato d´animo di una generazione di
ribelli metropolitani, più di
altri immuni alle lusinghe del tempo e alle rendite di
posizione.
Purtuttavia i nostri errori non si
giustificano semplicemente puntando l´indice sugli
altri: occorre anche guardare
al nostro interno. Pensiamo a Genova e al g8:
all´epoca via Tolemaide fu
accompagnata dalla memorabile esperienza del Carlini
che ebbe la forza di un
grande processo costituente di massa. Non a caso ci
sciogliemmo come tute
bianche e nascemmo come disobbedienti proprio in quei
frangenti. In quei giorni
il conflitto e l´invasione della zona rossa non erano
solo simbologia ma
producevano effetti concreti dentro una dimensione di
massa. Ma oggi che sembra
finita l´epoca dei controvertici e che è insorta una
nuova dinamica sociale,
certamente alimentata dal movimento no global ma che
si esprime con una propria
autonoma modalità, quelle stesse pratiche non hanno la
forza di una nuova
apertura ma il senso di una deprimente chiusura di un
ciclo. Se c´è una cosa in
cui abbiamo sbagliato sta nel fatto che invece di
intuire il cambiamento che era
già sopraggiunto abbiamo consumato la conclusione
della fase precedente.
L´errore sta quindi nel blocco del rinnovamento o nel
non essere riusciti in
tempo a prefigurare il nuovo passaggio.
Detto ciò, può questa discussione su
violenza e non violenza, che nasce viziata ma che non
è detto che non possa
evolvere in modo brillante, consentirci di aprire una
riflessione a tutto campo
sulle pratiche del movimento? Sarebbe per esempio
molto più cruciale che tutte
le anime del movimento dei movimenti si interrogassero
su come far pesare lo
spazio politico che abbiamo contribuito ad aprire, la
potenza costituente che
abbiamo evocato, per alimentare i conflitti sociali
che si stanno
producendo.
E se stiamo parlando di superamento del
Novecento, come fanno Revelli e Bertinotti, non stiamo
discutendo di caschi e
bastoni ma della forma della politica, di democrazia
rappresentativa e
democrazia partecipativa, ecc. Stiamo discutendo cioè,
di come la lotta alla
globalizzazione neoliberista si traduce nella
costruzione di un altro mondo. E
allora disobbedienza e agire comunitario diventano i
primi due assi di
riferimento di questa nuova pratica politica moderna.
Dentro la quale
diventano fondamentali le questioni della costruzione
di una nuova legalità,
quelle dell´affermazione di nuovi diritti a partire
dal contesto locale e
territoriale, e quelle della costruzione di spazio
pubblico e forme inedite di
democrazia diretta.
Il tema generale della costruzione di
nuova legalità e nuovi diritti, in questa concezione,
è direttamente collegato
alle forme che assumono la democrazia e la partecipazione,
nel senso che si
misurano concretamente con la maturazione, qui e ora,
di un processo costituente
di nuova società fin dentro i limiti di questa. Non vi
è più un prima e un dopo,
segnato da un´ora x a stabilire il momento della
trasformazione sociale: la
trasformazione sociale, la modifica di parti
sostanziali della costituzione
materiale del paese, è processo in atto che attraversa
e coinvolge una
molteplicità di attori sociali e politici impegnati
sul versante
dell´ampliamento della sfera dei diritti
dei soggetti collettivi.
Ed è su questo terreno che vorremmo
proporre un terzo asse di riferimento. Nell´epoca
della globalizzazione
il rapporto tra la politica e i movimenti si misura
sul grado di
decostruzione-ricostruzione dei nessi comunitari che
si è in grado di
determinare. L´una e gli altri sono soggetti
attraversati dal processo di
maturazione di nuove forme di società e su questo
determinano il loro
posizionamento, il loro esprimere una tendenza
progressiva o regressiva in
relazione allo stare o meno al passo con le richieste
del tempo. L´Europa, il
conflitto d´interesse, il rapporto di lavoro, i
diritti di cittadinanza ...sono
tutti temi sui quali politica e movimenti si
confrontano alimentando una
discussione e una pratica che allude all´ampliamento
della sfera dei diritti
collettivi mentre questa non fa che restringersi.
Questo confronto cioè avviene
al netto della possibilità d´allargamento reale ed
effettivo della
partecipazione dei cittadini al governo della
repubblica.
Chi dice di aver imparato che nel
rapporto tra mezzi e fini si nasconde la pesante
pervasività culturale dei
primi, foriera di gravi e pericolose ripercussioni
sociali, dovrebbe anche
spiegarci perché questa riflessione si ferma alle
soglie del conflitto sociale e
non pervade la politica e l´uso della giustizia.
Dovrebbe spiegare la differenza
tra la percezione sociale della violenza subita con
l´imposizione di regole e
stili di vita ingiusti e la cinica indifferenza della
politica: che rapporto c´è
tra i morti sul lavoro, i campi di concentramento per
immigrati, la condizione
di povertà in cui sempre più persone vengono sospinte
e la tranquilla
quotidianità di tanti "rappresentanti del
popolo"? Quelli tra loro più
conseguenti dovrebbero spiegare, prima di tutto a se
stessi, per quale motivo un
ragionamento a metà, dovrebbe rappresentare una
prospettiva intera: dove sta il
punto d´incontro tra una società imbavagliata e una
politica incapace di essere
moderna?
Ad un movimento e ad una pratica sociale
disobbediente deve corrispondere una conseguente
politica capace di forti atti
disobbedienti, in grado di trasmettere la
discontinuità di ragionamento che lega
tra loro espressioni diverse di una ricerca comune.
Senza questa contaminazione
culturale e politica nessun confronto ha senso, almeno
non un confronto che si
intende fecondo.
Un piccolo esempio che vale per tutti.
Quando tutto si chiude qualcuno deve
aprire: l´utilizzo "creativo" della
giustizia nei confronti delle forme assunte
dal conflitto, deve trovare una risposta all´altezza
del processo costituente di
nuova democrazia messo in moto dai movimenti. La lotta
alla repressione e la
solidarietà non bastano più, la prima è stata spuntata
dall´uso massiccio del
Codice Penale in funzione normalizzatrice, la seconda
serve a poco se non si
traduce in atti e fatti concreti che diano legittimità
sociale alla ribellione
attraverso l´inclusione del conflitto nelle forme
previste e necessarie della
partecipazione.
Si tratta di aprire un confronto e una
pratica sociale a tutto campo, sia a livello sindacale
che politico, intorno
alla dicotomia "partecipazione sociale -
normalizzazione" che restituisca ai
cittadini la piena sovranità in quanto soggetti
portatori di diritti e ai
movimenti la dignità di portatori di una nuova idea di
civiltà.
Un primo atto può essere l´avvio di una
battaglia nazionale per la depenalizzazione dei reati
connessi alle lotte
sociali, come ponte culturale verso una radicale
riforma del Codice Penale in
funzione dell´affermazione dei diritti collettivi. Ma come
farla? Con quali
forme di lotta e con quali alleati?
A voi la parola....
Nada para
nosotr@s, todo para tod@s!
Le/I disobbedienti romani
da il manifesto 25.01.2004
di Alberto Burgio
La grande differenza tra aggressione e difesa
La storia del Novecento insegna che le guerre civili
mondiali non le ha volute il movimento operaio.
Si tratta di un punto importante dal quale deve
partire ogni dibattito che interroga la sinistra sull'uso della violenza
Questa discussione sulla violenza e la politica mi sembra
intrecci due questioni che forse conviene tenere distinte. Si parla di storia
(della storia dei comunisti e del movimento operaio) e ci si interroga su quale sia oggi la pratica politica più
appropriata al conflitto anticapitalistico. Mi rendo conto che analisi del
presente e idea del passato si influenzino a vicenda. Ma non è detto che il
discorso si giovi della loro indistinzione.
La storia. Mario Tronti ha posto una premessa che pare
anche a me fondamentale: "L'età delle guerre civili mondiali, con dentro
il fascismo e il nazismo, non l'ha voluta il movimento operaio: è storia
moderna, capitalistica, del Novecento, con cui, in qualche modo, i conti
bisognava farli". O si parte da qui, o è inevitabile approdare a
conclusioni paradossali, nelle quali i ruoli si rovesciano e le responsabilità
si confondono. Questo significa non vedere la violenza che ha segnato le
risposte alla violenza del dominante? Niente affatto. E non significa nemmeno
rifiutarsi di discuterne, di interrogarsi sugli eccessi e persino sui crimini.
Significa non perdere di vista l'enorme differenza tra aggressione e difesa,
che non coinvolge esclusivamente il piano morale o giuridico, ma illumina anche
la ricerca storica sulla cultura e l'antropologia del movimento operaio, non da
oggi sul banco degli imputati. Io sono convinto che la violenza - l'uso delle
armi, l'esperienza della guerra, l'esercizio della coercizione - sia estranea
alla concezione del mondo dei comunisti e di quanti avversano il capitalismo
per la sua carica distruttiva e per la sua costitutiva iniquità. A Venezia, nel
convegno sulle foibe che è all'origine di questo dibattito, Bertinotti ha
ricordato l'orrore provato da Luigi Pintor nel prendere le armi contro i
fascisti.
Appunto. Penso che Pintor incarnasse in quel momento
l'ethos più autentico della lotta partigiana. Certo, il famigerato Novecento
suole essere prodotto a confutazione di questo convincimento. Ma si commettono,
così argomentando,errori che non diventano ragioni per il solo fatto di essere
molto à la page anche presso gran parte della sinistra "critica".
Il gulag e le purghe - per chiamare subito in causa
gli scheletri più ingombranti - non furono il frutto naturale dell'Ottobre (che
con poco senso delle proporzioni si provvede oggi a dichiarare morto e
sepolto), né della pianificazione e della modernizzazione a tappe forzate.
Derivarono dal trionfo dell'arbitrio e dalla paranoia del potere dispotico. Che
a loro volta non intrattengono alcun rapporto privilegiato con la
socializzazione dei grandi mezzi di produzione. Che discendono dalla fragilità
o inconsistenza dell'elemento statuale (travolto appunto dall'urto dei poteri
di fatto) piuttosto che dalla sua presunta ipertrofia (come in tempi di
egemonia liberista si ribadisce). Riguardo a tutta questa questione dello
stalinismo è giunto il momento - mi sembra - di abbandonare un impacciato
silenzio. Non è vero che si tentenni nella critica, non è vero che si indulga a
giustificazionismi. È vero piuttosto che spesso e volentieri ci si serve di
questa gigantesca questione come di una clava per scopi politici immediati di
tutt'altro genere. In obbedienza - verrebbe da dire - alla più classica
tradizione stalinista.
Quale conflitto?
Marco Revelli insiste sulla contrapposizione guerresca
che ha marcato la cultura politica novecentesca. Non mancano certo documenti di
tale impostazione. Se Schmitt legge la politica sullo sfondo della polarità
bellica, Gramsci concepisce la lotta contro il fascismo ("guerra di
posizione nella sua fase decisiva") come un "assedio reciproco"
di potenze simmetriche. E non si tratta del solo Novecento. Marx parla della
violenza come levatrice della storia, convinto che nessuna classe dominante
assista inerme alla fine dei propri privilegi. Ma il punto non è ideologico,
concerne la realtà e la struttura materiale del conflitto. Prima di mettere
sotto processo le idee, chiediamoci se esse riflettevano i fatti, se ne
coglievano o meno aspetti cruciali. Insomma: la guerra c'era, ha dissanguato
l'Europa sino alla metà del Novecento (e vi ha riaperto ferite sul finire del
secolo: ma su questo tornerò): quali idee del conflitto, dell'avversario, della
prassi politica avrebbero potuto o dovuto coltivare i comunisti e quant'altri
cercavano di fermare la carneficina e di sradicare il sistema di potere che
l'aveva causata?
E non si tratta solo di guerra in senso stretto. Forse
ce ne siamo dimenticati, ma la guerra civile, le stragi, le esecuzioni sommarie
di insubordinati e avversari sono state un ingrediente normale nel governo
delle società sino in epoche recenti. La Comune viene soppressa in un bagno di
sangue nel 1871. Bava Beccaris non appare ai suoi contemporanei un folle
assassino. I fascismi ci accompagnano sino alla fine della guerra mondiale e in
alcuni casi le sopravvivono ancora per decenni. È una conquista recente l'aver
costretto il capitalismo a limitarsi - di norma e nei paesi
"avanzati" - alla violenza fredda del mercato, rinunciando a quella
calda delle armi. Una conquista preziosa, che ci consente di dire senza incertezze
che la lotta politica non violenta è l'unica forma di conflitto praticabile,
qui e ora. Ma ieri? Stiamo attenti a non perdere di vista le profonde
differenze tra le diverse epoche, tanto più che non possiamo nemmeno escludere
che vengano tempi più cupi: cosa faremmo, mi chiedo, se - per dir così - via
Tasso tornasse quella che già fu?
Ma soprattutto su un punto bisogna essere netti.
Revelli sottolinea la forza d'urto della cultura della guerra, capace - scrive
- di determinare la "metamorfosi antropologica" di chiunque impieghi
la violenza. Questo non mi pare sostenibile. I comunisti italiani, i
partigiani, quanti combatterono armi in pugno i fascisti non sono restati per
questo prigionieri di quell'esperienza. La storia del secondo Novecento in
questo paese dimostra precisamente il contrario. Negli scorsi decenni la lotta
armata è stata una tragedia che ha coinvolto, a sinistra, minoranze di più
giovani generazioni. La cultura della guerra ha conservato robuste radici solo
a destra, seminando terrore e bombe e stragi rimaste, non per caso, in gran
parte impunite.
Detto della storia, si pone il problema della violenza
politica oggi. Problema che, per essere utilmente discusso, richiede un
preliminare chiarimento. Quali oneri ha il discorso politico? Di che cosa
tratta? Io credo che non sia sufficiente indicare aspirazioni e valori, penso
si abbia l'obbligo di dire anche come si ritenga concretamente realizzabile un
progetto. Non bastano i principi, si è anche responsabili dei risultati delle
proprie scelte. Altrimenti si abbandona il terreno della politica, per
insediarsi - forse non consapevolmente - nel campo dell'utopia. O della
religione.
Quando parliamo di un altro mondo possibile, la
parola-chiave è possibile. Una lotta è politica se non coinvolge sogni, ma
reali potenzialità. Per questo, affrontando la discussione sulla violenza non
ci si può sottrarre, con nobili gesti, alle domande (retoriche) poste da Ingrao
(a mio modo di vedere, orientate in senso divergente rispetto
all'argomentazione di Bertinotti). Che cosa si fa contro la violenza
dell'aggressore? Come si incide sui poteri? Si risponde (quando si risponde):
proprio perché assoluta ("radicale"), la non-violenza è la
contromisura adeguata alla violenza assoluta della guerra globale. Cioè: contro
distruttività totale, totale non distruttività; contro guerra preventiva, pace
preventiva; contro guerra asimmetrica, strategia asimmetrica
dell'"antagonismo".
L'apoteosi della guerra
Lasciamo andare, per il momento, questa storia della
"asimmetria" (che oscura l'effettiva portata della strategia
statunitense, mirata contro le altre potenze - Cina, Unione europea - ormai
prossime a costituire competitori globali). Il punto è: quali ragioni lasciano
prevedere che simili eleganti equazioni produrranno gli effetti sperati? Quali
analisi concrete, quali piani d'azione? Si dice: il Novecento segnò l'apoteosi
della guerra. Bene: quale miglior banco di prova, allora, per misurare
l'efficacia di una strategia "antagonistica"? Si dica a quali
antecedenti si pensa, su quali esperienze ci si basa. Non pare che i nazisti si
arrestassero dinanzi alle braccia levate degli ebrei, né che la loro ferocia
abbia dilagato solo dopo che a Varsavia il ghetto insorse. Non risulta che gli
Stati uniti abbiano dovuto ritirarsi dal Vietnam perché sopraffatti dalla
non-violenza dei vietcong. Che cosa significa, in concreto, che "siamo
forti se siamo deboli", come ha detto Bertinotti a Venezia?
Cade qui a proposito il discorso sulla
"discontinuità". È invalso lo schema secondo cui "il Novecento è
finito" e si tratta ora di un'epoca nuova. Credo si tratti di una
impareggiabile sciocchezza. Certo, non tutto è identico a prima. La scomparsa
dell'Urss e la fine dell'equilibrio bipolare hanno trasformato in profondità il
quadro internazionale. Ma ne hanno modificato gli assetti, non la logica.
Nemmeno Negri, se capisco, crede più nell'esistenza dell'ordine unipolare
vagheggiato dai neo-cons. E basta leggere un po' nella profusione di piani
strategici sfornati dall'amministrazione Bush e dai think-tanks del Pentagono
per capire che il mondo in cui ci troviamo è ancora diviso in aree di influenza
contese tra grandi potenze nucleari contrapposte. Robert Kagan non sarà un fine
pensatore, come non lo sono i Fukuyama e gli Huntington. Ma vorrà pur dir
qualcosa che molte teste d'uovo a Washington scrivano a chiare lettere che la
Quarta guerra mondiale è cominciata già negli anni Novanta, nel Golfo e nei
Balcani, la Terza essendosi conclusa nel `91 con l'affondamento dell'Unione
sovietica. Gli scenari di guerra che costoro tracciano hanno dalla loro almeno
un elemento di verità: di là dagli obiettivi contingenti
("terroristi" e "Stati canaglia"), la guerra di Bush si
rivolge alle minacce mortali che incombono sull'egemonia americana: alla potenza
economica (e forse già domani politica) dell'Europa e a quella economica e
politica (e forse già oggi militare) cinese. Se questo è, non sarebbe saggio
smetterla con le mitologie post-novecentesche?
E non sarebbe anche il caso, visto che discorriamo di
violenza e non-violenza, di gettare uno sguardo al di là di quanto accade in
quest'angolo di mondo e nelle nostre "tiepide case"? Che cosa
intenderebbero dei nostri travagli i palestinesi alle prese con la tortura, la
sete, la sopraffazione coloniale? E i colombiani in lotta contro un governo
militare alleato al narcotraffico? E Cuba, alla quale ogni giorno gli Stati
Uniti rammentano che la sua indipendenza suona intollerabile offesa alle
orecchie del sovrano? E i resistenti iracheni? Già, i resistenti iracheni. Su
questo bisognerebbe discutere tra noi, piuttosto che accontentarci di
improvvide semplificazioni. Si parla con insistenza di una "spirale
guerra-terrorismo": ma chi muove guerra e chi è terrorista? E che fine fa,
con questo schema, la lotta degli iracheni contro l'occupazione? Ha osservato
Raniero La Valle, intervenendo in questa discussione, che "ricomprendere
tutte le possibili resistenze nell'unica categoria del terrorismo [...] vuol
dire non riconoscere più alcuna causa". Non resta che aggiungere una glossa
marginale: davvero non vorremmo che anche alla sinistra "critica"
càpiti di assumere giudizi o punti di vista propri di chi minaccia di mettere
il pianeta a ferro e a fuoco.
Alberto Burgio
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da Liberazione 25-1-'04
Riconoscere gli errori di ieri per non sbagliare oggi
Ramon Mantovani (senatore di Rifondazione Comunista)
Nel corso del dibattito sulla nonviolenza diversi
compagni hanno tirato in
ballo l'esperienza zapatista per sostenere tesi
diverse, e contrapposte fra
loro. Intanto è necessario ricordare che
l'insurrezione armata zapatista
del 1 gennaio 74 (accompagnata da una vera e propria
dichiarazione di
guerra) fu alquanto sanguinosa. Il negoziato politico
fu permesso da una
tregua (tuttora formalmente in corso) e non da una
dichiarazione di pace
con conseguente disarmo dell'EZLN (che è tuttora
armato). Come si possa
scrivere nel documento che convoca il prossimo
convegno di Venezia sulla
nonviolenza che "con lo zapatismo si concretizza
una dislocazione
dell'opzione nonviolenta su un terreno generale e
politico" non so proprio.
In realtà i guerriglieri dell'EZLN si sono
caratterizzati per una spietata
critica dell'organizzazione militare, per il rifiuto
della mistica
rivoluzionaria (tanto cara ai cubani).
Da qui viene un loro fondamentale contributo a
cancellare l'idea
(rivelatasi perniciosa con l'esperienza storica) che
la lotta armata fosse
la forma più alta e radicale di rivoluzione. Essi,
come altri che non hanno
avuto tanto acume critico sulla natura
dell'organizzazione militare e le
cui proposte di negoziato politico sono state travolte
dalla guerra e dalla
repressione (Colombia e Kurdistan per fare solo due
esempi), preferiscono
un processo di pace alla guerra, ma sono costretti a
contemplare la guerra
come una inevitabile eventuale necessità.
Dico queste cose, essendo io stesso meravigliato di
dover fare queste
precisazioni che dovrebbero essere scontate, perché mi
pare che il
dibattito sulla nonviolenza abbia in molti casi preso
una piega
"ideologica" che non mi piace, per il
semplice motivo che rischia di
promuovere un'adesione, o un rifiuto, acritici a
"valori" e "principi"
astratti più che una necessaria critica dura e
spietata dell'idea della
violenza e del potere che il movimento operaio,
fattosi stato o meno, hanno
avuto storicamente.
Al contrario di Curzi e Gagliardi, che nel loro
articolo del 18 gennaio
dicono "c'è stata un'epoca della nostra storia
nella quale la violenza
delle armi ci è apparsa non solo una risposta
necessaria alla violenza del
potere, ma anche la risposta più radicale, più in se
rivoluzionaria, più
efficace. Non si tratta certo oggi di proiettare su
questo passato le idee
che abbiamo maturato nel presente." io penso che,
invece, proprio quella
concezione della violenza vada rinnegata alla luce
delle "idee maturate
oggi". E non perché è cambiata la fase e siamo
nell'epoca della guerra
permanente e della spirale che la oppone al
terrorismo. Bensì per il
semplice motivo che in tutto il nostro passato il
necessario, ed
ineludibile, uso delle armi è stato accompagnato da
quella concezione
nefasta della violenza e del potere. Un'idea mutuata
dall'avversario che ha
finito con il trasformare molte esperienze
rivoluzionarie in sistemi
oppressivi. A sentire Curzi e Gagliardi avevano
ragione allora e ragione
oggi. Troppo comodo. Insomma, penso sia assolutamente
giusto dichiararsi
nonviolenti e proporre un'idea di politica, di
democrazia e di relazioni
sociali improntate alla nonviolenza rompendo
radicalmente con il proprio
passato, con la mistica rivoluzionaria e con
l'idolatria dello stato.
Ma penso sarebbe un madornale errore di presunzione
eurocentrica e di
idealismo acritico pensare che nel mondo ogni
resistenza armata necessaria
debba essere annoverata ed ineluttabilmente
risucchiata nella spirale
guerra terrorismo. Gli zapatisti insegnano. Ma il tema
della violenza è
intimamente legato al tema del potere. Tema troppo
vasto per le mie modeste
capacità, anche se qualcosa voglio dire. Anche su
questo sono stati tirati
in ballo gli zapatisti. Giustamente, visto che hanno
solennemente
proclamato di non voler prendere il potere in nome del
popolo e con le
armi, visto che rifiutano categoricamente di voler
agire come
un'avanguardia. Chi li critica accusandoli di eludere
il tema, a mio avviso
si sbaglia di grosso. Essi hanno proposto nel
negoziato modificazioni
costituzionali e legislative che potrebbero
profondamente trasformare lo
Stato messicano, aprendo le porte ad una
democratizzazione integrale della
società e delle istituzioni e sollecitando un
rivoluzionamento delle
relazioni sociali dal basso. Per non parlare della
consapevolezza del tema
della globalizzazione e della effettiva dislocazione
dei poteri reali in
ambito sovra nazionale.
La scelta di promuovere l'autogoverno delle comunità
indigene applicando la
legge concordata col governo e tradita dal parlamento
come se fosse in
vigore, la scelta di mantenere in vita l'Esercito per
difendere questa
esperienza da eventuali repressioni violente ma
assegnandogli un ruolo
secondo rispetto agli istituti dell'autogoverno, la
scelta di dichiarare
chiusa ogni possibilità di dialogo con i partiti e con
le istituzioni
messicane, sono tentativi di riproporre la lotta nella
fase attuale e di
innescare un processo più vasto nella società
messicana, che porti ad una
rivolta e che consolidi i rapporti con tutte le altre
esperienze di lotta
contro il neoliberismo nel mondo. Penso che anche qui
l'EZLN insegni. Non
come insegna un modello. Bensì per i problemi che
affronta e per la
direzione del cammino. Considero caricature coloro che
pensano di essere
zapatisti in Italia perché capaci di imitarne il
linguaggio salvo poi
sentirsi ed agire come avanguardie ossessionate
dall'idea ultraborghese di
"visibilità" sui mass media.
Se del 4 ottobre bisogna parlare se ne parli per
questo più che per l'uso
dei caschi che in diverse altre occasioni si sono
rivelati utilissimi per
difendere le teste in azioni nonviolente. Ma, per
favore, non si metta la
sordina alla sacrosanta critica a tanti capi, capetti
e leaderini che nel
movimento, e nel nostro partito, pensano ed agiscono
in funzione della
"visibilità" propria personale o di
gruppetto o di corrente. Sono
altrettanto nocivi per l'unità del movimento e per la
sua credibilità di
certi scriteriati comportamenti in piazza. E sarebbe
bene non trovassero
premi, magari in occasione di qualche elezione
prossima ventura. Già!
Perché non basta proclamare l'erroneità della
concezione del potere che il
movimento operaio ha avuto per decenni, non basta
dirsi antistalinisti, per
mettersi al riparo dagli errori tossici che sono sotto
gli occhi di tutti
quelli che hanno occhi per vederli.
Alludo al politicismo che pervade le relazioni del PRC
e anche di molti del
movimento con il centro sinistra e allo stato interno
del nostro partito
dove correnti, trasformismi e competizioni
personalistiche hanno la meglio
sulla democrazia interna. Quanta violenza è insita,
anche se non praticata
fisicamente, nelle relazioni interne al movimento e
nel partito fra gruppi
e persone che giocano a "farsi fuori", a
"distruggersi", ad "eliminarsi"?
Quanto stalinismo c'è in chi è sempre immancabilmente
d'accordo con il
segretario del partito, e che non esita a "fare
la guerra" a chi osa avere
posizioni personali diverse e critiche mentre scende a
qualsiasi
compromesso con le correnti organizzate nella pura
logica di una piccola
spartizione di un piccolo potere?
A parte gli opportunismi, i cinismi e i trasformismi
personali, che ci
sono, è evidente che la concezione del partito e delle
relazioni interne ad
un soggetto rivoluzionario sono figlie di una storia e
di una concezione
del potere che ha fatto fallimento. I difetti di
ognuno di noi esistono ed
esisteranno, parlo di presunzioni, di personalismi, di
ambizioni e di
istinti prevaricatori. Sarebbe catastrofico
affrontarli moralisticamente, e
tuttavia bisognerebbe fare in modo che
l'organizzazione (vale per il
partito come per una qualsiasi associazione o
sindacato) non li premi e non
li renda efficaci nella conquista di posizioni
privilegiate. Io penso, non
da ora, che sarebbe necessaria una vera riforma del
partito fondata sulla
preminenza del collettivo e sulla assoluta
delimitazione e fissazione delle
responsabilità personali. Ho visto crescere questa
esperienza nei Giovani
Comunisti dai quali ho imparato moltissimo. Ho visto e
vedo nel partito un
processo inverso.
Ramon Mantovani
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Nonviolenza inadeguata contro la ferocia
imperialistica
Andrea Catone
Nel dibattito in corso in queste settimane sulle
colonne di Liberazione confluiscono elementi e istanze diverse, che conviene
distinguere e puntualizzare. Da un lato, ritorna con forza la tendenza ad
azzerare l'intera storia delle rivoluzioni comuniste del Novecento, buttar via
Stalin, Trockij, Mao, Guevara, Ho chi min, Lenin, mettendo in discussione non
solo i modi e le forme che si sono date le società postrivoluzionarie, i loro
errori, le loro involuzioni (mentre le realizzazioni sociali vengono invece
bellamente ormai ignorate), ma le radici stesse e la legittimità storica di
quelle rivoluzioni (in qualche modo sulla stessa lunghezza d'onda su cui,
qualche anno fa, era stato costruito, in modo rozzo e plateale, il "Libro
nero del comunismo"); rivoluzioni il cui esito è stato il "totalitarismo"
(è la categoria usata da Tom Benetollo nel suo intervento su Liberazione del
10.1.04). Il "peccato originale" delle rivoluzioni comuniste (guidate
da partiti comunisti con il fine di realizzare una società comunista dei
"produttori associati") viene individuato essenzialmente in due
fattori: a) la conquista del potere statale; b) il ricorso alla violenza (nella
forma dell'insurrezione armata, o della guerra di popolo di lunga durata, o di
una difesa armata di un governo popolare o progressista, come avvenne senza
successo in Spagna negli anni '30). Col conseguente invito a sbarazzarsi di
questi scheletri del passato per dar vita a un palingenetico "nuovo
inizio" (cfr. gli interventi di Revelli, Ginatempo, Russo, Liberazione del
20.1.04).
E' in particolare sul secondo punto che si concentra
il dibattito. L'invito a praticare la "non violenza" quale forma di
lotta assoluta, universale e non negoziabile, viene sostenuto sulla base di
due, spesso complementari, ma diverse, motivazioni. La prima si potrebbe
definire di tipo "storico": a differenza che in passato, si dice,
"l'impero" è oggi talmente potente, da risultare invincibile sul
piano militare, per cui il confronto con esso va posto su un altro terreno. La
seconda, invece, si potrebbe definire di carattere "metafisico" e
"radicale": il ricorso a metodi violenti di lotta, anche se animati
dalle migliori intenzioni e/o dettati dalla necessità di difendersi o resistere
a un'oppressione, "contaminano" chi li pratica e non possono dar vita
ad una nuova società: "le pur gloriose e legittime guerriglie e lotte
armate di resistenza alle invasioni (Vietnam) o alla tirannia interna
(Nicaragua, Cuba) hanno prodotto o regimi autoritari e inamovibili o
addirittura l'andata al potere di governi di destra [...] non sarà mai
possibile costruire un 'altro' mondo con i materiali sanguinolenti di
questo" (Lidia Menapace). Argomento ripreso in termini analoghi in molti
interventi. Mi sembra che entrambe le argomentazioni presentino aspetti
fortemente problematici. E' vero che quello che - a partire da Negri - diversi
chiamano oggi "l'impero" e che credo più corretto definire
l'imperialismo a base USA, spende da solo per la guerra più di tutti gli altri
paesi messi insieme e che ha oggi, sul piano militare una superiorità indiscussa,
che intende usare per piegare agli interessi del capitale a base USA i popoli
del mondo e i possibili concorrenti delle altre grandi aree capitalistiche (in
primis la UE). Ma da questo a dire che esso sia invincibile c'è un bel passo:
accettare l'invincibilità degli USA significa aver già essere subalterni
all'egemonia USA, introiettando il sogno di onnipotenza dei neocons americani,
che mirano esplicitamente ad usare l'attuale superiorità militare per
realizzare il progetto di un XXI secolo a stelle e strisce. Abbiamo avuto in
passato situazioni analoghe: cosa avrebbero dovuto fare i popoli di fronte alla
travolgente avanzata hitleriana in Europa? O i viet-cong contro una potenza che
dall'alto dei cieli spandeva napalm a piene mani? Ma, soprattutto, credo non
sia corretto separare l'analisi della guerra e della potenza militare
dall'insieme dei rapporti sociali di produzione. Potenza militare e guerra non
sono un assoluto, sono radicati in un sistema sociale, caratterizzato dalle sue
specifiche contraddizioni di classe. Il "piano militare" non è mai
stato per i comunisti, né per le forze che nel XX secolo hanno praticato
resistenze e lotte di liberazione, il piano principale. La resistenza al
nazifascismo o quella vietnamita all'aggressione USA combinavano insieme lotta
politica, lotta culturale, conquista e allargamento del consenso delle masse, e
lotta militare; non assolutizzavano l'uno o l'altro aspetto, ed è stato
principalmente grazie al radicamento politico che le resistenze hanno vinto
contro nemici che apparivano strapotenti sul piano dei mezzi militari.
L'imperialismo non è onnipotente, anche se sogna di esserlo. Attribuirgli
l'onnipotenza, pur se solo sul terreno militare, nasce anche dall'abbandono
della teoria leninista, che rifiutava la teoria kautskiana del
"superimperialismo" e coglieva le contraddizioni tra gli imperialismi
(così come non esiste un unico capitale, ma una molteplicità di capitali in
concorrenza tra loro). La teoria dell'impero - unico, pervasivo, universale -
porta in sé anche l'idea di onnipotenza imperiale. Cosa che oggi, sul piano
politico, ha conseguenze gravi, poiché si traduce nell'invito - implicito o
esplicito - a rinunciare, a non sostenere, qualsivoglia forma di resistenza
armata alle aggressioni imperialistiche attuali o future. E, detto per inciso,
si parlerebbe ancora di Iraq se non si fosse sviluppata lì una resistenza,
anche militare, all'occupazione? Quella resistenza lotta anche per i diritti
degli altri popoli minacciati dall'imperialismo, impone un freno alla marcia
trionfale del militarismo USA. Ma è il secondo argomento quello decisivo. L'ho
chiamato, tra virgolette "metafisico". Esso non parte dalla
considerazione di un mutato quadro storico, di un mutato rapporto di forze, o
meglio, ricorre all'esperienza storica delle rivoluzioni del '900 per affermare
un rapporto di filiazione diretta tra il modo in cui si è giunti al potere
politico, anche attraverso l'insurrezione armata, e l'involuzione delle società
postrivoluzionarie. Dal punto di vista della storia delle rivoluzioni del '900,
questo rapporto univoco e unilineare è tutto da dimostrare. Ma non è questo
l'aspetto principale del ragionamento, che, appunto, trascende ogni riferimento
storico, ogni "specificazione storica" (quella che Marx invitava a cogliere,
sin dalla sua critica a Proudhon in "Miseria della filosofia") per
collocarsi su un piano di generalizzazione universale e atemporale. Scrive F.
Russo: "Il potere è violento, la spada è sempre pronta a colpire chi si
oppone; ma opporsi con la spada dà vita a nuove pratiche sociali di relazioni
solidali e libere o perpetua la violenza e il potere?". Vi è in questa
posizione radicale l'idea che l'uso del medesimo mezzo ti fa diventare come
l'altro, ti contamina. E' un'idea forte, nobile e di grande effetto. Ma è
propriamente un'idea metafisica, mutuata da una cultura che non riesce a
concepire il processo storico, la transizione da una forma sociale all'altra,
attraverso la contraddizione in cui gli opposti si compenetrano, per dar vita a
un "superamento" che non è affatto il puro e semplice annichilimento
dell'opposto, sostituito da qualcosa di totalmente "Altro", ma,
propriamente, una sintesi, sicché, come scriveva Marx nei suoi appunti critici
del programma socialdemocratico di Gotha, la società di transizione che nasce
dalla società capitalista "porta ancora i segni della vecchia società dal
cui seno è uscita". Se si generalizzasse questa idea che il mezzo usato
dai dominatori è di per sé il male assoluto, bisognerebbe essere coerentemente
luddisti, distruggere le macchine prodotte in condizioni capitalistiche, invece
che usarle in modo non capitalistico (che implica la direzione da parte del
lavoratore del processo produttivo in luogo della sua attuale subordinazione al
capitale).
Viviamo e operiamo in condizioni storiche date, e come
comunisti ci adoperiamo per rovesciare lo stato di cose presente, che
critichiamo radicalmente. Ma esso è un dato, è quella che il tanto esecrato (e
mal compreso) Machiavelli chiamava "verità effettuale", e che l'ormai
buttato alle ortiche Gramsci esplicitava nei suoi Quaderni sotto la rubrica
"rapporti di forza". La lotta per la trasformazione radicale dello
stato di cose presente, per una società dei lavoratori associati, la lotta di
classe (intrapresa dai lavoratori, ché i capitalisti e gli imperialisti non
hanno mai smesso di farla) implica che essa si faccia almeno tra due
antagonisti.
E non è sempre possibile scegliersi il terreno dello
scontro. Se così fosse, i comunisti, che non hanno certo iscritto nel loro codice
genetico la violenza e la guerra (è il prefascista Marinetti che parla di
"guerra come sola igiene del mondo") avrebbero sempre scelto la
"via pacifica" - come sembrava possibile allo stesso Engels quando
osservava negli ultimi decenni dell'800 l'avanzata della socialdemocrazia
tedesca, salvo avvertire che bisognava mettere nel conto, come poi puntualmente
si è verificato nel secolo successivo, la reazione delle vecchie classi
dominanti contro il proletariato andato al governo per via parlamentare. Dunque,
i comunisti dovrebbero essere sufficientemente abili e duttili per cercare di
imporre al nemico di classe, finché è possibile, il terreno di scontro loro
favorevole (che certamente, nelle condizioni articolate e complesse delle
società civili delle democrazie liberali, non è quello militare). Ma devono
sapere che non sempre il terreno di scontro sarà quello da loro scelto. Gli
imperialismi oggi dominanti hanno dimostrato di essere disposti a tutto e a
passare su qualsiasi cadavere pur di conservare il potere economico e politico.
E questa non è una storia passata delle dittature fasciste tra le due guerre.
Il secondo dopoguerra è costellato di interventi devastanti volti a mantenere
il potere minacciato o a strapparlo violentemente quando forze popolari sono
andate al governo attraverso libere elezioni: dall'Indonesia alla Grecia, dal
Cile di Allende all'Argentina, senza dimenticare che in Italia ha operato
un'organizzazione come Gladio, pronta ad intervenire se i comunisti si fossero
avvicinati troppo al governo. Il fascismo non è un incidente della storia, un
bubbone sorto su un corpo sano, come pretendeva Croce, ma è un'alternativa che
le classi capitaliste praticano quando il loro potere viene messo in pericolo.
Non abbiamo in questo mutato epoca, e il rischio di un'abolizione strisciante o
palese degli spazi di agibilità politica è sempre presente (come negli USA dopo
l'11 settembre 2001).
Se proviamo a ricollocare il discorso sul terreno
storico-sociale presente e non su quello di un assoluto metafisico
antidialettico, dovremmo analizzare natura e ruolo dell'attuale imperialismo, e
la portata dello scontro mondiale in atto. Non ci troviamo di fronte a un
"avversario", che - come in una partita a scacchi o in un duello tra
cavalieri medievali che si battono per il loro onore, e osservano le regole del
gioco, e si rispettano reciprocamente, e rendono "l'onore delle armi allo
sconfitto" - si considera e si sente parte di una comune civiltà, in cui
riconosce l'altro non come alieno, ma proprio simile. Siamo di fronte ad un
imperialismo ferocissimo e spietato, che considera - al pari del nazismo - il
resto degli umani sottouomini, carne da macello su cui sperimentare nuove armi
di distruzione di massa e che dichiara esplicitamente di non riconoscere altre
regole del diritto internazionale che non siano quelle che gli sono favorevoli.
Le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, lanciate contro città di inermi
civili giapponesi come monito contro l'URSS, vero inizio della guerra fredda,
non sono meno crudeli e efferate, nella loro logica come negli effetti, del
campo di sterminio di Auschwitz. E' irrealistico pensare che di fronte a tale
barbarie, a tale rifiuto di "regole del gioco" la pratica non
violenta possa ottenere risultati significativi. Mentre è grande il rischio che
rafforzi - involontariamente - l'egemonia dell'imperialismo.
Andrea Catone
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dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com
25-1-'04
Marco Bersani
La splendida festa di popolo che e' stato il Forum di
Mumbay si e' concluso
da alcuni giorni e ho avuto cosi' il tempo di leggere
con piu' calma parte
del dibattito che l'articolo scritto da me, Bernocchi,
Cannavo' e Casarini
ha suscitato.
Devo dire che le reazioni prodotte tanto dall'articolo
quanto dal mio successivo
messaggio di chiarimento, mi confermano come la
discussione collettiva su
argomenti come guerra\terrorismo o violenza\non
violenza sia ancora insufficiente
dal punto di vista dell'analisi politica, perche'
viziata dalla prevalenza
di un approccio di tipo etico (necessario ma non
sufficiente) che consequenzialmente
prevede la necessita' di schieramento e di
appartenenza.
Proprio perche' credo sia da tutti comunemente
condiviso come non sia in
campo, ne' ora ne' mai, alcuna ipotesi di
militarizzazione del movimento
italiano ed europeo e che nessuno abbia in mente
l'abbandono delle pratiche
di lotta condivise da tutto il movimento sin dalle
giornate di Genova, ovvero
azioni pacifiche, nonviolente e di disobbedienza
civile, credo che dovremmo
permetterci una discussione franca e aperta,
consapevoli del fatto che ogni
volta che abbiamo affrontato un problema in questi
termini ne abbiamo ricavato
sintesi piu' avanzate e nuovi orientamenti all'azione.
Intervengo quindi un'altra volta, sia perche' ora
posso farlo con il tempo
e le energie adeguate per esprimermi in un senso piu'
compiuto, sia per
contribuire ad una discussione che dovra' essere lunga
e articolata per
divenire fertile.
Nel dibattito in corso, credo anche occorra tener
conto dei diversi temi
che nella discussione si sono inevitabilmente
intrecciati, rischiando a
volte di far cortocircuitare la riflessione : c'e' una
questione legata
a guerra e terrorismo e ai suoi riflessi sui movimenti,
c'e' una questione
legata alla rivisitazione del '900 e ai suoi riflessi
sulle strategie legate
al rapporto tra potere e democrazia, e c'e' una
riflessione che riguarda
le pratiche di lotta nelle diverse situazioni di
conflitto nel mondo (Iraq
in particolare, ma non solo).
Provo ad intervenire per punti.
GUERRA E TERRORISMO.
L'articolo a quattro mani diceva sostanzialmente come
l'assunzione della categoria analitica "Il
Terrorismo" come soggetto unico
in se' compiuto a livello mondiale, contrapposto alla
guerra permanente,
ma con questa autoalimentantesi, fosse sbagliata. Ho
gia' ribadito perche'
ritengo che cio' sia vero, ma vorrei articolarlo
ulteriormente. L'esistenza
de "Il Terrorismo" come soggetto unico
mondiale in se' compiuto e' parte
integrante dell'attuale fase della strategia di guerra
permanente teorizzata
dai neo-cons americani, con tre precise funzioni : a)
la possibilita' di
risolvere con l'aggressione militare l'accapparramento
delle materie prime
fossili residue sul pianeta e garantirsi attraverso il
controllo dell'energia
il mantenimento del dominio mondiale; b) la
possibilita' di usare questa
categoria per eliminare l'insieme delle
conflittualita' e dei movimenti
di lotta ormai presenti a livello mondiale (Mumbay ne
e' un'ulteriore positiva
conferma); la possibilita' di ridurre, attraverso la
politica della sicurezza,
i diritti individuali di ciascun abitante del pianeta.
Non dimentichiamoci, tra gli effetti, la direttiva
europea che dovra' essere
ratificata dal governo italiano e che prevede come
ascrivibili al terrorismo
praticamente tutte le forme di conflittualita' sociale
(fino ai blocchi
stradali e all'occupazione delle scuole).
Contrastare questa posizione e' possibile solo
rompendo il paradigma, invece
di assumerne una parte (l'esistenza de "Il
terrorismo" come soggetto unico,
mondiale e in se' compiuto) come elemento per
contrastare l'altra (la guerra
permanente). Perche' nel secondo caso, il rischio che
si corre e' quello
del progressivo ammutolimento del movimento di fronte
alle situazioni drammatiche
e tragiche che quotidianamente si presentano.
L'ho gia' detto, ma vale la pena ripeterlo: il
balbettio del movimento nel
mobilitarsi per chiedere l'immediato ritiro delle
truppe dall'Iraq dopo
Nassirya aveva questa portata : perche' se il Governo
Berlusconi dice che
quel tragico atto e' parte dell'azione de "Il
Terrorismo" e noi abbiamo
accettato culturalmente una parte del paradigma
(l'esistenza de "Il terrorismo"
come soggetto unico, mondiale e in se' compiuto),
diventa difficile definire Nassirya un legittimo, per
quanto tragico, atto
di resistenza all'occupante e dunque mobilitare per la
fine dell'occupazione.
Non solo. L'accettazione del paradigma comporta la
difficolta' ad intervenire
adeguatamente sull'enfatizzazione ideologica che il
Governo italiano, e
non solo, pone sul problema della sicurezza, e su come
questo andra' sempre
piu' ad intrecciarsi con le lotte sociali in corso.
Dico di piu'. Se dovesse accadere (speriamo vivamente
di no) un attentato
in Italia, io credo che il movimento si troverebbe in
grande difficolta'
a prendere la parola e la piazza per esprimersi contro
la guerra globale.
E se anche
accadesse, sarebbe poco comprensibile per i cittadini,
dopo mesi di esplicito
utilizzo del paradigma da parte del Governo e dopo
mesi di accettazione
parziale del paradigma da parte del movimento, di
fronte all'evidenza dell'accaduto
(tutti ci dicono che esiste "Il terrorismo"
come soggetto unico mondiale
in se' compiuto, e oggi ha colpito il nostro Paese).
Non esiste dunque il terrorismo ? Non esiste come
definito nel paradigma.
Esistono gruppi, apparati e servizi segreti che di
volta in volta, attraverso
atti terroristici, cercano di modificare a proprio
vantaggio una situazione.
Occorre dunque di volta in volta capire e denunciare
gli atti terroristici
e gli interessi che coprono, sia per il grado di
sofferenza che provocano
nelle popolazioni colpite, sia per le speranze di
liberta' che vanno a comprimere.
Occorre dunque abbandonare l'accettazione parziale del
paradigma e accedere
alla complessita' e anche alla tragicita' della storia
quotidiana.
Ne guadagnerebbero la riflessione politica e
l'orientamento all'azione.
E soprattutto l'agibilita' del movimento.
L'IRAQ PER ESEMPIO
Ho gia' detto di come l'accettazione parziale del
paradigma abbia comportato
il balbettio del movimento dopo i fatti di Nassirya.
Ma il paradigma, proprio
perche' assolutizzante, comporta la sua inevitabile
estensione. Quanti convegni
ha prodotto il movimento per conoscere e capire quale
sia l'attuale situazione
in Iraq? Direi nessuno. Ma nel frattempo, si diffonde,
aldila' delle intenzioni
soggettive, l'idea che in Iraq sia in atto (scusate la
semplificazione)
un grande e tragico confronto
tra la guerra e il terrorismo. Nulla di piu' e nulla
di meno.
Quali conseguenze comporta questo per il movimento? Le
stesse, ovvero il
deficit dell'analisi politica e l'immobilismo
dell'azione. Logico che, se
prevale la fisiologica estensione dell'accettazione
parziale del paradigma,
ci siano addirittura parti del movimento che arrivino
a non pensare come
necessario l'immediato ritiro delle truppe occupanti (
se l'Iraq e' lo scontro
tra guerra e terrorismo, non possiamo lasciare solo il
popolo irakeno che
ne e' la vittima).
Se abbandonassimo il paradigma, allora scopriremmo
come la realta' in Iraq
sia complessa e questo aiuterebbe la parola e l'azione
dei movimenti.
Scopriremmo che in Iraq e' in atto una occupazione
militare che per strategia
e posizione geopolitica attira interessi disparati, e
che attualmente in
campo vi sono (scusate ancora la semplificazione) :
una resistenza popolare
diffusa,
una resistenza armata, gruppi terroristici al soldo di
servizi di paesi
confinanti e di grandi potenze.
Questo allora ci permetterebbe di conoscere e
denunciare gli atti terroristici
e gli interessi che coprono contro il popolo irakeno.
E ci permetterebbe
di solidarizzare con la resistenza popolare e armata
(riconosciuta come
diritto anche dall'ONU), come possibile base per un
futuro democratico dell'Iraq.
Dovremmo senz'altro approfondire i rapporti tra la
resistenza popolare e
quella armata, perche' dalla qualita' di quei rapporti
si potrebbero trarre
considerazioni sulla qualita' del futuro processo
democratico irakeno. Ma
mi piacerebbe non dimenticassimo mai che senza l'insieme
della resistenza
irakena, oggi
quasi sicuramente tutti noi saremmo in piazza per
cercare di fermare la
guerra alla Siria e via dicendo.
E sapremmo infine dire quale solidarieta' di base e'
possibile e quale intervento
internazionale, se richiesto, e' necessario
(ovviamente, via le truppe subito
e nessuna potenza occupante nell'intervento
internazionale).
IL '900 RIVISITATO
Che il '900 debba essere criticamente rivisitato e'
fuor di dubbio. In particolare,
la concezione dell'automatismo per cui il cambiamento
rivoluzionario avviene
per la presa di coscienza di un unico soggetto motore,
la classe operaia,
che tramite il ruolo guida del partito e la
costruzione dell'esercito popolare,
prende il palazzo d'inverno ( anche stavolta scusate
l'estrema semplificazione)
credo oggi
necessiti di importanti riflessioni.
Dire tuttavia che la lotta di liberazione del Vietnam,
perche' armata, abbia
costitutivamente prodotto il successivo autoritarismo
e la burocratizzazione,
ovvero tutti gli elementi della degenarazione seguente
appare un salto teorico
difficilmente comprensibile.
Porto un solo esempio di confutazione : il Nicaragua
sandinista, nato da
una lunga lotta di guerriglia e che ha prodotto, prima
di essere sconfitto
dall'aggressione economica e militare USA, un decennio
di democrazia popolare
per molti versi anticipatoria di tante sperimentazioni
oggi proposte dai
movimenti.
Voglio dunque dire che l'automatismo iniziale e'
dunque valido tuttora?
Certo che no. Anche nel Nicaragua sandinista sono
avvenute le degenerazioni
di cui sopra, ma credo abbiano piu' a che fare con il
tipico processo novecentesco
sopra schematizzato, ed in particolare con il
cosiddetto ruolo del partito
guida, e su cosa questo comporta in termini di
rapporto tra gestione del
potere e democrazia.
Voglio quindi dire che il processo di cambiamento
passa ancora oggi attraverso
la lotta armata di popolo? La storia insegna che si
danno per ciascuna
situazione forme diverse di tentativi di
riappropriazione collettiva della
liberta', e che oggi i movimenti popolari hanno
trovato altre strade per
mettere in campo situazioni di sperimentazione
possibile. Ma ogni percorso
non va assolutizzato, perche' sono le condizioni
concrete (per esempio gli
spazi che consente l'avversario) a determinare le
condizioni in cui un processo
di liberazione possa esplicitarsi.
Credo sia necessaria una riflessione sul potere e la
democrazia che ancora
come movimenti dovremmo fare, per capire insieme cosa
significhi costruire
autogestione democratica dal basso, destrutturazione
del potere da subito
e come questo si possa confrontare con chi il potere
lo detiene e non intende
redistribuirlo costi quel che costi.
INFINE, SU VIOLENZA E NON VIOLENZA
La violenza cambia chi la utilizza, perche'
inevitabilmente comporta la
mimesi dell'avversario, che della violenza fa parte
costitutiva della propria
politica di dominio quotidiano. L'uso della violenza e
i suoi effetti sono
parte di una contraddizione che gli uomini e le donne
si portano dentro
da quando e' cominciata sul pianeta una narrazione
collettiva. E' bene che
su questa questione, il movimento abbia fatto diverse
riflessioni, fino
ad adottare collettivamente delle pratiche
riconosciute e condivise, che
si sforzano (non sempre riuscendovi) di produrre altro
dall'avversario.
Credo che il superamento dell'eterogenesi dei mezzi e
dei fini sia una delle
acquisizioni piu' importanti di questi anni. Non c' e'
separazione di mezzi
e fini che possa produrre reale cambiamento e che non
comporti una perdita
di umanita' in chi la produce. Su questo, come ho gia'
detto, l'articolo
scritto a quattro mani non era sufficientemente
chiaro.
Il problema tuttavia e' di duplice natura : cosi' come
il fine non giustifica
i mezzi, altrettanto il mezzo non puo' divenire il
fine "tout court". Il
mezzo deve far intravedere il fine, deve dunque essere
comunicabile e produrre
consenso e aggregazione, senza sovrapporsi totalmente
al punto di assolutizzarsi.
Provo con alcuni esempi a farmi capire.
Se assolutizzassimo il mezzo, cosi' come specularmente
in passato si assolutizzava
il fine, noi non potremmo neppure spiegare perche'
durante il massacro preordinato
dei giorni di Genova, migliaia di noi ad un certo
punto e per difendere
se stessi e gli altri hanno reagito alla violenza
delle forze dell'ordine.
Voglio dire che Carlo non e' "piu' nostro"
perche' in quel drammatico giorno
aveva in mano un estintore, ma non diventa altrettanto
"meno nostro" per
lo stesso motivo.
Carlo e' nostro e del mondo perche' voleva cio' che
vogliamo noi e lo voleva
senza prefigurare ideologicamente l'uso della
violenza, anche se si e' trovato
in circostanze che lo hanno costretto a tentare una
difesa personale e collettiva.
Con lui migliaia di altri, che non l'hanno voluto
prima e difatti non l'hanno
praticata dopo, successivamente e in diverse
circostanze.
Provo a fare un altro esempio. La vittoriosa lotta del
popolo boliviano
contro la privatizzazione del gas naturale ha
costruito partecipazione popolare,
mobilitazione di massa, scioperi, blocchi stradali e
solidarieta'.
Ad un certo punto della lotta, i minatori boliviani
hanno messo la dinamite
nei pozzi come forma di pressione. Quella lotta che
tutti abbiamo appoggiato
non e' "piu' nostra" perche' ad un certo
punto e' stata utilizzata questa
forma di pressione, ma non diventa "meno
nostra" per lo stesso motivo.
Se invece io assolutizzo il mezzo, dovrei interrompere
l'appoggio e la solidarieta'.
Credo che il fine debba essere sempre l'apertura di
spazi di liberta' e
di partecipazione democratica alle mobilitazioni e che
i mezzi siano quelli
che in ogni situazione data prefigurano quel fine,
ossia siano comunicabili
e producano consenso e aggregazione.
Senza assolutizzazioni, ma con la grande attenzione
che la drammaticita'
di ogni situazione richiede e che la speranza di
costruire donne e uomini
nuovi necessita.
Grazie per l'attenzione.
Marco Bersani
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Dall'intervista a Liberazione di Fausto Bertinotti del
27-1-'04
Di Rina Gagliardi
A proposito del nostro partito, questa è però
soprattutto una fase di discussione impegnata e impegnativa. Come si può vedere
dal nostro giornale, al centro di questa discussione c'è il tema della
nonviolenza, in gran parte prodotto dal tuo intervento di Venezia, poi
rilanciato da Ingrao. Che te ne sembra?
Su Liberazione si va svolgendo un dibattito intenso,
ed acceso, che non ha l'eguale nel resto della stampa italiana e che ha per
oggetto una delle grandi questioni del nostro tempo. Non accadeva da un pezzo,
e non accadeva che riuscissimo ad avere anche interlocuzioni importanti come
quelle che abbiamo avuto - cito l'intervista di Pietro Ingrao non solo per
l'autorevolezza della sua figura e del suo contributo, ma per dire che oggi
abbiamo potenzialità di dialogo e di confronto con l'esterno incomparabilmente
superiori al passato.
TTutto questo ci dice, per quanto riguarda il Partito,
che convivono sia un grande bisogno sia una diffusa paura: bisogno di
ridefinire un'identità collettiva e di ridiscuterla a livello generale, paura,
per così dire, di "separarsi da ciò che si ha". Una situazione che -
lo dico ovviamente senza trionfalismi di sorta - manifesta una vitalità reale,
importante. In nessun caso avrebbe senso rispondere a questa interrogazione collettiva
con l'autocensura, il silenzio, la stasi, o una forma qualsiasi di rassicurante
paternalismo.
Molte sono le critiche - o le resistenze - alla
proposta che tu hai avanzato.
Ma in questa circostanza non solo e non tanto,
naturalmente, queste critiche o queste opposizioni mi paiono legittime: vado
oltre e dico che credo di capirle profondamente. Tra i meriti di Rifondazione
comunista, nel corso di tutta la sua vita, c'è sempre stato, del resto, quello
di salvaguardare un nucleo di risorse politiche, un patrimonio, senza il quale
non c'è futuro per chi pensa che la politica - quella con la P maiuscola - sia
la trasformazione del capitalismo. Capisco bene dunque che ci siano molti
compagni che si preoccupano di perdere qualcosa di sostanziale, o di prezioso...
E tuttavia?
E tuttavia la proposta strategica della nonviolenza,
come parte integrante della nostra identità comunista e rivoluzionaria e del
processo di riforndazione, mi pare necessaria. Essa, del resto, non è la
ripresa di un'idea antica. E' mossa prima di tutto dai grandi mutamenti che
sono intervenuti in questo ultimo decennio, sia sul terreno delle soggettività
organizzate, sia su quello delle organizzazioni politiche e statuali. Ciò che
abbiamo chiamato "nuovo capitalismo" - con i suoi portati della
guerra preventiva e infinita, l'effetto di trascinamento sul terrorismo, la
minaccia di una vera e propria crisi di civiltà, la crisi stessa, sempre più
profonda, della politica - ci propone, insomma, un terreno ineludibile. non
solo fare i conti con la nostra grande e terribile storia, ma restituire al
comunismo la capacità di essere una prospettiva che attraversa i movimenti e le
nuove generazioni. Il comunismo, cioè, non solo come eredità del passato, ma
come opzione strategica del futuro. La nonviolenza è una delle componenti
necessarie di questa innovazione. Non è un'invenzione, lo ribadisco. Ci viene
dai movimenti - dalle giornate di Genova. E' una proposta che si è riaccesa e
riattualizzata per riprendere il filo di quella radicalità che caratterizza il
Dna del movimento.
Molti compagni temono che questa scelta non possa che
proiettarsi in una specie di autentico "pentitismo" sul passato.
Citano la resistenza partigiana, o la lotta dei palestinesi, per interrogarsi -
e interrogarti - sull'espansione nel tempo e nello spazio di una pratica
nonviolenta che appare loro, spesso non praticabile. Intanto, vorrei far
chiarezza su un punto importante: l'approdo alla nonviolenza che propongo non è
di tipo etico. Quindi, a differenza degli assunti morali, non propone un
modello di comportamento valido in ogni luogo e in ogni tempo. Io, si badi
bene, rispetto la sfera morale, ma so che riguarda le persone, i comportamenti
dei singoli, non i partiti. Noi, che siamo un partito politico, proponiamo una
dimensione politica: che, quasi per definizione, è qui e ora , hic et nunc .
Una discontinuità che, anch'essa, non può essere imposta autoritativamente o
dall'alto, dalla mozione di un comitato centrale: essa implica un processo di
conquista culturale, di ricerca collettiva, di partecipazione comune. Essa è il
disvelamento della natura del potere capitalistico del nostro tempo, più
violento, o quasi, di ogni sua costruzione storica conosciuta. Essa allude al
comunismo come processo di liberazione - il processo storico possibile e
necessario. Una scelta politica, allora, per sua natura, non può essere
retrodatata. Parliamo di qui ed ora, dicevo. Non ha senso interrogare i nostri
padri e i nostri nonni che hanno fatto la resistenza armata. Non ha senso
riscrivere la storia.
Non c'è qui il pericolo di voler avere sempre ragione,
ieri quando eravamo affascinati dalla violenza come "levatrice della
storia", oggi che ci decliniamo per una scelta nonviolenta?
La storia non la si riscrive: la si riattraversa,
però, la si interroga criticamente, la si vaglia anche alla luce delle scelte
di oggi. Non per cancellarla, ma per trovare in essa altre possibilità. altre
angolazioni, altri esiti possibili. Per non commettere più gli stessi errori,
quelli di ieri. Altrimenti, si piomba nell'idea (conservatrice) "che tutto
ciò che è razionale è reale" - o si dice quel che diceva Croce, cioè che
non si fa la storia con i "se". No, la storia si fa anche con i
"se". Sempre per arrivare ad un'opzione del qui ed ora. Senza modelli
generali e senza partiti-guida. La nonviolenza, voglio dire, è la scelta che
ciascuno, ciascun partito, può compiere per sè: ciò non significa pensarla come
valida nello spazio, per tutti i luoghi del mondo. Significa, per parte mia,
non dire che il popolo palestinese "deve" o "dovrebbe"
praticare la nonviolenza: ma apprezzare le forme di lotta nonviolenta che anche
lì ci sono state, come per esempio nella prima Intifada. Capire sempre,
condividere, agire secondo le convinzioni che ci siamo dati: questo è quello che
mi sento di sostenere.
E il Partito?
Il Partito deve comunque essere coinvolto molto di più
nel dibattito, così come nella iniziativa concreta. Le gambe sono due, come
sempre: l'opposizione sociale e politica, la riflessione politico-culturale. Al
Forum mondiale di Bombay è circolato un testo dove si riassumono 170 pratiche
di tipo nonviolento: perchè non conoscerlo e studiarlo? Perchè non discuterne?
Ma la nonviolenza, secondo me, sta anche in lotte vicinissime: i tranvieri, per
esempio, che hanno rotto le regole e riavviato un dialogo con l'utenza e i
cittadini. Senza la pratica, voglio dire, qualsiasi discussione, la migliore,
rischia di diventare una cattiva discussione. Senza la partecipazione diffusa,
non si costruisce nulla, e non innova nulla. Quando dalle commissioni interne
si passò ai consigli dei delegati, fu un processo di rottura, doloroso - molti
uccisero i padri, un pezzo di passato. Molto si fece e molto si discusse. Alla
fine, ne uscì un'esperienza nuova, decisiva.
Tra le critiche, bisogna registrare anche quella
relativa al Partito europeo. Si dice che non c'è stato un processo davvero
democratico, o di coinvolgimento diffuso dell' iniziativa, culminata a Berlino.
E anche qui emergono paure...
Il nuovo partito europeo non è una sovrastruttura
nella quale annegare l'esperienza vitale del nostro partito. Non è la
cancellazione dell'esperienza comunista, per sostituirla con la più generica
dizione di sinistra. E' l'idea di guadagnare la dimensione europea come parte
quotidiana del conflitto di classe e della lotta di trasformazione. Non per
caso l'obiettivo stava nelle scelte congressuali. E' vero: il coinvolgimento
del partito è stato finora insufficiente. Ogni passaggio forte della
soggettività può contenere questo tipo di pericolo, una insufficienza che va
colmata. Ma come la colmiamo? Innescando la partecipazione, oltre che la
discussione, o "fermando" il processo? In un'Europa dove ogni mese
che passa i governi tagliano un pezzo dello Stato sociale, come un carciofo, ci
conviene continuare ciascun partito nella sua battaglia nazionale, o non ci
conviene piuttosto tentare di unificare le lotte, come ci chiedono del resto da
tempo i movimenti?
Ti pongo una domanda di fondo: in un'epoca come
questa, innervata dai movimenti, serve ancora un partito, ovvero un partito
comunista?
Io penso che un Partito, cioè un Partito comunista,
resti uno strumento insostituibile, proprio ai fini di una strategia di
trasformazione, di superamento del capitalismo. So bene che c'è una crisi dei
partiti, indotta non solo dall'avversario, ma diffusa dall'interno stesso dei
movimenti. Ma il partito resta essenziale per un progetto di cambiamento che
non può che passare anche attraverso la sfera istituzionale, cioè la mediazione
necessaria tra le istanze della protesta sociale e quelle del progetto. Il
Partito europeo ha anche questa funzione, riconquistare credibilità ed
efficacia politica al partito. Non un Partito qualsiasi, un partito comunista.
Rina Gagliardi
Intervento di Lidia Menapace
Per far capire a una mia nipotina che la giustizia è
sempre stata un potere che fa giustamente politica e anche che è stata spesso
corrotta, le raccontavo la storia di Verre. Dunque Verre al tempo di Cicerone
era governatore della Sicilia e aveva rubato tanto che addirittura erano
rimasti spogli i templi dell'isola dalle statue d'ora di dei e dee, trasferite
nella sua dimora romana. Verre era solito vantarsi di non temere condanne per
le sue ruberie perchè -diceva- "Ho rubato troppo perché possano
colpirmi", intendendo che aveva rubato abbastanza da comperare anche i
giudici. I Siciliani avevano come famiglia tutrica a Roma gli Scipioni un nome
illustrissimo e una fama di probità indiscussa. Allo Scipione di turno si
rivolgono e chiedono che Verre sia incriminato e processato. Lo Scipione
interpellato si rivolge a Cicerone avvocato di fama imperitura. Cicerone ha
qualche dubbio, sia perché già altre volte si è attivato contro il potere
prepotente (contro Silla) e ha dovuto poi stare lontano dagli affari per
qualche tempo e anche perché in Roma l'accusatore aveva cattiva fama e i
giuristi più illustri accettavano solo cause nelle quali facevano gli avvocati
di difesa. Ma alla fine aggira l'ostacolo accettando come "difensore"
dei Siciliani e con ciò acquisendo la protezione degli Scipioni. Sa che Verre è
molto potente politicamente e che solo dopo elezioni perse dai suoi sostenitori
può avere la speranza di sconfiggerlo e farlo condannare. Chiede perciò per
guadagnare tempo un supplemento di istruttoria di un anno con l'orazione "Actio
prima in Verrem" e passa un anno in Sicilia ad accumulare prove e a
guadagnare tempo. Vengono le elezioni e gli amici di Verre sono sconfitti.
Verre a questo punto fugge e Cicerone scrive le altre quattro orazioni dette
verrine che non dovette pronunciare mai dato che il processo cadde per
latitanza dell'imputato. La nipotina annuisce convinta ma un altro parente, un
valligiano della Val di Non, che hanno fama d'essee molto legati al denaro e
anche un po' taccagni sbotta: "Giusto! così si deve fare: ho sempre avuto
stima per Craxi che andando latitante ci ha fatto risparmiare un mucchio di
soldi per processi tirati in lungo all'infinito. Perché Berlusconi adesso che
non ha più la protezione dell'immunità non segue il nobile esempio
classico?". Vi giro la domanda.
Lidia Menapace
Il pacifismo non è una sorta di quietismo legalitario
Pino Ferraris
Caro direttore, con il suo breve e lucido intervento
sulle Foibe, Bertinotti ha realizzato un atto di innovazione politica che tutti
ci aiuta in questi difficili momenti. Penso che troverà ostilità dai replicanti
sedicenti di sinistra che proprio niente imparano dalla storia, dagli
opportunisti di destra che pensano di poter imitare, a distanza di moltissimi
anni, la vecchia disinvoltura di Pietro Nenni: per uscire dal proprio passato
basta restituire il premio Stalin e andare con Saragat. Per questo ritengo
doveroso esprimere pubblicamente un giudizio positivo su quel discorso.
Io vedo una doppia valenza in queste posizioni di
Bertinotti sulla non-violenza. Esse cercano di operare un mutamento di cultura
politica del movimento operaio e socialista sul lungo periodo, mentre si
inseriscono con grande efficacia nel presente difendendo l'ispirazione
pacifista e non violenta dei nuovi movimenti gravemente insidiata dalla spirale
perversa della guerra infinita di Bush come modo di produzione di terrorismo e
di violenza senza fine...
Da anni mi sto ponendo interrogativi che partono
dall'ossessivo ricordo del fatto che i due primi esperimenti di
"socialismo reale" si sono manifestati con i massacri di operai nella
Ruhr e in Baviera da parte del governo socialdemocratico tedesco di Ebert e,
pochi anni dopo, con la sanguinosa repressione comunista della rivolta di
Kronstadt. Dove sta il vizio genetico di queste antiche tragedie del socialismo
politico? L'esperienza comunista ha poi condotto ad una vertigine tragica
l'urto tra l'altezza della speranza di liberazione e l'abisso dell'orrore
dispotico non lasciando spazi alla rimozione o alle consolatorie mediazioni.
Quali sono le deformazioni, le sedimentazioni
sub-culturali, i residui di mentalità autoritaria, i riflessi condizionati di
pratiche disciplinari, lo stigma di mascolinità combattiva che ha lasciato un
secolo nel quale la politica si è sempre fatta nelle trincee della guerra calda
o della guerra fredda? Proprio perché ci facciamo carico sino in fondo del
nostro passato dobbiamo aprire questo pesante fardello e scavare dentro con
lucidità e severità. Non basta rimuoverlo, è da irresponsabili continuare a
portarlo sulle spalle.
Si coglie un nodo di fondo quando si dice
"rifiutiamo la barbarie del nemico". E si cita l'amara e spietata
dichiarazione di Rashid. Sono gli stessi concetti espressi da Simone Weil,
reduce dalla guerra di Spagna, nella sua lettera a Bernanos: la guerra è un
cancro morale così profondo che non risparmia nemmeno i combattenti che sono
dalla parte giusta. La barbarie della guerra e la scelta pacifista e non
violenta solleva nella sua drammaticità un problema più vasto: come nelle lotte
sociali si può evitare di imitare l'avversario? come sfuggire alla risposta
simmetrica? come capire che invenzione politica a sinistra significa
soprattutto non subire il terreno proposto di chi ti contrasta, significa saper
cambiare le regole del gioco, significa proporre la logica alternativa che è
propria dei "deboli" contro il tentativo di imporre i binari
obbligati del comportamento che è congeniale all'azione dei "forti"?
Mi pare poi estremamente fragile e superficiale il
ragionamento di coloro che pensano il pacifismo e la non-violenza come una
sorta di quietismo legalitario. Per anni siamo stati schiacciati dall'icona dei
primi anni 70 che riproduceva il ragazzo di Milano che, in mezzo alla strada,
impugnava la P 38. Per me ha avuto un effetto liberatorio un'altra icona,
quella del ragazzo che a mani nude e a volto scoperto fermava il carro-armato
sulla piazza Tien-an-men. La radicalità illegale, la forza psicologica, lo
spessore politico di chi ha fatto quel gesto "non-violento" è
incomparabile.
Pino Ferrarsi
Non si deve rischiare di ridurre a
"terrorismo" qualsiasi "violenza"
Piero Maestri
Walter Peruzzi
("Guerre&Pace")
"Il massimo di radicalità oggi si può esprimere
solo con la non violenza", sostiene Bertinotti, "altrimenti retrocede
immediatamente a braccio armato e si inserisce nella dialettica
guerra-terrorismo": questa affermazione non ci convince, perché introduce
la scelta della nonviolenza in contrapposizione al terrorismo, rischiando pur
senza averne l'intenzione di accreditare la strumentale riduzione a
"terrorismo" di qualsiasi "violenza". Ci sono invece forme
di violenza, da quella di chi si scontra con la polizia per violare le zone
rosse fino alla resistenza armata, dalle quali si può dissentire o meno ma che
col terrorismo non c'entrano.
Per quanto riguarda in particolare i movimenti di
resistenza armata contro eserciti occupanti non si può non partire dal
riconoscere, come fa Lidia Menapace, che essi sono "legittimi", il
che implica la possibilità di allearsi con loro o di sostenerli, anche se non si
condividesse la loro scelta.
Al proposito, entrando nel merito, da un lato ci
sembra acquisita (senza usare tale acquisizione come metro di giudizio per il
passato) la non-neutralità dei mezzi. Vale in economia (il taylorismo non è una
tecnica neutrale, usabile indifferentemente dai capitalisti e dai socialisti,
ma tende a riprodurre rapporti capitalistici) e vale nel nostro caso: la lotta
agli oppressori si conduce anche rifiutando di mutuarne le logiche di dominio e
di violenza, se non si vuole (l'esperienza insegna) riprodurle. D'altra parte
però il superamento delle tecniche capitaliste (e dello stato e della violenza)
se non è rinviabile a un futuro imprecisato non è neppure realizzabile
"tutto e subito". È un processo contradditorio le cui tappe e le cui
modalità vanno determinate in rapporto allo specifico contesto storico cercando
di ridurre sempre più al minimo il ricorso alla violenza. Valga al riguardo la
lezione degli zapatisti. E valga lo sforzo in atto anche dentro i movimenti
alternativi - uno sforzo sempre più condiviso e da intensificare - per
estendere il rifiuto di pratiche violente e di metodi contrastanti con i fini.
Altro è il discorso sul terrorismo, cioè sugli
assassinii o le stragi indiscriminate di civili. Un reale sostegno ai movimenti
di resistenza armata, non solo consente ma richiede di condannare e di chiedere
che essi condannino le azioni terroristiche cui talvolta ricorrono o le logiche
militariste che li portano a ritenere la morte di civili un "danno
collaterale" accettabile. Se poi tali comportamenti diventano una pratica
costante e connotante, innescano una deriva terroristica che rende a nostro
parere impossibile ogni sostegno e rapporto politico.
Il movimento contro la globalizzazione capitalistica
ha del resto sempre espresso con chiarezza la sua condanna delle azioni
terroristiche e delle reti che le conducono non solo perché il terrorismo
distrugge vite umane, ma perché ha come obiettivo l'espropriazione della
partecipazione popolare e sociale, che invece rimangono il solo strumento e la
sola forza su cui contare. E tuttavia resta pur sempre da ricordare che la
principale forma di terrorismo è il "terrorismo di stato", oggi
praticato a livello globale soprattutto da Stati uniti, Gran Bretagna, Israele.
Rispetto ad esso i vari terrorismi extrastatali sono fenomeni molto più
limitati e, di solito, una delle risposte armate ad esso (non la sola, come si
è detto) o alla repressione e alla guerra, se si eccettua Al Qaeda (o i gruppi
e "poteri" che vanno sotto questo nome), cioè quel terrorismo globale
"senza stato"che è al tempo stesso asimmetrico e speculare a quello
degli Usa, nei metodi e negli obiettivi di dominio. Resta quindi anche vero che
la guerra globale non è la "risposta" - per quanto "sbagliata"
- al "terrorismo", ma persegue obiettivi e strategie proprie, con
largo ricorso a pratiche terroristiche e ponendosi come la principale causa
scatenante degli altri terrorismi e della violenza.
Tornando alla questione della nonviolenza, ci pare
inoltre che essa vada necessariamente intrecciata all'obiettivo della
trasformazione sociale e politica: è su questo obiettivo che va misurata la
nostra capacità - innovativa - di costruire un percorso alternativo alla
violenza, sperimentando azioni, relazioni e conflitto sociale (ad esempio
praticando collettivamente azioni che "impediscano" l'applicazione
della legge Bossi-Fini o colpiscano chiaramente la cosiddetta macchina della
guerra o generalizzino gli scioperi "selvaggi" e disobbedendo in
generale a leggi ingiuste).
E questo con la consapevolezza che se le rivoluzioni
"violente" del 20° secolo non hanno prodotto, in generale, quel mondo
diverso che avevano come obiettivo, allo stesso tempo non ci sono esempi di
trasformazioni nonviolente che non abbiano a loro volta conosciuto involuzioni
e derive illiberali e anti-democratiche. Nel mondo dell'associazionismo
nonviolento si continua a salutare il 1989 come "rivoluzione
nonviolenta" senza chiedersi come mai nelle società dell'Est sia poi
prevalso, senza una resistenza e opposizione popolare, un sistema sociale che
faceva del liberismo e dell'esclusione politica e sociale la sua bandiera.
In questo senso non ci sentiamo di condividere l'idea
(che ci sembra esprimere Ingrao) che la causa degli orrori - reali! - della
nostra storia sia il loro carico di violenza: ci sembra invece che la violenza
sia una conseguenza - necessaria - delle scelte di espropriazione politica che
le classi dirigenti hanno promosso e dei rapporti di potere che si andavano
determinando; pur sapendo che la scelta dell'uso della forza (non sempre
"obbligata") determina a sua volta l'organizzazione sociale e
politica.
Usare il metro di giudizio della partecipazione e del
rifiuto delle pratiche di avanguardia - come suggerisce l'intervento di
Bernocchi, Cannavò e altri - ci sembra allora corretto, anche in questo caso
come orizzonte entro cui collocare la nostra sperimentazione di iniziative
necessarie ed "efficaci", sapendo che la scelta nonviolenta non è
meno radicale, ma al contrario richiede una maggiore radicalità nella difesa
dei principi e dei valori.
Occorre insieme innovare anche le nostre proposte
politiche sulla difesa. E' evidente infatti che non avrebbe senso scegliere la
strada della nonviolenza e non proporsi un superamento degli eserciti...
In Rifondazione, e in qualche modo anche nel
movimento, qualcuno ancora sostiene che l'Europa unita debba esprimere una
"difesa comune" anche armata, per meglio contrapporsi agli Stati
uniti: e questa posizione non è estranea a chi sembra aver sposato la nonviolenza
come scelta strategica. Una vera contraddizione - che rischia di seppellire il
dibattito sulla nonviolenza e di renderlo subalterno alle
"compatibilità" dell'Ue - mentre la questione andrebbe invece
affrontata dal punto di vista di una nostra idea di difesa popolare nonviolenta
e di presenza internazionale non armata, che molti hanno tentato di
sperimentare in questi anni.
E questa riflessione deve essere avanzata anche nel
confronto con eventuali alleati (dalla Margherita al PdCI) certo lontani da una
scelta nonviolenta, visto che hanno partecipato alla guerra della Nato e non si
oppongono all'idea di un esercito europeo (interessante che Folena stesso si
ponga il problema nel suo contributo al dibattito).
Piero Maestri
Walter Peruzzi
("Guerre&Pace")
Un modo diverso di porre il problema dell'egemonia
Pasquale Voza
Quando Gramsci affermava negli anni Trenta che, a suo
avviso, ormai si era passati, storicamente parlando, dalla guerra di movimento
alla guerra di posizione (con un uso critico e straniante di queste metafore
militari) e che, sotto questo profilo, la grandiosa rivoluzione d'Ottobre si
poteva considerare l'ultima guerra di movimento, e che inoltre, per quanto
concerneva la "rivoluzione in Occidente", la svolta epocale era data
dall'emergere inedito del problema dell'egemonia (in un senso profondamente
rinnovato rispetto alla pronunzia leninista), ebbene egli non indicava un
assoluto (attraverso cui magari rileggere storicisticamente il passato), ma
elaborava e proponeva una grande questione teorico e politica per il presente.
A me sembra che la questione della nonviolenza, su cui
si sta riflettendo e discutendo dentro e fuori del nostro partito, dopo la
fertile 'provocazione' intellettuale di Bertinotti, sia intimamente connessa
con il problema dell'egemonia oggi. Si potrebbe dire che la nonviolenza è un
modo diverso, forse 'necessariamente' diverso, di porre in questo tempo storico
il problema dell'egemonia, il problema della costruzione di un'egemonia
alternativa attraverso la critica pratica (soggetti politici e movimenti)
dell'egemonia (in crisi-ristrutturazione) della globalizzazione capitalistica,
segnata da una guerra costituente e da una logica neo-liberista a dominante
imperiale. (Non va trascurato il fatto che, purtroppo, la parola egemonia è
stata abbastanza sfortunata, è stata molto fraintesa - o egemonismo
prevaricante o mero fatto culturale e ideale - e comunque è risultata sempre
difficile e ostica, anche a sinistra).
Non dico che nonviolenza ed egemonia siano la stessa
cosa: dico che l'una sta dentro l'altra. Se separiamo le due cose, allora
rischiamo di ridurre il problema della nonviolenza al solo problema, se pur
importante, delle forme di lotta. E' stato ricordato in questo dibattito (da
Franco Russo) il Sessantotto, il cui paradigma più innovativo e originale,
presto oscurato dall'accamparsi dell'ideologia "emme-elle"
("marxista-leninista") della costellazione dei "gruppi",
consistette nella ri-definizione o ri-fondazione della politica (la
"politicizzazione della vita quotidiana", come si diceva con estrema
radicalità politica), consistette cioè nella individuazione di un problema di
fondo, quello della costituzione politica dei soggetti, vecchi e nuovi, capaci
di agire una lotta molecolare contro lo sviluppo neo-capitalistico, contro il
nuovo rapporto scienza-capitale. Non a caso, alla morte rapida del Sessantotto
subentrarono tante forme contratte ed esasperate, più o meno geometricamente
potenti, di autonomia del politico, tante teorie e pratiche di "attacco la
cuore dello Stato" o al cuore del potere multinazionale.
L'attualità della nonviolenza sta oggi proprio nella
diffusione "imperiale" della violenza visibile e invisibile, nella
scissione, sempre più grave e strutturale, tra il sociale e il politico, vera
forma di un nuovo americanismo, che può al tempo stesso produrre un particolare
conformismo di massa o inchiodare a un antagonismo meramente difensivo e / o
ribellistico. Di qui la necessità di dire no ad ogni teoria e pratica
(perdente!) di attacco al cuore o di contro-potere, forse pure a talune forme,
un po' simboliche e post-moderne, di assalto alle "zone rosse" (veri
e propri simulacri usa e getta) del potere, e dire invece sì alla via maestra
di una distruzione critica di massa della selvaggia e raffinata violenza del
capitalismo globalizzato. E la nonviolenza non può non essere un tratto
costitutivo di quest'opera egemonica di distruzione critica. Ma allora,
prendere il potere? (espressione emblematica di una cultura politica, di
un'idea sostitutiva di potere). Per dirla con uno slogan, il potere non si
prende, si distrugge, politicamente e socialmente.
Tutto ciò non è idealismo, è una prospettiva
teorico-politica, è una sfida a noi stessi, che, come è stato osservato in
risposta al cattivo realismo di talune domande, non implica alcuna assurda
censura né nei confronti della forma della resistenza armata nel passato e nel
presente né nei confronti della radicalità delle teorie e delle pratiche della
"disobbedienza" (tra le 'risposte' più significative, v. quelle di
Martino e di Russo-Spena).
Ha ragione Burgio (nell'articolo apparso su "il
manifesto") quando invita, con fermezza, a guardare, nella storia del
Novecento, alla grande differenza tra "aggressione" (capitalistica) e
"difesa" (del movimento operaio): semmai - sia detto per inciso - mi
risulta meno chiaro quando, con linguaggio un tantino letterario e quasi
psicologico, dimissionario sul piano conoscitivo, invita a guardare al gulag e
alle purghe come frutto del "trionfo dell'arbitrio" e della
"paranoia del potere dispotico".
Ciò detto, resta in tutta la sua enormità il problema
dell'efficacia (egemonica) della politica: nostra e del movimento o dei
movimenti. Perciò il paradigma della nonviolenza, come paradigma interno
all'egemonia, non va confuso con l'idea, suggestiva e utopistica, di una
costruzione reticolare di relazioni comunitarie (Revelli), e nemmeno con l'idea
di una sorta di pasoliniano "paese nel paese" (del resto, per il
Pasolini "corsaro" e apocalittico il paese comnunista era destinato
ad essere fagocitato e omologato dalla "tolleranza repressiva"
dell'altro paese e del suo sistema).
In conclusione: all'epica tutta descrittiva
dell'aforisma "la violenza levatrice della storia" preferisco opporre
l'asimmetrico aforisma femminista "mettere al mondo il mondo", da
intendersi come il massimo della criticità, della radicalità e della lotta.
Pasquale Voza
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da liberazione del 28-1-'04
MA SI PUO' COSTRUIRE QUALCOSA A PARTIRE DA UN CUMULO
DI MACERIE?
Gianluigi Pegolo (Responsabile DIPARTIMENTO REGIONI E AUTONOMIE LOCALI PRC)
Confesso che il dibattito avviatosi su
"Liberazione" pone un problema di non facile soluzione, e vale a dire
l'individuazione di quale sia l'effettivo oggetto del contendere. Dato il
grande spazio concesso al tema della "non violenza" si potrebbe
pensare che questo sia il cuore del problema, in verità esso è solo un tassello
di un dibattito ben più ampio. Per i temi e il modo con cui questi sono stati
affrontati a me pare che, di fatto, la questione che è rimessa in campo sia la
solita e, cioè, se abbia senso impegnarsi per la costruzione di un partito
comunista, a meno di non concepire tale costruzione come la salvaguardia di un
puro simulacro di cui si conservano i simboli mentre se ne svuotano i
contenuti. Ma veniamo ad alcuni punti essenziali.
E cominciamo pure dalla questione della violenza.
Molti fra quanti sono intervenuti (da Tronti, a Raniero La valle, ecc) hanno espresso
posizioni che condivido. Che senso ha oggi questa palingenesi della non
violenza? Se si vuole polemizzare con comportamenti sbagliati a sinistra che
praticano (soprattutto simbolicamente) forme di lotta discutibili sarebbe
sufficiente richiamare queste forze nei momenti dovuti (ma, guarda caso, ce n'e
voluto prima di smettere di civettare con queste forme di protesta). Se si
vuole teorizzare che la guerra preventiva e il terrorismo esauriscono il campo
della violenza possibile bisognerebbe allora per lo meno spiegare che fine ha
fatto il concetto di resistenza. In ogni caso, che senso ha assumere la non
violenza come categoria metastorica? E se, come ha posto Ingrao (utilizzato il
più delle volte solo per le affermazioni che tornano comodo), ci si trovasse
nella necessità di reagire all'aggressione?
Marginalmente, vorrei tornare sulla vicenda delle
Foibe e dei fatti di Venezia. Da quando in qua uno degli errori fondamentali
che avrebbe commesso la sinistra sarebbe stato quello di
"angelizzare" la resistenza? Forse che il problema fondamentale che
abbiamo di fronte è di contrastare l'apologia della violenza resistenziale? Non
scherziamo. Se vi è oggi un problema è semmai quello di respingere
un'iniziativa revisionistica che punta a fare di tutta un'erba un fascio,
mettendo repubblichini e partigiani sulla stessa barca, in nome di una comune
ispirazione patriottica o del rispetto che si deve comunque alla vita umana.
Vorrei anche mi si spiegasse come mai a Venezia i nostri rappresentanti
istituzionali abbiano accettato la modifica del nome di una piazza al fine di
celebrare i martiri delle foibe.
E, da questo punto di vista, mi permetto di chiedere:
da oggi in poi i nostri amministratori in giro per l'Italia, di fronte ad
iniziative analoghe promosse spesso dai DS (il più delle volte per fare
l'occhiolino all'elettorato di destra), cosa dovranno fare? Forse accodarsi?
Le interpretazioni date nel partito di questo
dibattito sulla violenza non mi hanno convinto. Alcuni hanno insinuato che si
trattasse del prezzo da pagare per entrare nel salotto buono della borghesia,
nella prospettiva dell'entrata al governo. A me pare che vi sia qualcosa di più
profondo, e cioè il tentativo di definire un nuovo profilo di questo partito e
del suo ruolo. Consideriamo alcune affermazioni emerse nel dibattito. Il
compagno Bertinotti su una recente intervista su Il manifesto ha testualmente
detto: "Vorrei vederlo in faccia uno che oggi dica voglio fare un partito
marxista o leninista". Come debba essere intesa questa frase (per me
sorprendente) lo s'intuisce successivamente dove, di fronte alla domanda sul
senso che a questo punto assume il riferimento al comunismo, la risposta è
assai indicativa: "la parola comunista ha un valore, ma non dice "io
vengo da li", bensì "io vado la". Quindi, il comunismo ha un
senso se fa "tabula rasa" della sua storia. In questa storia,
naturalmente, non c'è solo Stalin, c'è Lenin e anche il nostro povero Gramsci,
che ora comprendiamo come sia stato frettolosamente cancellato dal nostro
statuto.
La domanda da porsi è la seguente: ma si può costruire
qualcosa a partire da un cumulo di macerie? La risposta che ci viene è non meno
sconcertante. Essa sta nel riferirsi all'assunzione dell'esperienza pratica dei
movimenti, escludendo ogni riferimento ad alcun elemento teorico dato, ma anche
semplicemente ad ogni riflessione sull'esperienza del passato. In questo
contesto, è il movimento a farsi soggetto d'egemonia. E' il movimento, insomma,
che si assume il compito di svolgere il ruolo di intellettuale collettivo e, in
ultima analisi, di guidare la trasformazione. Ma qui sorge una prima questione
e cioè quella della presa del potere. In che modo, insomma, questo movimento
può trasformare la società, a maggior ragione se ormai gli stati nazionali non
esistono praticamente più, se il nuovo potere imperiale è tanto forte quanto
spazialmente inafferrabile? In primo luogo, mi pare, che a questo quesito si
tenti di rispondere attraverso alcune scelte: con l'assunzione della centralità
delle nuove "moltitudini" e considerando praticamente azzerata la
dimensione della sfera politico-istituzionale; in secondo luogo con
l'assolutizzazione, come forma di lotta, della non violenza, scelta considerata
obbligata di fronte agli enormi squilibri nei rapporti di forza con l'impero,
ed infine, col rifiuto della presa del potere come occupazione della sfera
politico istituzionale. Qui il cerchio si chiude.
A questo punto, però, il trascendimento del
capitalismo non si comprende proprio da cosa nasca. Non si giova più di una contraddizione
principale (quella fra capitale e lavoro), non è supportato più da soggetti
sociali ben definiti, non può avvalersi delle contraddizioni
interimperialistiche, non ha avversari ben riconoscibili e aggredibili. Si
capisce, allora, perché parlando di comunismo si finisce con l'alludere ad un
non meglio precisato "di la da venire", ad un affascinante, quanto
vago, '"altro mondo possibile" i cui connotati restano, per
l'appunto, ancora largamente indefiniti.
Gianluigi Pegolo
Intervento di Nichi Vendola (deputato del PRC)
Quanti spettri si aggirano nel nostro dibattito! Sono
le nostre biografie, talvolta giocate a tumulare il futuro nei sepolcri della
tradizione. Sono le ombre sinistre dell'ortodossia, sempre accaldate dai sudori
dello storicismo. Sono i fantasmi della nostra sconfitta, esorcizzati dal
restauro pedante della dottrina.
Ma come si fa ad invocare sempre e comunque, come un
riparo di fortuna, i tornanti aspri della storia globale pur di non guardare
mai in faccia la storia parziale del comunismo novecentesco? Certo che sono
avvitati in un nesso inscindibile, la nostra "parte" e il
"tutto" di un secolo infuocato, certo che la storia non si taglia a
fette con la lama dell'opportunismo, certo che non serve abusare di codici
moralistici per recidere la radice del male: ma l'impressione è che ci sia chi
preferisca, ancora oggi, l'agiografia al posto del costume critico, la
narrazione delle glorie piuttosto che la trattazione degli orrori.
Il Gulag è un esito che non consente alibi, giustificazioni,
contorsionismi semantici. E non è inscrivibile in nessuna rubrica degli errori
e delle degenerazioni: appare come il compimento parossistico di quella
statolatria, staliniana e comunista, che capovolse nel sangue il senso stesso
di una missione che intendeva liberare le masse dalla separatezza gerarchica
della statualità. La centralità esponenziale del primato del Politico (il
Partito, la macchina dello Stato, fino al Partito-Stato) è lo snodo, teorico e
pratico, di una parabola nata e morta con il Novecento: non a caso, nella
straordinaria libertà intellettuale del suo esilio carcerario,
Gramsci intuisce la deriva dello stalinismo e
contemporaneamente reagisce alla lettura "crollista" della crisi
capitalistica, elabora la teoria dell'egemonia e della "conquista delle
casematte", pur mentre si cimenta con le ragioni di lungo periodo della
sconfitta del movimento operaio europeo. Il Partito non fu un "moderno
Principe" o un "Intellettuale collettivo", come nella suggestiva
provocazione gramsciana, ma una nomenclatura autoreferenziale e sacralizzata,
un'entità metafisica: sovraordinatrice e indiscutibile. Il Potere non fu
sciolto dal fuoco della libertà di massa e dell'autogoverno, ma congelato e
cristallizzato da una burocrazia che lavorò alacremente per ibernare ogni
movimento sociale e per privatizzare la politica come contenzioso interno ad
una casta sacerdotale.
Ogni storia ha la sua storia. Ma il Gulag torna come
un chiodo fisso in questa parodia tragica del "sogno di una cosa": in
Siberia, in Cina, nella Corea del Nord. Come l'icona indicibile di una
pedagogia autoritaria e funebre, come punizione salvifica del nemico effettuale
e di quello potenziale, come pianificazione della superiore verità di un
Politburò o di un Comitato Centrale. Senza rompere qui, dove c'è l'eredità di
quella cortina di ferro che possiamo chiamare "autonomia del
politico", non saprei come ricominciare a pensare il comunismo: non per
civetteria da tardo-utopista, bensì come bisogno e necessità di un pianeta
soffocato dal dolore sociale e dalla guerra infinita. Senza questa rottura non
saprei neppure rivendicare il "filo rosso" (politico, non solo
emotivo e morale) con la vicenda straordinaria di milioni di persone che, nel
darsi il nome di comunisti/e, fuoriuscivano dall'anonimato senza storia delle
plebi, costruivano la politica come liberazione dall'ingiustizia, introducevano
nella modernità le domande più radicali sulle relazioni sociali e sui rapporti
di produzione.
Occorre volgere lo sguardo all'indietro, non per
celebrare e magari sopravvivere. Ma per vivere, per capire, per imparare. Una
critica comunista del comunismo novecentesco non è un lusso per il tempo
libero, ma la pre-condizione della fatica della rifondazione. E storicizzare
non significa giocare a nascondino con i buchi neri della nostra storia,
trovare sempre contesti che occultano e omettono a piacimento, ridisegnare i
fatti dentro una sorta di esegesi provvidenziale. Altrimenti anche certa
ridondanza storicistica diventa una fuga metafisica dalle proprie responsabilità.
Ci pesa questo passato, impaccia i nostri passi di
libertà: se fossimo un museo, andrebbe bene. Ma siamo un partito che non si
sente orfano della P maiuscola, che non si sente depositario del bene e del
male, che non intende mai più dispensare sentenze di vita e di morte, che non
ha la presunzione di presentarsi come la sintesi matura del movimento e del
conflitto sociale. Per crescere, un partito così deve essere agìto e vissuto
come uno dei luoghi in cui si pensa e si pratica una grammatica inedita del
rapporto tra comunità e libertà.
Il Novecento si è schiantato sotto il peso di una
sconfitta e di una vittoria. La nostra sconfitta. La vittoria del Capitale come
ideologia della fine della storia, cioè della estinzione del pensiero critico e
come generalizzazione molecolare dei processi di mercificazione. Il Potere, nel
tempo della globalizzazione liberista, non ha un Palazzo d'Inverno ma infinite
e stratificate "zone rosse": nella produzione, nella riproduzione,
nella gerarchia dei valori e delle forme di coscienza, nel corpo sociale e
persino nel corpo individuale. Espugnare ciascuno di questi territori proibiti,
sabotare ciascun deposito di comando autoritario, disobbedire alle leggi del
diritto del più forte, disarmare la macchina della guerra preventiva e
permanente: questi sono i compiti a cui ci ha allenato il "movimento dei
movimenti". Sapendo che il capitale del Capitale è nei codici profondi
della cultura, dei saperi, dell'immaginario: dove si costruiscono i sogni e gli
incubi dell'umanità, dove si eternizza la barriera sociale e si naturalizza
l'oppressione, dove si costruisce ogni gerarchia e ogni frattura tra i sessi e
tra individui e tra fedi e tra popoli, dove si proietta la vita intera nella
guerra e la guerra intera nella vita.
Noi siamo figli di una vicenda che indicò alla
brutalità necessitata dei mezzi la soglia alta di un fine supremo: trascendere
la violenza ontologica del capitalismo. Abbiamo imparato che i mezzi cattivi si
mangiano il fine buono, e cioè che i mezzi sempre prefigurano il fine: e non
sto parlando dei vietcong o dei partigiani, ma del comunismo che si appropria
del monopolio statuale della violenza. Non voglio mettere le brache alla
storia, voglio rischiare qualcosa o molto di me stesso nel costruire la più radicale
pratica di trascendimento della costituzione materiale e simbolica del potere e
della sua violenza: non voglio che il mio antagonismo produca azioni (e
immagini) simmetriche alla violenza che combatto. Non voglio che l'ombra del
mio avversario (che è una forma del potere e dell'organizzazione sociale) mi
divori l'anima, mi disumanizzi, mi faccia smarrire il senso stesso della
rivoluzione che sarà, che è già cominciata: non un assalto alla baionetta, ma
un processo largo e profondo di costruzione di un "nuovo mondo
possibile".
Nichi Vendola
Nuove forme
di politica
Caro direttore, a rompere il processo storico oggi è
proprio la violenza della guerra e del terrorismo. Difatti l'effetto dialettico
della guerra della vergogna mossa da Bush contro l'Iraq ha prodotto il trionfo
del movimento per la pace che ha attraversato il mondo intero. Gli operatori di
pace non sono solo i gruppi pacifisti, ma la società civile mondiale che si è
convinta (infine) che la guerra, qualunque guerra, non è la soluzione per nessun
problema. Essa è un problema per l'umanità, poiché, se non fosse tenuta a bada,
come Hiroshima insegna, metterebbe fine all'umanità. Saper cioè costruire
l'alternativa su un terreno "altro" da quello in cui ci vogliono
imporre di stare. Scegliere la strada di disertare lo scontro militare per la
conquista del potere - ma cercare altresì, come direbbe il subcomandante Marcos
- di "destrutturare il potere" attraverso nuove forme della politica
e della partecipazione democratica è solo un primo passo per gettare le basi di
questa alternativa, l'altro mondo possibile, il nostro non-modello di ciò che
con un po' di pudore per l'emozione, chiamiamo ancora comunismo.
Daniele Lombardi Lucca
Come rinunciare
all'uso della forza?
Caro direttore, personalmente sarei stato ben lieto di
indossare un casco a Genova, dal momento che il mio atteggiamento del tutto
inoffensivo non mi ha evitato due punti in testa... Naturale che l'avversario,
quanto più ferocemente esercita in tutto il mondo il suo dominio, tanto più chieda
ai suoi antagonisti di essere non violenti. Comprensibile è anche la necessità
di contrastare l'indebita assimilazione tra conflitto sociale e violenza
proclamando la nostra "ispirazione" non violenta. Altra cosa però è
la rinuncia all'uso della forza quando ogni altro mezzo è impossibile, e questo
non solo per quanto riguarda il passato: cosa accade quando la spinta alla
trasformazione sociale si scontra con la resistenza dei poteri costituiti, loro
sì capaci di tutto?
Marco Schettini Roma
La nonviolenza
è rivoluzione
Caro direttore, contrariamente a quanto sostenuto da
Cannavò, Casarini e Bersani, penso che la scelta della nonviolenza come forma
di lotta di liberazione dallo sfruttamento strutturale dell'economia
capitalista non sia dettata da una lettura idealistica (e pertanto
mistificante) della realtà, bensì credo che tale scelta affondi le proprie
motivazioni nell'analisi materiale e storica dei modi di produzione e degli
attuali rapporti politici e di forza che ne derivano. Lo stato delle cose è dato
dalla violenza della classe dominante e dalla guerra militare, economica e
sociale scatenata dal capitalismo globale contro la periferia del mondo, contro
i diritti dei lavoratori, degli studenti, e contro la dignità di miliardi di
persone. Abolirlo oggi significa essere radicalmente diversi. Il sistema si
regge sulla violenza permanente: pertanto scegliere la nonviolenza, la pace e
la giustizia come pratiche di vita quotidiana e come orizzonte di liberazione
significa costruire e fare la rivoluzione.
Matteo Saudino Lega obiettori di coscienza, Torino
Il Movimento
fa paura al Sistema
Cara "Liberazione", gli scudi in plexiglas
terrorizzano il Sistema? Il taglio delle pompe forse o l'abbattimento delle
zone rosse? E' il Movimento, vasto, Mondiale, radicale nei contenuti, capace di
cambiare le coscienze, il senso comune, capace di mettere in discussione il
Pensiero Unico e di vincere su questo versante (vedi Cancun) che fa paura a Lor
Signori. La repressione su pochi, e lo abbiamo detto da sempre, da Genova 2001
in poi, ha lo scopo di delegittimare tutto il Movimento, e questo sì fa paura
al Sistema, che vuole far passare tutto il Movimento come violento, e quindi
neutralizzarlo, renderlo incapace di mobilitare, di coinvolgere ed in sostanza
impedire che si rivoluzionino i rapporti di forza reali nella società. Per
disarticolare ed annullare questo Loro progetto noi, ora, che facciamo? Ne sono
convinta, la non violenza, senza se e senza ma. Oppure pensate che ci troviamo
di fronte ad una situazione come nel '21 con una repressione di massa e sul
ciglio di una guerra civile?
Lucia Mielli S. Benedetto del Tronto (Ap)
I violenti
sono loro!
Gentilissimi compagni, questo dibattito sulla
non-violenza avviene perché veniamo imputati dalla classe dirigente, ingiustamente,
come violenti e subiamo questa pressione. Per me la questione è facile. I
violenti sono loro! Si attribuisce la violenza alle radici del comunismo
(appunto per la pressione borghese), anche tra molti di noi. Ci si dovrebbe
domandare che cosa avrebbe dovuto fare quella giovane repubblica, che aveva
firmato la pace e chiamava a tutta l'Europa di non combattere, contro gli
attacchi dell'Europa borghese e degli Usa? Non difendersi? Mettere giù le armi
e provare un'altra volta con manifestazioni pacifiche? Gli argomenti portati
avanti dai pacifisti sono astratti ed ignorano i fatti. Noi non siamo violenti
perché siamo le vittime della violenza. Questo non significa che non dovremmo
difendere i nostri diritti umani con la violenza quando fosse necessario. La
questione è coinvolta con lo stato di coscienza del popolo e come questa
violenza viene percepita - necessità del momento, o inutile.
Sante
Camo New York
Il terreno di lotta
non lo scegliamo noi
Caro compagno Curzi, penso che Mario Tronti abbia
perfettamente ragione, in particolare quando ritiene che le forme di lotta
violenta intraprese dai comunisti nel corso della loro lunga storia non sono
state volute dai comunisti stessi e dal movimento operaio, ma essi sono stati
costretti ad adottarle perché in tali circostanze quello era il terreno
concreto di lotta né ci si poteva estraniare dalla lotta. Potevano forse i
partigiani utilizzare metodi non violenti di lotta contro la violenza
nazifascista? Sarebbe veramente ingenuo ed antistorico rispondere affermativamente
a questa domanda. Come ci insegna il marxismo esiste una fondamentale
differenza tra il pentimento, che non ci appartiene, e l'autocritica che è
parte integrante del nostro modo di fare politica.
Pablo Genova Pavia
Se avessero ragione
le donne?
Caro direttore, vedo i rischi dello schematismo nel
modo di porre la questione della nonviolenza (e, tuttavia, mi ha colpito il
fatto che le uniche voci di dissenso rispetto ad essa siano voci, e scritti, di
segno maschile. Certo, può essere un caso. Ma forse no. E se, ancora una volta,
avessero ragione le donne?). L'idealismo lo vedo, al contrario, dalla parte di
chi, sorvolando sull'esperienza storica (e sui suoi fallimenti), tratta i temi
della "forza", della "rottura rivoluzionaria", del
"progetto", dell'"organizzazione" (in altri termini la
"teoria della rivoluzione") come propedeutici rispetto all'azione
politica nel vivo del movimento reale. Contraddicendo, in tal modo, non solo il
Marx che ragiona sulla Comune, ma lo stesso Lenin che costruisce, sperimentando
sul campo, sia il partito bolscevico che le politiche successive al 1917,
compresa la Nep. Per non parlare di Gramsci, il quale pure fu a suo tempo
accusato di idealismo e gradualismo nel suo ragionare sulla complessità del
tema della rivoluzione in occidente, la centralità della questione contadina,
la conquista della società civile, la reimpostazione in senso non
meccanicistico del rapporto fra struttura e sovrastruttura, compiendo qui
un'innovazione teorica di non poca portata, poiché giungeva a contemplare il
cambiamento strutturale anche a partire dall'azione sovrastrutturale (Cosa è,
d'altronde, avvenuto nel '68? E cosa col movimento femminista? E cosa avviene,
oggi, col movimento dei movimenti?).
Claudio Buttazzo Bologna
E' possibile un'azione
di forza nonviolenta
Gentile direttore, la mia impressione è che ci sia una
grande confusione di termini: per esempio si continua a confondere la parola
forza con la parola violenza. Ma proprio il caso di Milano ha dimostrato la
forza di un'azione nonviolenta che ha consentito ad un attore sociale, la parte
più debole, di vincere. Quindi, forza e violenza non sono sovrapponibili: ci
può essere un'azione di forza violenta come un'azione di forza nonviolenta. Noi
obiettori di coscienza abbiamo fatto la nostra "rivoluzione
culturale" cambiando mentalità, atteggiamenti e leggi. E senza fare
neanche un morto. A quale prezzo? Con anni di galera scontati nei carceri
militari che negli anni sessanta erano tutt'altro che alberghi a tre stelle e,
dopo la legge del 1972 che ha finalmente riconosciuto l'obiezione di coscienza,
con milioni di ore di servizio civile fatto da decine di migliaia di giovani
che hanno servito la "Patria" aiutando le fasce sociali più deboli,
occupandosi dell'inquinamento o della protezione ambientale o di quella civile.
A chi dice che la nonviolenza è una pratica che non esiste rispondo che non sa
o non vuol vedere e se la violenza ha portato tragedie perché vogliamo
continuare a "farci del male"?
Sergio Bergami Padova
Non porgiamo
l'altra guancia
Caro direttore, se si accetta - e mi pare scontato -
la realtà della società divisa in classi, del colonialismo, dell'imperialismo,
del nazifascismo, e delle dittature anticomuniste (come "longa manus"
yankee), appare in tutta evidenza l'inaudita violenza perpetrata ai danni di
milioni di esseri umani, derivata dal feroce sfruttamento quotidiano, dalle
guerre di aggressione verso popoli inermi e dalla cancellazione dei più
elementari diritti umani. Mi pare inutile in questa sede dilungarci sui crimini
del capitalismo come anche su quelli commessi da alcuni regimi totalitari
pseudocomunisti, ma credo sia più opportuno affermare il diritto/dovere alla
resistenza e alla ribellione contro l'oppressione. Quali forme queste debbano
assumere non possono essere codificate "a priori", ma è la Storia
stessa a determinarli, in base alle contingenze, ai rapporti di forza, alle
scelte collettive e alla cultura di chi si oppone al "tallone di
ferro". Altro principio-guida irrinunciabile è senz'altro che i fini non
giustificano i mezzi. Nel senso che non sempre tutto è lecito perché attuato
contro l'oppressore: crudeltà, stermini indiscriminati contro civili, sono, ad
esempio, azioni di aborrire non solo perché eticamente intollerabili, ma perché
confondono i connotati tra aggressore e aggredito, tra oppresso e oppressore,
perché impediscono un'immediata individuazione tra causa giusta e causa
scellerata. In una parola, giusta è la linea di condotta attuata dalla
resistenza contro il nazifascismo. Insomma, fini e mezzi debbono coincidere.
Roberto Giuliani
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da "il manifesto" del 28 Gennaio 2004
Ma i pacifisti fanno politica
Una possibilità L'idea di Bush che fosse possibile
intraprendere una successione di guerre, si è ridimensionata grazie alla
reazione mondiale al conflitto in Iraq
GIOVANNI PALOMBARINI,
L'ampio dibattito che si è aperto a seguito
dell'intervento di Venezia sulle foibe di Fausto Bertinotti e dell'intervista
di Liberazione a Pietro Ingrao su guerra, violenza e pacifismo ha proposto
tematiche di carattere storico e contemporaneamente, intrecciati a
considerazioni di prospettiva, due quesiti di assoluta attualità. Per quel che
concerne le prime è ovvio che la riflessione finisca per investire, accanto
agli storici, soprattutto coloro che in un modo o nell'altro sono stati i
protagonisti delle vicende politiche del Novecento. Per tutta una serie di
altri soggetti l'idea della violenza, o se si vuole lo schema della rivoluzione
come assalto armato al palazzo d'inverno, è infatti superato da tempo. Non si
tratta di una questione di "pentimento", bensì più semplicemente del
fatto che quello schema non è mai appartenuto ai protagonisti dei movimenti che
a livello mondiale propongono oggi l'idea che un altro mondo è possibile: ciò
in larga misura per ragioni generazionali, ma anche per effetto dello
svilupparsi di tante militanze politiche - concrete esperienze individuali su
una serie di specifici problemi - in totale discontinuità, soprattutto dopo
l'esperienza e la caduta del socialismo reale, rispetto a quella cultura, a
quelle teorie. Ha notato giustamente Bertinotti, a proposito della violenza che
a volte viene imposta a questi soggetti, com'è avvenuto a Genova, come i nuovi
movimenti rifiutino la stessa spirale repressione-violenza. Dunque, per questi
nuovi protagonisti, che si sono fatti vedere sulla scena mondiale da Seattle in
poi, non ha molto senso il contenzioso esplicito, che Marco Revelli auspica,
con i vecchi paradigmi politici, con l'idea della guerra che si aveva nel
Novecento anche a sinistra: per la semplice ragione che per loro si tratta di
tematiche già fuori dal loro orizzonte d'azione.
I quesiti invece, in quanto riguardano presente e futuro
della sinistra, sono di grande interesse e coinvolgono inevitabilmente tutti. E
cioè: che cosa si fa contro la violenza armata dell'aggressore (quesito
complicato, anche perché, come ricorda Mario Tronti, le guerre recenti sono
state spesso intraprese da Stati, o addirittura da coalizioni di Stati, che
sono organizzati a democrazia e hanno quindi una loro "legalità"),
qual è l'efficacia politica del pacifismo. Due quesiti strettamente legati fra
loro, così come i tentativi di risposta che pochi, nella difficile situazione
data, si sentono di proporre.
L'efficacia politica del pacifismo. Prima di cercare
di pensare ai modi, ai meccanismi idonei a dargli forza, ad assicurarne
l'efficacia, conviene riaffermare che oggi il pacifismo non è solo un'istanza etica,
un'aspirazione di ogni persona degna di questo nome, ma è tout court politica.
I milioni di persone che in tutti i continenti sono scesi in piazza nel
febbraio 2003 non esprimevano soltanto un'altra idea del mondo, ma
l'affermazione di un diritto, quello alla pace, della realizzazione del quale i
governi, di qualunque orientamento, venivano politicamente invitati a farsi
carico. 110 milioni di persone sulle strade di tutto il mondo con la stessa
bandiera costituiscono un fenomeno mai visto: una gigantesca "ola"
planetaria durata ventiquattro ore, la seconda superpotenza mondiale ha scritto
un quotidiano statunitense.
Certo, una superpotenza disarmata, a fronte della
prima che ha più di cento basi militari e innumerevoli governi
"amici" sparsi per il mondo. Ma basta questo rilievo a considerare il
movimento pacifista un fenomeno isolato, senza rilevanza politica o comunque
sommerso dal rumore delle armi? E' un quesito che non merita sbrigative
risposte riduttive, in primo luogo perché quel movimento è tuttora vivo se è
vero, com'è vero, che da allora è ricomparso sulla scena più volte e che il
recente social forum di Bombay ha ritenuto possibile indire per il prossimo 20
marzo una giornata mondiale di mobilitazione in occasione dell'anniversario
dell'invasione dell'Iraq; e poi perché la prospettiva di convergenze possibili
si è già intravista. Il dato è solo iniziale, e però è avvenuto che quel
movimento, in alcuni paesi, si sia già avvicinato - certo, ciò non vuol dire
che si sia saldato, essendo questo un obiettivo ancora tutto da realizzare - a
lotte di altra natura che riguardano rivendicazioni di diritti sociali
fondamentali. Quante erano nel nostro paese le bandiere della pace alla
manifestazione del marzo 2002 al Circo Massimo o nei cortei degli scioperi
generali o a piazza S.Giovanni alla manifestazione dei "girotondi"? E
a livello internazionale la presenza delle associazioni pacifiste nei vari
social forum è stata forse marginale? Ma poi, la stessa definizione di
"associazioni pacifiste" rischia di essere riduttiva, se solo si
pensa al loro impegno su altri versanti, come ad esempio quello dei diritti dei
migranti. Dunque, la convergenza dei movimenti, la saldatura di quella per la
pace ad altre lotte appare possibile.
Certo, Alberto Burgio sottolinea come il pacifismo
corra il rischio di lasciare il terreno della politica per quello dell'utopia
se non si misura con il fatto che, al di là di questo nostro angolo di mondo,
vi sono popoli - dai palestinesi agli iracheni - quotidianamente alle prese con
la violenza dell'occupazione militare. E però, senza aprire qui il problema
delle forme e dei limiti del diritto di resistenza (o quello della
disobbedienza, che in effetti il movimento pacifista non ha ancora affrontato),
va detto che proprio in Medio Oriente le speranze di pace si sono fatte più
concrete da quando i pacifisti del popolo israeliano e di quello palestinese si
sono incontrati e hanno proposto al mondo il patto di Ginevra.
I meccanismi per incidere sui poteri. Intanto questa
crescente convergenza dei movimenti è già uno strumento di possibile efficacia
politica, cioè di produzione di risultati concreti contro le politiche di
guerra. L'idea dell'amministrazione Bush che fosse possibile intraprendere in
tutta tranquillità una successione di guerre a una serie di paesi si è oggi
ridimensionata anche per la reazione che a livello mondiale il pacifismo ha
determinato in occasione della guerra all'Iraq. E' di tutta evidenza che per i
neoconservatori è oggi molto più difficile programmare aggressioni a Siria,
Corea, Iran e altri paesi ancora. Va tra l'altro ricordato, a proposito degli
Stati Uniti, che in quel paese il pacifismo ha tradizioni importanti, e che
dopo lo sbandamento post 11 settembre attualmente ha ripreso voce.
Ma poi, è nato di recente a Berlino il partito della
sinistra europea. Ovviamente è immaginabile che verranno innanzitutto cercate
convergenze su tematiche tipiche, come la difesa dello stato sociale e dei
diritti del lavoro dipendente contro le logiche dominanti della precarizzazione
a 360 gradi. E però non è pensabile che, proprio nell'ottica di costruire
un'alternativa praticabile ai governi di destra o neocentristi legati alle
logiche della globalizzazione liberista, quel partito non si ponga il problema
del come fare propri i contenuti e i valori, compreso quello della pace, e la
complessiva istanza di radicalità del movimento dei movimenti; del come fare
avanzare sul terreno della politica quel poderoso insieme di istanze,
certamente democratiche e di segno alternativo rispetto alla tendenza in atto,
anche per reagire alla violenza delle aggressioni armate.
Questa sembra una strada obbligata per qualunque forza
politica di sinistra. E sarebbe una stravaganza, arrivati a questo punto di
impossibilità anche ideale di contrapporre guerra a guerra, trascurare la
possibilità di interpretare anche a livello delle istituzioni, interne e
internazionali, valori e istanze nuove, pragmatiche ma piene di contenuti di
progresso reale, dei movimenti. O non fare proprie con convinzione, per
rafforzarle, le prospettive aperte dal patto di Ginevra.
A questo proposito, a proposito dei meccanismi e di
istituzioni internazionali. Può passare l'efficacia politica del pacifismo
attraverso la riforma e quindi un rilancio del ruolo dell'Onu? Può essere
questo un obiettivo realistico delle forze di sinistra? Qui molti scrollano le
spalle con un misto di incredulità e delusione. Secondo alcuni la riforma è
impossibile. L'aspirazione in tal senso non sarebbe realistica perché gli Stati
che hanno oggi una posizione di forza nell'organizzazione non hanno alcun
interesse a cambiare, a rinunciare ad esempio al diritto di veto. Questa è però
una risposta statica, che non tiene conto di evoluzioni possibili,
politicamente configurabili. Certo, è un dato di fatto che quella americana è
in termini militari l'unica potenza mondiale, in grado di prescindere dall'Onu.
E però. Le ultime iniziative dell'amministrazione Bush, che pure ha ritenuto di
poter sviluppare la sua politica imperiale al di fuori di ogni regola del
diritto internazionale, si misurano oggi concretamente con difficoltà non
previste - secondo molti osservatori l'Iraq è sull'orlo della guerra civile -
che ben difficilmente potranno trovare una soluzione senza interventi
multinazionali, pensati e realizzati al di fuori della logica dell'occupazione
del territorio di questo o di quel paese. Tant'è che l'amministrazione Usa va
cercando continuamente, e con disponibilità crescente a qualche cedimento, una
copertura proprio dell'Onu.
D'altro lato, le ex grandi potenze, abbiano o no il
diritto di veto, giunti a questo punto della strapotenza Usa hanno un'oggettiva
esigenza di poterla almeno condizionare, se non contenere, attraverso
istituzioni internazionali universalmente legittimate e credibili. Questa è una
strada ben più realistica di quella, inaccettabile, della costruzione di una
potenza armata europea (che, a tacer d'altro, non potrebbe mai raggiungere il
potenziale Usa). Dunque, se ciò è vero, sono concrete ragioni di convenienza
quelle che dovrebbero spingere in primo luogo l'Ue a fare politica
internazionale muovendosi per una nuova valorizzazione dell'Onu. Dunque questo
è un terreno sul quale le forze di sinistra - non solo i movimenti, ma anche
quanto realisticamente vi è di sinistra politica organizzata in Europa; non
solo quelle che Tronti ricomprende nella formula "forze cosiddette
antisistema" ma anche, se possibile, quelle della sinistra ufficiale -
possono muoversi per contrapporre (e imporre) la legittimità della pace alla "legalità"
della guerra.
Qui poi sono possibili convergenze con istanze non
trascurabili: prima fra tutte quella delle chiese, a cominciare da quella
cattolica, che in nome della pace vanno auspicando proprio una riforma
dell'Onu.
I signori della guerra e i media al loro servizio sono
soliti definire l'Onu, con tono sprezzante, "uno dei tanti palazzi di New
York". Ma chi vuole contrastarli con qualche efficacia? Per le sinistre
europee l'occasione per riprendere l'iniziativa in direzione del rilancio
potrebbe essere data dalla circostanza che il segretario dell'Onu ha istituito
una commissione, che concluderà i suoi lavori in settembre, per studiare le
modifiche di forma e di sostanza da apportare allo statuto dell'organizzazione.
La sinistra europea ha anche questa strada per riproporre la legittimità della
pace. Sarebbe un peccato se la considerasse un fatto tecnico politicamente
irrilevante o comunque irraggiungibile, non influenzabile.
Tutto queste dinamiche, se attivate insieme nei
movimenti e nelle istituzioni praticabili, possono determinare processi nuovi
all'interno della superpotenza Usa? E' ovviamente soprattutto una speranza. E
però che in quel paese possa crescere un ceto politico nuovo che sappia rompere
con la follia della guerra permanente dipende anche da una simile pressione.
Che nella mondializzazione la politica estera abbia un inevitabile primato non
significa che agli Stati Uniti convenga riproporre a tempo indeterminato quella
- i cui costi, anche in termini di vite umane perdute ogni giorno, sono sotto
gli occhi di tutti - che l'amministrazione neoconservatrice sta conducendo al
di fuori di ogni regola del diritto internazionale. Qui i cambiamenti
dipenderanno anche dalla continuità del pacifismo e dall'iniziativa delle forze
che vogliono interpretarne le istanze.
GIOVANNI PALOMBARINI
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da Liberazione del 29-1-'04
UN ELEMENTO IRRIDUCIBILE: LA LOTTA DI CLASSE
Bruno Steri
C'è qualcosa in questa discussione su violenza e
nonviolenza che - al di là di un'apparente evidenza delle tesi in questione -
fa pensare a quelle che un filosofo designava come "ruote che girano a
vuoto", concetti solo apparentemente pieni e che comunque - sul terreno politico
- producono effetti ben concreti, spostando nella fattispecie l'asse strategico
e ideale del Prc. A me pare che in ciò vi sia un passo indietro anche rispetto
alla ripresa dell'autorevole tradizione del marxismo etico italiano (Della
Volpe, Napoleoni), rintracciabile nel recente libro di Bertinotti e Gianni 'Le
idee che non muoiono'.
Giustamente, a proposito del ricorso alla natura
generica e astratta delle anzidette nozioni, si è parlato di approccio
"metastorico" e "metapolitico" (Maitan): aggiungo che esse sono
un perfetto esempio di fuorviante semplificazione ideologica. Violenza: nozione
passe-partout che sommariamente compendia fenomeni diversissimi (non solo
storicamente e politicamente, ma anche eticamente) quali ad esempio il
terrorismo e la resistenza all'aggressore. E' comprensibile che Cannavò e gli
altri auspichino un'articolazione del discorso che recuperi i "casi
concreti": e non perché non comprendano il tema generale della connessione
tra violenza e potere (come ritiene Franco Russo), ma perché mi pare vogliano
sfuggire alla genericità tutta ideologica di un ragionamento (Revelli) che, dal
lato del giudizio storico, mette in un unico sacco tutto un secolo ("di
orrori") nonché un'intera cultura ("della violenza" appunto); e,
dal lato della prospettiva politica, non sa concretizzare l'auspicio
nonviolento in una credibile "politica" (Tronti), in una
circostanziata strategia di resistenza all'aggressività imperialista.
Sfuggire alla realtà effettuale è un lusso che possono
permettersi (e per fortuna che lo fanno) romanzieri e poeti; ma a chi - come
Revelli - intende offrire una concreta alternativa storica a quel che è stato
per lui l'antagonismo "muscolare" novecentesco, non è consentito
semplicemente di metaforizzare su un "uso della parola e del racconto".
Non a caso, pur aderendo all'impostazione nonviolenta ma volendo sfuggire a
simili nebbie, Gagliardi/Curzi sono costretti a ricordare che non intendono né
indebitamente "proiettare sul passato idee del presente" né criticare
chi ricorre alle armi in "luoghi dove la nonviolenza è difficile o
pressoché impossibile": non rinunciano ad esempio alla verità storica che
in Vietnam, grazie ad una lotta di liberazione armata, l'imperialismo Usa
battuto sul campo ha ripiegato e un intero sistema coloniale è imploso.
Fascismi e imperialismi non sono degli accidenti della
storia: è da qui che si impone il tema dell'efficacia della nostra azione. Sono
convinto che, paradossalmente, il colpo più duro in questa discussione lo abbia
inferto proprio Pietro Ingrao, con le sue domande secche: "Cosa si fa
contro la violenza armata dell'aggressore? ", "c'è o no un obbligo di
resistere anche con le armi, un diritto alla difesa? ", "Come si
incide sui poteri? ". Bisogna essere chiari: come dal loro punto di vista
hanno intuito Folena e Caldarola, qui è in questione una radice profonda della
stessa ispirazione marxiana. E precisamente il fatto che c'è un elemento delle
trasformazioni storiche che non attiene alla libera discussione razionale tra
soggetti dotati di intelligenza e buona volontà, ma al confronto/scontro tra
interessi sociali irriducibili (la "lotta di classe" appunto) da cui
in qualche modo quei soggetti sono condizionati.
Tale consapevolezza non ha ovviamente impedito che, ad
esempio in Italia, i comunisti abbiano da tempo scelto la pacifica strada della
convivenza democratica, così come detta la nostra Costituzione antifascista. Ed
oggi il Prc è proteso a cercare un accordo programmatico a sinistra per
cacciare il governo delle destre: ma ciò non significa che sia disposto a
barattare la sua ragione sociale, la quale - ricordiamolo - sin dall'inizio si
identifica con il rifiuto di liquidare tutto ciò che profumi di comunismo.
Bruno Steri
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Il comunismo
è convivenza
Caro direttore, credo che ogni comunista debba sentire
profondamente il rifiuto della violenza. Lo stesso Marx ha spiegato che il
comunismo rappresenta il momento più alto della convivenza umana e della
maturità dell'individuo, tanto che ha parlato, in questa fase della vicenda
umana, della fine della violenza, della stessa lotta di classe; e quindi del
superamento delle classi. Dobbiamo rifiutare, anche nelle lotte quotidiane,
ogni forma di violenza ed emarginare chi nelle manifestazioni di piazza usa il
casco, il passamontagna, bastoni e via dicendo. Alle manifestazioni, come ha
detto Bertinotti al "Corriere della Sera", si va a viso scoperto e
senza nessun "orpello". Credo che ogni comunista rifiuti poi il
terrorismo. Il terrorismo è abominevole, oltre che politicamente nefasto. Detto
questo, credo che vadano accettate e fatte proprie, seppure con spirito
critico, le grandi Rivoluzioni che hanno cambiato il mondo e che, in quel
contesto, sono state caratterizzate dalla violenza.
Francesco Lusciano Chioggia (Ve)
La lezione
di Zanotelli
Caro direttore, conosco Alex Zanotelli, in parte
tramite un breve rapporto epistolare, avvenuto anni fa, in parte per averlo
letto per tanti anni, sulle pagine di "Nigrizia" e sui suoi libri.
Quello che fa Zanotelli è un'opera grande e utile, senza dubbio. Ma è lecito
ricordare che la sua filosofia non è tutto. La nonviolenza affronta degnamente
molti problemi, ma non li risolve tutti. Quando un popolo è oppresso oltre
certi limiti, è suo diritto naturale ribellarsi e rivoltarsi. Ma c'è di più. Non
occorre essere rivoluzionari per vedere che la rivoluzione, quando c'è, è un
fenomeno inevitabile, è logica conseguenza delle premesse. Date certe
condizioni, prima o dopo la rivoluzione si verifica per forza, proprio come
lasciando un libro sospeso a mezz'aria, questo non può far altro che cadere.
Marx e Lenin non hanno inventato una teoria personale, hanno analizzato,
invece, il funzionamento del mondo, proprio come Newton studiò la meccanica e
Maxwell studiò l'elettromagnetismo: c'erano già, non sono loro invenzioni. La
storia ha sempre mostrato che quando le condizioni la rendono inevitabile, la
rivolta e la rivoluzione si manifestano. I rivoluzionari possono accelerare il
processo, ma ciò che fanno è solo collaborare ed aiutare un evento inevitabile.
Studiare la nonviolenza va benissimo, ma fintanto che essa non sarà accolta sul
serio da chi detiene il potere (cosa che, sfortunatamente, non avviene
affatto), i comunisti non devono covare illusioni eccessive, e non devono
dimenticare Marx e Lenin.
Vincenzo Zamboni Verona
Non è un valore
assoluto
Caro Curzi, Bertinotti è stato esplicito
nell'affermare che la non violenza non va assunta come valore assoluto e,
quindi, non va "pensata come valida in ogni luogo e in ogni tempo".
Questa precisazione (forse sollecitata dai dubbi di Ingrao) è di fondamentale
importanza, perché si innesta nell'alveo della tradizione comunista italiana,
da Gramsci a Berlinguer, che ha sempre ispirato la sua azione politica ai
principi della non-violenza senza, però, demonizzare scelte di altri movimenti
che, per motivi oggettivi, hanno fatto uso della violenza e "non potevano
essere gentili".
Lucio Piccoli Locorotondo (Ba)
Il comunismo,
percorso di liberazione
Cari Sandro e cara Rina, ho 29 anni e da poco (dal
2001) mi sono iscritta al Prc. Vorrei dire che ho sempre associato il comunismo
all'idea di un percorso, certo tortuoso e non lineare, di emancipazione delle
donne e degli uomini di tutto il mondo. Ora seguo con molto interesse il
dibattito che si è innescato sulla rifondazione, la violenza la religione e il
partito europeo. Sul passato riesco a stento a concepire alcuni giudizi
sull'Urss, ma sinceramente non riesco proprio a considerare il Pc cinese
interlocutore del movimento. Lasciando da parte i giudizi su un'economia del
tutto integrata nell'economia capitalista globale (pensiamo alle zone dove si
insediano le multinazionali Hi-Tec), ma è possibile considerare solo errori le
migliaia di uomini e donne imprigionati perché sindacalisti, le fucilazioni
negli stadi, l'impossibilità di recarsi all'estero. Per non parlare delle
condizioni di lavoro e di vita dei cinesi. Se io fossi convinta della bontà di
quelle società andrei là a vivere, se li si sono affermati valori e ideali di
giustizia e libertà non ci metterei un attimo: farei le valigie e via! Mi
chiedo in nome di quale comunismo a volte io milito e mi sforzo di affermare:
di quei regimi proprio no, non vorrei essere portatrice e per questo vivo
intensamente la rifondazione, il ritorno a Marx disincrostato dalla muffa dottrinaria,
la rebeldia zapatista e il movimento altermondialista!
Cristin Casello Cesate
Quelle analisi
degli anni Venti
Cara "Liberazione", il dibattito in corso
sulle pagine del giornale circa l'ideologia del partito, sta, anche questa
volta, trascurando completamente il particolare che, dagli anni '20, una
componente del Movimento operaio internazionale, quella della "Sinistra
internazionalista", aveva già pienamente compiuto tutte le analisi
opportune circa lo stalinismo, l'Urss e le sue degenerazioni, i Gulag e così
via. Negli anni '50, il "settario" Bordiga aveva descritto con
precisione ciò che sarebbe avvenuto ai tempi di Gorbaciov ed Eltsin.
Divinazione? Nossignore! Analisi marxista di una realtà. Se si vuol analizzare
il passato, non si può fare a meno di quel patrimonio teorico che aveva visto
giusto, e da un punto di vista esclusivamente marxista.
Vincenzo Cerceo Trieste
La violenza
contro la violenza
Cara "Liberazione", innanzitutto impostare
la discussione sul binomio violenza-non violenza mi pare quantomeno improprio.
Neanche il più incallito fascista rivendicherebbe l'utilizzo della violenza in
quanto tale. Così come in caso di guerra nessuno si autodefinisce guerrafondaio
nessuno in relazione alla violenza, se dotato del bene dell'intelletto, si
autodefinirà violento. Mi pare ovvio e scontato. A mio avviso, il vero quesito
da porre, il vero nodo da sciogliere, è: nella lotta di classe è legittimo
l'utilizzo della forza (della forza non della violenza, sono due cose
estremamente diverse) per difendersi dalla violenza dell'avversario di classe?
La risposta, ovvia e scontata, è sì. Senza scomodare la storia del movimento
comunista, dalla Comune di Parigi, passando per la Rivoluzione di Ottobre e dal
Vietnam fino ad arrivare ai giorni nostri, decenni di militanza nel movimento
dei lavoratori mi hanno insegnato che i lavoratori non amano la violenza ma non
amano neanche farsi mettere i piedi in testa.
Enrico Baroni via e-mail
Che significa
"rivoluzione"
Caro direttore, interpretare Marx come avesse semplicemente
teorizzato una sorta di lungo processo culturale è una forzatura. Volendo
citare una nota frase dell'"Ideologia tedesca" è bene far dire a Marx
ciò che Marx disse: "...la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la
classe dominante non può essere abbattuta in nessun'altra maniera, ma anche
perché la classe che l'abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi
di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi
nuove la società". Infine, se non si vuole rinunciare a un orientamento
strategico anticapitalista e a una uscita da sinistra dalle esperienze di
"socialismo realizzato" non si imboccano vie utopistiche - gli
"spazi liberati dal mercato", "le isole fuori" dal capitale
e dalla guerra - analogamente fumose, disorientanti e compatibili non con il
miglior mondo possibile, ma con quello che abbiamo, quanto quelle che il
movimento operaio ha conosciuto più di un secolo e mezzo fa. Ma non fu proprio
Marx determinante (nella sia analisi e nel suo impegno rivoluzionario) per
farlo uscire da quelle pericolose secche?
Gianna Tangolo via e-mail
Quando alla violenza
non si può rinunciare
Caro direttore, il dibattito sulla non-violenza che si
sta svolgendo su "Liberazione", non può non riguardare la vita del
Prc, in quanto la rinuncia ad alcune credenze (come quella secondo la quale
"la violenza è la levatrice della storia") compromette la natura del
Prc e la sua esistenza come partito di classe del e per il proletarito. La
rivoluzione comunista è un'azione collettiva che mira all'abbattimento del
capitalismo per una nuova formazione sociale basata sulla giustizia e
l'uguaglianza, ma - come scriveva Engels - la rivoluzione è certamente la cosa
più autoritaria che ci sia; è l'atto per il quale una parte della popolazione impone
la sua volontà all'altra parte. Con ciò non intendiamo affermare che il
marxismo e la sua applicazione implicano necessariamente l'uso della violenza,
ma la violenza è qualcosa di conseguenziale a cui non si può rinunciare in
determinati periodi storici, quando, cioè, non se ne può fare a meno. Si
potrebbe dire agli iracheni di usare strumenti non violenti contro le bombe
americane? Si potrebbe dire ai palestinesi di alzare le mani di fronte ai
carrarmati israeliani? Decisamente no.
Francesco Saverio Oliverio
Barbara Alessio via e-mail
E la trasformazione
individuale?
Caro direttore, accanto al pensiero politico non
violento, alla trasformazione sociale, alla creazione di una nuova
relazionalità, è necessario pensare anche alla trasformazione individuale,
perché in ognuno di noi ci sono i riflessi della violenza, che da sempre
ispira, a tutti i livelli, la vita sociale. Per questo abbiamo messo su dei
laboratori sperimentali "meditattivi", il raddoppio della consonante
sta proprio a significare la simultaneità del lavoro su noi stessi (con la
meditazione) e del lavoro politico e sociale (l'azione): due movimenti
"eversivi" che devono co-esistere in ognuno di noi, uno rivolto a
cambiare la nostra interiorità, l'altro a partecipare attivamente alla vita sociale
in modo collaborativo e solidale: un crogiuolo da cui può scaturire un nuovo
processo di civilizzazione totalmente disarmato. I laboratori di questo
movimento per la pace (gratuiti) si tengono: il pomeriggio del secondo sabato
di ogni mese, a Monterappoli (Empoli), via Crudele 2/h (telefono 0571589211;
per contatti: e-mail garetti@interfree. it.
Gian Luca Garetti via e-mail
lenin
I suoi compiti
e i nostri
Cara "Liberazione", ho conosciuto Lenin
quando, ancora adolescente, militavo in Avanguardia Operaia. In quegli anni
Lenin era un indiscutibile, lo si leggeva solo per imparare, non certo per
sottoporlo al vaglio della critica, ma già a quel tempo faticavo ad entrare
nella mentalità del rivoluzionario di professione, nell'adattarmi ad un
centralismo democratico che mi sembrava mortificare le minoranze,
nell'accettare una disciplina di partito che era pur sempre una
"disciplina", e come ogni disciplina, sospetta ad un giovane
"ribelle"; il Lenin del "Che fare" e del Partito mi è
sempre stato ostico, anche se non potevo tralasciare il fatto che quel Partito,
e nessun altro, aveva fatto la Rivoluzione. Il tempo è passato, e nell'epoca
dei computer e delle comunicazioni di massa, un partito come quello bolscevico
è un improponibile dinosauro della politica; ma quel partito oggi impensabile,
era solo la forma storica in cui si organizzavano le avanguardie, la parte più
cosciente del proletariato: la forma è passata, ma il problema
dell'organizzazione delle avanguardie politiche e sociali e ancora sul campo, e
con essa la riflessione sul ruolo della soggettività. Lenin diede le sue
risposte ed è difficile negare la loro efficacia; saremo noi in grado dare le
nostre risposte? La rifondazione è anche questo.
Claudio Ursella Roma
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da Liberazione del 30-1-'04
La nonviolenza non significa rinuncia al conflitto
Tiziano Rinaldini
"Il conflitto sociale è il sale della
democrazia". "La democrazia è per i
lavoratori come l'acqua per i pesci". Sono
affermazioni che spesso in
questi anni sono state fatte (da alcuni, non molti per
la verità) in
particolare in relazione al tentativo di stabilire un
rapporto di
dipendenza della violenza politica dal conflitto
sociale ed in relazione
alla iniziativa dei metalmeccanici con la scelta della
Fiom di rivendicare
la titolarità contrattuale dei lavoratori ed il
vincolo del loro consenso
da esercitarsi con il voto segreto nel decidere
piattaforme e accordi.
Non credo che le si possa assumere come artifizi
retorici. Io le prendo
molto sul serio, e a partire da queste vi propongo una
riflessione che
vuole essere un contributo alla discussione in corso
sulla non violenza,
chiarendo di partenza la mia condivisione della
necessità oggi di una
scelta su questo piano di carattere strategico per
chiunque si proponga un
processo di trasformazione della realtà (forse)
possibile e degno di questo
nome, cioè per affermare principi e condizioni di
eguaglianza, solidarietà
e libertà.
Le affermazioni che ho richiamato di partenza a me
paiono fondate su alcun
presupposti. Il primo è che i lavoratori e le
lavoratrici (e cioè gli
uomini e le donne in quanto indissolubilmente
partecipati dalla dimensione
lavoro nelle diverse forme in cui ciò si determina in
una società
capitalista) sono potenzialmente portatori di un punto
di vista altro
rispetto a quello del capitale, e quindi soggetto
sociale in grado di
fondare su base materialistica una capacità autonoma
(e non in ultima
istanza necessariamente subalterna), che apra quindi
spazio alla rimessa in
discussione del complessivo reticolo di domini
oppressivi sugli uomini e le
donne.
In questo senso, l'antagonismo è un dato costitutivo
della realtà in cui
viviamo, non è qualcosa che si decide in un qualche
organismo dirigente o
in un dibattito politico-culturale. Ciò che noi
possiamo fare è scegliere
come rapportarsi con questo dato di realtà,
consapevoli che anche noi siamo
interni a questo antagonismo.
L'altro presupposto che voglio richiamare si riferisce
al fatto che nessuno
può sostituirsi al soggetto sociale antagonista e
potenzialmente
alternativo e nel contempo il soggetto non è
semplificabile nelle pur
indispensabili organizzazioni e associazioni che di
volta in volta ad esso
si richiamano, e neanche si può pensare che la
questione sia risolta con i
movimenti (pur decisivi) o le assemblee che di volta
in volta si
determinano. Sono gli uomini e le donne, tutti e
tutte, che compongono il
soggetto sociale che debbono poter sempre decidere su
ciò che interviene
sulla loro condizione, con una capacità di
organizzazioni e associazioni
(avanguardie?) di favorire questa possibilità nel
contempo a ciò
attenendosi e vincolandosi.
Pare evidente che tutto ciò richiede decisivamente il
conflitto sociale, il
quale a sua volta per esprimersi ha assoluto bisogno
della democrazia
(l'acqua per i pesci). Senza questo, c'è la guerra e
il conflitto di tutti
contro tutti; c'è la negazione o la rimozione
dell'antagonismo sociale, le
illusioni di poter sostituire democrazia e conflitto
sociale con l'opera
"lungimirante" di avanguardie o con la pur
rispettabilissima predicazione
etica.
Io credo che sia qui oggi un punto fondante decisivo
della ipotesi della
non violenza, la novità del percorso con cui arrivarvi
rispetto al passato,
il problema del "salto" posto da Ingrao.
Solo una dimensione processuale di
partecipazione che chiami in causa attraverso la
democrazia (e quindi il
diritto a decidere attraverso il principio
maggioritario) il soggetto
sociale (tutti e tutte) può permettere che le
dinamiche di trasformazione e
opposizione siano comunque nelle mani del soggetto
sociale stesso, e non
decise da altri per conto loro, riproducendo
inevitabilmente le
caratteristiche autoritarie ed oppressive del potere
che si mette in
discussione.
Un'idea violenta sulle forme della lotta sociale e
politica per affermare
opposizioni e alternative riconduce a logiche militari
e sospende
inevitabilmente la democrazia e l'esercizio
democratico e trasparente del
rapporto con il soggetto sociale. In questo senso oggi
non si può che
scommettere sull'ipotesi della non violenza, insieme a
quella della
democrazia e del conflitto sociale.
E proprio per questo, eviterei una discussione che
porti ad approcci
fondamentalisti o ad ambigue distinzioni ("quando
ci vuole, ci vuole",
diceva il genitore o la genitrice quando menava il
figlio). Ed è proprio
per questo quindi che il discorso sulla non violenza
non può che essere
l'opposto di un discorso che introduca riserve o
addirittura rinunce al
conflitto sociale ed al riconoscimento
dell'antagonismo come dato vitale
della realtà...
Continua, me lo auguro, la cultura critica che su basi
materialiste a
partire dall'800 riconosce antagonismo e soggetto
sociale come presupposto
per una trasformazione dell'esistente con il conflitto
sociale e politico.
Non ha più prospettive l'ipotesi che ciò possa
avvenire con passaggi di
esercizio violento e non democratico del potere.
Su questo punto infatti nel percorso storico del
movimento operaio (e anche
di altri movimenti), nelle diverse articolazioni (con
pur rilevanti
eccezioni minoritarie e a suo tempo sconfitte), il
problema non ha mai
trovato soluzione strutturale e strategica riguardo il
riconoscimento e
l'accettazione dell'esercizio della democrazia da parte
del soggetto
sociale di riferimento come vincolo da darsi
nell'esercitare potere. Si
spiega forse in questo il fraintendimento sui
lavoratori assunti
essenzialmente come "forza-lavoro" e quindi
indistintamente come merce, e
non come uomini e donne irriducibili a merce, qui ed
ora, e quindi unici
possibili protagonisti decisori di una trasformazione.
Sta in questo una subalternità di fondo alla cultura
del capitale e ad una
cultura propria delle dinamiche che si sono costruite
per l'avvento e il
consolidamento del capitalismo, con la illusione che
alcuni, impadronendosi
di questa cultura, gliela potessero giocare contro per
dare (naturalmente,
dopo) al soggetto sociale la possibilità di essere
soggetto.
Tiziano Rinaldini
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Ieri i Partigiani della Pace, oggi i no-global
(...) Forse una riflessione sul quel movimento dei
Partigiani della Pace
può costituire un contributo alla discussione in corso
su violenza e non
violenza nella lotta politica contro le centrali
capitaliste dell'attuale
fase della storia.
Quel movimento si proponeva due obbiettivi: la messa
al bando dell'arma
atomica che era stata usata in modo criminale a
Nagasaki e Hiroshima; la
distensione attraverso "l'incontro dei 5
grandi" cioè dei titolari di un
seggio del consiglio di sicurezza dell'ONU per vincere
la pace dopo che si
era vinta la guerra.
Ma non solo gli obbiettivi erano pacifisti, ma anche
il mezzo di
mobilitazione fondamentale di diecine e diecine di
milioni di persone
specialmente nei paesi occidentali (in Europa, negli
Usa ecc..) era
rappresentato dalla più pacifica e non violenta
pratica, cioè quella della
raccolta delle firme, sostenute da grandi
manifestazioni di massa
pacifiche. Il movimento era sostenuto da importati
iniziative politiche
nell'ambito delle istituzioni locali e aprì un ampio
dialogo tra forze
politiche diverse comunisti, socialisti, cattoliche
ecc. Nel mezzogiorno e
in Sicilia aderirono per il comitato della pace
sacerdoti, esponenti
persino del movimento separatista e di quello
anarchico.
Questo movimento ebbe come risultato positivo un
ripudio di massa dell'uso
delle armi di distruzione che ancora rimane nella
coscienza popolare,
impedì di fatto l'uso preventivo della bomba atomica
nello scontro tra
paesi capitalistici e l'Unione Sovietica.
Nel movimento comunista questa linea fu avversata da
coloro che volevano
riprendere la lotta armata come in Grecia, o da coloro
che pensavano al
movimento per la pace come un fatto momentaneo e
strumentale, mentre invece
bisognava porre mano alla ricostruzione di quella
internazionale comunista
che aveva fatto della lotta armata per il potere il
cardine e il punto di
sbocco della sua politica.
La costituzione del "Cominform" costituiva
un primo passo verso una ripresa
di questa linea e la proposta di Stalin di nominare
Togliatti a capo della
Cominform tendeva a dare a questo organismo un ruolo
conforme a una
tradizione che era stata giustamente abbandonata...
Da allora è passato più di mezzo secolo e oggi la
situazione è
profondamente mutata anche per la resa del gruppo
dirigente dell'Unione
Sovietica di fronte alla strapotere militare
dell'America di Reagan ( si
veda la conclusione dell'articolo di Raniero Della
Valle) capace di
scatenare la guerra atomica preventiva.
Continuano ad esistere le contraddizioni fondamentali
su cui ha operato il
movimento comunista nei primi 150 anni della sua
esistenza. La
contraddizione derivante dalla alienazione del lavoro
salariato e la
contraddizione derivante dallo sviluppo ineguale
(questione nazionale,
coloniale, agraria ecc.).
Queste contraddizioni si mantengono anche se si
presentano in forme
completamente nuove in tutti i luoghi di produzione,
nel contesto delle
relazioni tra sviluppo e sottosviluppo, nel rapporto
tra Nazioni fortemente
influenzate e sostenute dagli ideali e dallo stato
dato dalla rivoluzione
di ottobre e che hanno portato a processi di
decolonializzazione e di
indipendenza a partire dalla Cina e dall'India, fino
alla vittoria di
Nelson Mandela contro il razzismo in Sud Africa, che
chiude un periodo
della storia dell'umanità iniziata con la scoperta
dell'America nel 1492.
Ma avvertivano che due (non una!) contraddizioni oggi
si presentano con
caratteristiche nuove la questione della guerra e la
questione
dell'ambiente. La questione della guerra sempre
presente nella teoria e
nell'azione dei movimenti originati dal Manifesto del
1848, ha assunto a
seguito della guerra fredda e dello sviluppo
tecnologico degli armamenti,
caratteristiche nuove: da un lato per la prima volta
nella nostra epoca,
l'umanità, come è stato più volte, ha nelle sue mani
armi che possono
provocare la distruzione di se stessa e delle attuali
forme di vita sul
pianeta; dall'altro il lungo periodo di guerre e
guerreggiate e il lungo
periodo di guerra fredda hanno legato in maniera
pressoché indissolubile le
sorti dell'economia capitalistica alla produzione di
armi e alla ricerca
scientifica ad essa collegata. L'economia militare è
diventata perciò il
perno e lo strumento di regolazione del ciclo
economico, la principale
fonte per la ricerca scientifica (a cui viene
destinata gran parte delle
risorse pubbliche posseduta dai paesi più
industrializzati): diviene così
il regolatore della stessa vira sociale e politica, in
quanto a protezione
del sistema militare vengono allestiti enormi apparati
di servizi segreti
che finiscono col condizionare l'intera vita associata
svuotando il
contenuto democratico delle istituzioni della
democrazia occidentale. E
cosi siamo arrivati attuale fase della guerra
preventiva e infinita di
Bush, che giustamente viene vista come il pericolo più
imminente e
incombente.
Ma esiste un'altra grande contraddizione che non era
presente nella
coscienza e nell'effettiva realtà di un secolo e mezzo
fa o di solo 50 anni
fa, ed è costituita dalla questione ambientale generata
dallo sviluppo
produttivo affidata alla legge del profitto;
Essa risulta evidente ogni giorno di più attraverso
l'inquinamento
dell'aria, della terra e dell'acqua, l'effetto serra,
i processi di
deforestazione massiccia, la desertificazione con la
riduzione delle
risorse idriche e la loro privatizzazione, ed è
prodotta soprattutto da un
modello di sviluppo energetico basato sul carbone e
sul petrolio e su altre
fonti non rinnovabili, che riversano nell'atmosfera i
composti del carbone
che la natura nel corso di milioni di secoli aveva
immagazzinato nelle
viscere della terra rendendo possibile la vita come
oggi la conosciamo sul
nostro pianeta...
L'assunzione della questione ambientale da parte del
movimento comunista e
da parte del movimento no-global dell'Europa
occidentale (l'ambientalismo è
essenzialmente non violento in tutte le sue
manifestazioni teoriche e
pratiche) rende più valida l'affermazione di
Bertinotti quando dice: " io
non ritengo che la non violenza sia una categoria
etica, dunque applicabile
in ogni tempo ed in ogni luogo. Ciò che affermo e che
hic et nunc, cioè
nella politica oggi, la non violenza è l'unica
modalità per esprimere tutta
la radicalità dei bisogni che si oppongono alla nuova
società capitalistica".
Nicola Cipolla
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Ma è in corso una guerra civile?
Siamo arrivati ai ferri corti?
Caro direttore, non vorrei essere presuntuoso ma ho
l'impressione che il
dibattito sulla violenza non sia altro che un
diversivo.
E' un dato di fatto che il tema sia stato proposto
(imposto?)
dall'amministrazione Usa e che la spirale
guerra-terrorismo sia una vera
ideologia così come ci viene appunto presentata.
Perché viene fatta propria
come interpretazione della realtà?
Non parliamo della prepotenza, del dominio, dello
arbitrio, della
sopraffazione ma parliamo delle "reazioni
violente" dei deboli, dei
dominati, dei sottoposti, dei sopraffatti. Perché
confondiamo resistenza
armata e terrorismo, gesti disperati e kamikaze,
reazioni di autodifesa e
azioni programmate e finalizzate?
E' in corso una guerra civile (ossimoro eloquente) in
Europa? Siamo
arrivati ai ferri corti? (bei tempi allora quando,
appunto per la misura
dei "ferri", si poteva guardare in faccia il
nemico!). La presa del palazzo
incalza?
Se questo non è, perché parlare del sesso degli
angeli? E per rifondare il
comunismo abbiamo veramente bisogno di partire da
questo problema?
Non credo, certo è meno impegnativo parlare se sia
giusto o no usare la
violenza piuttosto che affrontare il nodo vero e duro
della produzione e
del consumo alla "luce della conoscenza
scientifica" che già da tempo ha
modificato completamente i riferimenti
dell'antropocentrismo universale.
Se è vero come è vero che il nostro mondo è un sistema
chiuso che vive
soltanto in quanto riceve energia dal sole, perché non
viene messo questo
fatto al centro dell'analisi politica?
Continuiamo a pensare che la terra sia infinita;
benché quotidianamente
tanti uomini le girano comodamente intorno il loro
punto di vista non
cambia. Possiamo espanderci senza limite?
Secondo me è proprio qui che sta il problema,
interiore prima che
esteriore, nel riconoscimento che il meccanismo del
potere che genera la
guerra (in tutte le sue forme) deriva dalla incapacità
culturale di
accettare la propria limitatezza, il proprio
appartenere intrinsecamente ad
un unicum che comprende tutto ciò che chiamiamo vita.
Se noi siamo parte, autodefinita intelligente, di
questa stupefacente vita
che noi stessi siamo riusciti a conoscere e che dura
su questo ciottolo di
universo da quattro miliardi e mezzo di anni e che
così tanto tempo ha
impiegato per raggiungere le forme e la complessità
che conosciamo, perché
continuiamo a far finta di non sapere quello che
sappiamo? Perché
continuiamo a operare contro le leggi fondamentali
della fisica e della
biologia?
La favola della Genesi sul paradiso terrestre è molto
istruttiva a
riguardo: Adamo ed Eva avevano a disposizione tutto
per soddisfare i loro
bisogni, il loro "peccato" è stato di
orgoglio, voler essere come Dio! (che
cosa altro è quello che sta facendo oggi la
tecnologia?).
Ma per tornare al nodo duro della produzione e del
consumo, come si
affronta? Soltanto con la "lotta di classe"?
Veramente crediamo che gli
artefici della storia siano i "Potenti" di
turno? Veramente pensiamo che
solo dopo aver "preso il potere" si possano
cambiare le linee di fondo
della nostra vita quotidiana?
Intanto continuiamo a produrre (sempre di più
altrimenti il Pil si
ammoscia!) montagne di oggetti ecologicamente assurdi
e a consumarli con
una voracità crescente e mai sazia. Chi deve cambiare
il modo di produrre
le cose?
Chi può cambiare il modo di consumare?
Ogni uomo ha il suo percorso di conoscenza e di azione
ed è responsabile di
questo.
Vale per la questione della violenza, vale per la vita
materiale di tutti i
giorni.
Per far traboccare il vaso ci vuole l'ultima goccia ma
cosa è l'ultima
goccia senza ciascuna di tutte le altre?
Tutti i "grandi" accadimenti, anche quelli
socio-politici funzionano così.
Non c'è nulla di più avvilente, negli ultimi tempi,
della lotta politica
attorno alla "merce-potere" mentre si
continua a perpetrare con sempre
maggior accanimento questa specie di stupro incestuoso
produttivo che noi
chiamiamo sviluppo.
Continuiamo a pensare noi stessi fuori da quell'Unicum
che ci fa vivere.
Forse abbiamo qualche problema, forse non siamo stati
amati da piccoli?
Pierino Pennesi Allumiere (Rm)
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Il mio essere comunista
Caro direttore, il mio essere comunista a volte mi
costringe in ambiti
stretti. Non sopporto le prevaricazioni e non vorrei
mai prevaricare su
alcuno. Le certezze si sono dissolte con gli eventi: è
democrazia Cuba? E
il mio Che era violento? E il sacrificio di tante e
tanti disperati di
Palestina è conseguenza della metodica distruzione
delle case da parte del
governo Sharon o ne è la premessa? Il mio essere un
nuovo comunista a volte
mi assilla. Forse se tutti ci interrogassimo sulla
qualità di vita - intesa
in una nuova prospettiva di confrontarsi con le
variabili del vivere
quotidiano - che vogliamo, potremmo riconsiderare le
nostre obsolete
convinzioni. Il mio essere una presenza storica nella
vita della mia città,
semplicemente come attore di una nuova speranza, mi
porta a domandarmi se e
quale futuro posso dare alle prossime generazioni,
quando conflitti
semplici vengono distorti in modo iniquo. Mi spiego. A
Marghera si vuole
proporre il raddoppio - lo chiamano equilibrio - della
produzione di Pvc e
nessuno ne parla, però ad ogni suono di sirena tutti
si infuriano. Si
combatte contro l'elettrosmog, e tutti usano i
telefonini. Ma nessuno
considera la pericolosità di certe produzioni
chimiche, che quelle sì
attentano alla nostra vita. Il mio essere uomo mi
costringe in ambiti
sempre più chiusi e bui. Ho dubbi! E chiedo a tutti di
risvegliarsi. Di
cercare la non violenza che è in noi e comunque di non
rinunciare al
diritto di essere protagonisti.
Pino Coppola Marghera-Mestre (Ve)
L'origine lontana della scelta di pace
Caro Curzi e cara Gagliardi, è con disappunto e
rincrescimento che in tante
relazione e interventi dei dirigenti di partito e in
tante lettere di
compagni ed amici che vanno ad arricchire il nostro
interessante dibattito
sulla non violenza e sulla pace, non venga mai citata
l'origine lontana di
questa nostra scelta. Infatti questa scelta
fondamentale che si inserisce
nella nostra identità genetica risale al vecchio e
glorioso Pci e, in
particolare, al suo segretario generale, Palmiro
Togliatti, il quale ebbe a
dichiarare che con l'avvento dell'era nucleare
"la pace è irreversibile"
cioè senza se e senza ma.
Arnaldo Giacchini via e-mail
La rivoluzione non è un pranzo di gala
Il movimento operaio, i partiti comunisti e le forze
democratiche hanno da
sempre rifiutato l'uso della violenza gratuita, la
spirale nichilista del
terrorismo, l'impotenza della lotta armata del piccolo
gruppo clandestino e
visionario che scambia l'apparenza per la realtà. Nel
comunismo noi abbiamo
sempre visto una prospettiva di lungo periodo,
l'utopia che diventa reale,
il luogo che c'è, perché l'analisi marxiana è fondata
sulla scienza; vi è
in esso il massimo di radicalità (basti pensare
all'idea dell'estinzione
dello stato, alla libertà e all'uguaglianza) coniugata
con il passaggio
storico del socialismo, cioè della rottura dei
rapporti di produzione
capitalistici che soffocano e distruggono le forze
produttive, che
presuppone a sua volta una strategia nella quale non
si può escludere il
ricorso alla forza. Come diceva Mao "La
rivoluzione non è un pranzo di gala".
Salvatore Distefano via e-mail
Sul saggio di Nichi Vendola
Caro compagno Curzi, ho letto con grande attenzione il
breve saggio
anticomunista di Nichi Vendola su
"Liberazione" di oggi (28 gennaio, ndr),
dal titolo "L'antagonismo non sia simmetrico alla
violenza che vogliamo
combattere". Devo confessare che tale lettura mi
ha determinato
un'impegnativa riflessione sulla tanto poetica quanto
stravagante filosofia
del/e sul comunismo. A questo punto non posso evitare
dal fargli una
sollecita esortazione: si renda il compagno Vendola promotore
della prima
internazionale anticomunista di sinistra e magari
vestita di rosso alla
quale, naturalmente, io non me la sentirò di aderire.
Vittorio Tremolizzo Cannole (Le)
Nuove gestioni di potere
La partecipazione diretta all'azione e alla lotta
(unico vero antidoto alla
violenza del dominio e alla guerra) non potrà crescere
se i processi e i
metodi della politica, anche nei movimenti, restano
quelli che sono; anche
l'attuale discussione resta tra pochi esperti e
specialisti, in fondo. Per
quel che ci spetta, è urgente sperimentare nuove
gestioni del potere e
dell'organizzazione a partire da noi, dai nostri modi
di comunicare,
discutere e decidere insieme. L'azione esterna è
l'ultimo passo, infatti,
di un modo di lavorare insieme, di trovare cooperativamente
delle vie
d'uscita, di trasformare positivamente le divergenze e
i conflitti, al
nostro interno. La coerenza mezzi-fini, in primo
luogo, riguarda proprio
questo. Fare una scelta orientata alla nonviolenza non
significa soltanto
inventare azioni e campagne che cambino il mondo senza
violenza, ma anche e
soprattutto trasformare la cultura delle relazioni
politiche: l'attenzione
alle dinamiche di un gruppo, la condivisione effettiva
delle regole, la
diffusione della leadership e dei poteri interni, la
ricerca di un vero
consenso, la trasparenza e la lealtà nelle relazioni,
la capacità di
esplicitare e valorizzare le differenze e i
conflitti.Tutto questo, nel mio
lavoro di formatore, non è un "optional" tra
gli altri, ma è al centro: se
vogliamo affrontare la "potenza"
dell'avversario possiamo e dobbiamo uscire
dalla passività e dalla delega, re-imparare a gestire
il nostro "potere", a
farlo emergere, a metterlo in rapporto con quello
degli altri. Credo che
qui si colga ancor più il valore e la difficoltà della
sfida che Bertinotti
apre, anche all'interno del suo partito. Ma vale,
credo che Revelli abbia
visto giusto (ed anche alcune reazioni
"negative" potrebbero stare a
dimostrarlo), per tutte le reti ed organizzazioni
presenti nel movimento.
La credibilità di tutti noi, anche verso il mondo,
passa da qui, dai
cambiamenti che sapremo realizzare in primo luogo tra
noi, in noi stessi.
Enrico Euli via e-mail
Caro Curzi, la mia età avanzata non mi permette di
essere immerso nel
movimento e, forse, di recepire ciò che è più sentito
e più utile per il
partito. Però, stimolato dall'intervista di fausto
Bertinotti apparsa su
"Liberazione" del 27 gennaio, intendo
esprimere alcune opinioni. Dico
subito che l'intervista di Bertinotti mi ha chiarito
molti dubbi, ad
esempio quello relativo all'approdo della nonviolenza,
che non è di tipo
etico e non propone un modello di comportamento valido
in ogni luogo e in
ogni tempo, chiarimento che, almeno in me, elimina non
poche perplessità.
Detto questo devo dire con franchezza che non
concordo, però, con
l'affermazione che non ha senso interrogare i nostri
nonni, i nostri padri,
che hanno fatto la lotta armata. Ora io apprezzo il
tentativo di arricchire
la teoria e al progresso della teoria come corpo
organico di conoscenze
dello sviluppo storico, sociale ed economico i
classici del marxismo hanno
sempre attribuito una importanza fondamentale. Proprio
Marx ci insegna che
tutto muta e si trasforma e nulla è eterno, per cui
ciò che poteva essere
valido ieri, può non esserlo più oggi.
Giuseppe Sacchi Milano
Dobbiamo interrogare i nostri nonni
Caro Sandro, terrorismo, pacifismo, ma che dibattito è
se non siamo capaci
di leggere obiettivamente gli eventi. Se la lettura
della cronaca d'oggi o
la storia passata sono falsati da opportunismi
politici, falsi moralismi,
paura di compromettersi troppo e di perdere voti.
Nell'articolo che firmi
con Rina Gagliardi (18 gennaio) vi incartate con due
esempi, del passato
recente, che fanno riflettere. I bambini palestinesi
che durante la prima
Intifada si opponevano ai carri armati israeliani con
le fionde sono stati
ammazzati dagli stessi carri armati che non guardavano
in faccia nessuno.
Si sono smosse le coscienze, ma l'Europa ha messo in
campo solo lo sdegno.
Oggi neanche quello. E mentre si adopera per prendere
eque distanze, i
bambini continuano a morire. E' vero, la dimensione
della tragedia è ormai
nel sangue del popolo palestinese, si eredita di
generazione in generazione
e porta all'assurdo. Ma se dialoghi con un
palestinese, dolorosamente ti
spiega che hanno quel solo modo di non farsi
dimenticare dal mondo, di
chiedere il sostegno dei milioni di pacifisti,
affinché in massa vogliano
ancora difendere il diritto di tutti i popoli ad avere
una patria, senza
muri e soprusi.
Maria Concetta Spinelli
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dal manifesto del 30-1-'04
Ma perché gli uomini fanno le guerre?
CARLA RAVAIOLI
Gli studi sull'aggressività umana non hanno mai spiegato
perché gli umani,
al contrario di tutti gli altri animali esistenti, si
dedicano a lotte
contro i propri simili. Perché, insomma, abbiamo
inventato le guerre
Con il suo discorso su violenza-e-non Bertinotti fa la
cosa giusta. Forse
la cosa più vicina a una vera
"rifondazione". Non solo del comunismo ma
della società in toto. Non limitarsi ad auspicare la
non-violenza, ma farne
una proposta politica e affermarne la necessità, è il
gesto politicamente
più radicale, anzi il più sovversivo, il più carico di
conseguenze, e
insieme il più attuale, che oggi si possa compiere. E
lo dimostra il fitto
e appassionato dibattito che da un paio di settimane
dopo l'intervento del
segretario si svolge su "Liberazione",
allargandosi anche sul "manifesto",
ospitando voci di alta autorevolezza (Ingrao per ben
due volte) e di
numerosi militanti di base, voci diverse, alcune anche
decisamente
dissenzienti, tutte profondamente coinvolte. I più
insistono però sulla
violenza come parte della storia e dei comportamenti
tradizionali delle
sinistre (da criticare o rivendicare), o come
tentazione presente nella
pratica politica d'oggi, tra i giovani sopratttutto.
Pochi (ma proprio
questo dice quanto il problema sollevato sia opportuno
e chieda
approfondimento) si impegnano sull'intero discorso di
Bertinotti, il quale
pone il problema in tutta la sua ampiezza e tutte le
sue implicazioni, non
solo con coraggio avventurandosi sul difficile terreno
del confronto col
proprio "grande e terribile" passato, ma
anche mettendo a fuoco il rischio
che rispondere alla violenza con la violenza comporta:
rischio di
somigliare all'avversario, di essere penetrato dalla
sua logica e dal suo
linguaggio, di non riuscire più a liberarsene. Proprio
questa è invece la
più drastica e proficua "rottura di schema"
- come la chiama Ingrao - che
il discorso propone. Schema che certo sta alla radice
di quella stessa
lotta armata apparsa ai vecchi comunisti
"ineluttabile percorso di
liberazione dallo sfruttamento capitalistico",
ciò che a lungo non ha loro
consentito di trovare "una vera distanza critica
né dalla violenza né,
certo, dalla guerra". E che ancora oggi
condiziona in qualche misura
posizioni e scelte politiche specie tra le sinistre
"antagoniste", come
qualche intervento esplicitamente testimonia. E' Marco
Revelli in
particolare a misurarsi con questo immane problema,
d'altronde a lui
congeniale e più volte affrontato nei suoi libri.
Nell'articolo sul
"manifesto" non solo parla di
"retroazione che la violenza opera su chi la
pratica", addirittura di "metamorfosi
antropologica che la violenza impone
al soggetto che si trova a impiegarla", usando
concetti vicini a quelli di
Bertinotti, ma vede nella non-violenza l'unico
possibile "nuovo inizio" da
proporre in un'epoca in cui "la guerra è
diventata la forma stessa della
vita sociale". E su questa lunghezza d'onda si
snoda anche l'intervento di
Paolo Cacciari, per il quale "la nonviolenza va
cercata oltre il pacifismo".
Al di là della inaudita distruttività raggiunta, in
una irresistibile
escalation da Hiroshima in poi, dalle tecnologie
belliche. Al di là del
salto epocale segnato dalla geopolica della
"guerra preventiva", il quale
in un mondo divenuto unipolare cancella quelle regole
internazionali che in
qualche modo potevano contenere la minaccia dell'annientamento
totale. Al
di là del terrorismo, surrogato della guerra - dice
Raniero La Valle -
divenuta proprietà di un solo padrone. Al di là della
guerra ormai
normalmente usata - secondo un'opinione oggi
largamente condivisa - come lo
strumento più sicuro per risolvere crisi e depressioni
economiche. Al di là
insomma della violenza dispiegata come tale, senza
infingimenti, senza
aggettivi intesi a contrabbandarla per altra cosa, se
davvero si vuole
"iscrivere la radicalità in una pratica di non
violenza", come propone
Bertinotti, non basta dire no alla guerra. Bisogna
dire no a un mondo che
la guerra l'ha incorporata come sistema, che della
violenza ha fatto la
ricetta del proprio agire quotidiano.
I giovani dei movimenti l'hanno capito, quando fanno
del loro "No alla
guerra e no al neoliberismo" i due pilastri del
loro impegno e la base
imprescindibile di ogni possibile dialogo con le forze
politiche
istituzionali. Senza approfondite analisi,
semplicemente ma fermamente
proponendo in un unico slogan i due "no",
mostrano di sapere che non è
guerra solo quella guerreggiata a suon di bombe, ma lo
è anche la morte per
fame, la crescente distanza tra ricchi e poveri, lo
sfruttamento sempre più
esoso del lavoro, l'attacco generalizzato allo stato
sociale, la negazione
dei diritti civili. Come lo è la perdurante disparità
sociale delle donne,
e la indiscriminata dilagante rapina della natura, e
la privatizzazione
dell' acqua e dei brevetti su farmaci vitali, e lo
sviluppo imposto a
propria immagine e interesse dal Nord al Sud del
mondo, e un Occidente che
rappresenta un quinto della popolazione mondiale, ma
consuma l'80 % delle
risorse. Il neoliberismo insomma, il modello
socioeconomico oggi vincente.
Ma la radice violenta della guerra si può cogliere
anche in momenti
apparentemente estranei alla struttura gerarchica del
globo, riferibili
alla normalità quotidiana della vita civile o
addirittura al benessere in
aumento in non pochi paesi e fascie sociali. Penso
all'incrudelire estremo
della competitività, della sfida mortale cui le
dinamiche di mercato oggi
obbligano non solo l'imprenditore ma l'intero mondo
del lavoro: non è un
caso se determinazione, capacità di comando,
aggressività, "grinta", sono
le qualità richieste a chi cerchi occupazione. Penso
alla colonizzazione
dell' immaginario collettivo, sistematicamente
perpetrata mediante la
pubblicità e la maggior parte dell' informazione,
mediante l'imposizione di
modelli funzionali al dogma produttivistico e
consumistico. Penso alla
ricaduta di tutto ciò sia nel farsi di esistenze tutte
proiettate al
conseguimento di un successo identificato con reddito
e consumo, sia nei
rapporti personali, nel confronto con l'altro,
anch'esso precipuamente
misurato su questi stessi parametri. Penso a quella
sorta di inquinamento
sociale che il predominio di valori individualistici,
acquisitivi,
competitivi, induce in ogni ambiente e classe.
Sto allineando riflessioni che vorrebbero un discorso
ben più ampio e
costruito.
E che, portato avanti, andrebbe a parare nella gran
disputa sull'
aggressività umana, che ha impegnato intelligenze come
Lorenz, Fromm, Jay
Gould, Jonas, Eibesfeld, Giorgio Prodi (per citarne
qualcuna), ma non ha
risposto alla domanda come mai gli umani - a
differenza di tutti gli altri
animali del creato, che praticano solo lotte
"interspecifiche", cioè contro
specie diverse - fin dai più lontani documenti
risultino dediti a lotte
"intraspecifiche", cioè contro il propri
simili. Perché insomma abbiano
inventato la guerra.
Non sarà il dibattito aperto da Bertinotti a dare la
risposta. Forse può
essere però occasione per dirci che dopotutto non è
scritto da nessuna
parte che ciò che non è stato finora non possa essere.
La storia è fatta di
cose che prima non c'erano. E se finora - secondo
l'argomento forte di
quanti criticano il pacifismo - il "no alla
violenza" chiesto e praticato
da piccoli gruppi non ha portato lontano, forse il
risultato può essere
diverso quando a gridarlo sono folle sempre più vaste,
da Seattle a Genova,
da Porto Alegre a Firenze, da Cancun a Bombay.
CARLA RAVAIOLI
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da http://quotidiano.liberta.it
31-1-'04
L'inutilità della violenza
di VITTORIO MELANDRI
Ho letto sulle pagine de "Il manifesto",
dell'attacco subito da
Bertinotti, dal "movimento", per una sua
svolta non-violenta. Ho
scoperto così che la mia ingenuità è senza fondo. Ma
come, Bertinotti
per approdare alla non-violenza, abbisogna di una
svolta?, e il
"movimento", che della violenza, anche
quella delle frange più stupide,
annidate al suo interno, è, sempre alla mia vista
"corta", apparso come
la prima vittima, non sa far di meglio che attaccarlo?
Ho visto
recentemente "Ora o mai più", il bel film di
Lucio Pellegrini che fa
ruotare una gradevole vicenda personale, di crescita e
formazione,
attorno al tempo del G8 di Genova. Poche sequenze
dedicate a quanto
successo nella caserma di Bolzaneto, e difese dal
regista, sembra siano
la ragione di una distribuzione a dir poco
clandestina; eppure sono
sequenze che colpiscono, soprattutto perché, immerse
come sono,
nell'allegria del film, la dicono lunga, sulla
bestiale "inutilità"
della violenza; per tutti, sia per chi la subisce, sia
per chi crede, di
farsene una forza. Che la necessità di difendersi
dalla violenza, sia
ancora confusa con la "fede" nella necessità
della violenza, mi lascia
davvero interdetto, e senza credere di peccare di
ingenuità. In questi
giorni ha fatto capolino una notizia dall'Argentina:
"Una dozzina di
fotografie, scioccanti, che mostrano un campo di
prigionia con uomini
nudi e incappucciati, torturati da uomini in divisa...
Il governo:
"Scattate in un campo di addestramento nel
1986".L'indagine dimostra che
i commandos venivano preparati con gli stessi supplizi
inflitti ai
desaparecidos durante la dittatura." Leggere
questa notizia, mi ha fatto
tornare alla mente una frase che avevo letto : "A
molti, individui o
popoli, può accadere di ritenere, più o meno
consapevolmente, che "ogni
straniero è nemico". Per lo più questa
convinzione giace in fondo agli
animi come una infezione latente; si manifesta solo in
atti saltuari e
incoordinati, e non sta all'origine di un sistema di
pensiero. Ma quando
questo avviene, quando il dogma inespresso diventa
premessa maggiore di
un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il
Lager:" Primo
Levi, dalla sua prefazione al libro "Se questo è
un uomo". E a questo
punto, non so proprio cosa altro aggiungere.
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da Liberazione del 31-1-'04
MA NON DIPENDE SOLO DA NOI
Giuseppe Sacchi Milano
Caro direttore, non era mia intenzione intervenire nel
dibattito in corso sulla violenza perché non capivo l'opportunità di aprire una
discussione di così grosso spessore politico e teorico oggi, alla vigilia di
una campagna elettorale impegnativa e con grossi problemi aperti nel paese che
angustiano fortemente la maggioranza dei lavoratori e del popolo italiano e
richiedono l'impegno di tutto il partito. La mia età avanzata non mi permette
di essere immerso nel movimento e, forse, di recepire ciò che è più sentito e
più utile per il partito, però, sia pure in modo schematico, per non rubare
troppo spazio, ed anche stimolato dall'intervista di Fausto Bertinotti, apparsa
su "Liberazione" del 27/1, intendo esprimere alcune opinioni sul tema
in discussione.
Dico subito che l'intervista di Bertinotti mi ha
chiarito molti dubbi, ad esempio quello relativo all'approdo alla nonviolenza,
che non è di tipo etico e non propone un modello di comportamento valido in
ogni luogo ed in ogni tempo, chiarimento che, almeno in me elimina non poche
perplessità.
Detto questo devo dire con franchezza che non
concordo, però, con l'affermazione che non ha senso interrogare i nostri nonni,
i nostri padri, che hanno fatto la resistenza armata, qui ritengo che ti
sbagli, ed è in contraddizione con quanto affermi subito dopo, ossia che la
storia non si cancella ma la si interroga criticamente per non commettere gli
stessi errori. Mi hanno sempre insegnato che la storia del Movimento Operaio va
studiata e conosciuta, non tanto e solo per giudicare le sconfitte e le
vittorie, ma per capire il perché di quelle vittorie e di quelle sconfitte, e
che anche le sconfitte insegnano molto al Movimento Operaio. Mi hanno insegnato
che la teoria è frutto della generalizzazione delle esperienze.
Oggi ci si interroga e ci si divide tra chi sostiene
che la violenza alle volte è necessaria e chi sostiene che non la si debba
praticare mai. Questa discussione in modo diverso l'ho vissuta nel Pci, dopo il
ventesimo congresso del Pcus, nel quale si è affermato la possibilità della via
democratica al socialismo. Permettetemi un ricordo personale, l'anno successivo
ho avuto l'onore (per me era un onore) di far parte della delegazione di studio
della realtà socialista. Quella delegazione, diretta dal compagno Longo, ebbe
due incontri con la segreteria del Partito dell'Unione Sovietica, allora
diretta da Krusciov. In quelle riunioni, tra l'altro, abbiamo anche discusso
della via parlamentare ed i sovietici, molto diplomaticamente rimarcarono che
noi ponevamo, eccessivamente, l'accento sulla via parlamentare senza
considerare l'eventualità che, al di là della nostra volontà, detta via non
fosse percorribile a causa di una reazione violenta dell'avversario di classe,
in quella eventualità il partito si sarebbe trovato impreparato. Ricordo che
sia Suslov che Krusciov ci dissero: "anche noi non volevamo la rivoluzione
violenta e per la verità l'Ottobre, tra le rivoluzioni che la storia ha
conosciuto, è stata la meno violenta, solo dopo, in presenza dell'aggressione
della maggioranza degli Stati capitalisti fummo costretti a ricorrere alla
violenza, voi cosa avreste fatto?".
Il ricorso alla violenza o meno non dipende, quindi,
solo da noi, e questo dobbiamo sempre affermarlo. Ebbene io concordavo, e
concordo ancora oggi, con queste posizioni, non perché sono per la violenza,
anzi ne sono nemico acerrimo, come nemico acerrimo della violenza è sempre
stato il movimento dei lavoratori il quale l'ha sempre subita più che
esercitata. Come ai tempi della polizia di Scelba che ha seminato l'Italia di
cadaveri di contadini e di operai, dei quali nessuno, purtroppo, oggi più
parla. In quegli anni anche i padroni si resero protagonisti di violenze, sia
tramite le migliaia di licenziamenti di rappresaglia, dopo il 1948, ed io ero
tra questi, ed anche questa è violenza, ma anche sparando di persona sui
lavoratori in sciopero colpevoli di rivendicare 10 lire all'ora di aumento,
come avvenne alla Geloso di Milano, per non parlare di Mediglia e Somaglia,
dove i padroni hanno sparato uccidendo due lavoratori in sciopero per il
rinnovo del contratto di lavoro scaduto da due anni, ebbene io mi chiedo come
reagirebbe il padronato qualora, come giustamente sostiene Bertinotti,
mettessimo in atto un cambiamento del sistema. La strategia della tensione e le
stragi degli anni '70 ed '80, dovrebbero indurci ad una riflessione.
Comunque a tutte le provocazioni, rappresaglie,
delitti del padronato il movimento operaio ha sempre risposto con
manifestazioni di massa mai violente. Ricordo la grande marcia silenziosa dei
100 mila metalmeccanici che hanno attraversato il centro di Milano, silenziosi,
solo con cartelli che riportavano le loro rivendicazioni, queste e mille altre
manifestazioni hanno sempre caratterizzato il movimento dei lavoratori del
'900, ed è grazie a questi grandi movimenti che si sono strappati diritti
importanti, diritti che oggi tramite il ricatto della fame, la peggiore delle
violenze che si possa esercitare sull'uomo, il padronato sta cancellando.
Quanto ho detto finora, e numerosi altri esempi che si
potrebbero citare, dimostrano l'avversione del movimento operaio per la
violenza, anche per ciò stento a capire la ragione dell'apertura di un
dibattito su questo tema in questo momento. Si dice che il dibattito si impone
dato che la situazione, rispetto al passato è mutata radicalmente, la potenza
del nemico di classe è tale che è pia illusione pensare di batterlo con altri mezzi
e che i metodi violenti di lotta contaminano chi li pratica. A queste
affermazioni non aggiungo niente a quanto sostenuto, in modo certamente più
efficace di quanto io possa fare, dal compagno Catone nel suo intervento su
"Liberazione".
Ora io apprezzo il tentativo di arricchire la teoria,
al progresso della teoria come corpo organico di conoscenze dello sviluppo
storico, sociale ed economico i classici del marxismo hanno sempre attribuito
una importanza fondamentale. Proprio Marx ci insegna che tutto muta e si
trasforma e nulla è eterno, per cui ciò che poteva essere valido ieri può non
esserlo più oggi. Per cui, ripeto, apprezzo ogni tentativo di aggiornarci
sempre, non dimenticando mai, però, gli insegnamenti del passato, e questo non
per un attaccamento nostalgico, di vecchio militante, alla storia del passato,
ma per una profonda e lucida convinzione che attraverso la conoscenza del
passato si può capire meglio il presente e definire il futuro.
Giuseppe Sacchi Milano
nonviolenza
Come aiutare
chi si ribella
Caro direttore, ho trovato bellissimo, nella sua
argomentazione e nella sua chiarezza l'intervento (e non articolo, perché credo
si tratti di un sindacalista e non un redattore di "Liberazione") di
Rinaldini. Mi pare un'ottima risposta al pur interessante intervento di Andrea
Catone, che confonde, mi pare, la resistenza anche armata, e quindi violenta,
di ogni popolo ad un invasore o a chi lo vuol dominare infrangendo le regole
della democrazia. Ma è certo che anche in campo internazionale, nulla togliendo
alla libertà di chi si rivolta contro un'oppressione comunque guidata
dall'esterno, la risposta e l'aiuto da offrire da parte del vasto popolo che ha
scelto la pace come idea-guida, popolo di cui noi comunisti siamo non solo
parte ma veri propugnatori e organizzatori, debba essere un impegno a sollevare
democraticamente la critica e l'indignazione della pubblica opinione, sì da
costringere i prepotenti a tornare sui loro passi. A parte ogni altro aiuto
materiale, che non comporta più, io credo, l'invio di brigate o brigatisti
volontari, come accadde ad esempio per la Spagna nel 1936. In casa nostra, come
in ogni altro Paese dove la democrazia è comunque instaurata, la lotta per i
nostri diritti e per cambiare la società comporta mobilitazione, scioperi,
azioni di disobbedienza civile e battaglia instancabile, ma senza violenza, se
non difensiva.
Anneo Sposito via e-mail
Un bel dibattito,
andate avanti
Caro Curzi, non capisco davvero come si possa accusare
di anticomunismo il compagno Vendola sulla base di uno scritto, che per essere
di riflessione e critica sulla nostra storia non la rinnega certamente. Attenti
a non cadere nella trappola berlusconiana, al contrario s'intende, che vede in
ogni opinione per quanto sfaccettata le stimmate del comunismo. La discussione
che si è aperta con l'intervento di Bertinotti è una delle cose più belle che
il giornale ha ospitato. Grazie, avanti così.
Gianfranco Giannini Novara
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da Liberazione del 1-2-'04
Pacifismo, è un fare per la pace non una passività
calabrache
Pietro Ingrao
Il dibattito sulla non-violenza, aperto da Fausto
Bertinotti, si sta
sviluppando e allargando sulle colonne di Liberazione
e de il manifesto, e
questo davvero è un bene (della discussione avvenuta
nella direzione di
"Rifondazione" so troppo poco per esprimere
giudizi o porre interrogativi).
A me sembra una iniziativa politica urgente e feconda.
Personalmente io
però sarei incline a non estenderla ad una riflessione
sulla violenza "in
generale" nella vita umana: e non solo perché in
un dibattito che assuma
tali dimensioni e livello io ho idee assai più
incerte; ma perché mi sembra
che una riflessione sulla violenza debba innanzitutto
misurarsi sui
drammatici eventi in corso: sul ritorno imperioso e
sconvolgente che ha
avuto sul globo in cui abitiamo la "guerra di
massa": nel tempo - non
dimentichiamolo mai - dell'atomica, l'arma suprema, di
cui l'uomo della
strada, il semplice cittadino sa quasi nulla. Penso
insomma alla nuova
"violenza pubblica", posta in campo dai
reggitori degli Stati (o degli
imperi, se volete): l'evento che mi sembra il grande
fatto nuovo con cui si
apre questo secolo, e chiama in campo, con urgenza, la
risposta degli
spiriti pacifici (per ricorrere a un vocabolario
antico).
E ciò che mi preme è se e come costruire una strategia
e una risposta
politica ai nuovi "signori della guerra": un
obiettivo, che certamente sarà
aspro e difficile e per nulla lineare.
Lotta alla passività
Intanto e prima di tutto, esso chiede una lotta contro
la passività. Ci
sono oggi milioni di esseri umani che si limitano a
guardare - illudendosi
che il conflitto armato possa essere gestito e patito
solo da corpi
speciali, che fanno questo per mestiere o vocazione: e
che si possa
lasciare a loro quel compito sanguinoso e grave, se
mai - patriotticamente
- rendendogli onore quando cadono e perdono la vita. I
campi di battaglia,
a volte e spesso, sono lontani e in certo modo
circoscritti: perché dunque
temere l'urto delle armi quando esso non mi tange, non
giunge al mio
cortile di casa?
Il pacifismo è lotta contro questa illusione: è
l'evocazione di una
corresponsabilità, e insieme la coscienza,
l'individuazione degli attori:
dei "signori della guerra" e delle forze e
delle istituzioni (dei poteri)
che li muovono e li sorreggono. Pacifismo è fissare e
diffondere nei popoli
questa mappa. E farne un aspetto centrale della
lettura del mondo in cui
oggi viviamo: della sua falsa "innocenza", e
del nuovo terribile slancio
che torna a prendere l'uccidere di massa.
In questa luce, pacifismo è forse e prima di tutto la
questione della
secolare discussione sulle armi: sulle risorse che per
esse vengono
impegnate e consumate, e se ciò è paragonabile e
compatibile con i mezzi
necessari allo studio, ai saperi, alla scuola, e anche
alla salute dei
cittadini. Insomma: aprire di nuovo ed efficacemente
un contenzioso sulle
"spese militari" (vi ricordate questa
parola?): su quanto costa "l'uccidere
pubblico", e quanto esso si mangia del nostro
pane. Non abbiamo troppo
appannato questo tema?
Quindi pacifismo oggi è anche trarre fuori dagli
armadi finiti in soffitta
una parola antica: disarmo. Ci fu un tempo in cui
questa parola era sulla
bocca di molti, ed esso fu nei programmi o nelle
promesse dei governi, e -
certo - nelle grandi lotte delle popolazioni e dei
cittadini.
Oggi quella parola è scomparsa. Pacifismo è
resuscitarla: non solo sulle
bocche di tanti, ma nelle battaglie dei Parlamenti,
nelle scelte dei
governi: con la coscienza che oggi più ancora - forse
- della quantità
delle armi, conta la loro nuova qualità. E
riconoscere, rendere pubblici
gli strumenti di morte e i nuovi veleni che sono in
mano a chi comanda gli
eserciti, e quali guasti e stermini sono possibili.
I bilanci militari
Rileggiamo i bilanci di questa e altre repubbliche.
Riapriamo il discorso
su dove - forse! - stanno (e come e in mano a chi) gli
arsenali atomici.
Portiamo questi temi anche nelle scuole, perché gli
adolescenti già
sappiano su che poggia il potere che prepara il loro
domani.
Lo so: tutto questo - e altro ancora - riguarda il
prima della guerra: un
tema che sembra scomparso dalle nostre agende e che il
pacifismo - come lo
vedo io - ha l'enorme compito di resuscitare. Forse
sbaglio: ma io penso
che abbiamo accettato troppo quietamente il ritorno
della guerra di massa.
Non abbiamo fatto scandalo. Non abbiamo misurato ed
evocato la gravità
dell'evento.
Poi ci sono le guerre che già esistono: sono troppo
ingiusto se dico che ad
esse il mondo - e anche un campo di cui noi facciamo
parte - in un certo
modo anche a ciò sta adattandosi? Per amaro che sia
noi non abbiamo fatto
il possibile per impedire la seconda guerra all'Irak.
Né - mi sembra - sia
ancora terminata la guerra in Afghanistan. E poco o
nulla io so dirvi delle
molte e crudeli guerre che squassano l'Africa,
rispetto a cui la parola
"pacifismo" sembra proprio suonare bizzarra
e distante.
L'art. 11 esiste!
Ma c'è stata anche un'assenza che riguarda
direttamente noi: noi italiani.
Abbiamo tollerato che in questo Paese fosse gravemente
scavalcato ciò che
impone esplicitamente la Costituzione di questa
Repubblica, quando
all'articolo 11 consente solamente la guerra di
difesa. E l'assurdo, il
ridicolo è che mesi or sono non uno qualsiasi, ma il
Presidente della
Repubblica, rompendo un lungo silenzio, ha confessato
che sì l'articolo 11
esiste. Dunque esiste ma non vale: e noi abbiamo
mandato i nostri soldati
in Irak.
Il diritto alla resistenza
Quelle truppe italiane - per me - sono aggressori; e
pacifismo - nel suo
senso più elementare - è lottare perché cessi
quell'aggressione armata.
Quale motivazione più urgente per invocare e costruire
una corrente
pacifista? E chiamarla subito a un compito così
necessario e bruciante? E
non è questo sopravvenire della guerra preventiva una
ragione nuova per
invocare il ritorno al dettato dell'articolo della
Costituzione italiana?
Perché non accade? E invece Massimo D'Alema,
autorevole dirigente dei Ds,
parla ancora di "astenersi" nel voto
prossimo su questa presenza illegale
di truppe italiane in Irak.
E qui - bisogna dirlo- s'apre un problema nuovo e
aspro per noi pacifisti:
la questione del diritto del popolo irakeno. Noi
pacifisti potremmo negare
al popolo irakeno il diritto di resistere, anche con
le armi alla mano,
all'aggressore straniero? E però - ecco il dubbio -
non rinneghiamo così la
nostra vocazione alla non - violenza?
Personalmente io ritengo che non si possa rifiutare a
chi nel suo paese è
aggredito da un esercito straniero la possibilità di
difendersi e
respingere l'aggressore anche con le armi. Ma penso e
spero che l'esistenza
attiva e coraggiosa di una movimento pacifista di
respiro internazionale
divenga il luogo costruttivo in cui esplorare,
vagliare e decidere quale
sia la strada migliore per assicurare libertà e pace a
quel paese aggredito.
La scelta pacifista
Insomma il pacifismo non è solo una dichiarazione di
fede e un mero rigetto
dell'uso delle armi. Non è una strategia delle mani
pulite e della pura
speranza nella pace. E' un soggetto politico-sociale
capace di intervenire
nei punti di crisi contro la pratica della violenza, e
per la
individuazione e la costruzione di vie pacifiche. E'
un fare per la pace:
non una passività da calabrache. E la sua efficacia sta
proprio nell'agire
(e prevenire) sul conflitto e nel conflitto. E noi,
con questa scelta e
questo dibattito sul pacifismo, stiamo cercando ed
esplorando le vie per
pensare il conflitto, nelle condizioni - nuovissime -
in cui si presenta in
questo inizio di secolo.
Terrorismo: netta condanna
E qui l'orizzonte si allarga. Io credo che dalla
riflessione che sono
venuto sommariamente sviluppando emerga chiaramente
l'obbligo (uso
volutamente questa parola così rigida) di una condanna
del terrorismo messo
in campo da una parte del mondo arabo ferito. Non solo
esso è una via che
si fonda sulla violenza nel senso più crudo e nudo. E'
una strada che non
solo dà un alibi- per ipocrita che sia- all'aggressore
occidentale, ma
poggia tutta sullo scontro armato, e sulla carta
avvelenata delle armi. E'
l'opposto sanguinario della via che il pacifismo
propone. Ed un compito
urgente che dobbiamo affrontare è il dibattito e la
ricerca sulle vie per
combatterlo. Qui sinora c'è un'assenza nostra, che
richiede una riflessione
nuova da avviare: e prima di tutto cerchi di
comprendere come il pacifismo
si sia indebolito ad Oriente, proprio là dove si era
sviluppata l'azione
fulgida e militante della figura e del pensiero di
Gandhi (e non dimentico
- certo - le differenze grandi e la distanza fra il
mondo arabo di oggi e
l'India di Gandhi).
Penso che in questa luce dobbiamo sconsigliare e
combattere anche la strada
povera e dolente dei kamikaze: quell'uso disperato e
misero della morte
sacrificale è ancora violenza, per giunta inutile e
infeconda, e quasi
dimentica delle dimensioni della lotta.
Il mondo d'oggi
Al tempo stesso io sento e temo l'inefficacia e la
sterilità di questa
critica. Il pacifismo può superare questa sterilità,
solo individuando,
costruendo strade diverse dall'urto armato. E la
nostra discussione di
questo parla, di questo deve discutere: non una scelta
astratta fra pace e
guerra, tra violenza e carità, ma la costruzione di
una strategia concreta
contro la violenza nel nostro tempo.
Certo: andiamo pure a sfogliare quelle pagine di Lenin
e di Gramsci - che
in altro tempo mi parvero così obbliganti e oggi
invece mi appaiono così
dubbie - , e a rileggere e resuscitare quel tempo. Ma
guardando il mondo
nella sua inaudita e tragica luce di oggi.
Pietro Ingrao
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nonviolenza
Imparare
dall'esperienza
Caro direttore, il movimento dei lavoratori ha sempre
operato per realizzare una società senza violenza. Il ricorso all'uso della
forza (storicamente, talvolta, resosi necessario) da parte del movimento
operaio è sempre dipeso dalla necessità di autodifendersi (dall'ascesa del
fascismo nel nostro paese, alla lotta di resistenza, sino alle lotte
antiimperialiste di liberazione nazionale). La scelta strategica della non
violenza "qui e ora" (quindi non in senso astratto e assoluto) così
come precisata nel corso dell'intervista di Bertinotti apparsa su
"Repubblica" e su "Liberazione" il 27/1, deve essere
consapevole delle possibili reazioni degli apparati delle classi sociali
dominanti di fronte a scelte politiche ed economiche che segnano la
trasformazione sociale. In conclusione, l'esperienza anche tragica del passato
ci insegna che gli esiti del conflitto di classe sono quasi sempre
imprevedibili e che gli accadimenti possono superare anche le volontà pacifiche
del movimento operaio (novecentesco e nuovo) e delle sue rappresentanze
politiche.
Marco Dal Toso Milano
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da Liberazione del 3-2-'04
La non-violenza come estensione della conflittualità
Franco Giordano (deputato del PRC)
Il dibattito che ha preso corpo sui temi proposti da
Bertinotti è diventato
rapidamente un evento culturale e politico che ha
sconfinato, anche
autorevolmente, il perimetro della nostra
organizzazione. Basti pensare
alle questioni affrontate domenica su Liberazione da
Pietro Ingrao.
Nella confusione e banalità prevalente del dibattito
quotidiano a sinistra
incentrato su improbabili modelli di ingegneria
politica è la colpevole
mediocrità sistematica delle proposte emendative alle
politiche di governo,
l'occasione che ci viene fornita non può essere
sciupata con
interpretazioni legate alla mera congiuntura politica
o tese ad introdurre
il "veleno" del sospetto di un corredo
teorico funzionale alla
legittimazione di governo.
Negli ultimi anni abbiamo provato a ridefinire gli
strumenti culturali
della nostra esperienza storica per produrre
un'iniziativa politica
alternativa. Per fare politica nel quotidiano abbiamo
empiricamente e
processualmente adeguato il nostro bagaglio culturale.
Oggi incominciano ad
emergere lineamenti di una nuova identità, il profilo
strategico di una
rinnovata forza comunista.
La non violenza è una parola chiave. Perché è un mezzo
che anticipa il
fine. E' allusiva di un'idea di società e di una
modalità di critica del
nuovo capitalismo. Non può essere vista come una
variante tattica o come
una temporanea acquisizione, vista la disparità dei
rapporti di forza
attualmente esistenti su scala planetaria (questione,
peraltro, non certo
irrilevante per chi non intende affidare le
aspettative di un altro mondo
ad un improbabile blocco di potenze statuali
contrapposte all'egemonia
imperiale Usa). Né l'approdo convinto ad essa può
avvenire su di una
sublimazione etica che dispensa giudizi di valore su
altri passaggi
storici. E' una scelta politica.
La non violenza è la metafora e la pratica del
disvelamento dell'enorme
potenziale distruttivo che la globalizzazione
capitalistica produce
introiettando permanentemente la guerra come risposta
sistematica alle
instabilità e crisi sempre più frequenti. E' il
disvelamento delle forme
attuali di dominio e del potere, dello sfruttamento
della natura, dei corpi
e delle menti. E' una critica radicale del concentrato
autoritario e
violento delle forme di produzione del capitale. La
scelta non violenta del
movimento pacifista e del movimento dei movimenti è
stata ed è una efficace
modalità di sottrazione dalla spirale
repressione-violenza-repressione che
avrebbe sancito il rapido dissolvimento della sua
efficacia, della sua
dimensione di massa, della pervasività del consenso.
La forza del movimento sta nella sua dimensione
mondiale e nel suo
carattere duraturo e permanente di critica globale. La
disobbedienza come
processo sociale "declina, per dirla con Daniele
Farina, la non violenza in
una forma nuova dalle modalità di lotta conosciute nel
passato" e diventa
contagiosa se a praticarla sono gli abitanti della
Lucania contro
l'installazione di scorie nucleari, gli autoferrotranvieri,
gli occupanti
di case, gli studenti in lotta contro la riforma
Moratti e tutti coloro che
stanno animando la conflittualità sociale nel nostro
paese. Tutte lotte che
esprimono una prepotente radicalità. Tutte lotte che
sfuggono a modelli
imitativi e violenti dell'avversario.
Come si vede la non violenza è ben presto divenuta
sinonimo di estensione
della conflittualità e della conquista del consenso
(ho trovato
assolutamente pertinenti nel dibattito le riflessioni
sul concetto di
"egemonia" in Gramsci), di idea molecolare
di trasformazione della società.
In realtà la contrapposizione a questa scelta,
sicuramente innovativa nella
nostra tradizione, è legata ad una concezione classica
di conquista del
potere. Paradossalmente questa concezione è sopravvissuta
anche quando non
viene riproposta nelle forme violente. E' la
sublimazione dell'autonomia
del politico. E' l'ipotesi del governo che si separa
dalla trasformazione
sociale. E' la negazione di una soggettività relegata
nell'identificazione
con lo Stato e le sue istituzioni. Ed al rovescio è
un'identità che non si
verifica mai socialmente. E' tramandata negli anni e
si separa
permanentemente dall'agire politico. E' il sole
dell'avvenire che non
illumina e non scalda mai il qui ed ora della tua scelta
concreta. E' così
lontano ed immobile che l'arco della tua vita non
riuscirà neanche a
carpirne un raggio. Ed è sempre lo stesso anche quando
il capitalismo muta
radicalmente la sua morfologia.
La stagione dei movimenti che si è aperta da Seattle
in poi ha ridato forza
e credibilità ad una critica di massa della
globalizzazione capitalistica e
ha posto con forza il tema del suo possibile
superamento. Qui sta il
cimento della Rifondazione comunista. Francamente lo
storicismo
giustificazionista che sembra animare alcuni degli
interventi in questa
discussione tende ad imprigionare le potenzialità
trasformatrici di questa
fase in un estenuante lavoro di verifica di congruità
con la nostra
tradizione. Il secolo che ci siamo lasciati alle
spalle è stato segnato
dalla storia grande e terribile dei tentativi di
costruire una società
comunista.
Forse, fin dall'inizio, del pensiero di Marx si è teso
a privilegiare il
fondamentale concetto di eguaglianza. Quando questo
concetto si è inverato
in esperienze statuali ha reso muti ed inerti i
soggetti che si sono
battuti per realizzarlo. Poco si è lavorato su quella
parte del pensiero
marxiano che parla di libertà. Uguaglianza e libertà
devono poter essere
coniugati come coppia indissolubile. Oggi quel
concetto esprime per intero
la sua attualità. Libertà intesa come superamento di
ogni forma di
alienazione, di ogni modalità di asservimento
psicofisico dei lavoratori,
di pieno dispiegamento e crescita delle soggettività.
Libertà intesa come
critica di ogni logica produttivistica e di potenza,
come valorizzazione e
pratica della differenza sessuale. Non possiamo più
separare la nostra
azione dall'anticipazione del mondo che vogliamo se
vogliamo ridare senso e
fascino alla parola: comunista.
Franco Giordano
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comunismo
Quello che scriveva
Primo Levi
Caro direttore, Brunello Mantelli replica
efficacemente su "l'Unità" del 26 gennaio alle tesi comparative
(lager uguale a gulag, ergo nazismo uguale a comunismo) che vengono
superficialmente divulgate non solo dalla destra, ma anche da esponenti e
settori democratici e di sinistra: non ultimi il professor Galli della Loggia e
il "Riformista". A sostegno degli argomenti di Mantelli, è opportuno
ricordare quanto ha scritto Primo Levi nel 1976, in appendice all'edizione
scolastica di "Se questo è un uomo". Levi rimarca le diverse finalità
dei due fenomeni, evidenziando il carattere di unicità storica assunto dal
lager nazista dove "si entrava per non uscirne" in quanto preordinato
a "cancellare interi popoli e culture". Per raggiungere tale
obiettivo i lager si trasformano in "gigantesche macchine di morte"
che conducono all'eliminazione fisica di percentuali variabili dal 90 al 98%
degli internati. Nei gulag russi, scrive Primo Levi, "la morte dei
prigionieri non veniva espressamente ricercata": era un incidente
"dovuto alla fame, al freddo, alle infezioni, alla fatica".
Prigionieri e carcerieri appartengono allo stesso popolo, parlano la stessa
lingua. I prigionieri possono mantenere relazioni con i familiari, è possibile
ricevere da casa lettere e pacchi con vivere: "la personalità umana,
insomma, non viene denegata e non va totalmente perduta". Nei lager
nazisti si instaura, al contrario, un inedito rapporto tra "superuomini"
e "sottouomini": la strage di ebrei e zingari è pressoché totale e
"non si ferma neppure davanti ai bambini, che furono uccisi nelle camere a
gas a centinaia di migliaia, cosa unica fra tutte le atrocità della storia
umana". I campi sovietici rappresentano un fenomeno "deplorevole di
illegalità e disumanità" estraneo al socialismo, "una barbarica
eredità dell'assolutismo zarista" di cui avevano fatto le spese molti
dirigenti bolscevichi, compreso lo stesso Stalin. E in effetti è possibile
rappresentarsi un socialismo senza gulag: "in molte parti del mondo -
conclude Primo Levi - è stato realizzato.
Vittorio Tomasin Rovigo
"Il" comunismo
e "quel" comunismo
Caro Curzi, Nichi Vendola ha proprio ragione: troppi
spettri si aggirano nel nostro dibattito. C'è chi, purtoppo, continua ad
identificare "il" comunismo con "quel" comunismo
"reale"; c'è chi pensa di assumerlo da codici e dogmi senza tempo;
c'è chi lo conserva come fa un antiquario che aspira ad aumentarne il valore.
In tutti questi casi si fa un torto al comunismo che è invece, riprendendo una
espressione felice della Gagliardi, non un sogno o una "nostalgia" o
una sorta di "imperativo morale" che vale, magari, per il nostro
orizzonte individuale o intimo, ma l'unica risposta razionale alla crisi di
civiltà, alla violenza devastante, alla regressione sociale che il capitalismo
porta con sé. Mettendo la parola Rifondazione davanti a Comunista (termine
insostituibile, a scanso di equivoci) scegliemmo di lanciare una sfida persa da
"quel" comunismo staliniano che non seppe dare pace, libertà,
uguaglianza e giustizia a milioni di donne e uomini. Non rinnego nulla della
nostra storia, ma come ha dichiarato Ingrao, "nel cercare dove sbagliammo
mi sento più vivo e più forte". E non sarò affatto dispiaciuto se per
questo qualcuno mi iscriverà all'Internazionale di Nichi Vendola per la
costruzione di un nuovo mondo possibile
Salvatore Serra Racale (Le)
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da Liberazione del 4-2-'04
Dove va il nostro partito?
(dalle idee alla politica)
Marco Ferrando (direzione nazionale del PRC)
Non violenza, religione, partito della sinistra
europea non rappresentano ambiti separati di dibattito ma tre diverse
angolazioni di un unico tema di fondo: dove va il nostro partito? Un
interrogativo che non riguarda solamente il cielo stellato delle idee, ma il
terreno concreto della politica. Un interrogativo che chiama in causa la svolta
politica di prospettiva che da un anno la maggioranza dirigente del Prc ha
varato: la prospettiva di un governo comune con l'Ulivo e, quindi, di
scioglimento dell'opposizione comunista in Italia.
E' mia precisa convinzione che questa svolta politica
sia la base materiale della svolta culturale in atto, il suo alimento, la sua
cifra. E che senza cogliere questa connessione si rischi non solo di
"distrarre" il partito con la finzione, fosse pure involontaria, di
un dibattito culturale separato, ma di disperdere senso e ragione dello stesso
confronto teorico e dei suoi contenuti. Del resto: quando mai nella lunga
storia del movimento operaio i dibattiti "teorici" sono stati avulsi
dai confronti politici di linea sulla stessa dislocazione di classe dei
comunisti?
"Ritorno a Marx"
nel nome
della "non violenza"?
"E' a priori indispensabile l'aperto
riconoscimento della necessità dell'uso della forza, sia in singoli episodi
della lotta di classe come per la conquista finale del potere statale: è la
forza che può prestare anche alla nostra attività pacifica e legale la sua
particolare energia ed efficacia" (Violenza e legalità, 1902). Così Rosa
Luxemburg - assunta incredibilmente come icona del nuovo partito non comunista
della sinistra europea- polemizzava un secolo fa con le "nuove"
teorie "non violente" della socialdemocrazia belga.
Come si vede il tema teorico della violenza ha una
lunga storia politica nella vicenda del movimento operaio. E contrariamente a
quanto si cerca di suggerire non ha mai riguardato la questione dei mezzi, se
non di riflesso, ma essenzialmente la questione dei fini.
"Riforma sociale o rivoluzione?", così
scriveva Rosa. La quale chiariva che l'alternativa non riguarda affatto la
diversità dei mezzi (più lenti o più rapidi) per raggiungere i medesimi fini,
ma proprio la diversità dell'obiettivo: o la conquista rivoluzionaria del
potere politico da parte delle classi subalterne come leva della trasformazione
socialista, o "inessenziali modifiche dell'ordinamento capitalista".
Questo è stato sempre il discrimine di fondo tra rivoluzionari e riformisti,
non altro. Ed ha attraversato, in forme diverse, due secoli di storia. Perfino
il movimento operaio pre-marxista ne fu segnato: come nella lotta della
sinistra "babuvista" in Francia contro il riformismo istituzionale di
L. Blanc, o nella lotta dell'ala radicale del cartismo inglese contro la sua
componente più moderata (che opponeva la "forza morale" alla
"forza fisica"). Ma fu soprattutto Marx e il marxismo rivoluzionario,
sin dal Manifesto del '48, a sancire la rottura con quello che definì "socialismo
borghese": che "ha cercato di distogliere la classe operaia da ogni
moto rivoluzionario in nome di semplici miglioramenti amministrativi che non
cambiano affatto i rapporti di produzione tra capitale e lavoro ma, nel
migliore dei casi, diminuiscono alla borghesia le spese del suo dominio"
(Il Manifesto). Ed è sempre il Manifesto, com'è noto, a rivendicare la
centralità della conquista del potere politico come "elevarsi del
proletariato in classe dominante", possibile "solo con l'abbattimento
violento di ogni ordinamento sociale esistente": e ciò in polemica proprio
col pacifismo riformistico delle vecchie sette del socialismo utopista che
"respingendo ogni azione rivoluzionaria vogliono raggiungere il loro scopo
con mezzi pacifici e cercano, con piccoli e vani esperimenti, di aprire la
strada al nuovo vangelo sociale con la potenza dell'esempio" (Il
Manifesto). Peraltro fu Marx a vedere nell'organizzazione e nella forza della
Comune di Parigi, quale prima esperienza della dittatura del proletariato,
"la forma finalmente scoperta dell'emancipazione del lavoro":
attribuendo oltretutto le ragioni della sua sconfitta non certo già all'uso
della violenza ma, al contrario, ad una politica troppo difensiva, anche sotto
il profilo militare. E al riformista positivista di nome Duhring che con la
predica della "non violenza" minacciava di influenzare il movimento
operaio tedesco, fu Engels a contrapporre la difesa rigorosa del marxismo:
"Per Duhring la violenza è il male assoluto: ogni uso di violenza
avvilisce colui che la usa, egli dice: ma che la violenza abbia nella società
anche un'altra funzione, una funzione rivoluzionaria, che essa sia secondo le
parole di Marx, la levatrice di ogni vecchia società gravida di una nuova... in
Duhring non si trova neppure una parola. E questa mentalità di predicatore,
fiacca ed insipida, ha la pretesa di imporsi al partito più rivoluzionario che
la storia conosca?" (Anti-Duhring, 1878).
Siamo sinceri: teorizzare il "ritorno a
Marx" nel nome della "non violenza" è davvero un'operazione
insostenibile e, francamente, grottesca.
Le vie
"pacifiche"
di socialdemocrazia
e stalinismo
E' vero invece che la "non violenza" e più
in generale il pacifismo strategico ha costituito un tema centrale della
battaglia politica e culturale antimarxista per oltre un secolo. E non per
astratte ragioni etiche, ma in funzione della salvaguardia della società
borghese o della riconciliazione con essa.
Ciò è avvenuto, in primo luogo, dall'esterno del
movimento operaio: laddove ad esempio il celebrato Gandhi -già sostenitore
dell'imperialismo inglese nella prima guerra mondiale, nella guerra anti-boeri
e nella repressione sanguinosa della rivolta degli zulù in Sudafrica- elevò la
bandiera della non violenza anche in opposizione al bolscevismo "a difesa
del principio della proprietà privata e di Dio". Ma è avvenuto anche
dall'interno del movimento operaio e socialista. Tutto il revisionismo
positivista che si sviluppò nella II Internazionale, a partire da Bernstein,
sotto la pressione della burocrazia parlamentare della socialdemocrazia
tedesca, elaborò la teoria della "via legale e pacifica" al
socialismo come paravento ideologico del proprio adattamento al capitalismo:
ciò che significherà, naturalmente nel nome... della "non violenza",
il voto ai crediti di guerra, la repressione armata della rivoluzione tedesca,
l'assassinio della Luxemburg e di Liebnecht. E' appena il caso di ricordare che
il biasimato "comunismo novecentesco" di Lenin, Trotsky (e della
stessa Luxemburg) nacque e si sviluppò esattamente nel segno del (vero) ritorno
a Marx contro quella deriva.
Così lo stalinismo approderà alla "via pacifica
al socialismo" lungo le orme della vecchia II Internazionale per dare
copertura teorica alla svolta di governo dei fronti popolari con la borghesia
liberale e alla propria integrazione progressiva nella democrazia borghese: ciò
che significò, a difesa della "nuova" via... pacifica, la
soppressione spietata non solo dei comunisti rivoluzionari ma di tutte le forze
di classe che contrastavano la sua politica (Spagna, '36-'39), per di più
spianando spesso la via alla peggiore violenza reazionaria. O vogliamo separare
la sacrosanta denuncia degli orrori dello stalinismo dalla politica per cui
vennero consumati?
Comunismo in cielo,
ministri in terra
Ecco allora, a me pare, il lato abnorme della
celebrazione ideologica della "non violenza" come nuovo asse
identitario del nostro partito.
L'enormità non sta solamente -ciò che già è stato
giustamente osservato- nello scarto tra questa ideologia e la cruda e immediata
materialità dello scontro di classe internazionale, tanto più nella svolta
d'epoca segnata dal ritorno prepotente delle politiche di potenza
dell'imperialismo. Né solamente nello scarto con l'esperienza storica della
lotta di classe di generazioni e di popoli oppressi. Né solamente nella
pretesa, tutta idealistica, e davvero non nuova, di individuare nella violenza,
astrattamente intesa, il peccato originario della storia umana al di là e al di
sopra della storia reale: ciò che ad esempio consente l'assurda equiparazione
di leninismo e stalinismo, entro un'unica filiera "culturale"
("la violenza"), e a dispetto della loro contrapposizione materiale
(sociale e politica) nella storia.
L'enormità sta soprattutto nella prospettiva che la
nuova ideologia di fatto rivela, in profonda continuità con il riformismo
storico novecentesco: l'adattamento "critico" a questa società e a
questo mondo, alle sue istituzioni e ai suoi governi borghesi
"riformisti" (oggi oltretutto controriformatori). Naturalmente, come
sempre, nel nome di "un nuovo mondo possibile" e delle migliori
suggestioni etiche e filosofiche. Ma dentro un processo in cui lo stesso
riferimento al comunismo slitta sempre più su un piano metafisico e celeste,
perciò compatibile con il richiamo religioso e con la sua esaltazione:
liberando il campo, nel mondo terreno, per le più disinvolte prospettive
ministeriali. Perché proprio questa è la legge fisica della storia: chi
respinge la conquista del potere dei lavoratori, magari nel nome della
"non violenza", finisce col chiedere ministri nei governi della
borghesia, che sono massimi organizzatori di violenza.
L'urgenza
di un congresso
straordinario
Già, la borghesia.
Sullo sfondo di un capitalismo italiano che vive, come
ovunque, sulla violenza quotidiana dello sfruttamento, della frode, di un nuovo
militarismo coloniale, il centro liberale dell'Ulivo e la sua stampa -già
sostenitori di tutte le imprese imperialiste dell'ultimo decennio- mostrano
esplicito apprezzamento per la svolta della "non violenza" da parte
di Bertinotti, dentro il plauso per la più generale svolta di governo del Prc.
Di più: vedono e applaudono in tutto questo la "Bad Godesberg" del
Prc.
Si sbagliano, "non capiscono" da poveri
ingenui la trama rivoluzionaria del nuovo disegno? Oppure capiscono sin troppo
bene, la valenza politica del nuovo corso e il segnale rassicurante che
configura: un comunismo ridotto alla terra promessa dell'al di là e il realismo
di ministri ed assessori nella valle di lacrime dell'al di qua?
La verità -a me pare- è che la sola prospettiva di un
governo con l'Ulivo e i suoi banchieri sotto la guida di Prodi già trascina
alla deriva l'intero impianto politico-culturale del partito. Cosa mai
comporterebbe la realizzazione pratica di quel governo se non la messa in
discussione della ragione stessa del Prc e la distruzione definitiva della
rifondazione?
Per questo credo che il congresso straordinario si
confermi, una volta di più, come un'urgente necessità per tutto il nostro
partito.
Marco Ferrando
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non-violenza
La non-collaborazione
all'ingiustizia
Carissimi, domenica 1 febbraio, Ingrao su
"Liberazione", proponendo un pacifismo attivo e nonviolento come
metodo, ammetteva, come eccezione di necessità, la resistenza armata irakena.
Certo, in assenza di una locale cultura ed esperienza nonviolenta, vale ciò che
diceva Gandhi agli indiani: piuttosto di subire (che è collaborazione alla
violenza) meglio rispondere con la violenza; meglio violenti che codardi; ma
avvertiva che c'è una via migliore, la forza popolare nonviolenta della
noncollaborazione all'ingiustizia (poiché ogni potere, anche il più violento,
ha un essenziale bisogno di collaborazione), e che la violenza propria non
difende mai veramente dalla violenza altrui, perché la imita e la estende,
perché se ne contamina e finisce per confermarla. Perciò, l'aiuto migliore alle
lotte popolari giuste è la comunicazione della teoria e prassi della
nonviolenza forte e attiva, quindi delle esperienze storiche reali, non poche,
di lotte popolari nonviolente di difesa e liberazione.
Enrico Peyretti via e-mail
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Dal manifesto del 4-2-'04
Quella levatrice da abbandonare
ROMANO MADERA
La violenza come "levatrice della storia"
doveva servire a farla finita con
gli orrori e liberare i lavoratori dal capitalismo. Ma
poi ha prodotto solo
disastri e oggi è tutta interna alle logiche di
guerra. Per questo la
sinistra avrebbe bisogno di una vera rivoluzione
culturale. Assumendo
esplicitamente l'orizzonte pacifista etica politica,
segnare una distanza
dall'esistente con una pratica di pace
è il presupposto per non essere complici del
capitalismo.
Alla sinistra servirebbe una vera rivoluzione
culturale, niente di meno.
Lo penso e lo scrivo da più di venticinque anni, e mi
sono stufato, ma
l'invito del Manifesto a intervenire sulle proposte di
reindirizzare quel
che rimane della tradizione comunista verso un
pacifismo conseguente, nei
mezzi che sceglie, ai fini che propone, mi sollecita a
riprendere il
discorso. Ingrao centra il suo intervento sul ruolo
che l'orizzonte
possibile della violenza armata, come strappo decisivo
per fuoriuscire dal
capitalismo, ha avuto nella storia del movimento
comunista. E chiama
giustamente all'autocritica, anche per mettere a fuoco
obiettivi e metodi
di una politica alternativa al dominio del capitalismo
globale e alla
dottrina della guerra preventiva come metodo per
governarne le crisi.
Proporrei di andare più a fondo nella questione della
violenza come
"levatrice della storia": la levatrice
doveva affrettare il parto e rendere
meno dolorose e pericolose le doglie (ai tempi di Marx
le morti delle donne
per parto erano, si sa, frequentissime). C'è la fretta
di finirla con
l'orrore, in quella speranza nella violenza
terapeutica: la politica doveva
servire a togliere di mezzo l'oppressione degli stati
nazionali che
impedivano ai proletari di tutto il mondo di unirsi.
Non era uno slogan
quello dell'unità internazionale, era invece, in Marx,
la conseguenza di
una delle sue analisi più penetranti: nell'ultimo
paragrafo della prima
parte del Manifesto del partito comunista aveva
scritto che "il lavoro
salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza dei
lavoratori fra loro".
E' questa la frase che occorrerebbe rimeditare a
lungo, pensandone le
conseguenze possibili, oggi, fuori dalla fretta di
uscire dall'orrore, che
si è rivelata - macchiando, anche se non annullando,
grandiose e
indimenticabili conquiste di civiltà - orrore su
orrore, soprattutto nel
movimento comunista. La violenza politica non ha
prodotto, alla lunga,
nessun superamento del capitalismo, da nessuna parte
(anche perché non si
può superarlo se non "in tutto il mondo",
altrimenti la concorrenza dei
lavoratori fra loro ricostituisce subito il fondamento
del lavoro
salariato, cioè il rapporto di capitale). E non si può
giustificare quella
violenza con la resistenza a mali ancor più funesti,
come mi sembra possa
conseguire dal rifiuto orgoglioso di Tronti al
"pentimento": si può
pensarla nel versante di lotta democratica e
anticoloniale come interna
alle trasformazioni della civiltà della accumulazione
economica, si deve
abbandonarla, nel versante interno ai paesi cosiddetti
socialisti e ai
partiti comunisti, come prova di una pratica politica
oppressiva e
corruttrice. Ma oltre che in quanto levatrice, cioè
mezzo di risparmio di
tempo del dolore collettivo, la violenza è stata
giustificata come
strumento delle avanguardie per annullare i mezzi di
consenso più potenti
in mano alla classe dominante e alla sua cultura.
Insomma come una sorta di
cordone sanitario per vaccinare la ancora debole
coscienza di classe delle
masse, per dal loro il tempo - di nuovo questa
ossessione non casuale,
anche se i comunardi ce l'avevano con gli orologi ! -
di maturare. La
coscienza di diritto dell'intellettuale collettivo, il
partito, che tiene a
balia la coscienza di fatto della classe.
Questa convinzione, a sua volta, poggia sul postulato
materialista che la
coscienza è creata dalle condizioni storico-sociali
dalle quali viene
forgiata. E dalla postilla decisiva, e giacobina, che
le avanguardie devono
affrettare la creazione di tali condizioni. Senza
discutere questa vetusta,
ma seria convinzione, mi limito a invitare a
riflettere che tutto questo
iperrealismo, materialista o politicista, ha portato
comunque a risultato
meno che zero dal punto di vista del superamento del
capitalismo. Meno che
zero perché col comunismo ha perso credibilità ogni
alternativa globale di
superamento del capitalismo: anche quella dei movimenti
è per ora timorosa
di esporre una sua strategia non solo
anticapitalistica, ma
dell'oltrecapitalismo. Persino la ricerca
intellettuale, la più economica
su questi terreni da visionari, difetta. Di fronte
alla disfatta e, quel
che più conta, di fronte al capitalismo globale che
sta mettendo in
soffitta ogni regolazione politico-economica, tanto da
spaventare i
capitalisti più lucidi e più seri, non è
realisticamente in campo nessuna
alternativa mondiale di sistema, perché di questo si
trattava, da Marx in
poi. Non solo per la spaventosa, siderale distanza nei
rapporti di forza,
ma perché la costruzione di una coscienza mondiale in
grado di abolire la
concorrenza fra i lavoratori (fra i popoli, i sessi,
le generazioni, gli
individui) non può crescere in pochi anni così in
profondità da candidarsi
a un diverso governo del mondo. E' dura, ma è così, ed
è sempre troppo
tardi rimandare questa presa di coscienza.
Sotto sotto è proprio questo confinamento nell'utopia
a far tralasciare il
pensiero e il discorso della "rivoluzione".
Si finisce a fare discorsi
etici, non politici, secondo molti. E l'etica è
inutile, scrive ancora
Tronti, per i compiti dell'oggi, e su questo, preso
dal "che fare", anche
Ingrao pare concordare. Non è forse tempo di
riconsiderare, invece, questa
pretesa di verità? Se la fretta di creare le
condizioni materiali per una
coscienza di classe internazionale liberatoria non ha
sortito che disastri
e sconfitte, se oggi insieme ai militanti di sinistra
sfilano religiosi di
ogni confessione, non si può pensare che esista una
relativa autonomia
dell'etica e dello spirito (o della posizione
culturale) dalle condizioni
storico-sociali, ed è proprio in questo spazio che può
coltivarsi e
affinarsi la prospettiva politica e la qualità umana
che prepari
l'attraversamento del capitalismo verso un patto
planetario di equilibrio e
di pace che promuova l'autorealizzazione solidale di
tutti con tutti
(questo è il modo con il quale ribattezzo l'ideale
comunista)? Una specie
di rivisitazione del socialismo utopistico, etico e
religioso, si dirà. E
perché no ? Perché non ricorrere, in tempi così miseri
e aspri per il
progetto di liberazione, a tutte le risorse? E se non
si impara a lavorare
su di sé, sullo stile di vita delle relazioni,
innanzitutto all'interno del
nostro campo, sarà mai possibile intravvedere nei
nostri mezzi l'annuncio
dei nostri fini? E' questa una linea di pace seria e
profonda, che pratica
la pace invece di predicarla soltanto agli altri,
esponendosi con ciò al
legittimo sospetto che si tratti di mera tattica
politica. In realtà
bisogna abbandonare radicalmente l'idea di fare, anche
simbolicamente, la
guerra alla guerra, si tratta di superare la politica
che è "contro": anche
Bush siamo noi, ricordava già durante la prima guerra
del golfo a proposito
di Bush padre, quel geniale maestro buddhista che è
Thich Nhat Hahn
(pacifista durante la guerra in Vietnam, candidato al
Nobel, partecipante
ai negoziati di Parigi sul Vietnam e ancora costretto
all'esilio dal
governo vietnamita, e soprattutto: amorevole terapeuta
dei reduci
americani, oltre che vietnamiti, della guerra di
allora). Profumi d'incenso
d'anima bella? Perché no? Forse l'incenso brucia più
finemente delle
scintille delle armi le scorie di quella concorrenza
di tutti fra tutti che
è la radice dell'oppressione universale, che è la vera
radice del potere di
Bush e del consenso popolare in tutto il mondo a tutti
i predicatori di
guerre giuste e ingiuste. In definitiva pensare a
fondo quella frase di
Marx, che in forma sintetica è la chiave teorica anche
de Il Capitale, vuol
dire andare oltre Marx, muovere verso l'orizzonte che
ricongiunge la sua
aspirazione alla nostra, pur se per strade diverse:
proprio perché la
radice del dominio cosale e impersonale del capitale è
la reciproca,
universale concorrenza fra gli uomini, il suo
superamento significa niente
di meno che una profondissima trasformazione del
sentire e del pensare
degli uomini, secondo lo stesso spirito dei grandi
profeti
dell'universalismo pacifico, da Buddha a Gesù di
Nazareth. Finché saremo
servi della nostra egoità e di Mammona saremo anche
compartecipi concause
del permanere della civiltà capitalistica. Per
concludere: con ciò, si
dirà, non si fa più politica, ma cultura, etica,
filosofia, religione. E
perché non potrebbe nascere una simile politica? Ma
nell'immediato?
L'immediato più immediato siamo noi stessi, per prima
cosa; seconda cosa,
una chiara, tenace, indefettibile posizione, capace di
questa finalità, non
ha più bisogno di trovare surrogati rivoluzionari
nella massimizzazione
degli interessi immediati, anzi, può tranquillamente e
coerentemente
coniugarsi con le alleanze più ampie possibili per ciò
che è qui ed ora
conseguibile: una rivoluzione culturale vera non ha
paura, anzi può
ritenere corrispondente alla coscienza media
collettiva reale, un'alleanza
che va dai capitalisti più avveduti circa i rischi
della deregulation - per
intenderci, la linea di George Soros - fino ai
democratici, ai
socialdemocratici e ai movimenti. Un esempio? Nella
politica internazionale
odierna, se si ha in mente l'obiettivo di
trasformazione di civiltà,
l'avvicinamento dei popoli europei e le forme
istituzionali della loro
unità dovrebbero essere il primo punto in agenda. Non
c'è in vista altra
forza credibile per moderare gli effetti del capitalismo
selvaggio e del
monopolio Usa della politica internazionale.
ROMANO MADERA
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I dribbling del movimento
La disobbedienza prevede flessibilità. Per praticare
la vera nonviolenza
LUCA CASARINI
Il dibattito su violenza/nonviolenza appare assurdo.
Possiamo scomodare le
grandi narrazioni, le uscite dai secoli dei secoli, ma
non ce n'è. Messa
così, con lo spiritualismo metafisico che dovrebbe
coprire il "vero" del
mondo che attraversiamo tutti i giorni, è anche un
imbroglio. Chi pone ai
movimenti il nodo della "violenza", non
esclude invece la mediazione e
l'accordo con chi la guerra, anzi le guerre, con
bombardieri, missili,
soldati e morti le ha fatte e le farà. A fianco delle
interviste contro il
casco ai cortei, rimane il silenzio sulla vergogna dei
carabinieri di
Ganzer, della polizia che arresta e usa pistole, gas
tossici, manganelli
contro chi protesta. Poi dove sarebbe tutta questa
violenza dei movimenti?
In uno scudo, in una protezione corporea se si sfida
un cordone di celere?
E' vero ai cortei si può andare anche senza casco,
dipende da cosa si deve
fare. Come davanti ad un filo spinato di un lager
dello stato pieno di
migranti. Se si deve provare a tagliarlo ci vuole una
trancia. Se si deve
bloccare una strada ci vuole la gente che si metta in
mezzo, come quella
volta dei treni delle armi. Se poi c'è il rischio che
la polizia carichi,
si potrebbe decidere, come a Termini Imerese, di fare
una barricata.
Dipende tutto da cosa si vuole fare. Non è un "cosa"
che guarda solo a sé
stessa, ma questo, come dice Palombarini, il movimento
non ha bisogno di
ribadirlo, perché da Seattle in poi, lo fa parlando a
molti, per fare con
altri un altro mondo possibile. Quindi se a un corteo
si va solo per
sventolare delle bandiere, i caschi non servono. Ma se
si vuole fare
un'azione, anche minima, di disobbedienza alle leggi,
che tutti definiscono
ingiuste e da non rispettare, bisogna sapere che la
polizia può
"nonviolentemente" spaccarti la testa,
quindi è meglio proteggersi. Se poi
si decide di violare una zona rossa, se è un muro come
al Cpt di Bologna,
una scala è meglio del casco. E così via.
In Italia si discute di come fermare la polizia quando
ti aggredisce, di
come disobbedire a leggi ingiuste, di come si difende
una casa occupata.
Tutto questo è essere violenti? E allora che i
nonviolenti propongano come
fare a fare le stesse cose in un altro modo, senza
tanto menarla. Sarebbe
un bel contributo perché nessuno ha la ricetta
perfetta e definitiva. Ma
sempre a patto che riteniamo importante e giusto
violare leggi ingiuste,
oltre che sventolare bandiere. Quella che Pisanu
chiama la "violenza
politica", aiutato nel concetto anche da
dibattiti come questo, in realtà
sono le pratiche di illegalità diffusa, o "nuova
legalità dal basso", di
disobbedienza e azione diretta, di boicottaggio, che
sono parte
fondamentale dello spirito costituente del movimento
che contesta la
legittimità dell'Impero, in ogni parte del globo.
Quindi pare molto più
sensato ed utile a tutti mettersi insieme, con
pratiche e culture diverse,
con ruoli anche diversi, magari uno con il casco e
l'altro con una tessera
da parlamentare, e provare a produrre un unico
"linguaggio", temporaneo,
che destrutturi il potere, lo metta in difficoltà,
allarghi i comportamenti
di diserzione alla guerra, interna ed esterna,
colleghi mille forme di
sciopero sociale e resistenza.
Allo stesso modo la coppia guerra/terrorismo è un
altro imbroglio. Non è
vero che tutto ciò che resiste alla guerra è
terrorismo. Per cercare la
pace, dobbiamo boicottare attivamente la guerra. Che è
fatta in Iraq
dell'occupazione militare da cui la gente cerca anche
di difendersi, e per
questo viene ammazzata per strada, anche se manifesta
con le mani alzate.
Così come i bimbi di Gaza in Palestina. E difronte a
queste tragedie, non è
accettabile liquidare tutto con una formuletta. Il 20
marzo in tutto il
mondo scenderemo nelle piazze. Dovremo portare con noi
l'idea forza che un
altro mondo è possibile, non solo lo slogan. L'idea
che è giusto ribellarsi
alla barbarie, costruire spazi pubblici e pratiche
contrapposti alle leggi
dominanti. Chi produce il terrore, con i bombardieri o
con il secondo
celere, non ha difronte Al Quaeda. Quella ce l'ha
dentro. Non ha nemmeno
difronte pacchi infiammabili spediti a destra e a
manca per posta, e
nemmeno militanti filo-haideriani che scrivono le
rivendicazioni degli Nta.
Quelli li ha al suo fianco. Difronte ha le pratiche
sociali dei movimenti,
in tutto il mondo. Si aspetta che non facciamo nulla,
si aspetta che ci
basti un seggio per denunciare l'orrore. E' possibile
invece che si trovi
dinnanzi a un affare serio, a una moltitudine globale
che non rispetta più
i comandi. Che mette l'intelligenza della cooperazione
al servizio di un
cambiamento radicale. Che vive di comportamenti
sociali in antitesi al
neoliberismo, dal consumo critico alla distruzione dei
cpt, dai sit-in
all'invasione delle sedi delle multinazionali della
guerra. Dall'accensione
delle telestreet al taglio dei tralicci
dell'inquinamento elettromagnetico.
Allo sciopero, che è "selvaggio" solo perché
non è "addomesticato" dai
padroni. Chi l'ha detto che tutto questo non può stare
assieme, se
l'obiettivo è comune? Forse Pisanu, forse chi ha
condannato la lotta dei
tranvieri, forse la polizia, ma loro che cosa
c'entrano con il dibattito
del movimento?
Abbiamo, dopo questo primo ciclo di lotte globali,
costruito un "luogo in
comune", il movimento, ed è ora che assumiamo
seriamente questo dato.
Assumiamoci la responsabilità di essere parte di un
qualcosa che non è
istituzionale e non segue le regole del gioco. Se c'è
un dibattito da
aprire con urgenza è quello sulla violenza della
polizia, dei carabinieri,
è quello sulla restrizione dei diritti e delle libertà
che è in atto,
applicata anche da giudici che fanno i girotondi,
dalle precettazioni agli
arresti, confino e sorveglianza speciale per chi fa i
picchetti, occupa
case, partecipa a manifestazioni. Per chi
disobbedisce, con o senza il
casco. La guerra interna è anche questo. Speriamo che
con la stessa
profusione di interviste, saggi e convegni dedicati al
tema della violenza
e nonviolenza, si apra su questo un dibattito forte.
Pensando a Genova, al
2 marzo, a un processo politico contro il movimento.
LUCA CASARINI
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Da Liberazione del 4-2-'04
NON VIOLENZA E MINISTERI
di Marco Ferrando (direzione nazionale del PRC)
Associazione marxista rivoluzionaria PROGETTO
COMUNISTA
Non violenza, religione, partito della sinistra
europea non rappresentano ambiti separati di dibattito ma tre diverse
angolazioni di un unico tema di fondo: dove va il nostro partito? Un
interrogativo che non riguarda solamente il cielo stellato delle idee, ma il
terreno concreto della politica. Un interrogativo che chiama in causa la svolta
politica di prospettiva che da un anno la maggioranza dirigente del Prc ha
varato: la prospettiva di un governo comune con l'Ulivo e, quindi, di
scioglimento dell'opposizione comunista in Italia.
E' mia precisa convinzione che questa svolta politica
sia la base materiale della svolta culturale in atto, il suo alimento, la sua
cifra. E che senza cogliere questa connessione si rischi non solo di
"distrarre" il partito con la finzione, fosse pure involontaria, di
un dibattito culturale separato, ma di disperdere senso e ragione dello stesso
confronto teorico e dei suoi contenuti. Del resto: quando mai nella lunga
storia del movimento operaio i dibattiti "teorici" sono stati avulsi
dai confronti politici di linea sulla stessa dislocazione di classe dei
comunisti?
"RITORNO A MARX" NEL NOME DELLA "NON
VIOLENZA"?
"E' a priori indispensabile l'aperto
riconoscimento della necessità dell'uso della forza, sia in singoli episodi
della lotta di classe come per la conquista finale del potere statale: è la
forza che può prestare anche alla nostra attività pacifica e legale la sua
particolare energia ed efficacia." (Violenza e legalità, 1902). Così Rosa
Luxemburg -assunta incredibilmente come icona del nuovo partito non comunista
della sinistra europea- polemizzava un secolo fa con le "nuove"
teorie "non violente" della socialdemocrazia belga.
Come si vede il tema teorico della violenza ha una
lunga storia politica nella vicenda del movimento operaio. E contrariamente a
quanto si cerca di suggerire non ha mai riguardato la questione dei mezzi, se
non di riflesso, ma essenzialmente la questione dei fini.
"Riforma sociale o rivoluzione?", così
scriveva Rosa. La quale chiariva che l'alternativa non riguarda affatto la
diversità dei mezzi (più lenti o più rapidi) per raggiungere i medesimi fini,
ma proprio la diversità dell'obiettivo: o la conquista rivoluzionaria del
potere politico da parte delle classi subalterne come leva della trasformazione
socialista, o "inessenziali modifiche dell'ordinamento capitalista".
Questo è stato sempre il discrimine di fondo tra rivoluzionari e riformisti,
non altro. Ed ha attraversato, in forme diverse, due secoli di storia. Perfino
il movimento operaio pre-marxista ne fu segnato: come nella lotta della
sinistra "babuvista" in Francia contro il riformismo istituzionale di
L. Blanc, o nella lotta dell'ala radicale del cartismo inglese contro la sua
componente più moderata (che opponeva la "forza morale" alla "forza
fisica"). Ma fu soprattutto Marx e il marxismo rivoluzionario, sin dal
Manifesto del '48, a sancire la rottura con quello che definì "socialismo
borghese": che "ha cercato di distogliere la classe operaia da ogni
moto rivoluzionario in nome di semplici miglioramenti amministrativi che non
cambiano affatto i rapporti di produzione tra capitale e lavoro ma, nel
migliore dei casi, diminuiscono alla borghesia le spese del suo dominio"
(Il Manifesto). Ed è sempre il Manifesto, com'è noto, a rivendicare la
centralità della conquista del potere politico come "elevarsi del
proletariato in classe dominante", possibile "solo con l'abbattimento
violento di ogni ordinamento sociale esistente": e ciò in polemica proprio
col pacifismo riformistico delle vecchie sette del socialismo utopista che
"respingendo ogni azione rivoluzionaria vogliono raggiungere il loro scopo
con mezzi pacifici e cercano, con piccoli e vani esperimenti, di aprire la
strada al nuovo vangelo sociale con la potenza dell'esempio" (Il
Manifesto). Peraltro fu Marx a vedere nell'organizzazione e nella forza della
Comune di Parigi, quale prima esperienza della dittatura del proletariato,
"la forma finalmente scoperta dell'emancipazione del lavoro":
attribuendo oltretutto le ragioni della sua sconfitta non certo già all'uso della
violenza ma, al contrario, ad una politica troppo difensiva, anche sotto il
profilo militare. E al riformista positivista di nome Duhring che con la
predica della "non violenza" minacciava di influenzare il movimento
operaio tedesco, fu Engels a contrapporre la difesa rigorosa del marxismo:
"Per Duhring la violenza è il male assoluto: ogni uso di violenza
avvilisce colui che la usa, egli dice: ma che la violenza abbia nella società
anche un'altra funzione, una funzione rivoluzionaria, che essa sia secondo le
parole di Marx, la levatrice di ogni vecchia società gravida di una nuova... in
Duhring non si trova neppure una parola. E questa mentalità di predicatore,
fiacca ed insipida, ha la pretesa di imporsi al partito più rivoluzionario che
la storia conosca?" (Anti-Duhring, 1878).
Siamo sinceri: teorizzare il "ritorno a
Marx" nel nome della "non violenza" è davvero un'operazione
insostenibile e, francamente, grottesca.
LE VIE "PACIFICHE" DI SOCIALDEMOCRAZIA E
STALINISMO
E' vero invece che la "non violenza" e più
in generale il pacifismo strategico ha costituito un tema centrale della
battaglia politica e culturale antimarxista per oltre un secolo. E non per
astratte ragioni etiche, ma in funzione della salvaguardia della società
borghese o della riconciliazione con essa.
Ciò è avvenuto, in primo luogo, dall'esterno del
movimento operaio: laddove ad esempio il celebrato Gandhi -già sostenitore
dell'imperialismo inglese nella prima guerra mondiale, nella guerra anti-boeri
e nella repressione sanguinosa della rivolta degli zulù in Sudafrica- elevò la
bandiera della non violenza anche in opposizione al bolscevismo "a difesa
del principio della proprietà privata e di Dio."
Ma è avvenuto anche dall'interno del movimento operaio
e socialista. Tutto il revisionismo positivista che si sviluppò nella II
Internazionale, a partire da Bernstein, sotto la pressione della burocrazia
parlamentare della socialdemocrazia tedesca, elaborò la teoria della "via
legale e pacifica" al socialismo come paravento ideologico del proprio
adattamento al capitalismo: ciò che significherà, naturalmente nel nome...
della "non violenza", il voto ai crediti di guerra, la repressione
armata della rivoluzione tedesca, l'assassinio della Luxemburg e di Liebnecht.
E' appena il caso di ricordare che il biasimato "comunismo
novecentesco" di Lenin, Trotsky (e della stessa Luxemburg) nacque e si
sviluppò esattamente nel segno del (vero) ritorno a Marx contro quella deriva.
Così lo stalinismo approderà alla "via pacifica
al socialismo" lungo le orme della vecchia II Internazionale per dare
copertura teorica alla svolta di governo dei fronti popolari con la borghesia
liberale e alla propria integrazione progressiva nella democrazia borghese: ciò
che significò, a difesa della "nuova" via... pacifica, la soppressione
spietata non solo dei comunisti rivoluzionari ma di tutte le forze di classe
che contrastavano la sua politica (Spagna, '36-'39), per di più spianando
spesso la via alla peggiore violenza reazionaria. O vogliamo separare la
sacrosanta denuncia degli orrori dello stalinismo dalla politica per cui
vennero consumati?
COMUNISMO IN CIELO, MINISTRI IN TERRA
Ecco allora, a me pare, il lato abnorme della
celebrazione ideologica della "non violenza" come nuovo asse
identitario del nostro partito.
L'enormità non sta solamente -ciò che già è stato
giustamente osservato- nello scarto tra questa ideologia e la cruda e immediata
materialità dello scontro di classe internazionale, tanto più nella svolta
d'epoca segnata dal ritorno prepotente delle politiche di potenza
dell'imperialismo. Né solamente nello scarto con l'esperienza storica della
lotta di classe di generazioni e di popoli oppressi. Né solamente nella
pretesa, tutta idealistica, e davvero non nuova, di individuare nella violenza,
astrattamente intesa, il peccato originario della storia umana al di là e al di
sopra della storia reale: ciò che ad esempio consente l'assurda equiparazione
di leninismo e stalinismo, entro un'unica filiera "culturale"
("la violenza"), e a dispetto della loro contrapposizione materiale
(sociale e politica) nella storia.
L'enormità sta soprattutto nella prospettiva che la
nuova ideologia di fatto rivela, in profonda continuità con il riformismo
storico novecentesco: l'adattamento "critico" a questa società e a
questo mondo, alle sue istituzioni e ai suoi governi borghesi
"riformisti" (oggi oltretutto controriformatori). Naturalmente, come
sempre, nel nome di "un nuovo mondo possibile" e delle migliori
suggestioni etiche e filosofiche. Ma dentro un processo in cui lo stesso riferimento
al comunismo slitta sempre più su un piano metafisico e celeste, perciò
compatibile con il richiamo religioso e con la sua esaltazione: liberando il
campo, nel mondo terreno, per le più disinvolte prospettive ministeriali.
Perché proprio questa è la legge fisica della storia: chi respinge la conquista
del potere dei lavoratori, magari nel nome della "non violenza",
finisce col chiedere ministri nei governi della borghesia, che sono massimi
organizzatori di violenza.
L'URGENZA DI UN CONGRESSO STRAORDINARIO
Già, la borghesia.
Sullo sfondo di un capitalismo italiano che vive, come
ovunque, sulla violenza quotidiana dello sfruttamento, della frode, di un nuovo
militarismo coloniale, il centro liberale dell'Ulivo e la sua stampa -già
sostenitori di tutte le imprese imperialiste dell'ultimo decennio- mostrano
esplicito apprezzamento per la svolta della "non violenza" da parte
di Bertinotti, dentro il plauso per la più generale svolta di governo del Prc.
Di più: vedono e applaudono in tutto questo la "Bad Godesberg" del
Prc.
Si sbagliano, "non capiscono" da poveri
ingenui la trama rivoluzionaria del nuovo disegno? Oppure capiscono sin troppo
bene, la valenza politica del nuovo corso e il segnale rassicurante che
configura: un comunismo ridotto alla terra promessa dell'al di là e il realismo
di ministri ed assessori nella valle di lacrime dell'al di qua?
La verità -a me pare- è che la sola prospettiva di un
governo con l'Ulivo e i suoi banchieri sotto la guida di Prodi già trascina
alla deriva l'intero impianto politico-culturale del partito. Cosa mai
comporterebbe la realizzazione pratica di quel governo se non la messa in
discussione della ragione stessa del Prc e la distruzione definitiva della
rifondazione?
Per questo credo che il congresso straordinario si
confermi, una volta di più, come un'urgente necessità per tutto il nostro
partito.
Marco Ferrando
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dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com
4-2-'04
RICOMINCIAMO dal MOVIMENTO
di
Marco Bascetta, Piero Bernocchi, Vito Buda, Beppe
Caccia ,Salvatore Cannavò,
Francesco Caruso, Luca Casarini, Bruno Ciccaglione,
Danilo Corradi,
Nicola Delussu, Gianmarco De Pieri, Nunzio d'Erme,
Marco D'Ubaldo,
Riccardo Germani, Pierpaolo Leonardi, Guido Lutrario,
Severo Lutrario,
Piero Maestri, Vilma Mazza, Sandro Metz, Sandro
Mezzadra, Stafano Molteni,
Felice Mometti, Luciano Muhlbauer, Andrea Olivieri,
Marina Pagliuzza,
Bruno Paladini, Luigia Pasi, Francesco Raparelli,
Maurizio Ricciardi,
Claudio Robba, don Vitaliano della Sala, Manlio Vicini
Nelle ultime settimane la discussione molto
partecipata sulle modalità di
azione dei movimenti, sul rapporto tra mezzi e fini,
sulla natura della non
violenza e sulle sue forme di espressione ha
evidenziato una volta di più la
complessità dei problemi che abbiamo di fronte, ma
anche lo spessore della
riflessione in corso nei movimenti stessi.Dobbiamo
tuttavia rilevare che
,frequentemente, la confusione di diversi piani e l'astrattezza
dei principi
rischiano di sospingere verso atteggiamenti manichei,
incomprensioni, e
situazioni di stallo se non di paralisi. Il movimento
del resto ha già
dimostrato come sia possibile praticare strade che non
sono "violente" senza
per questo sposare la nonviolenza come principio
assolutizzante, ma
soprattutto ha dimostrato, da Genova in poi, come sia
possibile far
convergere culture e pratiche diverse una volta che si
accettino terreni
comuni di mobilitazione e obiettivi, diremmo fini,
condivisi.
L'insorgenza e la diffusione di conflitti sociali in
forte attrito con le
regole stabilite dai rapporti di forza dominanti (che
li tacciano di
comportamenti violenti) indicano inoltre un nuovo
terreno, più concreto e
vissuto, sul quale la discussione potrebbe essere
riarticolata.
Riteniamo che questo costituisca un orizzonte
imprescindibile per
l'assemblea del 7 e 8 febbraio a Bologna, che
rischierebbe altrimenti di
arenarsi tra retorica, astrattezza e buoni sentimenti.
Solo la
consapevolezza dello stato particolare della fase in
cui ci troviamo, e
dunque una buona partecipazione e una discussione
utile, possono consentire
di fare di questa assemblea un positivo punto di
svolta.
Il movimento, pur conservando capacità di intervento e
di elaborazione in
diversi ambiti settoriali, si trova infatti nella
difficoltà evidente di
fronteggiare l'articolazione sempre più pervasiva e
insidiosa tra guerra
globale permanente e "guerra interna",
espressa nelle politiche di sicurezza
e di riduzione degli spazi democratici, nonché
l'intensificazione
dell'attacco neoliberista ai redditi, ai salari e alle
condizioni del
lavoro. In una simile situazione ogni contemplazione
narcisistica della
propria forza e permanenza, ma anche ogni chiusura
della discussione sul
piano interno della polemica tra componenti, sarebbe
esiziale. E offrirebbe
il fianco a forme strumentali di rappresentanza,
finendo col confinarci in
uno spazio separato da quelle lotte sociali che in
Italia e in Europa
investono concretamente gli assetti neoliberisti,
individuati e combattuti
sul piano generale dal movimento: dagli
autoferrotranvieri ai lavoratori di
Fiumicino, dalla difesa del tempo pieno nella scuola
alla rivolta in
Inghilterra contro la supertassazione universitaria
voluta da Blair, dalla
mobilitazione contro la legge sulla fecondazione
assistita (che avrà momenti
molto significativi di espressione proprio a Bologna,
nelle stesse giornate
del 7 e dell'8 febbraio, e che dovrà vedere la
partecipazione del movimento
nel suo insieme alla manifestazione prevista nel
pomeriggio del 7 febbraio )
alla giornata di lotta dei migranti in Europa del 31
gennaio, dagli
intermittenti dello spettacolo in Francia alla
mobilitazione permanente dei
metalmeccanici italiani, che tenta di riqualificare
dal basso la
contrattazione.
Nel rapporto con queste realtà e con altre emergenti
potrebbe ricostituirsi
quella dimensione pubblica di confronto, elaborazione,
costruzione di
percorsi e di lotte cui aveva potentemente alluso,
moltiplicandosi in tutto
il paese, l'esperienza dei social forum subito dopo le
giornate di Genova, e
che dobbiamo sempre ricercare. Ci si offre, forse,
l'opportunità di un
felice ritorno a uno "spirito costituente",
che sia in grado di segnare una
positiva discontinuità con le stesse forme di organizzazione
e di
rappresentanza di cui il movimento si è dotato dopo il
social forum europeo
di Firenze e che oggi risultano non più adeguate. E'
quello spirito, da
Seattle a Genova, che ha permesso che si riaprisse la
fase dei movimenti di
conflitto e progetto sul piano globale e in questo
paese, e ciò è stato
addirittura sottolineato nel "nome comune"
che molti gli hanno dato:
movimento dei movimenti. Oggi le nuove condizioni in
cui ci troviamo
richiamano alla necessità di parlare di
"movimento" come luogo in comune,
mai scontato o cristallizzato, per i molteplici attori
di un conflitto
sociale plurale, ampio, articolato, la cui
ricomposizione politica e
materiale è quel mondo possibile "altro" di
cui tutti parliamo.
Lo stato attuale ci impone dunque di promuovere la più
ampia mobilitazione
possibile, non anteponendo "affezioni
identitarie" e confortevoli
reiterazioni del già noto, per fare dell'assemblea di
Bologna un momento di
reale rinnovamento e l'occasione per un salto di
qualità. Si tratta tra
l'altro di individuare strumenti e campagne che
mettano maggiormente in
relazione le forze vive del movimento e che possano
finalmente valorizzare
quella che in questi anni abbiamo definito
"l'eccedenza", la disponibilità
alla mobilitazione che la semplice somma delle reti
organizzate, dei
sindacati o dei partiti non può rappresentare.
Tre assi ci sembrano presentarsi come priorità, tanto
sul piano dell'analisi
quanto su quello della pratica, entrambi bisognosi di
dotarsi di strumenti
inediti. Attorno ad essi occorre a nostro parere
sperimentare forme di
discussione e di confronto tra i diversi tavoli
tematici e le diverse realtà
sensibilità di movimento.
Il primo asse riguarda la capacità di collegare, sulla
spinta delle lotte
sociali in corso, le istanze dei migranti e i
conflitti del lavoro, che
sempre più sta diventando un campo indeterminato di
precarietà e di
negazione di ogni spazio di libertà. L'obiettivo è a
nostro parere quello di
inventare forme di organizzazione e di lotta che
rispecchino la complessità
sociale del presente, non limitandosi alla sola difesa
dei diritti esistenti
ma ponendo con forza la questione della loro
espansione e sapendo declinare
in forme offensive lo stesso scontro sociale. I temi
della democrazia del e
nel lavoro, la questione del reddito sociale, la
rinnovata centralità del
salario, decurtato da un decennio di fallimentare
concertazione sindacale,
costituiscono un terreno su cui possono essere
contrastate la debolezza e la
ricattabilità del lavoro contemporaneo, forzando in
avanti il quadro delle
compatibilità e delle "regole del gioco".
L'occasione del primo maggio può
essere un primo momento in cui sperimentare queste
convergenze.
Il secondo è costituito dalla guerra globale - che
abbiamo anche definito
"guerra economica, sociale e militare" - e
che si intreccia anche con
l'attacco portato ai movimenti, alle garanzie
democratiche, alle libertà
individuali (ancora una volta in particolare contro i
migranti) e alle loro
forme di espressione. Una delle sfide, in questa luce,
consiste nel
costruire una mobilitazione "permanente"
contro la guerra, all'altezza della
sua natura, e che non si esaurisca nella semplice
testimonianza/rappresentanza di un'opinione pubblica
pacifista. Occorre
darsi strumenti, campagne e obiettivi, anche sul piano
sociale, che
attraversino le grandi scadenze collettive e guardino
oltre. E' importante
che in questa mobilitazione si tenga presente anche il
"fronte interno", a
partire dalla scadenza del 2 marzo (l'inizio del
processo contro i
manifestanti di Genova).
Centrale e prioritaria è la costruzione della
mobilitazione planetaria del
20 marzo contro la guerra e l'occupazione dell'Irak,
proposta dai movimenti
contro la guerra statunitensi, assunta a Parigi e
rilanciata su scala
globale a Mumbai.
Il terzo asse riguarda la difesa e la costruzione di
beni e dimensioni
comuni, intesi sia come risorse date sia come spazi
politici e decisionali,
sociali e produttivi. Numerosi sono i fronti in cui si
articola questo terzo
asse: la lotta contro la privatizzazione delle risorse
(dall'acqua al
petrolio) e dei servizi; l'opposizione alla lenta e
costante demolizione
della scuola pubblica, per affermare l'autonomia dei
saperi e della
formazione a tutti i suoi livelli; la lotta contro
l'estensione, ormai
incontrollata della proprietà intellettuale; la
capacità del movimento di
condizionare la distribuzione delle risorse e le forme
dell'organizzazione
sociale dalle politiche municipali al processo
costituente europeo; la
definizione di nuove e più efficaci modalità di azione
del movimento
transnazionale in vista dei prossimi forum europeo e
mondiale.
L'assemblea di Bologna ci sembra dunque una buona
occasione per aprire una
nuova fase nella vita del movimento, per
de-ritualizzare le sue modalità
decisionali e le sue sedi e per provare così a
costruire un percorso più
inclusivo, più ampio, più in sintonia con le recenti
mobilitazioni e con le
domande nuove che il conflitto sociale pone. Un modo
per riprendere il
percorso di espansione del movimento, preservandone
l'unità e valorizzandone
la radicalità, i due elementi che ne hanno
caratterizzato l'origine e la
crescita. Ma anche garantendone una completa autonomia
dal quadro politico e
dalle vicende relative alle sfere istituzionali, non
perché queste siano
indifferenti ma per salvaguardare la politicità stessa
del movimento che si
fonda su contenuti e forme di organizzazione
autodeterminati. Si tratta di
un aspetto che, soprattutto dopo il grande successo di
Mumbai, contribuisce
a costruire le condizioni indispensabili a progettare
un futuro possibile.
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dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com
5-2-'04
Walter Saresini
Cari amici e compagni\e non sò dove vivete voi ma io
non vedo tutta questa
potenziale
forza per concretizzare il vostro "manifesto", conosco molti
di
quelli\e che hanno firmato il documento sottostante,
persone alle quali
voglio bene e stimo profondamente, ma , mi sembra che
le cose scritte siano
più il tentativo di dare una linea che un contributo
ad una qualsiasi
discussione politica, e da triumplino , penso che si
stia dicendo: " queste
cose ci possono dividere, quindi è meglio discuterne
poco"
Io non sono confuso nè mi astraggo nella discussione
politica tra mezzi e
fini,
anzi , credo sempre più che obbligarmi ad essere
attiguo, costretto, a stare
tra mezzi e fini sia la tensione necessaria per
rimanere in un ambito
politico e sociale, che altrimenti non accetterei per
principio prima ancora
che per pratica politica.
Carissimi, mi state forse dicendo che la discussione
tra le varie pratiche
non è strategicamente vincente, o sbaglio?
Sappiate che io penso che un argomento di tale peso ed
entità non possa
essere liquidato in alcune pagine documentarie, seppur
interessanti, e che i
firmatari del "manifesto" non possono essere
rappresentanti di una base
attiva che per sua definizione pur non esprimendosi
enuncia nel suo concreto
pratiche che non necessarimente alludono al vostro
"manifesto".
Sulla base del vostro documento, io prendo atto di una
volontà, che se fosse
accettata dalla assemblea di Bologna, mi escluderebbe
da un percorso che io
ho sempre sperato: quello del divenire costruendo.
Se così fosse, continuerei ad impegnarmi fino alla
campagna " disarmiamo
exa"( per la quale ho dato il mio impegno e la
mia parola) e poi tristemente
mi ritirerei nella mia valle di lacrime.
Credo che le cose da discutere a Bologna debbano essere molto pratiche,
attinenti alle realtà locali( campagne, iniziative
ecc..). Tali iniziative
però devono portare in sè il carico del mezzo e del
fine, altrimenti ogni
realtà locale si potrebbe sentire solo strumento e non
protagonista di un
percorso, perchè così come voi impostate il vostro
"manifesto", prelude al
concetto che alcuni dirigono ed altri , assieme a voi
faranno.
Con stima ed affetto Walter Saresini
Aggiungo io: cosa si decide a Bologna se non c'è un
dibattito franco e
aperto nelle "periferie"? che senso ha un
documento, firmato tra l'altro
solo da alcune persone, in cui traspare forte la
direzione che si vuol far
prendere al dibattito?
Non pensate che forse lo stato attuale del movimento
(maluccio, o no?) sia
in gran parte dovuto ANCHE al non aver voluto discutere di quel che ci ha
diviso continuando un pò ciecamente e a testa bassa su
quel che ci univa?
Forse un pò tutte/i abbiamo abdicato al cercare di
spiegare le nostre
posizioni e a tentare di capire quelle degli altri.
Non sto parlando di
autocoscienza, di catechismo o di altro.
Ho sempre creduto che un mondo diverso si può
costruire solo con modalità
diverse in cui non ci siano imposizioni,
forzature....questo non significa
rinunciare alla forza delle proprie idee, non
significa porgere l'altra
guancia tanto per capirci!
Dirigere il dibattito porta in sè un alto rischio di
perdere ancora pezzi,
di restare sempre di meno e di far diventare i momenti
di incontro come
quello di Bologna uno dei tanti santuari vuoti.
Questo breve intervento a caldo può sembrare forse
solo sul metodo, ma a
voler ben leggere si può trovare anche altro.
Federica
dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com
Piero Maestri
6-2-'04
Essendo tra i firmatari del contributo "Ricominciamo
dal
movimento" vorrei provare a esprimervi appunto
alcune riflessioni -
non tanto per "rispondervi", quanto per
vedere se riusciamo a
capirci.
Personalmente non credo che il contributo abbia lo
scopo di "dare
la linea" e nemmeno di prefigurare una sorta di
"alleanza" tra
alcune aree - e in questo modo precostituire il
dibattito e le
conclusioni dell'assemblea di Bologna.
Lo scopo era esattamente un altro - esprimere alcune
riflessioni
che, partendo dalla valutazione di una difficoltà del
movimento (che
mi sembra esistere, o no?) proponesse alcuni nodi di
dibattito -
non per questo voler evitare di discuterne altri.
Ovviamente il contributo può non essere riuscito ad
aprire una
riflessione - che comunque è affidata all'assemblea-
ma certamente
non voleva "liquidarla" e nemmeno chiuderla.
L'assemblea di sabato e domenica dovrebbe essere
l'occasione per
un dibattito a tutto campo, ma soprattutto per cercare
di costruire
tutte/i assieme obiettivi, percorsi, campagne,
iniziative e luoghi
condivisi. Il contrario di quanto voi dite vorremmo
(tra l'altro quello
che dico riguarda solamente me, ovviamente).
Se guardiamo ai temi proposti - ad esempio sulla
questione
"guerra" - cosa c'è di così diverso dalla
riflessione che finora
abbiamo fatto assieme, e dal tentativo di dare gambe
alle iniziative
permanenti contro la guerra, che non si esauriscano
nella grandi (e
necessarie) manifestazioni.
Su questo - per quanto mi riguarda - vorei cercare di
dare il mio
contributo all'assemblea, anche a partire dale proposte
di Nella e
da quanto abbiamo discusso in questi ultimi due anni
(sulla
necessità di una campagna per "smilitarizzare la
politica",
affrontando e ostacolando le spese militari, la
produzione e il
commercio degli armamenti, le basi militari ecc.
ecc.).
Perchè questo dovrebbe escludere le periferie? anzi,
se non si
creano sul territorio quei luoghi di iniziativa,
nessuna campagna
avrà alcun risultato, nessuna iniziativa supererà il
livello della
"visibilità", senza per questo creare una
stabile presenza e,
appunto, permanenza del movimento.
Questa discussione dovrà anche affrontare il come si
vuole fare la
strada assieme, quindi anche le azioni, i
"mezzi" - senza liquidare
questa discussione in un confropnto ideologico (chwe a
volte mi
sembra prevalere).
Spiace che questo contributo sia vissuto come
"forzatura" - perchè
è all'assemblea che si affida una discussione e una
decisione di
percorso.
Aver firmato assieme ad altre/i quel contributo,
insisto, non
significa auspicare che l'assemblea si esaurirsca in un
"referendum" pro o contro, o in una ricerca
di adesioni - al contrario
auspico che siano trasparenti e chiare le posizioni di
ognuno,
facendo lo sforzo di arrivare ad una possibile
"sintesi" nella
condivisione di campagne e iniziative.
un abbraccio, Piero Maestri
da "il manifesto" del 06 Febbraio 2004
Un movimento per il movimento
Ritiro delle truppe, ma anche gli autoferrotranvieri.
Un appello in vista dell'assemblea dei Forum sociali
B. V.,
Il primo elemento che colpisce è l'eterogeneità delle
firme. In quaranta hanno infatti finora firmato un appello-invito alla
discussione per la prossima assemblea nazionale dei forum sociali che si terrà
sabato e domenica prossima a Bologna. Molti sono attivisti del sindacalismo di
base, altri Disobbedienti, altri militanti di Rifondazione comunista, alcuni
sono consiglieri comunali eletti come indipendenti con Rifondazione comunista o
con i Verdi, altri, infine, sono "cani sciolti". In ogni caso,
unanime è la convinzione, al di là delle differenti culture e pratiche
politiche, che sia il "movimento" il "luogo comune" di una
discussione che abbia come sfondo i conflitti in corso e le campagne nazionali
e internazionali che diano corpo a quell'"altro mondo possibile" la
cui necessità è stata lanciata con forza nell'ultimo Forum sociale mondiale che
si è tenuto a Mumbai. Da Sandro Mezzadra a don Vitaliano della Sala, da Piero
Bernocchi a Luca Casarini, da Salvatore Cannavò a Pierpaolo Leonardi, da Laura
Tartarini a Nunzio D'Erme, da Bruno Palladini a Francesco Raparelli, solo per
citarne alcuni, tutti si sono trovati d'accordo nel fissare nero su bianco
alcuni temi che caratterizzano lo "stato particolare" del movimento
dei movimenti: dai conflitti degli autoferrotranvieri a quello dei lavoratori
di Fiumicino, dalle battaglie in difesa della scuola pubblica alle lotte contro
la privatizzazione dei servizi sociali e delle risorse. Dalla centralità della
battaglia salariale alla questione del reddito sociale minimo. Dal ritiro delle
truppe italiane in Iraq alla mobilitazioni a favore dei migranti.
In altri termini, c'è il timore che a Bologna questi
temi passino in secondo piano a favore di rassicuranti dichiarazioni di
principio. Un appello quindi che invita l'assemblea di Bologna a prendere al
parola su quanto sta accadendo in Italia. Il punto di partenza - il testo
dell'appello è stato pubblicato sui siti: www.sherwood.it e italy.indymedia.org
- cerca di far chiarezza sulla discussione attorno alle forme di lotta del
movimento e rifiuta, secondo i firmatari dell'appello, il tono
"astratto" che spesso ha avuto la querelle su violenza e nonviolenza.
Per i firmatari dell'appello, sbaglia chi continua a vedere un pericolo di una
deriva violenta di settori del movimento, rivendicando invece le pratiche di
resistenza messe in campo dal "movimento dei movimenti" da Seattle in
poi.
Ma ciò che l'appello a cuore è appunto "lo stato
particolare" del movimento. Le mobilitazioni di Scanzano, degli
autoferrotranvieri, quelle dei precari, dei ricercatori universitari sono
sicuramente il risultato di un "processo di politicizzazione" che il
movimento è riuscito a mettere in campo. E che questo ha smosso le acque anche
nel centrosinistra. Ma è proprio perché tutto si è rimesso in movimento che, si
legge nell'appello, "l'insorgenza e la diffusione dei conflitti
sociali" si è trovata "in forte attrito con le regole stabilite dai
rapporti di forza dominanti" e che tali conflitti indicano un "nuovo
terreno, più concreto e vissuto, sul quale la discussione potrebbe essere riarticolata".
In altri termini, sono le condizioni materiali del
neoliberismo che devono essere la bussola che orienta l'azione del movimento,
considerando di conseguenza il rapporto con i partiti di centrosinistra a
partire dalle forme di conflittualità che si danno nelle società.
A Bologna si discuterà della mobilitazione mondiale
del 20 marzo per chiedere la fine dell'occupazione dell'Iraq. Obiettivo
condiviso, ovviamente, ma non si può, secondo i firmatari dell'appello,
giungere a questo appuntamento senza ricordare anche le misure di "guerra
interna" messe in atto dai governi europei. Il riferimento è alle
legislazioni nazionali e sovranazionali che limitato la libertà di movimento di
uomini e donne e ad alcune misure di "lotta al terrorismo" che potrebbero
tradursi in una limitazione dei diritti civili e politici, in Italia come in
Europa.
da Liberazione del 6-2-'04
Conflitto: non riducibile a logiche di gerarchia
militare
Giorgio Cremaschi
La discussione aperta da Fausto Bertinotti sulla non
violenza ha
finito per toccare temi e sentimenti vastissimi. Sento
allora
necessaria una sua tematizzazione, ed anche una
individuazione degli
interlocutori.
Stiamo parlando tra noi, che lottiamo contro il
liberismo e siamo
contro la guerra, senza se e senza ma. Chi fa buon
viso alle
decisioni del Fondo Monetario Internazionale, a causa
delle quali
possono morire di inedia intere popolazioni; chi fa la
guerra
umanitaria; chi si astiene sulla partecipazione alla
guerra
preventiva del governo Bush: tutti costoro non hanno
titolo morale e
politico per predicare la non violenza.
Dobbiamo cogliere il disgusto che certe ipocrisie
provocano
soprattutto nei più giovani, indisponibili, più di noi
ieri, ad
accettare sofisticazioni morali in veste di astuzia
politica. Bisogna
condividere questo sentimento, sennò non ci si fa
capire.
Pietro Ingrao, nei suoi due interventi, ci ha come
sempre, aiutato
non solo a distinguere e a mettere ordine nella
discussione, ma a
collocare essa sul terreno dell'agire politico. Voglio
tentare di
seguirlo.
1 - La violenza del potere
al servizio degli oppressi
E' questo il tema che più tocca chi viene dal e chi si
richiama al
comunismo del Novecento. Pensavo che dopo il crollo
del socialismo
reale nell'Urss e nei paesi satelliti e dopo la sua
mutazione in
capitalismo autoritario in Cina, molto fosse già
acquisito. Forse non
è così. E non tanto per il giudizio sugli orrori dello
stalinismo,
che in parte sgorgano da un momento e da una
specificità storica,
sociale, civile. Quanto piuttosto per una questione
ben più di fondo,
che può persino ripresentarsi oggi, di fronte alla
moderna, tremenda
brutalità del capitalismo globalizzato. Per Lenin,
come per Marx, la
lotta per la liberazione degli oppressi giustifica il
ricorso alla
dittatura rivoluzionaria. Così come fecero ed
insegnarono i giacobini
nel difendere la rivoluzione francese.
L'esperienza ci ha insegnato che così gli oppressi
sottoscrivono un
patto con il diavolo. Possono sconfiggere
l'avversario, ma ne
assumono le sembianze. E con l'uso degli stessi mezzi
di coloro che
combattono, travolgono i propri stessi fini.
Lo aveva lucidamente previsto dal carcere una donna,
Rosa Luxemburg,
quando i bolscevichi, nel 1918, sciolsero l'Assemblea
costituente:
l'unico vero parlamento democratico mai avuto dalla
Russia, compresi
i giorni nostri e la finta democrazia di Putin. La
Luxemburg scriveva
che Lenin e Trozky (Stalin fu irrilevante
nell'Ottobre) sottoponevano
la dittatura del proletariato a quella del partito.
Alla quale si
sarebbe sostituita quella del comitato centrale, a sua
volta
soppiantata da quella di un uomo solo. A questa lucida
profezia non
c'è altro da aggiungere.
La dittatura rivoluzionaria non è solo una reazione
alla violenza
sovvertitrice degli oppressori. E' stata anche una
scelta. Essa
nasceva dall'idea giacobina di rivoluzionare la
società dall'alto,
affidando il potere politico ad avanguardie
illuminate, in grado di
supplire ai vuoti nella coscienza e nell'esperienza
delle masse. E'
questo apparato concettuale, dal quale Marx ed Engels
tentarono di
staccarsi nell'estrema maturità senza riuscirci del
tutto, che è oggi
politicamente inservibile.
La liberazione dal capitalismo non può avvenire usando
le forme, i
poteri, le violenze, della rivoluzione borghese.
Questo ha insegnato
l'esperienza. La liberazione delle persone
dall'oppressione del
mercato e dallo sfruttamento deve avvenire per vie
diverse,
incompatibili con l'uso per buoni fini della dittatura
rivoluzionaria
e del potere dell'avanguardia. Non è una
considerazione rivolta solo
al passato. La fiumana di lavoratrici e lavoratori dei
popoli più
lontani, che ha invaso le vie del Forum Sociale di
Mumbai, ci spinge
a trovare sin d'ora le vie di questo percorso di
liberazione.
La scelta della democrazia radicale, della
partecipazione e del
consenso. Il riconoscimento del valore insostituibile
del conflitto
sociale, così come di quello tra i sessi, per
costituire e affermare
le soggettività. La costruzione di forme della
politica che non
rispecchino l'esercito e la vita militare, nelle quali
non viga il
principio assoluto della delega e del comando e dove
il rischio e le
difficoltà siano spartite con giustizia. In sintesi la
costruzione di
una politica corrispondente all'ambizione del processo
di liberazione
che si vuole costruire. Questa mi pare la necessità
che abbiamo di
fronte, per emancipare definitivamente la lotta contro
lo
sfruttamento capitalistico dalle illusioni e dai
guasti della
dittatura rivoluzionaria.
2 - L'efficacia dell'azione non violenta contro la
guerra
Proprio perché stiamo discutendo di politica, è giusto
interrogarci
sull'efficacia dell'azione non violenta di fronte a
poteri impegnati
oggi nell'organizzazione e nella diffusione della
guerra.
Pietro Ingrao ci ricorda giustamente che la resistenza
armata
all'occupante in Iraq è giustificata, e legittima per
lo stesso
diritto internazionale. Essa non può essere chiamata
terrorismo. Ma
il terrorismo esiste, come forza e progetto autonomo.
E' singolare se ci si pensa. Tutte le principali
guerre dell'ultimo
decennio sono state promosse dagli Stati Uniti contro
loro precedenti
alleati. Bin Laden e i talebani sono stati decisivi
per sconfiggere
l'Urss in Afghanistan. Saddam ha fermato la
rivoluzione iraniana. Il
fondamentalismo islamico ha combattuto il nazionalismo
arabo. In
Somalia, gli attuali nemici dell'Occidente, anni fa
erano in armi
contro il governo filo-sovietico dell'Etiopia. Persino
Milosevich
oggi ci appare come un utile attore nella
disgregazione del
socialismo reale.
Solo nel cortile di casa dell'America Latina gli Stati
Uniti sono
impegnati contro gli avversari di sempre. Ma nel resto
del mondo, dal
1991 ad oggi, le guerre hanno visto scontrarsi tra
loro vincitori
della guerra fredda. Anche l'Europa è così sotto tiro.
Per questo i paragoni con il passato, quando non sono
puramente figli
della propaganda bellica, non ci aiutano a capire. Non
ci sono nuovi
Hitler in campo, ma non c'è neppure una guerra
partigiana
paragonabile alla resistenza antifascista o al
Vietnam. E' tutto
diverso, è tutto più sporco. Quando una giovane madre
palestinese
benestante si mette una cintura di esplosivo e si fa
esplodere per
uccidere, siamo in un'altra dimensione rispetto a
tutto ciò che da
noi in Occidente intendiamo come terrorismo.
Respingere con orrore questi atti è per noi sin troppo
facile. Ma
come fermarli? Con Guantanamo, con la riduzione dei
diritti civili
per i musulmani ed i migranti, come sta avvenendo in
tutto
l'Occidente? Qui c'è lo spazio per l'azione politica.
Per il rifiuto
radicale non solo della guerra al terrorismo, ma del
progetto
politico di dominio sul mondo che sta dietro di essa.
Bisogna lottare
contro la difesa armata dei privilegi dei ricchi
dell'Occidente. Solo
affermando il valore insostituibile ed irrinunciabile
di ogni persona
umana, si può impedire che le persone siano usate come
bombe. Se per
il nostro Occidente quelle persone valgono meno delle
merci, allora
il suicidio omicida può diventare il momento estremo
dell'identità.
C'è qualcosa che accomuna liberismo e guerra da un
lato,
fondamentalismo terrorista dall'altro: la riduzione
della persona a
strumento bellico. Occorre allora l'opposizione alla
guerra si
trasformi in azione politica, affinché entrambi i
contendenti siano
sconfitti. Deve perdere Bush (con Blair e tutti gli
altri), deve
perdere
Bin Laden. Non basta affermare il principio della pace,
occorre costruire una politica che sconfigga chi fa la
guerra. E'
questo il tema che ha di fronte il movimento a partire
dall'appuntamento mondiale del 20 marzo. Passare dalla
richiesta
della pace, all'azione pacifica, ma radicalmente
determinata, per
rovesciare la guerra e la logica di guerra questo è il
campo
dell'iniziativa e dell'elaborazione.
3 - Lotte sociali
ed azione diretta
Quando un metalmeccanico sciopera la prima domanda che
si pone con
angoscia è: "Come ci facciamo sentire ora?
". Viviamo in un mondo dai
mille occhi ed orecchi elettronici, eppure mai come
ora c'è stata
tanta sordità e cecità di fronte al conflitto sociale.
Anche per
farsi sentire i movimenti hanno sempre più utilizzato
lo strumento
dell'azione diretta ed esemplare, la violazione delle
regole
costituite. Così fanno i militanti di Greenpeace, così
i
disobbedienti. Così si sono fermati i treni durante la
guerra. Così i
lavoratori che perdono il posto bloccano l'autostrada
o i viali
dell'aeroporto. Così si afferma un diritto anche
bloccando il
deposito del tram. Tutte queste non sono azioni
violente, sono modi
per farsi ascoltare, per non farsi cancellare. Sono la
reazione alla
violenza di un sistema di potere che rimuove e censura
i conflitti.
Il movimento e le lotte sociali in Italia non sono in
alcun modo
accostabili alla violenza e al terrorismo. Dopo Genova
non c'è stata
una reazione militare di una parte del movimento, al
quale
dall'inizio partecipano la Fiom, l'Arci, il
sindacalismo di base,
forze radicali e associazioni cattoliche non violente,
e poi la Cgil
e tanti altri ancora. Questo è un fatto politico
decisivo da sbattere
in faccia ai teoremi reazionari del Governo e alla
repressione.
C'è però anche qui una grande questione politica. Chi
decide? Nelle
lotte operaie si cerca di decidere assieme cosa si fa,
dove si va,
come si va. Violare le zone rosse del capitalismo
liberista può
essere necessario. Ma è una discussione e una scelta
che riguarda
tutto il movimento, non la pratica di avanguardie.
Questa a me pare
la questione più importante, rispetto a quella dei
caschi. Io non lo
porto, ma il problema non è se e chi lo porta, ma se
il casco finisce
per distinguere un'avanguardia separata. Il casco non
fa grado.
Mi pare che alla fine la vera conclusione di queste
schematiche
considerazioni sia soprattutto una: stiamo provando a
scrivere una
storia nuova. Che non può essere letta e giudicata con
occhiali
adatti a letture passate. E' davvero superata una
certa concezione
delle avanguardie e delle loro funzioni. E' davvero
inaccettabile la
riduzione del conflitto alle logiche e alle gerarchie
dello scontro
militare. Almeno se si assume il punto di vista della
liberazione
dall'oppressione capitalista. Perché, e non è un caso,
proprio le
forze del neoconservatorismo Usa paiono oggi agire
come
un'avanguardia mondiale che vuole imporsi con la
guerra permanente.
Ma se questa è la premessa, il resto è ancora quasi
tutto da
definire. Sarà l'esperienza dei movimenti, un poco
alla volta, a
tradursi in una nuova politica. Proprio per questo,
però, bisogna
sempre capire, accettare le differenze. Non si possono
buttar via le
pagelle e poi continuare a dare i voti come prima.
Giorgio Cremaschi
da Liberazione del 7-2-'04
Movimento: tutelarne l'unità e valorizzarne la
radicalità
Alfio Nicotra (del comitato politico nazionale del
PRC)
L'arresto di Nunzio D'Erme e degli altri compagni
della disobbedienza
romana si inquadrano in un preciso progetto di
criminalizzazione del
movimento e di chiunque agisce il conflitto sociale.
Si arresta a
Roma per presunte violenze, per poter far assolvere a
Genova gli
autori di ben più concrete e documentate devastazioni,
torture,
sequestri di persona e pestaggi. Si vuole rovesciare
come un guanto
la verità. Già Carlo Giuliani è stato ucciso
dall'incidentale impatto
di un proiettile sparato in aria e deviato da un
calcinaccio.
L'inferno della Diaz e Bolzaneto non è mai esistito e
se è esistito
il teorema dei nuovi arresti tende a giustificarlo a
posteriori,
essendo chiaro chi sono le vittime ( le forze
dell'ordine) e chi i
violenti ( i no global). Da questa vera e propria
campagna a sostegno
della "verità di regime" costruita a suon di
mandati di cattura,
qualcuno vorrebbe piegare o usare strumentalmente il
dibattito sulla
scelta rivoluzionaria della nonviolenza. Sgombrare il
campo da queste
strumentalizzazioni è decisivo: il Prc come larga
parte del movimento
chiede con forza l'immediata scarcerazione dei
compagni e la pronta
restituzioni ai loro affetti, lavoro ed impegno
politico.
Già il movimento aveva messo a tema e discusso, con
vivacità e senza
reticenze, sui fatti del 4 Ottobre. I caschi e gli
scudi erano
tornati la prima volta dopo Genova in una
manifestazione che volevamo
partecipata e di massa. Una scelta che aveva diviso e
non certamente
perché scudi e caschi rappresentino in alcun modo
strumenti di offesa
e violenza. In via Tolemaide e in Piazza Alimonda
avevamo scoperto
che essi, di fronte alla brutalità della repressione,
non servono
neanche a proteggersi. Riponemmo quegli strumenti
da"cavalieri
medioevali" come scrisse Heidi Giuliani, perché
il Medio Evo era
fuori da noi. Alla barbarie della globalizzazione
neoliberista
contrapponemmo un'altro mondo possibile riempiendo di
mobilitazioni
di massa ogni angolo del pianeta. Il movimento è
cresciuto, la stessa
disobbedienza da pratica di elitè è diventata pratica
di massa (gli
operai della Fiat, la rivolta di Scansano,
l'insubordinazione degli
autoferrotranvieri etc.). La radicalità e l'estensione
della
mobilitazione per la pace "senza se e senza
ma" non hanno fermato le
armate di Bush, ma hanno impedito che la guerra
infinita sfondasse
nelle coscienze dei popoli. A dispetto del
bombardamento mediatico e
dei fiumi di menzogne costruite dagli appositi uffici
propaganda del
Pentagono, l'opinione pubblica resta radicalmente e in
larga
maggioranza contro la guerra. E' un fatto
straordinario, senza
precedenti. Il nostro errore è stato non comprenderlo
appieno
credendo che la guerra fosse finita con l'annuncio
trionfale di Bush
su una portaerei. La guerra è infinita davvero. Divora
ancora i suoi
protagonisti.
Il 4 Ottobre ci furono alcune semplificazioni come il
ritenere che
una conferenza dell'Unione Europea avesse la stessa
illegittimità
nella percezione popolare del G8. Dietro ancora c'era
un filone di
pensiero che chiedeva di "tornare a
Seattle", all'azione eclatante e
al rito della violazione simbolica delle zone rosse.
Ma a Seattle è
possibile tornare soltanto tagliando la foresta di
alberi cresciuta
dai semi gettati durante i giorni della contestazione
al WTO, proprio
nella cittadina nordamericana. Tornare a Seattle nelle
modalità e
nelle forme di allora significa negare il percorso che
Seattle ha
aperto. Alcuni hanno voluto indicare nel
"gigantismo" del movimento
un limite e un inevitabile corrompersi della sua
radicalità. Come se
la radicalità si misurasse in vetrine infrante o nella
capacità di
reggere la confrontation - a volte necessaria ma non
per questo da
ricercare ad ogni costo- con la polizia.
Ho avuto il privilegio, nel settembre scorso, di
essere sulle
cancellate divelte al km zero della zona hotelera di
Cancun. I buchi
della barriera erano stati sostituiti da un muro di
poliziotti con
scudi e manganelli. Ho visto un contadino di Via
Campesina togliere
dalle mani di un giovane studente una pietra che
voleva
lanciare. "Con puro corpo compagno" gli ha
detto e con semplice corpo
si è lanciato sugli scudi. Qualcosa di profondo sta
avvenendo anche
nei movimenti del sud del mondo, più abituati all'uso
della violenza
perché costretti dalla ferocia della repressione. C'è
una
consapevolezza che le modalità di lotta non sono
"neutre". Violenza e
nonviolenza infatti pari non sono. Lo zapatismo ci ha
insegnato che
anche quando l'uso delle armi diventa necessario esso
serve soltanto
per riprendersi la parola. Nel "fuego y la
palabra" vi è la violenza
secolare dell'olvido (l'essere dimenticati, cancellati
dal diritto di
esistenza) ed il tornare ad esistere alla luce del
sole. "Siamo
diventati esercito affinché non ci siano più
eserciti". Il paradosso
zapatista ci parla di mezzi e fini come mai nessuna
guerriglia
novecentesca aveva fatto. I mezzi possono invalidare
anche i fini
specialmente se i primi si chiamano armi. D'altronde
il militarismo è
stato motivo di degenerazione non solo del socialismo
reale ma anche
di tante democrazie liberali. Rompere lo schema della
"violenza
necessaria" è oggi un obbligo anche laddove la
scelta delle armi ti
viene imposta. Non di assoluto ideologico si tratta ma
di una scelta
che parla già oggi dell'altro mondo possibile.
Questa consapevolezza così forte ha consentito al
movimento dei
movimenti di superare il tentativo operato dopo l'11
Settembre 2001
di cancellare e criminalizzare chiunque si ponesse
fuori dalle
compatibilità imperiali. Il terrorismo è usato come
straordinario
pretesto per reprimere ogni conflitto e attore
sociale. Il Patriot
Act, approvato un mese dopo l'abbattimento delle
torri, è diventato
lo schema guida sul quale sta prosperando una
legislazione
antiterrorismo a livello planetario. Il governo Bush
estende alla
vita civile dentro e fuori gli Usa, la dottrina della
guerra
preventiva. Si controllano telefoni, computer, si
prelevano impronte
digitali di massa costruendo enormi archivi
informatizzati di una
schedatura globale. L'FBI è dovunque, anche nelle sale
di controllo
dei nostri aeroporti. Il confine tra attività di
consenso e attività
criminale è sempre più tenue trasformando la
disobbedienza civile in
reato. I desaparecidos sono codificati e tollerati
dall'alta corte di
giustizia Usa. Guantanamo sta sostituendo Cesare
Beccaria nella
concezione stessa del diritto. Il movimento non ha
avuto esitazioni
dal comprendere che guerra e terrorismo rappresentano
una coppia
formidabile che autoalimentandosi viaggia come uno
schiacciasassi
sulle speranze di liberazione dei popoli. Non a caso
il comitato
delle vittime dell'11 Settembre, dal quale è nata la
campagna "not in
my name" ha aperto il Forum Sociale Europeo di
Firenze. Il fatto che
il terrorismo sia un sottoprodotto della guerra
infinita e della
globalizzazione neoliberista non ci impedisce di
avvertirlo come
nostro irriducibile nemico. "I terroristi e Bush-
scrive Arundhati
Roy- potrebbero mettere insieme le loro ipocrisie e
costituirsi in
società. Entrambi scaricano sulle popolazioni la
responsabilità dei
loro atti. Entrambi condividono i principi della colpa
collettiva e
della punizione collettiva. Le loro azioni si
favoriscono
vicendevolmente. "
Questa consapevolezza è stata centrale per costruire
la mobilitazione
contro la guerra all'Afghanistan prima e all'Iraq poi.
Mettere in discussione questa acquisizione significa
minare la strada
di una analoga, radicale e unitaria mobilitazione per
il 20 Marzo
prossimo. Questo non significa non contestualizzare,
non vedere le
differenze tra atti di resistenza all'invasore (anche
se fatte con
modalità inaccettabili come quello dei kamikaze) e le
stragi nelle
moschee, sinagoghe, scuole e mercati. Ma ogni
equiparazione tra la
resistenza armata irachena e la resistenza italiana o
quella
vietnamita è inammissibile. Non è una questione di
legittimità - il
diritto di resistenza è sancito dalle convenzioni
internazionali- è
che non la possiamo condividerla politicamente. La
resistenza del Cln
aveva un progetto di costruire un Italia democratica
che arrivasse a
scrivere nella sua carta costituente il ripudio della
guerra. I
Vietcong volevano un Vietnam unito e socialista. Cosa
vogliano invece
le varie fazioni armate irachene? C'è di tutto,
compreso un sorgente
fascismo arabo che punta alla confessionalizzazione
dello Stato per
meglio dominare sui popoli ed impedire una equa e
solidale
ripartizione delle ricchezze. "Il nemico del mio
nemico è mio amico"
la tesi di spregiudicata tattica enunciata da Deng
Xiao Ping non ha
mai funzionato nella pratica. Il movimento, nel
momento in cui
sviluppa tutta la sua opposizione alla guerra e chiede
la fine
dell'invasione, si pone il problema di dare voce e
sostegno alle
tante forze anche se ancora esili, che nella società
civile irachena
si battono contro l'invasore ma anche per un'altro
Iraq possibile.
Non possiamo ripetere decenni dopo l'errore di Adriano
Sofri e del
gruppo dirigente di Lotta Continua che sostenne in
modo acritico la
rivoluzione komeinista in Iran solo perché era
antiamericana.
Chi ha voluto inserire nel dibattito sulla nonviolenza
la necessità
di una rottura con le posizioni del movimento sul
terrorismo, forse
aveva un'altro obiettivo più terra terra. Mettere in
discussione il
percorso di avvicinamento tra Prc e Ulivo. Sarebbe più
onesto parlare
di questo - e di questa discussione tutti noi abbiamo
bisogno- che
giocare alla distinzione sul terrorismo e considerare
Bertinotti un
succube del disegno di criminalizzazione del dissenso
operato dalla
centrali imperialistiche.
Alfio Nicotra
Da Liberazione del 8-2-'04
Contrastare l'offensiva revisionista e anticomunista
Claudio Grassi (segreteria del PRC - responsabile
politiche nelle istituzioni)
Una domanda sorge spontanea pensando a questo
dibattito sulla violenza e la non-violenza. Una domanda che potrebbe apparire
retorica o provocatoria. Non lo è. Davvero si stenta ad afferrare il filo di
una discussione che ha coinvolto i temi più disparati, sviluppandosi lungo
linee polemiche che ben di rado ormai si incontrano in punti condivisi e comprensibili.
C'è di tutto: la non-violenza come filosofia e pratica politica; il pacifismo
come teoria e come forma della prassi; il giudizio sulla Resistenza e sulle
guerre imperialistiche di ieri e di oggi; la critica dei poteri; l'analisi
della repressione del dissenso e del conflitto sociale: forse sarebbe il caso
di semplificare e di cercare di mettere un po' d'ordine.
Di che cosa discutiamo parlando di non-violenza?
Secondo alcuni, di un concetto e di una forma dell'agire politico adeguati
sempre e dovunque. Posto così, è un tema impraticabile in una prospettiva
politica. Se non si vogliono produrre discorsi fini a se stessi, occorre
contestualizzare, riferirsi a situazioni determinate. Ma anche la posizione di
chi ritiene che "oggi nel mondo globale in cui siamo precipitati, la forma
più estrema dell'antagonismo, quella davvero irriducibile e non mediabile, è
l'azione "non-violenta"" (Marco Revelli su "Carta")
appare a dir poco discutibile. Si argomenta, a suo sostegno, che l'assunzione
della non-violenza è necessaria perché vi è la "guerra permanente" e
"preventiva" e perché la superiorità militare degli Stati Uniti non
consentirebbe altre strade. Ma in questa materia è opportuno evitare toni
dogmatici e assumere l'onere dell'argomentazione razionale. C'è una sola via
per mantenersi su questo terreno: spiegare come si pensa di fermare i
bombardamenti, i cingolati, i missili e la disseminazione dell'uranio
impoverito.
Si ripete da più parti che oggi tutto è nuovo, che il
mondo è cambiato di sana pianta e impone concezioni nuove. È davvero così, o è
la nostra memoria che si accorcia e che si indebolisce? Se tornassimo con il
pensiero agli ultimi atti della Seconda guerra mondiale e all'immediato
dopoguerra, avremmo materia per riflettere su queste presunte cesure radicali.
Allora davvero la storia cambiò. Illuminato dai sinistri bagliori di Hiroshima
e Nagasaki, il mondo fu costretto a guardare in faccia una novità assoluta e
atroce. Per la prima volta nella storia la distruzione del genere umano era divenuta
concretamente possibile. Pian piano la consapevolezza di questo salto di
qualità si diffuse e vi fu anche tra i comunisti italiani chi valutò
attentamente le sue conseguenze. A Bergamo, nel '53, Togliatti tenne un
memorabile discorso incentrato su questi temi: la bomba atomica, l'enorme
divario di potenza che essa istituiva nei rapporti internazionali, la
impellente necessità di una lotta dei popoli per il disarmo e la pace. Ma in
quel discorso non si commetteva l'errore di generalizzare. Nemmeno la bomba
riduceva a un minimo comune denominatore i diversi conflitti: né sul piano
della logica che li determinava, né in relazione al loro dispiegarsi. Imponeva
l'accumulazione di coscienza critica, non consentiva il ricorso a rigidi
schemi, a parole d'ordine unilaterali.
Ma forse c'è dell'altro, in questo dibattito. Si
suggerisce, da parte di qualcuno, che il tema è la forma della lotta politica
adeguata qui e ora: nel nostro paese, in Europa, nell'Occidente capitalistico.
Se davvero le cose stessero in questi termini, verrebbe da dire che ci si
sarebbe potuti risparmiare tanta fatica e tanta carta, talmente ovvio è -
almeno per noi - che oggi, in questa parte del mondo, la lotta sociale e
politica deve ricorrere esclusivamente agli strumenti pacifici del confronto,
pur aspro, delle idee; della libera manifestazione delle proprie istanze; della
mobilitazione di massa; dello sciopero; della protesta e della disobbedienza
civile. E talmente ovvio è - per noi - che se il conflitto sociale e politico
non è sempre scevro da violenza, la responsabilità di ciò incombe in primo
luogo a chi controlla gli apparati coercitivi dello Stato.
Proprio questa evidenza legittima tuttavia una
riflessione: che tutto questo dibattere di non-violenza serva in realtà a
parlar d'altro: che la non-violenza sia soltanto una parte di un ragionamento
più complesso. La sensazione è che siamo - di nuovo - alle prese con la
discussione sulla nostra storia e sulla nostra identità di comunisti. Se è
così, è bene essere chiari, almeno tra di noi. Riflettere sulla nostra
esperienza, indagarne i limiti, cercare di comprendere le cause delle nostre
sconfitte: questo non è solo utile, è anche indispensabile. Purché si abbia la
consapevolezza che l'errore più grave che potremmo commettere oggi - nella giusta
ricerca di una rifondazione del pensiero e della prassi comunista all'altezza
dei tempi - sarebbe accodarci alla voga liquidazionista oggi imperante. C'è un
grande patrimonio alle nostre spalle: di esperienze, di idee, di valore, di
passioni. Un grande patrimonio storico che dev'essere in primo luogo
rivendicato e riconosciuto per la straordinaria influenza che ha esercitato nel
corso degli ultimi 150 anni ai fini del riscatto di miliardi di essere umani.
Anche questa smania di trascinare "il Novecento"
sul banco degli imputati è pericolosa, oltre che poco comprensibile. Come si
può ridurre un secolo a un unico motivo? "Un'immane violenza", si
dice. E si getta tutto in un calderone che allontana la possibilità di capire.
Ma il Novecento è stato anche il secolo delle grandi rivoluzioni operaie e
contadine, queste sì "inizio" di una nuova storia!
Oggi è di moda la critica dell'"assalto al
cielo", cioè dell'idea che una società possa essere trasformata anche
attraverso il comando politico. Discuterne, naturalmente, non fa male. Ma certo
non giovano le semplificazioni caricaturali. Un nome dovrebbe bastare a
sgombrare il campo da ogni equivoco: non è stato Gramsci - il bolscevico, il
leninista - a insegnarci che la società è un campo di poteri diffusi e che la
distinzione tra società e Stato (quella che oggi agitano, come fosse un dogma,
i nuovi critici anarchici dell'idea comunista) è uno strumento teorico - un
modello - e non una realtà di fatto?
Con ciò non si tratta, naturalmente, di chiudere il
discorso: semmai di aprirlo in modo serio, una volta per tutte. Certo la storia
nostra ha conosciuto sconfitte e gravi errori. Che vanno analizzati, di cui
occorre cercare le cause, dai quali dobbiamo trarre insegnamento. Ma anche in
questo caso c'è una questione ineludibile che deve essere posta: bisogna
chiedersi se, senza quell'"assalto" di cui oggi tanti compagni
sembrano voler chiedere scusa, il mondo sarebbe stato migliore o peggiore:
sarebbero stati possibili - per fare solo pochi esempi - le lotte anticoloniali,
la rivoluzione cinese, lo stesso sistema di welfare in Europa?
Cercare ancora: certo. Altrimenti nessuna rifondazione
sarà mai possibile. Ma altro è una ricerca seria, severa, rigorosa, tutt'altra
cosa una sommaria liquidazione della nostra storia. A questa ci siamo sempre
opposti e sempre ci opporremo con tutta la forza delle nostre convizioni e
passioni, che sappiamo radicate in questo partito e in tanti compagni che al
nostro partito guardano con rispetto e fiducia. Basta con le autocritiche a senso
unico, basta con i mea culpa! Perché piuttosto non chiediamo agli altri di fare
i conti con il loro passato? Di chi furono figli il fascismo, il nazismo, la
Shoah? A chi debbono la morte i milioni di vittime della Corea, del Vietnam,
dell'Algeria, dell'America Latina? E che dire dell'indulgenza vaticana verso i
fascismi?
Mi chiedo come pensiamo di attrarre verso le nostre
idee i giovani se non facciamo altro che denigrarle, cospargendoci il capo di
cenere per ogni nostro atto, per il fatto stesso di dirci ancora comunisti. E
mi chiedo anche come pensiamo di rispondere a Berlusconi che attacca a testa
bassa persino il comunismo "meno palese" di chi "rinnega il
proprio passato, si lava pilatescamente le mani per tutti gli orrori e i
delitti di cui si è macchiato, ma ancor oggi vuole l'eliminazione
dell'avversario": cosa gli diremo, che è troppo severo, che siamo
cambiati, che abbiamo compreso quanto pessimi fossero i nostri padri e fratelli
maggiori?
Qui nessuno intende "angelizzare" alcunché.
Si tratta solo di contrastare un'offensiva revisionista e anticomunista che
punta a demolire le ragioni stesse della nostra esistenza e delle nostre
battaglie. O ci siamo scordati del "chi sa parli" e delle
"ragioni dei ragazzi di Salò"? Abbiamo già dimenticato i continui
attacchi alla Resistenza, mossi da chi cercava una legittimazione a buon
prezzo? L'opportunismo servile di chi, pur di accedere al governo, ha preso
distanza da una storia di cui avrebbe dovuto andar fiero, perché è la storia
della liberazione di questo paese e della costruzione della sua democrazia? Non
c'è futuro per chi non serba memoria del proprio passato, che non è
"piombo", bensì radice e consistenza. Non è libertà quella di chi si
sbarazza della propria storia, bensì disorientamento immemore.
Questa smania di gettar via il peso della storia
accecò molti quindici anni fa. La fine della Guerra fredda e la scomparsa del
"campo socialista" furono scambiate per una "grande
opportunità": fu invece l'inizio di una fase di grave arretramento del
movimento di classe in tutto il mondo, e della ripresa in grande stile del
colonialismo e delle guerre imperialistiche: ci sarà bene un nesso tra quella
fretta di disfarsi dell'eredità storica del "secolo breve" e la
sconvolgente incapacità di leggere le tendenze in atto che accomunò un intero
gruppo dirigente.
E anche noi oggi, stiamo attenti, perché non è affatto
scontato che siamo in grado di interpretare correttamente quanto sta avvenendo.
Che cosa ci suggerisce, per esempio, la discussione tra noi sul
"terrorismo" e la resistenza irachena? Che ci sono - se non altro -
stili di analisi diversi, che si riflettono in differenti idee delle cause e
degli effetti. Chi dice che è sbagliato parlare di una "spirale
guerra-terrorismo" non ha esitazioni nel condannare le azioni
terroristiche dei kamikaze e gli attentati dinamitardi che mietono vittime tra
la popolazione civile. Ma il punto è un altro. Sta nel collocare tutto questo
discorso sullo sfondo di una guerra coloniale e imperialistica, che ha a sua
volta cause ben precise: il profilarsi, dinanzi alla superpotenza Usa, di altri
avversari sulla scena del mondo; la necessità "preventiva" di
controllare le maggiori riserve energetiche del pianeta; l'enorme influenza
politica del "militare-industriale"; il disastroso deficit del
bilancio Usa; il peso di una cerchia politico-intellettuale vicina al Likud e
determinata nel sostenere ad ogni costo le mire colonialiste della destra
israeliana. Ma se questo è il quadro, occorre allora dire con chiarezza che
quella delle popolazioni occupate, saccheggiate, schiacciate dal tallone
militare è innanzi tutto resistenza contro l'occupazione, sacrosanta lotta per
la liberazione. E non solo.
Quanto sta avvenendo in Iraq oggi è importante per
tutto il mondo, a cominciare dal Sud del pianeta. La resistenza irachena parla
ai popoli che sono nel mirino degli Stati Uniti: dice loro che la superpotenza
non è invincibile, che non è così ovvio che dopo un Iraq venga una Siria o un
Iran, quasi si trattasse di passeggiate al sole. In questo senso, proprio la
resistenza contro le forze di occupazione è un aiuto alla pace.
Lo hanno capito bene, non per caso, i rappresentanti
dei popoli riunitisi a Bombay. Nel documento conclusivo del Forum sociale
mondiale la denuncia della guerra e del colonialismo è netta, senza
tentennamenti, così come è forte e univoca la solidarietà verso le popolazioni
oppresse, il loro anelito all'indipendenza, le loro lotte di liberazione. Al di
là di qualsiasi sottigliezza, l'esperienza materiale della sopraffazione
produce consapevolezza. E permette di non scambiare le lucciole del nuovo
imperialismo per le lanterne di un presunto impero che non dovrebbe più
incantare nessuno, fuorché - ovviamente - Bush e chi condivide i suoi paranoici
sogni di gloria.
Claudio Grassi
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dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com
8-2-'04
Gianni Zampieri - cittadini del mondo
A quanto scrisse Alberto Burgio su ilmanifesto
(25.01.2004) ho
risposto
così:
"" Primo. Ci sono esempi storici di azioni
nonviolente riuscite.
Gandhi e le
sue lotte in Sudafrica e soprattutto in India, ma
addirittura in piena seconda guerra mondiale quando in un paese
nordico (sto cercando i riferimenti bibliografici) (( aggiungo ora:
trattasi della Norvegia sotto il regime nazista di Quisling )) gli
insegnanti rifiutarono di eseguire un ordine
dei nazisti occupanti.
Certamente molti altri casi non sono stati scritti
nei libri di
storia solo perché la storia è scritta o fatta
scrivere dai
dominanti, non dai dominati, e i dominanti hanno
interesse a negare o
tacere che il loro dominio possa anche solo essere
stato messo in
discussione. Quando il potere non può sostenere che
una guerra è
giusta o santa, dice che è necessaria ed in ultima
ipotesi quantomeno
inevitabile. Non a caso si perpetua la diceria che la
guerra
"scoppia", così come arriva un temporale, senza alcuna possibilità
di evitarla.
Sono le regole del gioco del potere e ognuno sceglie
se stare o meno
al gioco.
Secondo. Difficile stabilire se i successi e gli
insuccessi della
nonviolenza siano maggiori o minori di quelli della
lotta armata, sia
valutati nel breve che nel lungo periodo. Non è
dimostrato né
dimostrabile, ma possiamo seriamente dubitare che una
risposta
nonviolenta al nazismo avrebbe provocato un'ecatombe
maggiore dei
cinquanta e passa milioni di morti della seconda
guerra mondiale. Con
quell'ecatombe non ci siamo veramente né
definitivamente liberati
dal nazismo
e dal fascismo; probabilmente lo avremmo fatto in tempi
più lunghi
ma più radicalmente, nel senso che avremmo più
efficacemente
estirpate le sue radici, con metodi nonviolenti, che
richiedono una
ampia partecipazione popolare e quindi una crescita
etica e culturale
dei cittadini. Ma poi perché
chiedere alla
nonviolenza una certezza di risultati che la guerra non ha mai
dato?
Terzo. L'impero sovietico, da molti paragonato ed anzi
valutato più
potente del terzo Reich, è crollato senza alcuna
guerra e così pure la
dittatura di Pinochet è stata superata. Forse non
dimostrano che la
nonviolenza è efficace, ma che non è necessaria la
violenza per
abbattere o cambiare un regime dispotico. Probabilmente esagerava
Etienne de la Boetie (scritto tra il 1546 ed il 1548)
"I tiranni,
se non si presta loro obbedienza, allora senza
alcuna lotta, senza
colpo ferire rimangono nudi ed impotenti, ridotti ad
un niente,
proprio come un albero che non ricevendo più linfa
vitale dalle
radici subito rinsecchisce e muore; non c'è bisogno di
sforzarsi a
fare
qualcosa per il proprio bene, è già sufficiente che non si
faccia nulla a
proprio danno." Ma c'è
del vero se quattrocento
anni dopo un grande comunista e un grande prete affermano
sostanzialmente la stessa cosa: Don Luigi Sturzo, dall'esilio di
Parigi (1932): "se la gran parte dei cittadini fossero obiettori,
cesserebbero le guerre."
Antonio Gramsci (.) : "Quello che accade, accade
non tanto
perché una minoranza vuole che accada quanto piuttosto perché la
gran parte dei cittadini ha rinunciato alle sue responsabilità e ha
lasciato che le cose accadessero."
Qualcuno può assicurare ai palestinesi, ai colombiani,
ai cubani ed
agli
iracheni, che prima o poi vinceranno militarmente?
Quarto. La "metamorfosi antropologica" non
colpisce normalmente i
semplici soldatini o i partigiani, entrambi in qualche
modo
"costretti" ad usare la violenza con le armi, ma colpisce spesso i
capi, i vertici
decisionali i quali, una volta sperimentato che la
guerra ha conseguito risultati per loro positivi e che loro non ne
hanno subìto conseguenze gravi, sono ancora più propensi a
considerare la guerra come un normale strumento della politica.
Quinto. E' certo che Hiroshima e l'olocausto hanno
segnato una novità
storica assoluta, come lo è l'avvento di una unica,
per ora,
superpotenza mondiale. Di fronte alle
"novità" si può cercare qualche
indicazione ma non certo la soluzione nel passato. Se
ci fosse,
molto
probabilmente non saremmo in questa situazione. Facendo
tesoro delle esperienze storiche, seriamente
indagate, occorre
invece sperimentare vie nuove, con strumenti nuovi,
tenendo conto
dalla cultura attuale e anche dei nuovi strumenti
di comunicazione.
Oggi nei paesi avanzati, quelli più vicini al
potere politico
globale in quanto a potere del consenso, la quasi
totalità dei
cittadini sa leggere e scrivere.
Ultimo. Prendendo da Marx, da Gandhi e da quant'altri
quello che
serve, senza sterili o dannosi dogmatismi e
ortodossie. I rapporti di
forza tra l'unica superpotenza
militare-politica-economica e l'altra
possibile superpotenza costituita dall'opinione
pubblica, o meglio
dalla
moltitudine dei cittadini del mondo, sono tali per cui la
prima può
continuare ad usare la guerra per imporre il proprio
volere, ma solo
finché riesce ad avere e governare il consenso,
attivo o passivo, della grande maggioranza dei cittadini.
Non resta che dare voce ai cittadini del mondo, in un
modo praticabile
da tutti, con una mobilitazione permanente, crescente
e non
sporadica,
per non dover continuamente ricominciare da capo né
disperderci
solamente in mille piccole battaglie particolari.
Una proposta in questo senso è il PATTO TRA I
CITTADINI DEL
MONDO che trovate su www.deicittadinidelmondo.it
Se i 110 milioni di cittadini che hanno manifestato
per la pace il 15
febbraio scorso sottoscrivessero il Patto (magari
riscrivendolo in
mille
forme), lo rinnovassero poi ogni anno e nel frattempo si
impegnassero
per farlo sottoscrivere agli amici, senza bisogno di
muoversi molto da
casa, avremmo in poco tempo avviato una mai
vista campagna
permanente per la pace, i diritti umani ed uno sviluppo
equo e sostenibile.
Goffredo Fofi ("Ritratto di Kurt Vonnegut" -
Le Monde Diplomatique/il
manifesto, marzo 2003): "Se così è la vita, e
questi sono i limiti,
e queste le
pulsioni di morte, e queste le aberrazioni del potere
che nascono
dall'interno della nostra tecnologica società, c'è da
aspettarsi
il peggio, è ovvio. Ma chissà, qualche nuovo arrivato,
qualche ingenuo
zuccone, qualche divino idiota, potrebbe ancora
trovare la chiave di una possibile soluzione, e il mondo seguirlo."
E' possibile che io sia solo un idiota e certamente
non divino, ma
sono quasi
otto anni che cerco di convincere qualcuno e siamo fermi
ad una
quarantina di persone. Non spero di essere "seguito" da
nessuno, ma
spero che qualcuno raccolga la proposta ed
ventualmente la modifichi, la perfezioni e la riproponga in modo più
adeguato ed efficace.
Vero è che ho poche speranze perfino che questo
scritto
appaia sul
mio giornale - mio perché sono abbonato e socio da
diversi anni -
magari con la scusa che ho superato le famigerate
trenta righe. Più
probabilmente per il fatto che non sono e non
voglio essere a capo di alcunché né rappresento nessuno oltre a me
stesso, cioè non faccio parte della nomenklatura
politico-movimentista e nemmeno sono un professore
dell'intellighenzia di sinistra. Credo sì di essere di
sinistra, ma
sono un semplice ragionere in pensione che da circa
trent'anni si
batte e si sbatte per qualche causa persa, convinto
però che ancora
non lo sia del tutto. ""
..........
Naturalmente, come previsto e scritto, i compagni del
manifesto hanno
scelto, almeno fin'ora, di non pubblicare questo
intervento.
Quanto sopra in parte risponde anche ad Andrea Catone,
al quale
vorrei solo aggiungere:
Primo. Stalin, se si potesse, lo butterei proprio via.
Peccato, per
tutti ed
anche o forse ancor più per i comunisti, che sia esistito.
Degli altri,
come di Marx, di Gandhi, di Machiavelli, di Spinoza o
di Gesù Cristo,
prendo quello che condivido e butto quello che no;
tenendo in sospeso
quello che non capisco. Comunque ho ben saldo
in
testa che nessuno
di loro aveva in tasca tutta la verità, o se
l'aveva non ce l'ha detta, o se l'ha detta noi non l'abbiamo fin'ora
compresa, così come del resto nessuno di noi ce l'ha, ma tutti la
cerchiamo.
Secondo. Accettare l'invincibilità degli USA non significa
essere
subalterni all'egemonia USA, ma più semplicemente
prendere atto della
realtà. Se non sbaglio è di Mao l'indicazione: se il
tuo nemico è
troppo forte,
non sfidarlo con la forza; siediti lungo il fiume e
aspetta di veder
passare il suo cadavere. Ho appena sbirciato
un'articolo sulle
conseguenze ancora oggi tremende del defoliante
orange usato dagli
USA in Vietnam. Davvero il prezzo non ancora del
tutto pagato valeva
la candela? Leggendo poi che anche il Vietnam si
avvia, sulle orme
della grande Cina di Mao, a rincorrere il modello
unico... meglio stare zitti, per non piangere.
Terzo. La scelta della non violenza non mi impedisce
di essere
solidale con
chiunque resista all'ingiustizia e all'oppressione,
anche se costretto
o indotto all'uso della forza. Vorrei però
riuscire a comunicargli la mia angoscia per le sofferenze che ancora
gli verranno dall'esser stato o dall'essersi cacciato nel vicolo
cieco della violenza.
Quarto. Sulla attuale "resistenza" irachena
personalmente non sono
riuscito a capirne la vera natura. Mi risulta
difficile credere che
sia una
autentica resistenza democratica e popolare, perché non
ricordo che
sotto Saddam Hussein vi fosse qualche movimento
democratico e
popolare di opposizione ad un regime che certamente
non era né
democratico né popolare. Nemmeno si capisce se ad
alimentarla siano
i quadri dell'ex regime, o ineressi esterni
conflittuali con quelli degli occupanti o entrambi. Che tale
"resistenza" lotti anche per i diritti
degli altri popoli minacciati
dall'imperialismo, fino a prova contraria, mi sembra solo una
dichiarazione demagogica, non so nemmeno se fatta propria dalla
stessa "resistenza" irachena.
Quinto. "Se si generalizzasse questa idea che il
mezzo usato dai
dominatori ... " Appunto, caro Andrea Catone, non
bisogna
generalizzare ed estendere a tutti i mezzi usati dai
dominatori il
giudizio che
si dà sul mezzo "violenza". Se così facessimo, non solo
dovremmo
essere luddisti, ma semplicemente non dovremmo
nemmeno
respirare la
stessa aria che respirano i dominatori.
Sesto. Credo che data la complessità e la gravità del
problema, sia
rischioso che qualcuno tenti o pretenda di definire
una volta per
tutte la
casistica certa di quando e in che misura è ammissibile
l'uso della
forza. Dobbiamo tuttavia cercare di farlo, proprio per
stabilire e poi
perfezionare le "regole del gioco" della umana
convivenza. Per questo nel PATTO TRA I CITTADINI DEL MONDO (
www.deicittadinidelmondo.it) dopo il personale:
"Mi impegno a non
partecipare personalmente ad azioni di guerra e
mi oppongo che altri
lo faccia o si prepari a farlo, anche per difendere
veri o presunti
diritti e interessi miei o della collettività cui
appartengo." il
testo prosegue con:
"Acconsento all'uso della forza, personale od
organizzata, non
intenzionalmente omicida, per scopi strettamente
difensivi della vita e dei diritti fondamentali delle persone e dei
popoli."
Settimo. Le parole di Gramsci :"Quello che
accade, accade non tanto
perché una minoranza vuole che accada quanto piuttosto
perché la
gran parte dei cittadini ha rinunciato alle sue responsabilità e ha
lasciato che le cose accadessero" valgono o no
anche per un
"imperialismo ferocissimo e spietato" ? Io
credo di sì e credo che
l'unica
"forza" in grado di contrastarlo e vincerlo non sia alcun
apparato
militare guidato da alcun consiglio o partito
rivoluzionario, bensì proprio e solo "la gran parte dei
cittadini"
che non rinunci alle sue responsabilità. Le scorciatoie non hanno
mai funzionato e tantomeno funzioneranno ora. Non
sarà la pratica
non violenta a rafforzare l'egemonia dell'imperialismo, ma
l'indifferenza o l'ignavia di cittadini non responsabili.
Gianni Zampieri - cittadini del mondo
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dalla mailing list fori-sociali@yahoogroups.com
9-2-'04
Sono un ventenne che ha iniziato a far politica dopo
essere stato a Genova nel 2001, quindi sono di parte perché anche grazie a
quella esperienza ho una naturale repulsione verso la violenza. Però cerco
sempre di analizzare la realtà e le possibilità per cambiarla, senza pregiudizi
né chiusure mentali. E forse sono avvantaggiato rispetto a chi ha vissuto
realtà diverse e magari fa più fatica a cambiare idea, anche se sono
sicuramente svantaggiato perché ho avuto meno esperienze e quindi meno elementi
di analisi. Il rapporto tra i fini e i mezzi mi affascina da quando ho studiato
Macchiavelli, che non condivido rispetto alla massima "i fini giustificano
i mezzi" ma apprezzo per altri spunti, ad esempio la possibilità di
influire per metà sulla realtà, anche se io credo si possa influire totalmente.
E dato che secondo me sono strettamente collegati, spesso anche difficili da
distinguere, ritengo fondamentale chiarire i primi, per ragionare seriamente
sui secondi. Secondo me, senza avere nessuna pretesa di completezza, gli
obbiettivi di un "nuovo comunismo" dovrebbero essere:
-una società in cui il potere sia distribuito equamente
a tutti, e le decisioni vengano prese da chiunque venga influenzato da esse;
-una società senza violenza (fisica e psicologica,
individuale e collettiva), perché non ce ne sarà più bisogno;
-una società senza classi, perché tutti saremo uguali
e ci divideremo il lavoro in modo equo e vario e coopereremo, e per questo non
ci sentiremo sfruttati e avremo la possibilità di realizzarci completamente
(come singoli e come comunità), anche grazie ad una istruzione continua per
tutti;
-una società senza povertà, perché con l'attuale
sviluppo delle forze produttive possiamo soddisfare ampiamente i bisogni di
tutti, anche di quelli che verranno;
-una società che si sviluppi in modo ambientalmente
sostenibile, perché vivremo in una logica in cui l'ambiente è parte di noi,
quindi non da sfruttare;
-una società senza discriminazioni di provenienza, di
sesso, di orientamento sessuale, di opinione politica, di fede religiosa, di
comportamento, perché siamo tutti uguali;
La domanda da porci è: per raggiungere questi fini (e
altri che ho tralasciato) che mezzi dobbiamo usare? Io penso, e spero, che si
possa ottenerli in modo nonviolento, perché altrimenti non solo sarebbe una
lotta difficilissima per i mezzi di cui oggi dispone il potere, ma io non credo
che vorrei, e riuscirei a parteciparvi, perché mi "corromperei" con
la violenza, pratica così lontana da me e dagli obbiettivi che mi pongo che mi
allontanerebbe da loro, così come allontanerebbe moltssime persone che vogliono
un mondo migliore, e sappiamo bene che la rivoluzione non si può fare in pochi.
Comunque il dibattito non è che all'inizio, e mi sono
già iscritto al convegno del 28 e 29 febbraio a Venezia, e invito tutti a
farlo, perché scrivere è comodo e veloce, ma parlare faccia a faccia è tutta
un'altra cosa.
Dario Ballardini
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Da Liberazione del 10-2-'04
La cultura delle libertà e le sue ricadute sulle nostre pratiche
Graziella Mascia
Caro
Sandro, metto da parte le grandi questioni introdotte dal dibattito su violenza
- nonviolenza, per concentrarmi un attimo su un punto che può apparire minore,
ma che a mio avviso è parimenti indicativo della sfida culturale proposta dal
segretario. Se la categoria della nonviolenza ci interessa, come a me
interessa, per disegnare il mondo che vorremmo, penso per esempio che questa
dovrebbe essere strettamente correlata a una forte cultura delle libertà, che
rifiuta ogni forma di autoritarismo, di proibizionismo o di qualsiasi logica di
potenza in nome di un fine superiore. Non alludo ad alcune esperienze tragiche
del ‘900, che darei per scontate, ma più semplicemente alla nostra cultura
politica dell'oggi, alle forme gerarchiche che spesso si tende a riprodurre,
alla logica "militare", che a volte caratterizza il nostro linguaggio
e persino le modalità della politica. Mi riferisco al condizionamento esterno
che il nostro avversario può agire su di noi, non solo per le grandi questioni
richiamate da Bertinotti, quanto alla nostra banale quotidianità, laddove
predichiamo a destra e a sinistra i principi irrinunciabili dei diritti umani e
poi siamo disponibili a metterli in discussione quando riguarda coloro che noi
consideriamo "nemici" o "un pericolo superiore".
Un es. per tutti: il nostro
partito ha, un anno fa, votato in parlamento contro la legge sul 41bis,
relativa al carcere duro per mafiosi e terroristi. Ma, alcuni anni fa, la
necessità di contrastare il fenomeno mafioso, e quindi di interrompere
qualsiasi collegamento tra il dentro e il fuori, ci aveva invece portato a
condividere l'idea del doppio binario in nome di una necessità superiore. Su
questa come su altre questioni, si è da tempo sviluppato un vero percorso di
rifondazione. Così, abbiamo votato, soli, nel parlamento europeo e in quello
italiano contro una legge antiterrorismo di carattere emergenziale e che tende
a colpire il conflitto sociale. Così non ci facciamo coinvolgere in una sorta
di "furia antiberlusconiana", in nome della quale bisognerebbe votare
per un mandato di cattura europeo, assolutamente incostituzionale, solo perché,
per ragioni diverse dalle nostre, lo stesso "cavaliere" non lo
condividerebbe, e tantomeno ci siamo fatti catturare da una idea di affidamento
totale all'Europa, in nome di una generica legalità, mentre si introducono in
costituzione europea, sul piano giuridico, pesanti restringimenti delle
garanzie previste dalla nostra costituzione. Un impianto culturale, cioè, che
ci consente di leggere ogni questione tenendo ferma la barra delle garanzie
giuridiche e individuali e che ci consente di non cadere nella trappola
emergenziale che nel passato ha coinvolto invece la sinistra, una parte della
quale è ancora lì intrappolata. Se nel centro sinistra ci si rende disponibile
a discutere sul carattere della guerra o su quello della lotta al terrorismo,
per cui si sacrificano principi fondamentali, attiene a un rifiuto di mettersi
in discussione, proprio a partire dalla storia di questi decenni.
Sottolineo questi aspetti per
due ragioni: 1) perché in Italia e nel mondo esiste una emergenza garanzie e
considero questa un impegno prioritario delle sinistre e del movimento; 2)
perché la società che vorremmo, nonviolenta nel senso pieno del termine, chiede
in modo indissolubile il pieno riconoscimento dei diritti fondamentali a tutte
e a tutti, compresi quelli individuali che, in nome del bene collettivo, una
volta si consideravano "liberali" o sovrastrutturali. Diritti che ci
dovrebbero stare molto a cuore, laddove pensiamo a una società che mette a
disposizione di tutti gli strumenti per una libera scelta in ogni vicenda
privata, e per questo rinuncia a legiferare sui comportamenti individuali.
Anche questo è stato per le sinistre un approdo faticoso, sulle questioni
dell'aborto, come quelle delle droghe. E, nonostante la rivoluzione prodotta
dal movimento femminista e del pensiero della differenza, è facile, anche a
sinistra, incorrere ancora in una logica che pretende di "dettare
legge" sulla base di una morale, come la legge sulla fecondazione assistita
insegna.
Non affronto poi argomenti
quali: "siamo contro la pena di morte, ma.. ", oppure "siamo per
recupero e la risocializzazione di chi ha sbagliato e ha commesso reati",
salvo poi, anche a sinistra, invocare il carcere per il "nemico", o
considerare necessaria la detenzione per un bene supremo quale la sicurezza.
Tutto ciò per dire che, mentre
respingiamo al mittente accuse o prediche sulle nostre presunte pratiche
violente o illegali, che ci vengono dal governo o da altri, contemporaneamente
dovremmo essere molto interessati a ragionare sulle nostre contraddizioni, sul
condizionamento esterno che abbiamo introiettato. Perché, se dalle grandi
questioni, a scalare fino alle piccole, il fine dovesse giustificare il mezzo,
la catena non si interromperebbe mai, fino incidere sulle modalità della
politica.
Se ragioniamo cioè sulla
democrazia che vorremmo realizzare, sulla politica come progetto, come
soggettività organizzata, come partecipazione delle classi, delle masse, dei
popoli, delle persone, dovremmo prima di tutto agire noi modalità e pratiche
che le rendano possibile.
E allora, non va taciuto che,
mentre il movimento dei movimenti ha messo in campo una straordinaria ricchezza
di pensieri, esperienze, storie, e per questo suscita anche un "concreto
sogno" circa la possibilità di un nuovo mondo, le assemblee dei social
forum o come li vogliamo chiamare, come l'ultima a Bologna, si propongono
spesso esattamente come palco in cui sfilano al microfono tutte le competizioni
muscolari possibili, e dove si sviluppa un pesante gioco di potere misurato sul
messaggio urlato o su una presunta radicalità, non rapportata sul reale
contenuto o sulla sua efficacia, ma invece su slogan spesso demagogici e
ininfluenti.
Quanto cioè, che per altri
versi, a volte incontriamo nelle piazze, laddove sporadiche pratiche simboliche
o addirittura mass-mediatiche pretendono di parlare a nome di una
"moltitudine" che in realtà viene emarginata da una logica
avanguardista classica, che proprio il movimento ci dice di lasciarci alle
spalle.
Se queste considerazioni hanno
un senso, anche il dibattito sulle pratiche e la loro coerenza con il dibattito
della nonviolenza può indirizzarsi su un percorso diverso da quello che, a mio
avviso, sulla base di un progetto più politicista che altro, alcuni pretendono
di leggere. Un percorso cioè che non rinuncia alla filosofia della
"disobbedienza", ma al contrario la esalta come scelta di una
generazione che contesta "uno stato di cose presenti" che
consideriamo illegittimo, e che quindi ci legittima nelle nostre
"illegalità".
Saremmo così più forti o più
deboli, nel far valere le nostre ragioni e a contestare radicalmente i tanti
luoghi di potere a-democratico che decidono senza essere stati mai delegati a
farlo? Saremmo così più forti o più deboli nel denunciare e respingere le tante
forme di repressione palesi o quelle che più subdolamente utilizzano con
"fantasia" gli articoli del codice penale? Sarebbe così più difficile
o più facile tenere insieme le tante diversità del movimento in un
riconoscimento reciproco di culture politiche e di pratiche?
Per me questo è proprio
l'insegnamento di Genova e di quella straordinaria e tragica esperienza che ha
segnato la vita di tante persone. Anche per questo, considero irrinunciabile
che tutti coloro che in questo movimento hanno fatto un tratto di strada
insieme si ritrovino a Genova il 2 marzo, per dire ancora una volta che i 26
compagni indagati sono invece vittime, quanto noi, di una repressione che
continua, e in cui riconosciamo una regia internazionale. Per dire che questa
straordinaria novità rappresentata dal movimento mondiale è incancellabile. Ma
ognuno di noi ha la responsabilità di averne cura.
E se il dibattito promosso dal
segretario può avere una ricaduta sulle nostre esperienze concrete è in questa
direzione, e non certo nell'agevolare le intenzioni di chi vorrebbe dividere il
movimento in buoni e cattivi. Al contrario, questo tentativo, reiterato
ininterrottamente da prima di Genova fino ad oggi, ha potuto essere respinto
proprio da una capacità di contaminazione che ci ha interrogato reciprocamente
in tutti questi anni. Per questo, ho considerato e considero irricevibile in sé
e dannosa sul movimento la dichiarazione di Luca Casarini, quando sostiene che
"il dibattito aperto da Bertinotti apre uno spazio al ministro
dell'interno nella criminalizzazione del movimento".
E' un grave errore introdurre
elementi di divisione, peraltro insostenibili. Come è un grave errore limitarsi
a urlare contro la repressione chiudendosi in una sorta di vittimistico
autoisolamento. Viceversa, è necessario e possibile, nonostante la forza
dell'avversario e il pensiero debole di tanti vicini di casa, cogliere le
connessioni che uniscono la nostra difesa dei tanti soggetti che ne sono
vittime - da esponenti del movimento, agli immigrati, ai lavoratori che
praticano scioperi "selvaggi" - alle lotte in corso in diverse
categorie del pubblico impiego che si oppongono ai processi di
militarizzazione, dai vigili del fuoco agli agenti di polizia penitenziaria.
Lotte che fin qui vedono schierate organizzazioni come Rdb e Cgil, ma che ci
dicono di una possibilità di ampliamento. Ed è proprio ad un allargamento del
fronte che dobbiamo puntare, non rinunciando mai a convincere anche coloro che
ci sembrano impermeabili. Anche in questo il movimento insegna.
Graziella Mascia
Rovesciare
la macchina della violenza su chi la detiene
Nicola Fratoianni
Che
cosa è questo dibattito su violenza e nonviolenza che da tempo occupa
l'attenzione di tanti e tante di noi? Come e perché si è prodotto? Come entra
in connessione col movimento e con la sua discussione? Andiamo per ordine. Mi è
parso che il centro di questa discussione riguardi il potere e la sua natura
nel nostro tempo. Mi è parso che a partire dalla messa a fuoco di questo punto,
il dibattito si sia sviluppato attorno al rapporto tra i mezzi e i fini e che
questi due elementi siano intimamente correlati. Quello che ci si chiede è una
parola chiara sulla possibilità di pensare alla trasformazione e alla
costruzione dell'altro mondo possibile a partire dall'idea che, la leva
attraverso cui dispiegare questa possibilità sia rappresentata dalla conquista
e dall'esercizio verticale e concentrato del potere. E' da questa domanda e
dalla risposta che ne scaturisce che deriva l'insieme della discussione. Se
infatti pensassimo ancora di poter immaginare la rivoluzione come
appropriazione del potere e per questa via determinare in modo meccanico la
liberazione e la costruzione di un mondo migliore nessuna discussione sul
rapporto tra mezzi e fini avrebbe senso. Invece, il problema sta proprio qui.
Quel "carattere retroattivo" che la violenza esercita su chi la
utilizza dice molto sul pericolo insito in una certa idea del potere e della
sua composizione materiale. Un'idea che si è costruita nel novecento come
risposta simmetrica e antagonistica all'esercizio violento del dominio e del
potere da parte del capitalismo.
Decostruire questa idea
significa rompere l'attesa, significa introdurre nell'immediato del conflitto i
tratti dell'alternativa, significa in termini radicali porre sotto critica la
radice dei rapporti sociali capitalistici a partire dallo sfruttamento
dell'uomo sull'uomo, dell'uomo sulla donna, degli uomini sulla natura. E'
questa del resto, un'idea del potere che il movimento, da Seattle in poi, ha
potentemente messo in discussione. Ma tutto questo significa anche altro.
Implica rompere anche con un'idea verticale e gerarchica dell'organizzazione
modellata in fin dei conti su un immaginario combattente, ripensare il rapporto
tra autorganizzazione, cooperazione e rappresentanza, tra governo e conflitto.
Ci propone in realtà un terreno fecondo di ricerca sulla natura della
democrazia e sulle forme stesse della politica.
Tutto il contrario insomma di
un dibattito astratto e confinato in una dimensione accademica. Del resto, se
qualcuno non se ne fosse accorto, la portata della discussione e la sua
attualità è determinata da quello che succede intorno a noi. L'irruzione della
guerra nella sua forma preventiva, globale e permanente, la naturalizzazione
della violenza come forma stessa delle relazioni sociali, punta a cancellare lo
spazio del conflitto, a sterilizzare la dimensione della politica come
strumento collettivo di trasformazione. La violenza si propone come terreno
privilegiato del potere, come strumento normativo e diffuso della
globalizzazione neoliberista.
Tutto questo, ci viene detto da
alcuni, piomba dall'alto e come un macigno sul movimento imponendo un dibattito
inutile e dannoso. Trovo che questo schema vada semplicemente rovesciato. Mi
sembra che la natura della discussione emerga dal movimento e dai conflitti che
ha saputo incontrare e moltiplicare in questi anni. Non si tratta, è fin troppo
evidente, di un'invenzione improvvisa ma semmai, al contrario, della ripresa e
dell'approfondimento di un ragionamento e di una ricerca tutta interna al
flusso vivo delle lotte. E' proprio nella valorizzazione della radicalità
fortissima del conflitto, nella sua forza di trascinamento e di attrazione che
trova ragione questo dibattito. Non si tratta in alcun modo di esercitare un
richiamo alla compatibilità o alla passività ma di trovare lo spazio nel quale
declinare in forma attualizzata la necessità, questa si strategica e
inaggirabile, di rovesciare la macchina di violenza su chi la detiene e la
esercita in modo sempre più massiccio.
Del resto dove sta la
compatibilità o la passività nelle giornate del luglio 2001 di Genova a cui,
tutti insieme abbiamo dato vita e nelle quali migliaia di persone hanno
resistito difendendo quella democrazia così pesantemente sospesa. Dove sta
nell'esperienza del Trainstopping, lotta radicalissima e allo stesso tempo
praticata in modo nonviolento, nelle lotte dei tranvieri capaci di rovesciare
l'ordine del discorso mettendo al centro la dignità del lavoro, nella rivolta
di Scansano che reintroduce l'insubordinazione e la disobbedienza adirittura
nella dimensione di un'intera comunità disposta a mettersi in gioco contro la
minaccia delle scorie nucleari. E ancora nelle lotte per la casa che pongono al
centro un'idea altra dell'abitare e della città, nello scontro durissimo che la
Fiom conduce da tempo sulla democrazia del lavoro e contro la concertazione con
migliaia di vertenze in tutto il paese. Tutto questo parla di noi e di quello
che abbiamo concretamente praticato in questi anni, non di un futuro lontano al
quale affidare le proprie speranze. In questo qui ed ora, in queste esperienze
vissute, la disobbedienza ha mostrato una straordinaria capacità di
diffondersi, di contaminare soggetti, lotte e linguaggi diversi tra di loro. E'
a questa eccededenza, a questa irriducibilità del conflitto come espressione
viva dei bisogni negati che si oppone, oggi, una vasta e pericolosa ondata di
repressione. La moltiplicazione degli interventi giudiziari, di polizia, delle
forme di controllo e di restrizione delle libertà dice della necessità di
riaffermare l'ordine e la legalità come elementi statici e indiscutibili. A
questo attacco il movimento deve offrire una risposta efficace. Dobbiamo saper
imporre, senza alcun passo indietro, la legittimità del conflitto allargando e
non restringendo il fronte.
Il mondo che vogliamo non ci
verrà regalato da nessuno. E' per questo però che abbiamo una grande
possibilità. C'è un aspetto di questa discussione che non ho affrontato e che
riguarda l'indagine critica e coraggiosa su tanta parte della storia del
comunismo novecentesco. Mi chiedo ora se questo non dipenda da un fatto molto
semplice: non l'ho vissuta. Credo che in questo dibattito e nelle possibilità
che ci consegna ci sia anche il tratto di una nuova generazione politica forse
un po' più libera di scrivere la propria storia e il proprio futuro.
Nicola Fratoianni
Non-violenza, pratica di lotta, non di rassegnazione
Peter Behrens
Dell'intervento
del compagno Bertinotti a Venezia ho un'opinione decisamente negativa. Tanto
per cominciare è stato un intervento già preparato, le sue conclusioni erano
pronte da prima del convegno e non hanno tenuto nessun conto degli interventi
del convegno stesso, soprattutto dei due più interni all'argomento
"foibe", quello di Joze Pirivec e quello di Giacomo Scotti, che
hanno, entrambi, detto cose addirittura in antitesi con certi "assunti
storici" dati per scontati da Bertinotti. In secondo luogo, come tutto il convegno,
era una cosa da fare "prima" dell'intitolazione del piazzale di
Mestre e non dopo, quasi costretti dai fatti e obbligati a ripiegare in qualche
modo sulle posizioni dettate da "centrosocialisti" e diessini vari.
In terzo luogo ho dovuto rilevare la scarsezza di approfondimento storico
sull'argomento: dire che «il nostro storico Spazzali ha detto che a Basovizza
ci sono 600 morti perciò va bene così» (anche se non nel corso del dibattito ma
negli incontri di corridoio) è cosa sconcertante; Spazzali non è "storico
nostro", ma della destra, anche se democratica e, soprattutto, non risulta
aver mai detto dell'esistenza dei 600 morti a Basovizza.
In quarto è stato politicamente
intempestivo, perché andare a valutare oggi, con conclusioni di quel tipo, le
cose significa dare spazio ed avallare le tesi della destra radicale: voglio
vedere come farà Bertinotti ed il partito a rifiutare la proposta della
giornata della memoria delle foibe istriane fatta da Fini, con tutti i falsi
storici, politici e morali e con l'automatica rivalutazione dei fascisti locali
che quella proposta comporta.
Ma ora scenderò nei dettagli,
scusandomi per l'incompletezza della trattazione, anche perché la cosa per
essere fatta seriamente dovrebbe avere più voci, ma soprattutto molto più
tempo. Certo su questi argomenti bisognerebbe fare molta, molta chiarezza.
Quando in un confronto una
delle parti comincia col meschinizzare le idee dell'altra il confronto comincia
molto male, soprattutto se a farlo è la parte "più forte", quella che
è nelle posizioni più visibili e più rappresentative. Però questa posizione
"ridicolizzante" è anche il segno che le convinzioni di chi discute
sono deboli e poco difendibili se non con metodi discutibili, in quanto la
ragione le può smontare e dimostrarne la pochezza, sia storica che politica.
Quindi spero che le posizioni che ora rileverò del nostro segretario siano solo
una caduta di stile e non la ricerca di questo metodo di demonizzazione
dell'"avversario", cosa che nel passato ha troppe volte attraversato
i partiti comunisti e, questa si, cosa sulla quale bisognerebbe fare non tanto
autocritica quanto autoriforma.
La differenza tra fascismo e
antifascismo non è certo data solo dai numeri dei morti, e nessuno ha mai osato
sostenere una cosa del genere. Però per capire (non giustificare) i fatti del
passato si deve fare ricerca storica e capire cosa è successo, scremandolo dai
falsi della propaganda, che in queste terre è stata purtroppo molto attiva sia
prima che dopo la guerra. Fare ricerca storica però significa anche confrontarsi
con i fatti, ed i fatti sono dati anche dai numeri. Perché, nel rispetto di
ogni vita umana, sapere se si tratta di un omicidio, di 10 morti, di 100, mille
o diecimila ha un valore molto diverso, sia dal punto di vista storico che da
quello giuridico (omicidio, omicidio plurimo, strage, genocidio sono valori sia
storici che giuridici diversissimi). Liquidare la cosa dicendo che «ci sono
molti tra noi che su una questione così scottante e così drammatica come quella
delle foibe si azzuffano su una questione di numeri» o «la manipolazione verso
il basso (dei numeri dei morti, ndr) tende a configurare l'idea che in quelle
fosse ci fossero solo fascisti colpevoli» è un modo rapido ma semplicistico di
affrontare la questione. Modo che è sbagliato e fuorviante per ogni possibile
analisi. Certo è buono per demonizzare chi vuole fare la ricerca storica,
soprattutto quando questa non collima con la scelte politiche che si sono
volute assumere anche contro i risultati della ricerca stessa. Ma così facendo
si fa un pessimo servizio alla storia ed uno ancora peggiore alla politica.
Altrettanto semplicistico è il discorso sul "vuoto di potere" e sullo
"scontro tra poteri" che hanno portato a questi fatti. Certo, queste
componenti ci furono, ma durante la Resistenza vi fu anche contemporaneità di
poteri. C'era la gerarchia militare degli uni ma c'era anche il volontariato,
il rispetto, la collaborazione degli altri. Le repubbliche partigiane, le zone
libere, le aree controllate e tutelate, con le armi e con le battaglie furono
luogo di autogestione e palestre di gestione democratica, ancorché in armi. Vi
furono anche vendette, ma gli atti individuali agli individui vanno ascritti. A
Trieste e nell'Istria, soprattutto nel '45 furono anche molto limitate nel
numero reale. Tanto che, e questa è storia, vi furono proteste da parte
proletaria perché non si lasciava fare come altrove in Italia, dove valeva il
decreto luogotenenziale che autorizzava all'uccisione di tutti i volontari
delle truppe di Salò. E scusate se è poco. Comunque il discorso del confronto
tra "poteri" diversi esiste continuamente. Anche oggi il dire
"un altro mondo è possibile" (slogan che andrebbe almeno specificato
con un auspicio concreto, perché anche il fascismo è possibile "altro"
rispetto all'attuale governo) significa scontro di poteri. Fare politica
significa scontro di poteri, tra quello che esiste con le sue regole vigenti e
quello auspicato, con le regole che si propongono. Dietro questa spiegazione
dei fenomeni esiste solo, scusate il bisticcio, banale banalizzazione, che nel
non spiegare nulla lascia liberi tutti di dire ciò che si vuole. Certo permette
di fare il successivo salto logico dei "regimi contrapposti" che si
sarebbero affrontati a Trieste, cioè degli estremismi opposti, fascismo e
movimento partigiano comunista, che portano entrambi a lutti e distruzioni.
Forse non era questa la volontà di Bertinotti, ma è questa la sola lettura
possibile delle sue parole.
La critica dei crimini del
fascismo non è mai servita, tra i compagni seri, a giustificazione per non fare
i conti con la nostra storia né per darsi alla vendetta ed alla distruzione
indiscriminati, dove fare giustizia da parte delle autorità, con metodi anche
criticabili, è e deve rimanere altro dalla vendetta personale. Gli storici seri
hanno sempre cercato di collegare tra loro i fatti e di capire il perché del
succedersi degli avvenimenti. Dire che una cosa avvenuta è stata il motore di
cose successive non è giustificazionismo, è studio storico. Nulla accade a
partire da un punto, senza fatti precedenti. Così in ogni rivolta, in ogni
tensione sociale nei secoli, vi sono fenomeni che hanno portato al punto di
rottura, che lo hanno determinato e che hanno, in parte, determinato il tipo di
azione. Imporre, per il fascismo, di dimenticarlo, pena rischiare di passare
tra i "giustificazionisti dei nostri errori" è antistorico, dire che
questo può portare ad aspetti negativi è chiudere la porta in faccia
all'analisi storica dei fatti e criminalizzare chi la fa. Certo sta agli
uomini, anche ai compagni, non crearsi miti intoccabili ma ricordare sempre che
tutti, noi come chi ci ha preceduto, siamo solo umani con pregi e difetti. Ma
detto questo, sulla resistenza, bisogna sempre ricordare che vi fu chi combatté
(magari per motivi personali "buoni") dalla parte della sopraffazione
fisica e morale, dalla parte del "superuomo" con diritto di vita e di
morte, dello sfruttamento del lavoro schiavizzato, del diritto di eliminare
intere etnie e gruppi perché considerati inferiori e chi lottò (magari con
motivazioni personali abiette) contro tutto ciò, anche con le sue
contraddizioni. E questa è storia, non esaltazione. Comunque, se si vuole
vedere il male bisogna vederlo in ogni luogo in cui si annida. Ad esempio
bisognerebbe, cosa mai fatta, affrontare il tema della "doppia
resistenza", di chi partecipò per arrivare alla rivoluzione sociale, con
un mito (forse errato) di socialismo, e chi partecipò su posizioni chiaramente
reazionarie, di legame con la monarchia e con il capitalismo, con il criminale
di guerra Badoglio, contro il movimento proletario. Dire che Sogno, la Franchi,
la Osoppo erano gruppi reazionari, favorevoli al cambio della guardia
dirigente, non al cambiamento della società, che a volte (molto spesso)
trovavano linee di accordo con i fascisti e con i capitalisti contro i
partigiani rossi, lasciandoli massacrare o isolandoli è dire fatti. Fu giusto
reagire e si reagì nella maniera giusta? Non spetta a noi giudicare. Successe.
Possiamo valutare i risultati, e dire che non furono positivi.
Sapere dove si poteva evitare
di commettere abusi, e quali siano stati commessi, è importante per evitare in
futuro di commetterne. Ma se proprio si voleva fare questa presa di coscienza
perché non si sono prese ad esempio altre situazioni, dove gli ordini precisi
erano di "fucilare" tutti i volontari della Rsi, senza distinzione? I
partigiani jugoslavi (serbi, croati, sloveni, italiani, tedeschi, ecc.) hanno,
invece, come riconosciuto da tutti, anche dagli storici di destra, sempre
operato con sistemi di Stato. Ogni arresto doveva avere delle prove concrete
per venir mantenuto. Ogni arrestato doveva risultare accusato da almeno tre
accusatori di crimini precisi. Che poi in alcuni casi ci siano stati abusi di
singole persone è cosa che riguarda loro e va oltre quelle che erano le precise
disposizioni dei vertici, che chiaramente dicevano di colpire in base al
fascismo e non in base all'etnia e invitavano i comandanti a frenare
l'eccessiva solerzia di alcuni attivisti. Processi contro gli eccessi li fecero,
e quanti, gli stessi jugoslavi anche nel corso della guerra. Comunque non si
può, neppure in questo caso, colpevolizzare il movimento. A meno che non si
intenda sostenere che "italiano" è comunque più buono che
"salvo" e che era meglio essere fascisti ma italiani che jugoslavi e
comunisti.
Il problema della violenza è
stato, poi, affrontato molto superficialmente e su fatti lontani. La non
violenza è certamente un fatto positivo. Se posso ottenere delle cose senza
ricorrere a coercizioni è bene. Ma a volte già solo per chiedere e farsi
sentire si deve gridare. E' violenza? Gli scioperi di questi giorni per certe
persone sono violenza: contro le regole, contro le persone, contro le cose. E
seguendo la logica in senso stretto si può concludere che è vero. Lo sciopero è
una forma di coartazione, di ricatto, di pressione: quindi di violenza. Ma se
noi conquistiamo dei successi democraticamente, ad esempio il Cile di Allende,
cosa dobbiamo poi fare? Lo sciopero con sit-in per bloccare ogni movimento?
Buona ipotesi, ma resta ipotesi che non ha mai visto luce dei fatti. Certo,
fino a quando la via politica è praticabile e può dare dei risultati si deve
perseguire la via politica. Cedere al mito del "vietkong vince perché
spara" (oggi Zapatista con le armi) è stato deleterio in passato e sarebbe
ancor più deleterio oggi. Esiste oggi un fermento, al quale dobbiamo garantire
lo spazio di agibilità. Un fermento che non deve percorrere la strada
dell'estremismo, giustamente definita a suo tempo "malattia infantile del
comunismo". Un fermento che deve poter crescere, deve poter svilupparsi
nelle forme e nelle direzioni positive che collettivamente saprà trovare e
sviluppare. Con l'aiuto anche della conoscenza degli errori del passato, che è
il miglior modo per evitarne la ripetizione. Cosa che significa sostanzialmente
anche con la conoscenza del passato, non con la sua demonizzazione. E con la
conoscenza del pensiero dei compagni che hanno fornito strumenti teorici al
movimento proletario. Essere "nuovi" non significa dover ogni volta
ripensare tutto di nuovo, ricostruire tutto ogni volta da zero. I pensatori del
passato costituiscono un trampolino per il futuro. Significa passare il tempo a
studiare e non fare? No, significa non dichiarare ad ogni piè sospinto chiuse
certe esperienze e sepolti certi valori ed autori (Marx, Lelin, …), significa
non esorcizzare come mefitico un passato, quello delle lotte di liberazione di
intere società, solo perché gli esiti non sono stati quelli che oggi, a cose
fatte, noi avremmo desiderato.
Ma riprendiamo col convegno.
Auschwitz e Hiroschima sono veramente diverse come dice Bertinotti? No,
strutturalmente no. Sono entrambe frutto del capitalismo, delle sue necessità e
delle sue volontà. Esattamente come Dresda e Amburgo. Volontà di vincere la
guerra, ma non necessariamente con meno lutti. Anzi, con una quota di
distruzione di popolazione civile non combattente tale da terrorizzare chi
avesse intenzione di proseguire, per esempio, sulla via dell'espansione non
dell'Onu ma dell'Urss. Probabilmente questa espansione non avrebbe avuto
risultati positivi, viste le degenerazioni dei partiti, anche di quelli
comunisti, nell'Europa pre e post-bellica, ma noi possiamo parlarne solo col
"se". Certo è invece che il trionfo del capitalismo ha portato enormi
danni alle società umane. Lo stato agonico in cui versa il sud America e, ancor
più, tutta l'Africa (con decine di milioni di morti per fame, malattie e
guerre) da decenni è un esempio evidente degli effetti devastanti del
colonialismo prima e dell'imperialismo poi messi in campo dal sistema
capitalista.
Non si capisce perché noi si debba continuamente fare ammenda dei morti dei
gulag (morti che pesano, e come, anche sul nostro presente, ma dei quali non
abbiamo mai esaltato l'uccisione e che mai abbiamo contribuito a far
arrestare), mentre nessuno addossi mai, nemmeno tra i compagni, quei morti
africani, sudamericani ecc. al capitale, che si guarda sempre molto bene dal
riconoscerli come frutto necessario e non eliminabile del suo sistema. E' questo
un modo di dire "voi uccidete più di noi"? No, si tratta solo di
sapere che certe cose sono state fatte cedendo, nella maggior parte dei casi,
al frutto degli anatemi settari e demonizzanti gruppi e movimenti interi,
dobbiamo imparare, volendo cambiare la società, a non ricadere in questi
errori. Ma tenere sempre presente che mentre noi soffriamo per quei morti il
capitale continua a farne ogni giorno migliaia senza mai soffrire per loro.
Nella lotta poi, è vero che
oggi il fascismo non è più il nemico? Solo se si considera il fascismo come un
corpo a sé stante. Ma se si vede nel fascismo solo una delle forme del
capitale, come la guerra e come il terrorismo, allora ci si rende conto che
bisogna sì combattere il sintomo più evidente e minaccioso del sistema (e che
oggi questo è la guerra più che il fascismo) ma che per vincere si deve
combattere il capitalismo e la sua iniqua ripartizione dei beni. Altrimenti
sarebbe come combattere con l'aspirina le sofferenze date da un cancro.
Peter Behrens
NON-VIOLENZA,
IL DIBATTITO ORA DIVENTA UN LIBRO
Alessandro
Curzi
Rina Gagliardi
Con
gli interventi di oggi, si chiude il dibattito sulla non-violenza, scaturito
due mesi fa dalle conclusioni di Bertinotti al convegno del Prc a Venezia sulle
foibe e dal primo intervento di Pietro Ingrao. Ci scusiamo per le centinaia di
lettere e contributi che non abbiamo potuto pubblicare, e per i tagli ai quali
abbiamo dovuto sottoporre spesso quelli pubblicati. Intanto preannunciamo che
entro il mese "Liberazione" pubblicherà un volume con la raccolta di
tutti gli interventi e i "materiali" per la discussione. Ne
anticipiamo oggi l'introduzione di Alessandro Curzi e Rina Gagliardi
Questo
libro nasce da un dibattito ricco, intenso e appassionato su un tema cruciale
del nostro tempo: la natura degli strumenti necessari per la trasformazione di
un mondo sempre più in preda alla guerra e alla violenza. E' possibile oggi
scegliere la nonviolenza come arma di lotta vincente? Come, anzi, l'arma più
efficace che abbiamo a disposizione per mutare radicalmente la società e
innescare un processo rivoluzionario, nel quale i mezzi usati finalmente non
siano in flagrante contraddizione con i fini che si perseguono? Non resta vero,
al contrario, che se si vuole spezzare la ferocia dell'attuale dominio
capitalistico non si possono escludere a priori momenti violenti? E che
un'opzione nonviolenta rischia di rimpiombare i movimenti - e i partiti
comunisti e alternativi - in una visione classicamente gradualista, moderata,
subalterna?
Su questi interrogativi -
antichi, ma in realtà nuovissimi - si è sviluppata per quasi due mesi la
discussione su "Liberazione", che ha coinvolto centinaia di persone,
militanti di Rifondazione comunista e militanti no global, esponenti del
pacifismo e della sinistra, intellettuali di grande prestigio e
"semplici" lettori. Essa è stata suscitata, come è noto, dallo stesso
Segretario del Prc: concludendo un impegnativo convegno sulle foibe, il 13
dicembre 2003 a Venezia, Fausto Bertinotti ha avanzato una proposta strategica
di nonviolenza, rivolta al movimento ma anche al partito, nell'ottica di una
rinnovata identità comunista. Il testo è uscito, in versione pressochè
integrale, su "Liberazione" del 4 gennaio 2004. Pochi giorni dopo,
Pietro Ingrao, in una lunga intervista, ha rilanciato il tema con forza e
autorevolezza. Il dibattito si è allargato anche al "manifesto" ed ha
assunto via via una dimensione imponente.
Ci pare di poter dire che
raramente sulla stampa italiana si discute non solo con tanta libertà e
passione, ma con una ricchezza di argomentazioni così vasta. Certo, le
posizioni che si confrontano restano lontane, anche perché attorno al nodo
violenza \non violenza si dipanano (e si intrecciano) molte e problematiche
dimensioni. Quella del presente, prima di tutto: il qui e ora della lotta
sociale e politica nei paesi di capitalismo maturo, ma anche il qui e ora della
lotta dei popoli aggrediti od oppressi dal dominio imperiale. Quella del
passato - la storia del ‘900, la cultura politica dei comunisti e del movimento
operaio, il bilancio da tracciare. E quella del futuro da costruire. Questioni
di tale rilevanza politica e culturale, che chiedono un'ulteriore
intensificazione della ricerca, un ulteriore lavoro collettivo. Intanto, è
stato accumulato un "materiale" significativo, che offriamo alla
riflessione di tutti.
Un'ultima questione: questo dibattito è un "lusso" criticabile, una
ridondanza, una fuga, in un momento così difficile dal punto di vista politico
e sociale? Ce lo siamo domandati anche noi. Ma la risposta ci è parsa subito
evidente: no che non è un lusso. Il nodo violenza \nonviolenza è, in realtà,
attualissimo e tutto politico. Vive nelle lotte di questi mesi, come ci
insegnano gli autoferrotranvieri di Milano, gli operai di Terni, gli occupanti
delle case, i professori, gli studenti e i bambini che si oppongono alla
controriforma della scuola. Perciò è bene che viva nei nostri luoghi di
aggregazione e sulle colonne dei nostri giornali.
Alessandro
Curzi
Rina Gagliardi
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Da Liberazione del 11-2-'04
Gennaro Migliore
Il nostro dibattito sulla
nonviolenza si situa in un tornante stretto della nostra storia politica. Siamo
immersi in un flusso costante di lotte sociali e politiche. Il "Paese in
rivolta", come titolava giustamente Liberazione, che da Scanzano arriva
allo sciopero della sanità e passa per gli autoferrotranvieri, non è il frutto
occasionale di resistenze isolate, bensì il riflesso di una più generale (e
mondiale) contrapposizione alla devastazione sistemica prodotta dalla
globalizzazione neoliberista. E' il rifiuto radicale di soggiacere alle ferree
leggi dettate dal pensiero unico del mercato, alla logica di dominio molecolare
imposta dalla vandea neoconservatrice, allevata nel lungo ciclo di
restaurazione neocapitalista ed esplosa nella sua più manifesta violenza con il
dispiegamento di uomini, menti e mezzi nella guerra preventiva di Bush.
Volenti o nolenti, non possiamo
fare a meno di confrontarci con questo dato di realtà. Ogni interpretazione che
si affidi a schemi ereditati dalla nostra storia, recente o remota, è destinata
a produrre effetti inconcludenti, o perché vittima di un'impotenza dettata dalla
sproporzione delle forze in campo o perché condannata alla semplice
testimonianza di un mondo più giusto, che avremmo voluto e che non siamo
riusciti a costruire.
Sta qui, a mio parere, la
cogenza di una discussione che i più avvertiti hanno collocato nella
riflessione sulla Rifondazione, ma che, forse, sarebbe ancora più giusto
inserire nel ripensamento più generale della soggettività politica.
Come si definisce, quindi, la
nuova soggettività che può contrastare l'aggressione neoliberista e
guerrafondaia? Se non tentassimo di rispondere a questa domanda, ci
collocheremmo ai margini della sfida che ci siamo posti e, più immediatamente,
saremmo inessenziali nello sviluppo del movimento di contestazione alla
globalizzazione. Ovviamente le risposte possono essere diverse, ma non si può
negare che l'assunzione della nonviolenza sia una possibile, forse la più
radicale. Innanzitutto lo è perché non è riassumibile, a dispetto
dell'etimologia, in un concetto negativo, insomma nel contrario della violenza
e, come giustamente rilevava Ingrao, in una pratica rinunciataria e
"calabrache". L'introduzione stessa del termine nonviolenza Ë legata
ad un'imprecisa traduzione del termine ghandiano cui si richiama, che potrebbe
altresì essere tradotta con "forza della verità". Inoltre la sua
concreta sperimentazione, pratica e teorica, si è sempre misurata con una
consapevole presa di coscienza di chi non accetta di rimandare sine die l'atto
salvifico della presa del potere. Essere nonviolenti significa prendere parte,
sempre e soprattutto collettivamente, nella determinazione del proprio futuro.
Per usare la stessa terminologia provocatoria di Paolo Cacciari, è certamente
una discussione "provvidenziale", perché riguarda direttamente il
nostro destino.
E' una scelta, non una condizione
esistenziale. Non pretendo, infatti, di dare giudizi su chi, oggettivamente non
è o non può o non vuole seguire questa tesi, dai movimenti di resistenza
guerriglieri alle forme di resistenza sociali più radicali. Ma sono interrogati
tutti dall'evoluzione delle forme del potere, dalla sua progressiva
inaccessibilità e collocazione in punti inconosciuti attraverso la nostra
esperienza. Storicamente, la stessa costruzione della democrazia borghese è
stata una risposta alla messa in discussione del potere assoluto, così come la
presa del Palazzo d'Inverno è stata l'inveramento di un pensiero nato per
raggiungere la liberazione dell'uomo sull'uomo.
Oggi però sono in crisi tutte
le teorie di presa del potere diretto (qualcuno può forse associare le legittime
resistenze di guerriglia della Colombia o anche del Chiapas alle tesi fochiste?
Oppure disconoscere il fallimento del socialismo reale?) ed, infatti, ci
s'interroga molto di più su come trasformare il potere e rendere la democrazia
partecipativa e praticabile. Gli stessi palestinesi sono interrogati dalla
militarizzazione della seconda Intifada, sia in termini di efficacia che per
quanto attiene all'introiezione della replica violenta, vista come un terreno
infecondo per la costruzione di una nuova società, come ha scritto in maniera
illuminante Alì Rashid sulle pagine del nostro giornale. In questo contesto,
pur riconoscendo la validità e la legalità internazionale della resistenza alle
invasioni, non possiamo dire che la resistenza irakena sia l'omogeneo e
conseguente frutto di un processo di liberazione. Ci sembra piuttosto un
terreno di degenerazione della coppia guerra-terrorismo, che sta a dimostrare
ancor di più la distruttività d'ogni guerra ed occupazione.
La nonviolenza non è solo
l'eredità del pensiero ghandiano, ma, oggi, è il terreno su cui si sono
rincontrati i pensieri e le pratiche antisistemiche dello scorcio finale del
secolo passato: dal femminismo al pacifismo, fino a giungere all'ecologia. La
nonviolenza s'impasta di critica alla neutralità della scienza, che bisogna
contrastare come condensato di una geometrica potenza di dominio
"oggettivo", e di critica alla società patriarcale. E' un percorso di
liberazione dalle forme di potere imposte dall'esterno, ma anche una contestazione
dei nostri stereotipi culturali e psicologici.
La nonviolenza è, infine, una
pratica che impone la responsabilità, individuale e collettiva. Siamo così
sicuri che potremmo dirci disobbedienti, disertori, sabotatori del sistema se
non avessimo una pratica nonviolenta? Non credo che il conflitto sia messo in
discussione da questa pratica, anzi ne è alimentato mentre è alleggerito dal
fardello "eroico" delle avanguardie. Non si tratta di affievolire i
contenuti, ma di radicalizzarli nella coscienza collettiva e per far ciò il
gesto esemplare, quand'anche solo mimato in un'insopportabile rappresentazione
della "guerra", è destinato alla minorità.
Il movimento italiano sta
vivendo questa discussione come centrale per il suo sviluppo e ciò non è
casuale. Non solo perché chi l'avanza è una sua parte fondamentale, il nostro
partito, ma perché coglie la necessità di rendersi sempre più potenza
espressiva di contestazione e non mera rappresentazione delle forze che lo
animano.
Gennaro Migliore
La discussione avviata sulla
violenza rappresenta a mio parere un vero passo in avanti sulla strada della
rifondazione comunista. Non solo una analisi critica della nostra storia -
elemento fondativo della nostra identità di partito - ma un tentativo di dare
forma e sostanza ad una nuova identità comunista. Come tutte le discussioni di
fondo, che scatenano passioni e discussioni, vari elementi si mischiano: la
politica, l'identità, il rapporto con la nostra storia. Non discutiamo quindi
solo della nostra prassi, ma anche della nostra cultura politica, della nostra
ideologia si potrebbe dire.
In particolare mi pare che le
acquisizioni più significative siano:
In primo luogo una rimessa al centro dell'obiettivo: il comunismo. Questa
discussione rimette al centro il comunismo come lotta per la costruzione di una
società di "liberi ed eguali". Noi lottiamo per una società in cui
venga abolito il dominio di classe e ogni altra forma di dominio
"dell'uomo sull'uomo". Una società dove il superamento dei rapporti
sociali capitalistici permetta la liberazione dell'uomo e della donna. Credo di
poter dire che l'ideale comunista che ci anima e ci guida nella lotta, l'uomo
nuovo che vogliamo costruire, è radicalmente nonviolento. Mi è ben chiaro che
noi oggi non siamo nel comunismo e che il nostro problema è la lotta dentro
questa società intrisa di violenza e di sfruttamento fino al midollo. Non
possiamo però mai dimenticare quale è il nostro fine, la nostra bussola,
altrimenti rischiamo di andare fuori pista, di perdere per strada quell'idea di
liberazione che è costitutiva non solo della politica ma dell'antropologia
comunista. Da questo punto di vista mi pare legittimo affermare che la violenza
è in se tendenzialmente disumanizzante, incorpora in se elementi di quella
disumanizzazione che vogliamo combattere. La violenza non è quindi neutra. Devo
dire che quasi tutti i partigiani che ho conosciuto lo sapevano e avevano ben
chiaro il problema.
In secondo luogo, abbiamo
capito che nella battaglia politica i mezzi che si utilizzano non sono
indifferenti rispetto ai fini che si vogliono determinare. Vi è un legame tra
mezzi e fini, tra strumenti e obiettivo. Lo possiamo vedere osservando
l'esperienza storica e lo dobbiamo sapere se non vogliamo trasformare il nostro
ideale comunista in una specie di religione (intesa proprio come oppio dei
popoli), in cui oggi si può fare qualsiasi cosa in nome di un domani
paradisiaco. Se siamo materialisti, dobbiamo sapere che non vi può essere una
dissociazione tra cosa facciamo oggi e cosa vogliamo costruire. Non ritengo
possibile una totale coincidenza tra mezzi e fini, ma a questo occorre tendere;
nelle nostre lotte deve essere riconoscibile l'obiettivo per cui lottiamo.
In terzo luogo una
chiarificazione sull'attuale fase dello sviluppo capitalistico che ci troviamo
a fronteggiare. Noi oggi abbiamo di fronte un capitalismo che non essendo in
grado di produrre consenso ed integrazione sociale, si fonda sulla logica della
guerra ed elegge a proprio nemico il terrorismo. Un capitalismo cioè che tenta
di distruggere il terreno della politica, inteso come terreno della lotta e
dell'espressione delle masse, per trasformare ogni protesta sociale e ogni
conflitto in un problema di ordine pubblico e di terrorismo. Il capitalismo è
entrato in contraddizione pesante con i bisogni sociali che esso stesso ha
concorso a determinare. La democrazia viene svuotata e la politica
tendenzialmente azzerata. In questo contesto, la scelta tendenzialmente
nonviolenta non rappresenta l'attività autoconsolatoria di anime pie che hanno
rinunciato a trasformare la società, ma la strada potenzialmente più efficace
per combattere il capitalismo. Intanto perchè rende più complicato per
l'avversario di classe usare contro di noi il suo potenziale distruttivo; in secondo
luogo perchè rende tendenzialmente più efficace la comunicazione delle nostre
ragioni. La lotta degli autoferrotranvieri come quella di Scanzano e Terni,
come pure - pur con tutti i distinguo - quella zapatista, mi pare ci dicano
qualcosa in proposito. Oggi, una efficace lotta al potere non avviene sul
terreno di una impossibile costruzione di una potenza identica e contraria; è
praticabile nell'allargamento e nella qualificazione politica del movimento di
massa, al fine di ridurre la possibilità per il potere di utilizzare il suo
potenziale distruttivo.
Questo apre il problema del
rapporto con la storia. Questa posizione vuol dire rinnegare il nostro passato
e considerarlo un cumulo di macerie da gettare? No. Vuol dire che la nostra
storia non deve essere sacralizzata, ma analizzata criticamente alla luce dei
risultati che si sono ottenuti; ricercare le possibili alternative, le
discussioni che vi sono state e che hanno proposto strade diverse da quelle
seguite. Vuol dire però anche andare oltre. Noi oggi sappiamo cose che i nostri
padri e i nostri nonni non sapevano; che non potevano sapere. I compagni e le
compagne che hanno fatto la rivoluzione Russa hanno lottato per il comunismo e
invece hanno realizzato una cosa molto diversa. Vuol dire che non dovevano fare
la rivoluzione (come predicava Kautsky in nome dell'ortodossia) o che l'esito
negativo era iscritto nella loro opera? No, mille volte no. Ma noi oggi
sappiamo come è andata a finire e abbiamo il dovere politico e morale di capire
dove si è sbagliato; di capire se vi sono oggi le condizioni per fare
diversamente da cosa è stato fatto ieri. Se siamo dei materialisti, dei
comunisti, l'unico modo che abbiamo per onorare il valore morale e politico
delle generazioni di rivoluzionari che ci hanno preceduto è quello di imparare
dai loro errori, per non ripeterli; è quello di analizzare le modifiche del
capitalismo per trovare le contraddizioni nuove su cui far leva per
rovesciarlo. Se non vogliamo rendere inutile il sacrificio di milioni e milioni
di compagni e compagne dobbiamo capire e cambiare. O il marxismo è una scienza
che ci permette - come in tutte le scienze - di imparare dal passato, oppure
diventa una ideologia religiosa, che può dare una risposta effimera al problema
dell'identità personale ma non a quello della trasformazione della società.
Non è la prima volta che i
comunisti si pongono questo problema: Marx analizzò la Comune di Parigi pur non
condividendo la scelta dell'insurrezione e ne trasse insegnamenti fondamentali.
Lenin, dopo l'appoggio dei partiti socialisti alla guerra, ruppe con la II
internazionale (di cui aveva fatto parte) e cambiò il nome da socialisti a
comunisti, per segnare fino in fondo la necessità di un nuovo inizio. Così come
il partito comunista di massa nato dopo la resistenza era assai diverso dal
PCd'I degli anni '20. Così come la CGIL dopo la sconfitta alla FIAT del 55 fece
autocritica e cambio radicalmente l'impostazione contrattuale; nuovamente il
sindacato nel '69/70, di fronte ad un ciclo di lotte che la stessa modifica del
'56 aveva favorito, cambiò radicalmente la propria organizzazione di fabbrica.
La storia migliore del movimento operaio e comunista è la storia di chi sa
imparare dai propri errori, non per dare giudizi morali sul passato ma per
essere più efficaci nella trasformazione sociale.
Questa discussione sulla
nonviolenza ci consegna allora non solo la necessità di proseguire su questo
percorso di rifondazione per precisare, limare, sperimentare e correggere. Ci
chiede anche di contrastare quelle posizioni che in nome di una presunta
ortodossia mettono in realtà in discussione la necessità e la possibilità di
lavorare alla rifondazione di una ipotesi comunista. Se ogni riflessione
critica sul passato è tacciata di liquidazionismo, è evidente che non è
possibile alcuna ricerca e alcuna rifondazione. Se una riflessione aperta da
Bertinotti contro il revisionismo storico, in nome dell'antifascismo e della
rifondazione comunista viene accostata alla scelta occhettiana della bolognina,
il dato costitutivo della rifondazione è negato in radice. Fino ad oggi la
battaglia politica nel nostro partito è avvenuta principalmente sul terreno
della linea politica. Oggi non è così e usando argomenti di destra e di
sinistra si mette in discussione, a mio parere, la scelta di fondo del partito,
quella della rifondazione. La costruzione di una nuova identità comunista,
dentro un percorso di rifondazione, è quindi il vero oggetto del contendere.
Proponiamo di farlo non in un suicida ripiegamento interno, ma entrando in sintonia
con i movimenti di massa, analizzando le modifiche del capitale e imparando
dalla nostra storia, che non deve esser imbalsamata ma ci deve aiutare a
trovare la strada giusta; perchè non siamo dei sacerdoti, custodi di un vecchio
culto, ma rivoluzionari comunisti che vogliono camminare domandando.
Paolo Ferrero
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